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IL CONDOMINIO DEGLI EDIFICI

Sommario

CONDOMINIO: NATURA GIURIDICA …………………………………………………………………..1

REGOLAMENTO DI CONDOMINIO 2

PARTI COMUNI E PARTI DI PROPRIETA’ DEI SINGOLI CONDOMINI 3

DIRITTI DEI CONDOMINI SULLE PARTI COMUNI DEL CONDOMINIO 4

TABELLE MILLESIMALI

RIPARTIZIONE DELLE SPESE

ASSEMBLEA CONDOMINIALE

L’AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO

TUTELA GIUDIZIARIA

DIRITTO DI SOPRAELEVAZIONE

 

 

 

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Digitare il titolo del capitolo (livello 3) 6

 

CONDOMINIO: NATURA GIURIDICA

La giurisprudenza, anche in epoca recente, ha interpretato il condominio, quanto alla sua natura giuridica, come un ente di gestione, realizzato nell’interesse dei partecipanti, avente come ambito di azione il buon utilizzo delle cose comuni, con piena salvezza dei diritti dei partecipanti sui beni di proprietà individuale.

La ricostruzione del Condominio come ente di gestione è stata rimeditata dalla giurisprudenza. Si è rilevato come la medesima non sia collegabile alla disciplina codicistica e come rappresenti una sorta di “contenitore vuoto”, liberamente riempibile, secondo le diverse opzioni interpretative del singolo giurista. Non è del tutto esaustivo esprimersi in termini di personalità giuridica limitata (BRANCA) o di centro di imputazione di posizioni soggettive.

Il condominio può considerarsi come un meccanismo giuridico che, pur non essendo entificato, è apprestato dall’ordinamento per la gestione dei beni comuni di più soggetti, singolarmente titolari di unità immobiliari

Una ricognizione anche superficiale delle disposizioni in materia fa comprendere come sia netta la differenza fra posizione giuridica del singolo condomino e del condominio e la sistematica del codice civile suggerisce di configurare il condominio come un centro di imputazione di posizioni attive e passive.

Accanto alla teoria dell’ente di gestione come ricostruzione, volta a chiarire la natura giuridica del condominio, è emersa l’idea di una coesistenza fra proprietà condominiale vincolata dei condomini sui beni comuni e proprietà esclusiva svincolata sulle parti non comuni. Si è configurato un diritto di proprietà collettiva sui beni del condominio.

Il condominio deve considerarsi come una particolare ipotesi di comunione, anche in rapporto alla previsione codicistica, secondo cui al medesimo si applicano le disposizioni sulla comunione, in mancanza di una disciplina specifica sulle singole questione, sempre che esista compatibilità, nelle singole ipotesi. Tuttavia permangono delle differenze, di rilievo consistente, che determinano una divaricazione fra la disciplina della comunione e quella del condominio.

Tenendo conto anche della collocazione delle disposizioni inerenti il condominio all’interno del titolo VII rubricato “Della comunione” e dell’art. 1139 c.c., il quale contiene un rinvio alle norme in tema di comunione, salva diversa previsione da parte di una lex specialis, l’impostazione dottrinale e giurisprudenziale prevalente inquadra il condominio come la figura più importante e complessa di comunione.

Restando sicuramente innegabili le analogie tra i due istituti, è necessario porre in evidenza, tuttavia, le rilevanti differenze, cui corrispondono altrettante divergenze nella rispettiva disciplina (si vedano, in particolare, gli artt. 1117-1139 c.c., dedicati specificamente al condominio). Quest’ultimo si caratterizza per una sostanziale “necessarietà”, a differenza della comunione ordinaria, in cui ciascun comunista può chiedere in ogni momento lo scioglimento della comunione, ex art. 1111 cod. civ..

Va chiarito che, ove un edificio appartenga a un gruppo di persone, che ne sono comproprietarie “pro indiviso”, non è possibile configurare un condominio, in quanto esso presuppone l’attribuzione di singole porzioni ai vari soggetti, in modo che si sviluppi la distinzione tra parti comuni e parti di proprietà individuale.

Si ha supercondominio, nell’ipotesi di una pluralità di edifici, che abbiano in comune taluni beni (cortili, impianti di riscaldamento, spazi per parcheggio, etc,). L’opinione prevalente è nel senso che a tali strutture vadano applicate le disposizioni in materia di condominio e in tal senso appare orientata anche la giurisprudenza, com’è confermato dalla seguente massima: “Qualora un bene sia destinato al servizio di più edifici costituiti ciascuno in condominio si determina fra i vari partecipanti non una comunione ma una situazione che integra l’ipotesi del supercondominio al quale si applicano estensivamente le norme sul condominio degli edifici, giacché – in considerazione della relazione di accessorietà che si instaura per il collegamento materiale o funzionale fra proprietà individuali e beni comuni – questi ultimi non sono suscettibili, come invece nella comunione, di godimento od utilizzazione autonomi rispetto ai primi” (Cass. 3 ottobre 2003, n. 14791).

E’ da rilevare l’articolata e complessa organizzazione della gestione del condominio negli edifici: sotto questo profilo, meritano particolare risalto le norme in base alle quali, se i condomini sono in numero superiore a quattro, è obbligatoria la nomina di un amministratore, mentre, se sono più di dieci, è necessario approvare un regolamento di condominio.

Sotto il profilo della posizione giuridica di cui è titolare ciascun partecipante, nella comunione l’unico diritto spettante a ciascun comunista è quello sulla totale proprietà comune indivisa; in capo al condomino, invece, si assommano due diritti ben distinti: un diritto di proprietà esclusiva e uno di proprietà di comunione forzosa avente ad oggetto le parti comuni, che, in quanto pertinenza del condominio, non possono essere divise. La distinzione fra parti comuni (in relazione alle quali non si può rinunziare al vincolo di comunione) e parti di proprietà singola rappresenta una peculiarità strutturale del condominio, che differenzia nettamente l’istituto dalla comunione ordinaria. Nel condominio si riscontra la netta preminenza dell’interesse collettivo rispetto agli interessi individuali dei condomini. Quanto adesso affermato trova conferma nella notevole rilevanza attribuita al principio maggioritario, in conformità al quale una deliberazione assembleare, approvata dalla maggioranza prescritta dalla legge, vincola anche i condomini, che non hanno aderito alla medesima o che si siano dichiarati espressamente dissenzienti.

E’ da evidenziare, infine, che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che le regole sul condominio si applicano anche nel caso di due soli condomini (c.d. condominio minimo). Secondo la sentenza delle Sezioni Unite n. 2046-2006, affinché possa correttamente esprimersi in termini giuridici attraverso la locuzione “condominio” è sufficiente che esistano due unità immobiliari, di proprietà di due soggetti distinti. Preesisteva, rispettosa lla pronuncia adesso citata, il dubbio che la disciplina del condominio non fosse applicabile nell’ipotesi in esame, ma il dubbio è stato superato, già a partire dalla considerazione che la disciplina del condominio non prevede un numero minimo di partecipanti. Le due sole norme concernenti il numero dei partecipanti riguardano la nomina dell’amministratore ed il regolamento di condominio: l’art.1129 c.c. fissa l’obbligatorieta` della nomina dell’amministratore quando i condomini sono piu` di quattro; l’art. 1138 c.c. prevede che il regolamento di condominio debba essere approvato dall’assemblea quando il numero dei condomini e` superiore a dieci.

REGOLAMENTO DI CONDOMINIO

Secondo l’art. 1138, 1° c. c. civ., "Quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione”. Come è agevolmente desumibile dalla lettera della disposizione, è posto un limite di sbarramento, oltrepassato il quale diviene obbligatorio redigere un regolamento condominiale; esso andrà elaborato, in caso di condominio con almeno undici condomini. Ci si è posto il problema se il computo vada effettuato con riferimento ai singoli condomini o alle unità immobiliari e prevale l’idea che se una unità immobiliare è oggetto di comunione, i comproprietari vadano considerati come una persona sola, ai fini del calcolo, richiesto dall’art. 1138.

