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L’istituto del negozio giuridico nella teoria generale del diritto del sec. XX: brevi lineamenti

Il pensiero giuridico moderno, nelle sue più alte espressioni, ha spesso mostrato interesse nei confronti di un istituto deputato ad asservire alle esigenze socio - economiche più basilari, connotate centralmente dalla rilevanza della proprietà privata e della iniziativa economica privata.

Tale è l’istituto del negozio giuridico che, ponendosi su un piano concettuale più ampio rispetto alla species dei contratti, è primariamente deputato a fungere da trait d’union tra il mondo dei rapporti giuridici e la realtà sociale ed economica.

Siffatta suggestione è dapprima rinvenibile nell’opinione di Emilio Betti, per il quale «i rapporti giuridici hanno il loro substrato in relazioni sociali esistenti già prima e anche all’infuori dell’ordine giuridico: relazioni che il diritto non crea, ma trova dinanzi a sé, prevede ed orienta nella direttiva da qualifiche e valutazioni normative», posto che i negozi stessi «sorgono come atti coi quali i privati dispongono per l’avvenire un regolamento impegnativo di interessi nei loro rapporti reciproci e si sviluppano spontaneamente sotto la spinta di bisogni, per adempiere svariate funzioni economico-sociali, all’infuori dell’ingerenza di ogni ordine giuridico» (E.Betti, Teoria generale del negozio giuridico, 2° ed., Torino, 1955, pag. 7, pag. 41.).

Ebbene, attraverso un processo di “recezione”, il diritto statale riconosce – non attribuisce – all’atto di autonomia negoziale la natura di negozio giuridico, il quale, già esistente nel sostrato economico-sociale, una volta assunto nell’ “empireo” del diritto, non muta nella sua originaria essenza, bensì assume «diversità di forme di garanzia e di tutela: il secondo può giovarsi e delle sanzioni del costume e delle sanzioni del diritto» (N. Irti, Letture bettiane sul negozio giuridico, Giuffré, Milano, 1991, pagg. 14-15).

Dunque, autorevoli opinioni hanno vestito il negozio di una natura extragiuridica, intesa come un’essenza immutevole e indipendente dai modi della tutela legislativa: il diritto giunge dopo, ed aggiunge qualcosa, ma non trasforma né altera la natura originaria del negozio (cfr. N. Irti, Il negozio giuridico come categoria storiografica, in Quaderni fiorentini, 19, Giuffré, Milano, 1990, pag. 561).

Diversamente, in Santi Romano pare non si possa prescindere dalla aprioristica appartenenza all’ordinamento statale, atto a conferire precettività ed efficacia, tramite la norma, al negozio giuridico.

Egli, dunque, afferma che «un negozio giuridico, che pone in essere soltanto rapporti, non basta per far sorgere diritto obiettivo. Per raggiungere quest’effetto, è necessario un atto che non si limiti a costituire un rapporto il quale si muova in tutti i suoi elementi nell’ambito di un ordinamento già esistente, ma deve esso medesimo porre, almeno in parte, quest’ultimo. Anzi, poiché una regola, in sé e per sé, presa isolatamente, non è... il diritto obbiettivo, un atto giuridico, perché possa considerarsi fonte di diritto, occorre che stabilisca non soltanto regole, ma una più o meno completa organizzazione sociale» (S. Romano, L’ordinamento giuridico, 2° ed., Firenze, 1951, pagg. 70-71).

Assunto come centrale e assoluto l’ordinamento giuridico statale, in Santi Romano perde conseguentemente di rilievo la questione della “recezione” del negozio giuridico all’interno del sistema stesso: si passa dalla prospettiva bettiana dell’ “accoglimento” del negozio, alla fase della sua “creazione” in quanto tale, o meglio della “trasformazione” da fatto in negozio giuridico, giacchè, per il giurista dell’istituzionalismo, non v’è possibilità di teorizzare alcuna esistenza dell’autonomia dei privati «all’infuori di ogni attacco con un ordinamento superiore e quindi con l’ordinamento statale» (S. Romano, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1953, pag. 24).