Secondo un’opinione (SALIS) il regolamento condominiale andrebbe considerato un accordo tra i condomini, riguardo alla gestione delle cose comuni, alla ripartizione delle spese etc. Si è criticata questa impostazione, rilevando come l’approvazione del regolamento derivi normalmente dall’approvazione di un’assemblea e, pertanto, da un atto di un organo collegiale e vincoli anche i soggetti dissenzienti, rispetto a esso; occorre anche por mente alla tesi del tutto prevalente, secondo cui le delibere degli organi collegiali (e, pertanto, anche dell’assemblea condominiale) vadano considerate alla stregua di atti unilaterali, con la conseguente impossibilità di inglobare, nonostante alcuni tentativi in tal senso, i regolamenti condominiali nella categoria degli atti unilaterali. Secondo parte della giurisprudenza, il regolamento è una sorta di statuto della comunità condominiale (Cass. 12342-1995).

Ove un singolo condomino voglia provvedere all’approvazione di un regolamento e altri si oppongano, occorre verificare se si tratti di condominio fino a dieci condomini o più. Nel primo caso, occorrerà sottoporre la richiesta di emanazione di regolamento all’assemblea, non sussistendo un obbligo legale di approvazione. Nella seconda ipotesi, il condomino potrà adire l’autorità giudiziaria, anche se questa possibilità è da taluni interpreti negata, in considerazione che è all’assemblea che spetta l’attitudine ad approvare o non approvare il regolamento. Sembra troppo complicata e farraginosa l’idea secondo (sostenuta da PERETTI GRIVA) cui occorrerebbe prima che il Giudice rilevi il mancato rispetto da parte dell’assemblea dell’obbligo di emanare il regolamento e solo in un secondo momento, persistendo l’inerzia dell’assemblea medesima, il medesimo magistrato potrebbe provvedere a elaborare il regolamento.

Va precisato che, in ipotesi di condominio, inferiore a dieci unità resta ben possibile costruire un regolamento condominiale, pur non sussistendo un obbligo giuridico in tal senso (c.d. regolamento facoltativo). Al medesimo andranno applicate le disposizioni, previste in materia di regolamento obbligatorio (ivi compreso l’art. 1138 c. civ.), essendo da respingere che il medesimo regolamento rappresenti una convenzione, cui siano da applicare i princìpi generali e non la disciplina, prevista in materia di regolamento obbligatorio.

Il regolamento condominiale è detto “assembleare” quando viene approvato dall’assemblea dei condomini; l’approvazione del medesimo comporta un vincolo, nei confronti di tutti i condomini, ivi compresi coloro che entrino a far parte del condominio in un momento successivo.

L’art. 1138 c.c. delinea il contenuto necessario del regolamento: a) disciplinare dell’uso delle cose comuni; b) ripartizione delle spese secondo i diritti e gli obblighi di ciascuno (cfr. anche art. 1123 c.c.); c) tutela del decoro dell’edificio; d) disciplinare dell’amministrazione.

Alcuni interpreti hanno enucleato dal testo dell’art. 1138 l’esistenza di un’obbligazione, a carico di ciascun condomino, in rapporto alla cooperazione ai fini della stesura del regolamento condominiale, anche se di tale obbligazione non sembrano presenti indizi nella disposizione in parola.

Si definisce regolamento “contrattuale” quello originariamente approntato dall’originario proprietario dello stabile e inserito negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari; la nozione viene estesa anche al regolamento approvato all’unanimità dall’assemblea condominiale. Un successivo acquirente di un’unità abitativa ricompresa nel condominio sarà tenuto al rispetto del regolamento condominiale “contrattuale”, ove il medesimo sia inserito nell’atto di acquisto. Il regolamento contrattuale può contenere previsioni che limitino l’utilizzo del bene del singolo condomino, in relazione a una migliore qualità della gestione del condominio; una tale previsione non potrebbe esser contenuta in un regolamento assembleare.

E’ intuibile come un regolamento contrattuale prevalga sulle disposizioni del codice civile in materia condominiale, nell’ipotesi in cui le medesime siano derogabili, in quanto le medesime presuppongono, ai fini della loro applicabilità, l’assenza di una disciplina espressa, in rapporto alla questione oggetto di disciplina. Per simmetriche ragioni, sia pure di segno opposto, il regolamento contrattuale non potrà derogare a disposizioni di legge imperative (cfr. per es. art. 63 disp. att. cod. civ.).

E’ possibile la coesistenza all’interno del medesimo regolamento di clausole assembleari e clausole contrattuali. Una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione ha cercato di porre ordine, riguardo ai problemi su questa materia, in particolare a proposito delle eventuali modifiche alle clausole del regolamento condominiale, statuendo che “E’ stata da tempo abbandonata l’opinione secondo cui sarebbero di natura contrattuale, quale che sia il contenuto delle loro clausole, i regolamenti di condominio predisposti dall’originario proprietario dell’edificio e allegati ai contratti d’acquisto delle singole unità immobiliari, nonché i regolamenti formati con il consenso unanime di tutti i partecipanti alla comunione edilizia (v. sent. nn. 2275 del 1968,882 del 1970). La giurisprudenza più recente e la dottrina ritengono, invece, che, a determinare la contrattualità dei regolamenti, siano esclusivamente le clausole di essi limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive (divieto di destinare l’immobile a studio radiologico, a circolo ecc...) o comuni (limitazioni all’uso delle scale, dei cortili ecc.), ovvero quelle clausole che attribuiscano ad alcuni condomini dei maggiori diritti rispetto agli altri (sent. nn. 208 del 1985,3733 del 1987,854 del 1997).Pertanto, il regolamento predisposto dall’originario, unico proprietario o dai condomini con consenso totalitario può non avere natura contrattuale se le sue clausole si limitano a disciplinare l’uso dei beni comuni pure se immobili. Conseguentemente, mentre è necessaria l’unanimità dei consensi dei condomini per modificare il regolamento convenzionale, come sopra inteso, avendo questo la medesima efficacia vincolante del contratto, è, invece, sufficiente una deliberazione maggioritaria dell’assemblea dei partecipanti alla comunione per apportare variazioni al regolamento che non abbia tale natura" (così Cass. SS. UU. n. 943 del 1999). Va aggiunto che, secondo un’interpretazione, l’unanimità dei consensi può presumersi anche senza una delibera espressa dei condomini, ove siano riscontrabili comportamenti concludenti ( ma questa conclusione è stata esclusa dalla Cassazione 25 Giugno 2001 n.8676 ). “ (…) E’ opportuno, innanzi tutto, precisare che è stata da qualche tempo abbandonata l’opinione secondo cui sarebbero di natura contrattuale, quale che sia il contenuto delle loro clausole, i regolamenti di condominio predisposti dall’originario proprietario dell’edificio e allegati ai contratti d’acquisto delle singole unità immobiliari, nonché i regolamenti formati con il consenso unanime di tutti i partecipanti alla comunione edilizia. La giurisprudenza più recente e la dottrina ritengono, invece, che, a determinare la contrattualità dei regolamenti, siano esclusivamente le clausole di essi limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive (divieto di destinare l’immobile a studio radiologico, a circolo ecc.) o comuni, ovvero quelle clausole che attribuiscano ad alcuni condomini dei maggiori diritti rispetto agli altri.

Il regolamento predisposto dall’originario, unico proprietario o dai condomini con consenso totalitario può non avere natura contrattuale se le sue clausole si limitano a disciplinare l’uso dei beni comuni pure se la delibera assembleare adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2 (vedi Cass. S.U. n. 943/99, Cass. Sez. 2, n. 5626/2002). Nel caso di specie la Corte romana, con motivazione congrua esente da vizi logici e da errori giuridici e pertanto insindacabile nell’attuale sede, ha ritenuto che le disposizioni del regolamento di condominio invocate dalla R. avessero valore regolamentare in quanto attinenti alle modalità d’uso di un cortile interno condominiale senza incidere su diritti ed obblighi dei singoli condomini ed a prescindere da problematiche derivanti da prescrizioni del regolamento d’igiene del Comune di Roma e dall’assoggettamento dell’edificio a vincolo d’interesse storico- artistico (…)” (Cass. 17694-2007)

L’impostazione della Cassazione porta a distinguere all’interno del medesimo regolamento condominiale clausole contrattuali e clausole assembleari, piuttosto che a distinguere fra tipi di regolamenti diversi.

Il regolamento di condominio deve avere necessariamente forma scritta, in quanto altrimenti i problemi interpretativi, derivanti dalle singole disposizioni del medesimo, sarebbero insolubili. L’esigenza della forma scritta si desume dalla circostanza che l’art. 1138 ha previsto un obbligo di trascrizione del regolamento, sia dalla previsione, secondo cui le clausole adottabili a maggioranza siano trascritte in apposito registro, tenuto dall’amministratore (art. 1136, 7° c.). le clausole regolamentari “contrattuali” incidono su diritti reali immobiliari e da ciò discende l’obbligo della forma scritta. Le modificazioni delle norme regolamentari dovranno anch’esse essere effettuate per iscritto. Anche la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 1999 sopra citata insiste sulla necessità della forma scritta del regolamento condominiale, statuendo che “un regolamento di condominio non contenuto nello scritto è inconcepibile perché l’applicazione delle sue disposizioni, a volte di incerta interpretazione, e la sua impugnazione sarebbero difficili se non impossibili in assenza di un riferimento documentale. Inoltre per la necessità della forma scritta militano le seguenti decisive osservazioni: a) l’art. 1138 del codice civile prevede la trascrizione del regolamento nel registro di cui all’art. 71 disp. att. cod. civ., in deposito presso l’associazione professionale dei proprietari di fabbricati, e questa previsione rivela la volontà del legislatore di richiedere il requisito formale anche se la norma è divenuta inapplicabile presupponendo la sua operatività l’esistenza dell’ordinamento corporativo non più in vigore; b) per l’art. 1136 7° comma del codice civile deve redigersi processo verbale, da trascrivere in un registro conservato dall’amministratore del Condominio, di tutte le deliberazioni dell’assemblea dei partecipanti alla comunione e, quindi, anche della delibera di approvazione del regolamento a maggioranza; e, per l’identità di ratio deve essere, altresì, depositato presso l’amministratore il documento contenente il regolamento; c) la tesi secondo cui la forma scritta sarebbe richiesta solo "ad probationem" non merita adesione. Infatti, accertato che il regolamento deve essere racchiuso in un documento, la scrittura costituisce un elemento essenziale per la sua validità in difetto di una disposizione che ne preveda la rilevanza solo probatoria, presupponendo questa, per la sua eccezionalità, un’espressa previsione normativa nella specie mancante; d) la forma scritta per la validità del regolamento contrattuale è poi fuori discussione, incidendo le sue clausole sui diritti che i condomini hanno sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva o comune (così Cass. SS.UU. n. 943 del 1999). (…). Ritenuto che il regolamento di condominio per essere valido debba risultare da un atto scritto, è indubbio che la stessa forma sia richiesta per le sue modificazioni perché queste, risolvendosi nell’inserimento nel documento di nuove clausole in sostituzione delle originarie, non possono non avere i medesimi requisiti di esse" (Cass. ult. cit).:

Ai sensi dell’art. 1138, ult. c, c.c., il regolamento di condominio, anche se di natura contrattuale, non può derogare alle seguenti disposizioni: la rinuncia del condòmino al diritto sulle cose comuni (art. 1118, 2° co., c.c.), l’indivisibilità delle parti comuni dell’edificio (art. 1119 c.c.), le innovazioni (art. 1120 c.c.) la nomina e la revoca dell’amministratore (art. 1129 c.c.), la rappresentanza del condominio (art. 1131 c.c.), il dissenso dei condomini, rispetto alle liti (art. 1132 c.c.), la costituzione dell’assemblea e la validità delle deliberazioni assembleari (art. 1136 c.c.), nonché la loro eventuale impugnazione (art. 1137 c.c.). Ai sensi dell’art. 72, disp. att. c.c., sono imperative, e quindi inderogabili, anche le disposizioni concernenti le modalità di riscossione dei contributi condominiali (art. 63, disp. att. c.c.), il procedimento di convocazione dell’assemblea (art. 66, disp. att. c.c.), il diritto di intervento e di voto in assemblea (art. 67, disp. att. c.c.), la revisione dei valori millesimali (art. 69, disp. att. c.c.). L’art. 155, disp. att. c.c. stabilisce che le norme concernenti la revisione dei regolamenti di condominio e la loro trascrizione si applicano anche ai regolamenti formati prima del 28 ottobre 1941 (cioè prima dell’entrata in vigore del nuovo codice) e che cessano di avere efficacia le disposizioni dei vecchi regolamenti contrarie alle norme dichiarate inderogabili dagli artt. 1138, ult. co., c.c. e 72, disp. att. c.c..

PARTI COMUNI E PARTI DI PROPRIETA’ DEI SINGOLI CONDOMINI

Si è già rilevato che la peculiarità del condominio, rispetto ad altre ipotesi di comunione è la presenza, accanto a beni di proprietà dei singoli, di parti comuni, che sono in regime di “comunione forzosa”, nel senso che trattasi di una disciplina che non può essere derogata da una diversa volontà delle parti. L’art. 1117 cod. civ. contiene un’elencazione delle parti comuni, la quale, secondo l’interpretazione prevalente e condivisibile, va considerata meramente esemplificativa e non tassativa (cfr. sentenza n. 16914-2011).

Questo il disposto della disciplina in esame: “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo:

1) il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti necessarie all’uso comune;

2) i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune;

3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti e inoltre le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l’acqua, per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini”.

L’art. 1117 delinea una presunzione di comproprietà su talune parti dell’edificio condominiale, la quale può essere superata, ove venga fornita la dimostrazione che la singola parte giovi esclusivamente alla proprietà del singolo condomino. La destinazione effettiva del bene prevale sulla presunzione legale. In ogni caso, si desume esplicitamente dall’art. 1117 che il regolamento condominiale può, riguardo alle singole tipologie di beni nel medesimo indicate, optare per un regime giuridico differente, nel senso della non inclusione di quel bene fra le parti comuni. Si aggiunga che anche beni non compresi nell’elencazione, di cui all’art. 1117 possono entrare a far parte dell’insieme di parti comuni, in conformità a espressa previsione del regolamento condominiale.

Dall’art, 1117 cod. civ. è possibile enucleare determinate tipologie di parti comuni: gli elementi necessari per l’esistenza dell’edificio (suolo, muri maestri, tetti); parti destinate allo svolgimento di servizi comuni (locali per portineria, stenditori etc.); parti destinate all’uso, con carattere di accessorietà (ascensore, fognature, impianti di acqua e riscaldamento)

Il suolo è la porzione di terreno, su cui poggia l’edificio e ricomprende anche la parte di sottosuolo in cui sono presenti le fondamenta della costruzione. Pertanto, tale parte comune comprende anche il sottosuolo, pur non essendo il medesimo menzionato nell’art. 1117 c. civ., anche in conformità alla disposizione dell’art. 840 c. civ., secondo cui la proprietà del suolo si estende anche al sottosuolo.

Le fondazioni sono costituite da quanto si è realizzato nel sottosuolo, come scavi, opere di consolidamento, etc, al fine di consentire l’elevazione dell’edificio. I muri maestri sono i pannelli di riempimento collocati fra i pilastri in cemento armato, nonché i muri perimetrali, che costituiscono parte essenziale dell’edificio. Tra le parti comuni va inserita anche la facciata, che costituisce una struttura essenziale dell’edificio, determinandone la fisionomia esterna.