In questo senso, tale opinione presenta notevoli analogie col pensiero Kelseniano, dal momento che, secondo entrambi i giuristi, il negozio non trae vita da una forza originaria, bensì da un atto superiore dello Stato, il quale attribuisce ai privati il potere di compiere il negozio e dà ai privati ciò che loro altrimenti non avrebbero (cfr. N. Irti, Quaderni fiorentini, cit., pag. 566).

Più recentemente, non sono mancate posizioni che hanno messo in luce la crisi che sta attraversando, negli utlimi decenni, la teoria del negozio giuridico.

Il punto cruciale è stato visto da alcuni nella circostanza per cui «sia nella sua formazione concettuale sia nella sua funzione sistematica, la categoria del negozio giuridico si riferisce a quella zona estremamente delicata in cui il preciso sistema dell’ordinamento giuridico positivo viene ad incontrarsi con un elemento essenzialmente impreciso e variabile: la volontà umana» (A. Passerin d’Entrevès, Il negozio giuridico, Giappichelli, Torino, 2006, pag. 7).

Inoltre, le difficoltà speculative e le dispute dottrinarie cui ha dato luce la complessa teorica del negozio giuridico, hanno spinto autorevoli giuristi a concludere in favore di una futura sopravvivenza della citata categoria concettuale esclusivamente nelle vesti di “categoria storiografica”, o meglio di “strumento interpretativo” inteso come “strumento euristico”, giacché attualmente ci si trova «in una fase postnegoziale, che accoglie, con riconoscente e grato animo, l’eredità di profonde elaborazioni, di finezze classificatorie, di sottilità analitiche» (N. Irti, Letture bettiane, cit., pag. XI).

Tale epilogo, disincantato quanto necessario, muove dall’osservazione delle necessità e delle contingenze attuali, in cui la materialità degli interessi va a cozzare con lo spirito elucubrativo insito nella speculazione giusfilosofica in materia.

Il pensiero giuridico moderno, nelle sue più alte espressioni, ha spesso mostrato interesse nei confronti di un istituto deputato ad asservire alle esigenze socio - economiche più basilari, connotate centralmente dalla rilevanza della proprietà privata e della iniziativa economica privata.

Tale è l’istituto del negozio giuridico che, ponendosi su un piano concettuale più ampio rispetto alla species dei contratti, è primariamente deputato a fungere da trait d’union tra il mondo dei rapporti giuridici e la realtà sociale ed economica.

Siffatta suggestione è dapprima rinvenibile nell’opinione di Emilio Betti, per il quale «i rapporti giuridici hanno il loro substrato in relazioni sociali esistenti già prima e anche all’infuori dell’ordine giuridico: relazioni che il diritto non crea, ma trova dinanzi a sé, prevede ed orienta nella direttiva da qualifiche e valutazioni normative», posto che i negozi stessi «sorgono come atti coi quali i privati dispongono per l’avvenire un regolamento impegnativo di interessi nei loro rapporti reciproci e si sviluppano spontaneamente sotto la spinta di bisogni, per adempiere svariate funzioni economico-sociali, all’infuori dell’ingerenza di ogni ordine giuridico» (E.Betti, Teoria generale del negozio giuridico, 2° ed., Torino, 1955, pag. 7, pag. 41.).

Ebbene, attraverso un processo di “recezione”, il diritto statale riconosce – non attribuisce – all’atto di autonomia negoziale la natura di negozio giuridico, il quale, già esistente nel sostrato economico-sociale, una volta assunto nell’ “empireo” del diritto, non muta nella sua originaria essenza, bensì assume «diversità di forme di garanzia e di tutela: il secondo può giovarsi e delle sanzioni del costume e delle sanzioni del diritto» (N. Irti, Letture bettiane sul negozio giuridico, Giuffré, Milano, 1991, pagg. 14-15).