E’ noto come la giurisprudenza prevalente reputi da non inserire nel novero delle parti comuni dell’edificio, in quanto, secondo l’interpretazione maggioritaria, rappresentano delle mere prosecuzioni dell’unità immobiliare. In senso contrario eventuali elementi decorativi e/o ornamentali, presenti nei balconi (per es. frontalini) sono da includere fra le parti comuni del condominio, in quanto le medesime consento un miglioramento della qualità estetica dell’edificio e assolvono a un interesse condominiale. Ove il singolo proprietario porvi che un pregiudizio si è verificato in conseguenza del distacco di fregi ornamentali, presenti nel suo balcone, il medesimo andrà esente da responsabilità, che ricadrà sul condominio.

Anche tetto e lastrico solare rientrano fra le parti comuni dell’edificio, in quanto rappresentano la copertura del medesimo. La terrazza, di regola, rientra fra le parti comuni dell’edificio, ma la giurisprudenza ritiene che la “terrazza a livello”, espressione con cui deve intendersi un edificio condominiale, una superficie scoperta posta al sommo di alcuni vani e, nel contempo, sullo stesso piano di altri, dei quali costituisce parte integrante strutturalmente e funzionalmente, tal che deve ritenersi, per il modo in cui è stata realizzata, che è destinata non solo e non tanto a coprire una parte di fabbricato, ma soprattutto a dare possibilità di espansione e di ulteriore comodità all’appartamento del quale è contigua, costituendo di esso una proiezione all’aperto (DE TILLA). La terrazza a livello è strumentale alla migliore fruibilità dell’unità immobiliare, cui è limitrofa, con la conseguenza che si ritiene di dover qualificare la medesima come parte di proprietà esclusiva.

Riguardo alle scale, secondo la tesi prevalente, esse costituiscono parte comune, solo in rapporto ai condomini, che le utilizzano (si ha un’ipotesi di condominio parziale; in senso contrario si è espressa la sentenza della Cassazione n. 1357-1996).

Secondo l’interpretazione prevalente, l’art. 1117 cod. civ. introduce una presunzione di condominialità dei beni, elencati nell’art. 1117 c.civ..

In senso conforme anche la Cassazione Sentenza 16 aprile 2007, n. 9093, secondo cui In mancanza di una specifica previsione contraria del titolo costitutivo, la destinazione all’uso e al godimento comune di taluni servizi, beni o parti dell’edificio comune, risultante dall’attitudine funzionale del bene al servizio dell’edificio, considerato nella sua unità, e al godimento collettivo, fanno presumere la condominialità, a prescindere dal fatto che il bene sia o possa essere utilizzato da tutti i condomini o solo da taluni di essi.

Non sono mancati interpreti, che hanno sostenuto come l’art.1117 non preveda una presunzione legale di condominialità di talune parti dell’edificio (TERZAGO). Secondo la Cassazione n 5891 del 4/3/2008 “l’art.1117 c.c. non stabilisce propriamente una presunzione di condominialità dei beni che vi sono menzionati, trattandosi piuttosto di norma che direttamente li attribuisce ai titolari delle proprietà individuali, i quali senz’altro li acquistano insieme con le rispettive loro porzioni immobiliari, in ragione della connessione materiale e funzionale che lega gli uni alle altre, salvo che il titolo disponga diversamente”.

 

Tale presunzione di comproprietà ex art. 1117 c.c. tra tutti i condomini viene riferita a quelle parti che, se non disciplinate diversamente nel regolamento di condominio o nel rogito, rientrano tra le cose di uso comune.

La presunzione in parola si sostanzia fondamentalmente nella destinazione di un bene all’uso e al godimento comune, la quale destinazione può essere variata da un titolo contrario.

Elemento indispensabile per configurare l’esistenza di una situazione condominiale è rappresentato dalla contitolarità necessaria del diritto di proprietà sulle parti comuni (ed è proprio la contestuale presenza di parti comuni e parti di proprietà individuale, che caratterizza la realtà giuridica del condominio) dell’edificio, in rapporto alla loro specifica funzione di servire per l’utilizzazione e il godimento delle parti dell’edificio stesso.

Pertanto, anche in presenza di più edifici strutturalmente autonomi, ciascuno appartenente a un unico soggetto, è dato profilare una situazione condominiale, quando tali edifici fruiscano, per la loro utilizzazione e il loro godimento, di opere comuni anche se strutturalmente distaccate (portineria, garage, parco, eventuali viali ecc.).

La presunzione di condominialità ex art. 1117, ove si ammetta la sua esistenza, può esser vinta solo da un titolo contrario, che dimostri la proprietà esclusiva del singolo bene, con una prova certa e rigorosa, non bastando allo scopo una ricognizione dello stato di fatto attinente al caso concreto. Andrà, pertanto, effettuato un esame dell’atto costitutivo del condominio e del primo atto di trasferimento del bene dal proprietario originario al primo acquirente.

 

DIRITTI DEI CONDOMINI SULLE PARTI COMUNI DEL CONDOMINIO

Ai sensi dell’art. 1118 c. civ., ciascun condomino ha un diritto sulle parti comuni, proporzionale al valore del piano o porzione di piano, che gli appartengono in via esclusiva (è fatta salva la possibilità che il regolamento condominiale preveda una diversa disciplina). In ogni caso, il condomino è tenuto a non mutare la destinazione economica delle parti comuni e a consentire agli altri condomini di fruirne in maniera analoga. La salvaguardia della destinazione economica originaria delle parti comuni è strumentale alla realizzazione dell’interesse del condominio, nella sua globalità. Il Giudice di merito è tenuto ad accertare se un’eventuale intensificazione da parte del singolo condomino di una o più parti comuni implichi il rischio di un mutamento della destinazione originaria delle medesime. In materia condominiale si applica anche l’art. 1102 cod. civ., previsto per la comunione ordinaria, secondo cui si utilizza in modo abusivo la cosa comune quando ciò comporti un’alterazione della sua destinazione o l’impedimento del pari uso agli altri partecipanti. Può precisarsi che l’uso della cosa comune da parte del singolo condomino può avvenire anche con modalità diverse, rispetto alla generalità dei condomini, ma tale uso deve pur sempre rientrare nelle destinazioni normali della cosa e non deve pregiudicare l’utilizzo del bene comune, anche da parte degli altri condomini. La rinuncia, da parte di un condomino, al proprio diritto sulle parti comuni non esonera il medesimo all’obbligo di contribuire alle spese relative; tale regola si giustifica, al fine di evitare di addossare ai restanti condomini l’onere di sopportare le spese di un condomino, che ha rinunciato a un suo diritto.

Quanto ai contenuti sostanziali del predetto diritto, sembra da condividere l’impostazione, secondo cui il medesimo, piuttosto che esser collegato al condomino, si connette al bene di proprietà esclusiva del medesimo (in senso parzialmente difforme cfr. sentenza Cass.855-2000 e 2255-2000, la quale ultima perviene alla distinzione fra parti comuni destinate a servire il bene di proprietà esclusiva e parte comune, destinata a servire il condomino).

Va ritenuto che il decoro architettonico dell’edificio condominiale costituisca un limite alla facoltà di uso della parte comune, da parte del condomino, in conformità al principio, secondo cui l’interesse condominiale deve prevalere sull’interesse del condomino. Ai fini dell’individuazione dell’uso delle parti comuni, consentito dall’ordinamento, occorre guardare all’uso potenziale, che ciascun condomino è in grado di effettuare, piuttosto che all’uso effettivo della parte comune.

Tra i compiti dell’Amministratore (art. 1130, n. 2)) è presente quello di regolamentare il potere di disciplinare l’uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell’interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a tutti i condomini.

In ogni caso, è preclusa la possibilità di attrarre la cosa comune nell’ambito della disponibilità esclusiva del singolo condomino.

Da quanto esposto discende il divieto di effettuare innovazioni, che coinvolgano le parti comuni, in modo da mutarne la destinazione.

L’art.1122 cod. civ. prevede il divieto, per ciascun condomino, di eseguire opere, che rechino pregiudizio alle parti comuni dell’edificio.

Le quote dei partecipanti al condominio si presumono uguali e si applica il criterio della proporzionalità, per quanto riguarda il concorso dei partecipanti ai vantaggi e svantaggi della cosa comune; tale disciplina, prevista dall’art. 1101 cod. civ. in materia di comunione, si applica anche al condominio. Nell’edificio, le singole unità immobiliari sono soggette anche alla disciplina dei rapporti di vicinato.

TABELLE MILLESIMALI

L’esistenza delle tabelle millesimali non costituisce presupposto indispensabile di validità delle deliberazioni dell’assemblea condominiale, in quanto il criterio di determinazione delle quote esiste a monte, essendo identificabile nel rapporto fra il valore dell’unità immobiliare di proprietà singola e quello dell’intero edificio.

Secondo la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 18477 del 9-8-2010, ai fini dell’approvazione delle tabelle millesimali, non è richiesta l’unanimità dei consensi, bastando la maggioranza qualificata, di cui all’art. 1336, 2° c. cod. civ., proprio perché la tabella millesimale serve a esprimere il sopra richiamato rapporto di valore tra singola unità immobiliare e intero edificio condominiale.

In quest’ottica le Sezioni Unite nella motivazione della citata sentenza criticano il preesistente orientamento, secondo cui le tabelle millesimali costituiscono oggetto di un negozio di accertamento, che richiede il consenso unanime di tutti i condomini e la tesi, secondo cui le tabelle millesimali siano presupposto per la validità delle delibere assembleari. In particolare, si rileva in sentenza come “ (…) Secondo tale orientamento, in conseguenza della inesistenza di una norma la quale attribuisca all’assemblea la competenza a deliberare in tema di tabelle millesimali, la deliberazione di approvazione delle tabelle adottata a maggioranza è inefficace nei confronti del condomino assente o dissenziente per nullità radicale deducibile senza limitazione di tempo (…)” (sent. 9 agosto 1996 n. 7359).

Riguardo alle conseguenze, quanto a una delibera di approvazione delle tabelle millesimali effettuata a maggioranza, si è ipotizzata la nullità assoluta o relativa o la mera inefficacia delle medesime. Così le Sezioni Unite: “ (…) Si è, in proposito, affermato che le deliberazioni in materia adottate dalla assemblea, sia a maggioranza sia ad unanimità dei soli condomini presenti, configurerebbero un’ipotesi di nullità non assoluta, ma soltanto relativa, in quanto non opponibile dai condomini consenzienti, e non obbligherebbero i dissenzienti e gli assenti, i quali potrebbero dedurne l’inefficacia secondo i principi generali, senza essere tenuti all’osservanza del termine di decadenza di cui all’art. 1137 c.c. (sent. 6 marzo 1967, cit.; 23 dicembre 1967 n. 3012/6 maggio 1968 n. 1385; 6 marzo 1970 n. 561; 14 dicembre 1974 n. 4274; nel senso che gli assenti ed i dissenzienti potrebbero far valere la nullità relativa dell’atto, ai sensi dell’art. 1421 cod. civ., costituita dalla loro mancata adesione, cfr. sent. 14 dicembre 1999 n. 14037)(…)”

“(…).Secondo altre decisioni la deliberazione assunta a maggioranza sarebbe affetta da nullità assoluta (e quindi inefficace anche per coloro che hanno votato a favore) ove non sia stata assunta con la maggioranza degli intervenuti che rappresentino anche la metà del valore dell’edificio, mentre sarebbe affetta da nullità relativa derivante dalla loro mancata adesione solo nei confronti degli assenti e dissenzienti ove assunta con la maggioranza in questione (sent. 24 novembre 1983 n. 7040; 9 febbraio 1985 n. 1057).

E’ stata anche prospettata la semplice inefficacia della delibera di approvazione non all’unanimità dei condomini, da ritenere condizionata al raggiungimento in epoca successiva del consenso unanime verificatosi in virtù dell’applicazione di fatto delle tabelle da parte dei condomini assenti (sent. 17 ottobre 1980 n. 5593) (…)”.

Queste le conclusioni delle Sezioni Unite: “L’affermazione che la necessità della unanimità dei consensi dipenderebbe dal fatto che la deliberazione di approvazione delle tabelle millesimali costituirebbe un negozio di accertamento del diritto di proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti comuni è in contrasto con quanto ad altri fini sostenuto nella giurisprudenza di questa S.C. e cioè che la tabella millesimale serve solo ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti”. “(…)Una volta chiarito che a favore della tesi della natura negoziale dell’atto di approvazione delle tabelle millesimali non viene addotto alcun argomento convincente, se si tiene presente che tali tabelle, in base all’art. 68 disp. att. c.c., sono allegate al regolamento di condominio, il quale, in base all’art. 1138 c.c., viene approvato dall’assemblea a maggioranza, e che esse non accertano il diritto dei singoli condomini sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva, ma soltanto il valore di tali unità rispetto all’intero edificio, ai soli fini della gestione del condominio, dovrebbe essere logico concludere che tali tabelle vanno approvate con la stessa maggioranza richiesta per il regolamento di condominio”.

Attraverso tale orientamento viene confutata la preesistente, consolidata interpretazione, secondo cui le tabelle millesimali andavano approvate all’unanimità dai condomini, con la conseguente difficoltà di procedere a una modifica delle medesime, la quale anch’essa avrebbe dovuto, ai fini della validità, esser approvata all’unanimità. Va rilevato, in ogni modo, come la Cassazione muova dalla già osservata idea della individuazione delle tabelle millesimali come espressione di un semplice calcolo aritmetico, mentre è anche da rilevare come a esso si sovrappongano valutazioni, che richiedono una specifica competenza professionale.

In assenza di tabelle millesimale validamente approvate, occorrerà applicare la disciplina dell’art. 1123 c.civ..

RIPARTIZIONE DELLE SPESE

L’art. 1123 cod. civ. dispone al 1° e 2° c. che "le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno salvo diversa convenzione. Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne”.

L’art. 1123 1° c. prescrive la regola generale della contribuzione alle spese, in proporzione al valore della proprietà esclusiva, rispetto alle parti comuni, avendo ciascun appartamento un valore diverso, rispetto all’edificio nel suo complesso. Secondo l’interpretazione prevalente, tale disposizione costituisce il parametro principale di riferimento, in materia di contribuzione alle spese, per i singoli condomini. Resta ferma la possibilità che i condomini prevedano un accordo inter partes derogatorio, rispetto alla disciplina di cui all’art. 1123, 1° c., come espressamente previsto da tale disposizione. Tra le clausole contrattuali, eventualmente contenute in un regolamento condominiale, rientrano senz’altro quelle concernenti la ripartizione delle spese, con possibilità di una deroga convenzionale a quanto contenuto nell’art. 1123 cod. civ., ad esempio nel senso che una singola unità sia parzialmente esonerata dall’obbligo di pagamento o nel senso che il pagamento vada effettuato in rapporto ai vani delle singole unità immobiliari. Va precisato che le disposizioni in materia di ripartizione delle spese, contenute in un regolamento condominiale di natura contrattuale, possono esser modificate o con una nuova convenzione, deliberata da tutti i condomini, o, in caso di dissenso e d’impossibilità di raggiungere l’unanimità, attraverso una statuizione del Giudice, possibile purché ricorrano le condizioni, per la revisione o la modificazione dei valori proporzionali dei piani o porzioni di piano, di cui all’art. 69 disp. att. cod. civ.).