Dunque, autorevoli opinioni hanno vestito il negozio di una natura extragiuridica, intesa come un’essenza immutevole e indipendente dai modi della tutela legislativa: il diritto giunge dopo, ed aggiunge qualcosa, ma non trasforma né altera la natura originaria del negozio (cfr. N. Irti, Il negozio giuridico come categoria storiografica, in Quaderni fiorentini, 19, Giuffré, Milano, 1990, pag. 561).

Diversamente, in Santi Romano pare non si possa prescindere dalla aprioristica appartenenza all’ordinamento statale, atto a conferire precettività ed efficacia, tramite la norma, al negozio giuridico.

Egli, dunque, afferma che «un negozio giuridico, che pone in essere soltanto rapporti, non basta per far sorgere diritto obiettivo. Per raggiungere quest’effetto, è necessario un atto che non si limiti a costituire un rapporto il quale si muova in tutti i suoi elementi nell’ambito di un ordinamento già esistente, ma deve esso medesimo porre, almeno in parte, quest’ultimo. Anzi, poiché una regola, in sé e per sé, presa isolatamente, non è... il diritto obbiettivo, un atto giuridico, perché possa considerarsi fonte di diritto, occorre che stabilisca non soltanto regole, ma una più o meno completa organizzazione sociale» (S. Romano, L’ordinamento giuridico, 2° ed., Firenze, 1951, pagg. 70-71).

Assunto come centrale e assoluto l’ordinamento giuridico statale, in Santi Romano perde conseguentemente di rilievo la questione della “recezione” del negozio giuridico all’interno del sistema stesso: si passa dalla prospettiva bettiana dell’ “accoglimento” del negozio, alla fase della sua “creazione” in quanto tale, o meglio della “trasformazione” da fatto in negozio giuridico, giacchè, per il giurista dell’istituzionalismo, non v’è possibilità di teorizzare alcuna esistenza dell’autonomia dei privati «all’infuori di ogni attacco con un ordinamento superiore e quindi con l’ordinamento statale» (S. Romano, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1953, pag. 24).

In questo senso, tale opinione presenta notevoli analogie col pensiero Kelseniano, dal momento che, secondo entrambi i giuristi, il negozio non trae vita da una forza originaria, bensì da un atto superiore dello Stato, il quale attribuisce ai privati il potere di compiere il negozio e dà ai privati ciò che loro altrimenti non avrebbero (cfr. N. Irti, Quaderni fiorentini, cit., pag. 566).

Più recentemente, non sono mancate posizioni che hanno messo in luce la crisi che sta attraversando, negli utlimi decenni, la teoria del negozio giuridico.

Il punto cruciale è stato visto da alcuni nella circostanza per cui «sia nella sua formazione concettuale sia nella sua funzione sistematica, la categoria del negozio giuridico si riferisce a quella zona estremamente delicata in cui il preciso sistema dell’ordinamento giuridico positivo viene ad incontrarsi con un elemento essenzialmente impreciso e variabile: la volontà umana» (A. Passerin d’Entrevès, Il negozio giuridico, Giappichelli, Torino, 2006, pag. 7).

Inoltre, le difficoltà speculative e le dispute dottrinarie cui ha dato luce la complessa teorica del negozio giuridico, hanno spinto autorevoli giuristi a concludere in favore di una futura sopravvivenza della citata categoria concettuale esclusivamente nelle vesti di “categoria storiografica”, o meglio di “strumento interpretativo” inteso come “strumento euristico”, giacché attualmente ci si trova «in una fase postnegoziale, che accoglie, con riconoscente e grato animo, l’eredità di profonde elaborazioni, di finezze classificatorie, di sottilità analitiche» (N. Irti, Letture bettiane, cit., pag. XI).

Tale epilogo, disincantato quanto necessario, muove dall’osservazione delle necessità e delle contingenze attuali, in cui la materialità degli interessi va a cozzare con lo spirito elucubrativo insito nella speculazione giusfilosofica in materia.