La Corte di Cassazione (sentenza 2237/2012) ha stabilito che la ripartizione di una spesa condominiale può essere deliberata anche in mancanza di tabella millesimale, purché nel rispetto della proporzione tra la quota di essa posta a carico di ciascun condomino e la quota di proprietà esclusiva a questo appartenente e, in definitiva, del parametro, di cui all’art. 1123, 1° c.. Tale conclusione è possibile, in quanto le singole quote possono essere predeterminate, a prescindere dalla formazione della tabella millesimale, tenendo in considerazione come parametro la relazione tra il valore della proprietà singola e quello dell’intero edificio. Tale rapporto fra valore della singola unità immobiliare di proprietà esclusiva e quello dell’edificio nel suo complesso è determinale, secondo un criterio matematicamente accertato e, pertanto, non dà luogo a particolari difficoltà e al rischio di una discrepanza nelle relative valutazioni.

L’interpretazione prevalente della disposizione, riguardante l’uso delle cose destinate a servire i condomini in maniera diversa (art. 1123, 2° c.), è nel senso che occorre riferirsi all’uso potenziale, che ciascun condomino possa fare del bene, che viene in considerazione. Pertanto, è necessario che si abbia come riferimento la possibilità che in astratto un soggetto abbia di utilizzare un determinato bene comune (per es. impianto di riscaldamento, quando sia previsto un pagamento predeterminato della quota da pagare periodicamente), non avendo rilievo l’eventuale limitazione nell’uso, derivante da una libera scelta del condomino. Questi, in ipotesi di una scelta siffatta, non potrà richiedere di pagare per l’uso effettivo, in misura inferiore, rispetto agli altri condomini, a meno che non si propenda per l’interpretazione minoritaria della disposizione in parola, secondo cui il contributo delle spese è dovuto in proporzione all’uso effettivo del bene comune. Per quanto esposto l’espressione “in misura diversa”, di cui al 2° c. dell’art. 1123, si riferisce alla diversità nel godimento del bene, derivante da situazioni evidenti, quali la struttura del bene o la sua particolare destinazione.

L’art. 1123, 3° c. prevede che “qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità". I soggetti che non traggono un’utilità dall’opera non devono partecipare alla delibera sulla relativa spesa.

L’art. 1102 consente ai singoli condomini di apportare innovazioni, per il miglior utilizzo della proprietà individuale; l’art. 1120 indica quali “innovazioni” possono essere costituite, previa deliberazione di assemblea condominiale, con una maggioranza di partecipanti, tale da rappresentare almeno i due terzi dei millesimi. Per “innovazione” deve intendersi la modifica di una parte comune, tale da alterarne la preesistente destinazione, attraverso un intervento, eccedente l’ordinaria amministrazione, con la conseguenza di modificare la modalità di godimento della medesima, il che rende necessario che l’assemblea dei condomini possa valutare la convenienza di attuare la stessa innovazione. Secondo la disciplina dell’art. 1120 sono vietate le innovazioni, che possono recare pregiudizio alla stabilità e sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico, che rendano alcune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche da parte di un solo condomino.

Quanto sopra esposto è coerente con la definizione di innovazione, fornita dalla giurisprudenza, secondo cui “ (…) costituisce innovazione, ai fini dell’art. 1120 cod. civ., qualsiasi opera nuova che, eccedendo i limiti della conservazione, dell’ordinaria amministrazione o del godimento della cosa comune, ne comporti una totale o parziale modificazione nella forma o nella sostanza, con l’effetto di migliorarne o peggiorarne il godimento e comunque alterarne la destinazione originaria, con conseguente implicita incidenza sull’interesse di tutti i condomini, i quali devono essere liberi di valutare la convenienza dell’innovazione, anche se sia stata programmata ad iniziativa di un solo condomino che se ne sia assunto le spese, mentre non costituiscono innovazione - e sono quindi soggetti alla disciplina dell’art. 1102 cod. civ. - tutti gli atti di maggiore o più intensa utilizzazione della cosa comune che non importino alterazioni o modificazioni della stessa e non precludano agli altri partecipanti la possibilità di utilizzare la cosa facendone lo stesso maggior uso del condomino che abbia attuato la modifica”. (Cass. civ., sez. II, 6 giugno 1989, n. 2746, De Paolo c. Ferrulli ed altro). In coerenza con la sopra citata pronuncia, si è affermato che In tema di condominio di edifici costituisce innovazione ex art. 1120 c.c., non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quella che alteri l’entità materiale del bene operandone la trasformazione, ovvero determini la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l’esecuzione delle opere. Ove invece, la modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell’ambito dell’art. 1102 c.c., che pur dettato in materia di comunione in generale, è applicabile in materia di condominio degli edifici per il richiamo contenuto nell’art. 1139 c.c. ( Cass. civ., sez. II, 11 gennaio 1997, n. 240, Botteri ed altro c. Messina ed altro). Si comprende, pertanto, che l’innovazione rappresenta un intervento sulla fisionomia del bene comune assai più radicale della semplice modificazione, la quale non altera la destinazione economica della cosa. Va precisato che In tema di condominio di edifici, l’art. 1121 c.c. riconosce ai condomini dissenzienti (e ai loro eredi e aventi causa), in caso di innovazioni gravose o voluttuarie, il diritto potestativo di partecipare successivamente ai vantaggi delle innovazioni stesse, contribuendo pro quota nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera ragguagliate al valore attuale della moneta, onde evitare arricchimenti in danno dei condomini che hanno assunto l’iniziativa dell’opera (Cass. civ., sez. II, 18 agosto 1993, n. 8746, Oddi c. Tantarelli).

Tale possibilità, attribuita ai condomini dissenzienti, di scegliere se partecipare o meno alla contribuzione economica per le innovazioni voluttuarie si spiega con la manifesta non necessarietà delle medesime, in rapporto a un effettivo perseguimento dell’interesse comune dei condomini.

L’art. 1134 cod. civ. disciplina l’ipotesi, in cui il singolo condomino abbia senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea effettuato delle spese per le cose comuni. In tal caso, non spetta il diritto al rimborso, salva l’ipotesi, in cui le spese effettuate possano qualificarsi come “urgenti”. La giurisprudenza, in passato, ha ritenuto che la nozione di “urgenza” potesse interpretarsi in senso ampio, attraverso un’applicazione del criterio romanistico del “buon padre di famiglia”: infatti, era considerata urgente la spesa, che non può esser differita, senza danno o nocumento alle cose comuni, anche quando il nocumento a tali beni sia solo verosimile e non certo nel suo configurarsi. Sul connotato dell’urgenza, peraltro, è intervenuta in senso differente una recente pronuncia della Cassazione, secondo cui : “(…) Premesso che il connotato dell’urgenza deve essere valutato alla luce di tali rigorosissimi criteri, la giurisprudenza di questa Corte afferma che:

a) ai fini dell’applicabilità dell’art. 1134 c.c., va considerata urgente la

spesa, che deve essere eseguita senza ritardo;

b) è urgente la spesa, la cui erogazione non può essere differita senza danno o pericolo, secondo il criterio del buon padre di famiglia;

c) per aver diritto al rimborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, il condomino deve dimostrarne l’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 cod. civ., ossia la necessità di eseguirla senza ritardo, e quindi senza poter avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini. Nella fattispecie in esame, il giudice di appello aveva esaminato documentazione fotografica allegata alla relazione del consulente tecnico di ufficio e aveva rilevato che le macchie di umidità, in relazione alle quali si sarebbero resi necessari i lavori, non erano né diffuse né numerose così che nessuna urgenza era ravvisabile (…) (Cass. sentenza 4330 del 19 Marzo 2012).

 

ASSEMBLEA CONDOMINIALE

1) Attribuzioni

L’assemblea è l’organo principale del condominio e si occupa anzitutto delle funzioni, indicate nell’art. 1135 cod. civ., vale a dire:

 

1. nomina, conferma, sostituzione o revoca dell’amministratore e alla eventuale sua retribuzione;

2. approvazione del bilancio preventivo e consuntivo annuali ripartendo le relative spese tra i condomini;

3. delibera in ordine alle opere di manutenzione straordinaria nonché in ordine agli atti di acquisto, alienazione o costituzione di diritti reali sulle parti comuni dell’edificio;

4. delibera di promuovere liti o resistere a domande intraprese contro il condominio;

5. a modificare il regolamento di condominio;

6. all’uso o al godimento delle parti comuni con esclusione di qualsiasi ingerenza sulle parti in proprietà esclusiva:

7. qualsiasi altra decisione eccedente l’ordinaria amministrazione;

L’assemblea di condominio è organo collegiale, che ha una posizione di preminenza all’interno della compagine condominiale, anche rispetto all’amministratore, come normativamente è dimostrato dal 2° c. dell’art. 1135 cod. civ., secondo cui l’amministratore di condominio può autonomamente ordinare l’effettuazione di lavori di manutenzione straordinaria, quando i medesimi non possano essere posticipati per il rischio di un grave pregiudizio all’incolumità di persone o cose. La circostanza che tale attribuzione autonoma dell’amministratore sia esplicitamente prevista e codificata dimostra che, di regola, è l’assemblea ad avere potere decisionale, e l’amministratore deve essere un esecutore delle decisioni della medesima, secondo lo schema del contratto di mandato.

L’assemblea è organo del condominio non coincidente con la sommatoria di tutti i condomini, proprio in ragione della sua natura di struttura di natura collegiale e la sua legittimazione, una volta che il condominio si è costituito non abbisogna di un formale atto di costituzione.

L’organo in parola mantiene una sia posizione dio supremazia all’interno del condominio, ma non può avocare a sé le funzioni proprie dell’amministratore, come è desumibile dagli artt. 1105 e 1108 del codice, previsti in materia di comunione, ma applicabili anche al condominio, in ragione dell’espressa previsione dell’art. 1139.

L’assemblea si fa portatrice dell’interesse del condominio, come entità collettiva e non può invadere la sfera giuridica dei singoli condomini. L’interesse condominiale è perseguito mediante atti che sono da considerare “collettivi” o, secondo altra ricostruzione, “complessi”. La differenza fra le due configurazioni è rilevante, in quanto si considera collettivo un atto, che rappresenti una pluralità di interessi singoli coincidenti, mentre la nozione di atto complesso riguarda la tendenziale fusione di varie manifestazioni di volontà, con la presenza di una più spiccata autonomia negoziale. L’assemblea è, di regola, convocata dall’amministratore e non esiste una ordinaria legittimazione del singolo condomino a sostituirsi al medesimo, anche nell’ipotesi in cui l’amministratore abbia presentato le dimissioni dall’ufficio (cfr. Corte Appello Milano, 9-11-1976).

L’assemblea condominiale ha compiti delicati, fra cui quello di mediare quando all’interno di essa si configurino diverse opzioni, in rapporto a singole questioni. Va rilevato come la medesima non possa qualificarsi quale effettivo organo di un ente collettivo, in quanto una delibera approvata all’unanimità ben potrebbe essere successivamente superata da una delibera approvata a maggioranza, nel rispetto dell’art. 1136 cod. civ.. Le

Sommario

CONDOMINIO: NATURA GIURIDICA …………………………………………………………………..1

REGOLAMENTO DI CONDOMINIO 2

PARTI COMUNI E PARTI DI PROPRIETA’ DEI SINGOLI CONDOMINI 3

DIRITTI DEI CONDOMINI SULLE PARTI COMUNI DEL CONDOMINIO 4

TABELLE MILLESIMALI

RIPARTIZIONE DELLE SPESE

ASSEMBLEA CONDOMINIALE

L’AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO

TUTELA GIUDIZIARIA

DIRITTO DI SOPRAELEVAZIONE

 

 

 

5

Digitare il titolo del capitolo (livello 3) 6

 

CONDOMINIO: NATURA GIURIDICA

La giurisprudenza, anche in epoca recente, ha interpretato il condominio, quanto alla sua natura giuridica, come un ente di gestione, realizzato nell’interesse dei partecipanti, avente come ambito di azione il buon utilizzo delle cose comuni, con piena salvezza dei diritti dei partecipanti sui beni di proprietà individuale.

La ricostruzione del Condominio come ente di gestione è stata rimeditata dalla giurisprudenza. Si è rilevato come la medesima non sia collegabile alla disciplina codicistica e come rappresenti una sorta di “contenitore vuoto”, liberamente riempibile, secondo le diverse opzioni interpretative del singolo giurista. Non è del tutto esaustivo esprimersi in termini di personalità giuridica limitata (BRANCA) o di centro di imputazione di posizioni soggettive.

Il condominio può considerarsi come un meccanismo giuridico che, pur non essendo entificato, è apprestato dall’ordinamento per la gestione dei beni comuni di più soggetti, singolarmente titolari di unità immobiliari

Una ricognizione anche superficiale delle disposizioni in materia fa comprendere come sia netta la differenza fra posizione giuridica del singolo condomino e del condominio e la sistematica del codice civile suggerisce di configurare il condominio come un centro di imputazione di posizioni attive e passive.

Accanto alla teoria dell’ente di gestione come ricostruzione, volta a chiarire la natura giuridica del condominio, è emersa l’idea di una coesistenza fra proprietà condominiale vincolata dei condomini sui beni comuni e proprietà esclusiva svincolata sulle parti non comuni. Si è configurato un diritto di proprietà collettiva sui beni del condominio.

Il condominio deve considerarsi come una particolare ipotesi di comunione, anche in rapporto alla previsione codicistica, secondo cui al medesimo si applicano le disposizioni sulla comunione, in mancanza di una disciplina specifica sulle singole questione, sempre che esista compatibilità, nelle singole ipotesi. Tuttavia permangono delle differenze, di rilievo consistente, che determinano una divaricazione fra la disciplina della comunione e quella del condominio.

Tenendo conto anche della collocazione delle disposizioni inerenti il condominio all’interno del titolo VII rubricato “Della comunione” e dell’art. 1139 c.c., il quale contiene un rinvio alle norme in tema di comunione, salva diversa previsione da parte di una lex specialis, l’impostazione dottrinale e giurisprudenziale prevalente inquadra il condominio come la figura più importante e complessa di comunione.

Restando sicuramente innegabili le analogie tra i due istituti, è necessario porre in evidenza, tuttavia, le rilevanti differenze, cui corrispondono altrettante divergenze nella rispettiva disciplina (si vedano, in particolare, gli artt. 1117-1139 c.c., dedicati specificamente al condominio). Quest’ultimo si caratterizza per una sostanziale “necessarietà”, a differenza della comunione ordinaria, in cui ciascun comunista può chiedere in ogni momento lo scioglimento della comunione, ex art. 1111 cod. civ..

Va chiarito che, ove un edificio appartenga a un gruppo di persone, che ne sono comproprietarie “pro indiviso”, non è possibile configurare un condominio, in quanto esso presuppone l’attribuzione di singole porzioni ai vari soggetti, in modo che si sviluppi la distinzione tra parti comuni e parti di proprietà individuale.

Si ha supercondominio, nell’ipotesi di una pluralità di edifici, che abbiano in comune taluni beni (cortili, impianti di riscaldamento, spazi per parcheggio, etc,). L’opinione prevalente è nel senso che a tali strutture vadano applicate le disposizioni in materia di condominio e in tal senso appare orientata anche la giurisprudenza, com’è confermato dalla seguente massima: “Qualora un bene sia destinato al servizio di più edifici costituiti ciascuno in condominio si determina fra i vari partecipanti non una comunione ma una situazione che integra l’ipotesi del supercondominio al quale si applicano estensivamente le norme sul condominio degli edifici, giacché – in considerazione della relazione di accessorietà che si instaura per il collegamento materiale o funzionale fra proprietà individuali e beni comuni – questi ultimi non sono suscettibili, come invece nella comunione, di godimento od utilizzazione autonomi rispetto ai primi” (Cass. 3 ottobre 2003, n. 14791).

E’ da rilevare l’articolata e complessa organizzazione della gestione del condominio negli edifici: sotto questo profilo, meritano particolare risalto le norme in base alle quali, se i condomini sono in numero superiore a quattro, è obbligatoria la nomina di un amministratore, mentre, se sono più di dieci, è necessario approvare un regolamento di condominio.

Sotto il profilo della posizione giuridica di cui è titolare ciascun partecipante, nella comunione l’unico diritto spettante a ciascun comunista è quello sulla totale proprietà comune indivisa; in capo al condomino, invece, si assommano due diritti ben distinti: un diritto di proprietà esclusiva e uno di proprietà di comunione forzosa avente ad oggetto le parti comuni, che, in quanto pertinenza del condominio, non possono essere divise. La distinzione fra parti comuni (in relazione alle quali non si può rinunziare al vincolo di comunione) e parti di proprietà singola rappresenta una peculiarità strutturale del condominio, che differenzia nettamente l’istituto dalla comunione ordinaria. Nel condominio si riscontra la netta preminenza dell’interesse collettivo rispetto agli interessi individuali dei condomini. Quanto adesso affermato trova conferma nella notevole rilevanza attribuita al principio maggioritario, in conformità al quale una deliberazione assembleare, approvata dalla maggioranza prescritta dalla legge, vincola anche i condomini, che non hanno aderito alla medesima o che si siano dichiarati espressamente dissenzienti.

E’ da evidenziare, infine, che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che le regole sul condominio si applicano anche nel caso di due soli condomini (c.d. condominio minimo). Secondo la sentenza delle Sezioni Unite n. 2046-2006, affinché possa correttamente esprimersi in termini giuridici attraverso la locuzione “condominio” è sufficiente che esistano due unità immobiliari, di proprietà di due soggetti distinti. Preesisteva, rispettosa lla pronuncia adesso citata, il dubbio che la disciplina del condominio non fosse applicabile nell’ipotesi in esame, ma il dubbio è stato superato, già a partire dalla considerazione che la disciplina del condominio non prevede un numero minimo di partecipanti. Le due sole norme concernenti il numero dei partecipanti riguardano la nomina dell’amministratore ed il regolamento di condominio: l’art.1129 c.c. fissa l’obbligatorieta` della nomina dell’amministratore quando i condomini sono piu` di quattro; l’art. 1138 c.c. prevede che il regolamento di condominio debba essere approvato dall’assemblea quando il numero dei condomini e` superiore a dieci.

REGOLAMENTO DI CONDOMINIO

Secondo l’art. 1138, 1° c. c. civ., "Quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione”. Come è agevolmente desumibile dalla lettera della disposizione, è posto un limite di sbarramento, oltrepassato il quale diviene obbligatorio redigere un regolamento condominiale; esso andrà elaborato, in caso di condominio con almeno undici condomini. Ci si è posto il problema se il computo vada effettuato con riferimento ai singoli condomini o alle unità immobiliari e prevale l’idea che se una unità immobiliare è oggetto di comunione, i comproprietari vadano considerati come una persona sola, ai fini del calcolo, richiesto dall’art. 1138.

Secondo un’opinione (SALIS) il regolamento condominiale andrebbe considerato un accordo tra i condomini, riguardo alla gestione delle cose comuni, alla ripartizione delle spese etc. Si è criticata questa impostazione, rilevando come l’approvazione del regolamento derivi normalmente dall’approvazione di un’assemblea e, pertanto, da un atto di un organo collegiale e vincoli anche i soggetti dissenzienti, rispetto a esso; occorre anche por mente alla tesi del tutto prevalente, secondo cui le delibere degli organi collegiali (e, pertanto, anche dell’assemblea condominiale) vadano considerate alla stregua di atti unilaterali, con la conseguente impossibilità di inglobare, nonostante alcuni tentativi in tal senso, i regolamenti condominiali nella categoria degli atti unilaterali. Secondo parte della giurisprudenza, il regolamento è una sorta di statuto della comunità condominiale (Cass. 12342-1995).

Ove un singolo condomino voglia provvedere all’approvazione di un regolamento e altri si oppongano, occorre verificare se si tratti di condominio fino a dieci condomini o più. Nel primo caso, occorrerà sottoporre la richiesta di emanazione di regolamento all’assemblea, non sussistendo un obbligo legale di approvazione. Nella seconda ipotesi, il condomino potrà adire l’autorità giudiziaria, anche se questa possibilità è da taluni interpreti negata, in considerazione che è all’assemblea che spetta l’attitudine ad approvare o non approvare il regolamento. Sembra troppo complicata e farraginosa l’idea secondo (sostenuta da PERETTI GRIVA) cui occorrerebbe prima che il Giudice rilevi il mancato rispetto da parte dell’assemblea dell’obbligo di emanare il regolamento e solo in un secondo momento, persistendo l’inerzia dell’assemblea medesima, il medesimo magistrato potrebbe provvedere a elaborare il regolamento.

Va precisato che, in ipotesi di condominio, inferiore a dieci unità resta ben possibile costruire un regolamento condominiale, pur non sussistendo un obbligo giuridico in tal senso (c.d. regolamento facoltativo). Al medesimo andranno applicate le disposizioni, previste in materia di regolamento obbligatorio (ivi compreso l’art. 1138 c. civ.), essendo da respingere che il medesimo regolamento rappresenti una convenzione, cui siano da applicare i princìpi generali e non la disciplina, prevista in materia di regolamento obbligatorio.

Il regolamento condominiale è detto “assembleare” quando viene approvato dall’assemblea dei condomini; l’approvazione del medesimo comporta un vincolo, nei confronti di tutti i condomini, ivi compresi coloro che entrino a far parte del condominio in un momento successivo.

L’art. 1138 c.c. delinea il contenuto necessario del regolamento: a) disciplinare dell’uso delle cose comuni; b) ripartizione delle spese secondo i diritti e gli obblighi di ciascuno (cfr. anche art. 1123 c.c.); c) tutela del decoro dell’edificio; d) disciplinare dell’amministrazione.

Alcuni interpreti hanno enucleato dal testo dell’art. 1138 l’esistenza di un’obbligazione, a carico di ciascun condomino, in rapporto alla cooperazione ai fini della stesura del regolamento condominiale, anche se di tale obbligazione non sembrano presenti indizi nella disposizione in parola.

Si definisce regolamento “contrattuale” quello originariamente approntato dall’originario proprietario dello stabile e inserito negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari; la nozione viene estesa anche al regolamento approvato all’unanimità dall’assemblea condominiale. Un successivo acquirente di un’unità abitativa ricompresa nel condominio sarà tenuto al rispetto del regolamento condominiale “contrattuale”, ove il medesimo sia inserito nell’atto di acquisto. Il regolamento contrattuale può contenere previsioni che limitino l’utilizzo del bene del singolo condomino, in relazione a una migliore qualità della gestione del condominio; una tale previsione non potrebbe esser contenuta in un regolamento assembleare.

E’ intuibile come un regolamento contrattuale prevalga sulle disposizioni del codice civile in materia condominiale, nell’ipotesi in cui le medesime siano derogabili, in quanto le medesime presuppongono, ai fini della loro applicabilità, l’assenza di una disciplina espressa, in rapporto alla questione oggetto di disciplina. Per simmetriche ragioni, sia pure di segno opposto, il regolamento contrattuale non potrà derogare a disposizioni di legge imperative (cfr. per es. art. 63 disp. att. cod. civ.).

E’ possibile la coesistenza all’interno del medesimo regolamento di clausole assembleari e clausole contrattuali. Una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione ha cercato di porre ordine, riguardo ai problemi su questa materia, in particolare a proposito delle eventuali modifiche alle clausole del regolamento condominiale, statuendo che “E’ stata da tempo abbandonata l’opinione secondo cui sarebbero di natura contrattuale, quale che sia il contenuto delle loro clausole, i regolamenti di condominio predisposti dall’originario proprietario dell’edificio e allegati ai contratti d’acquisto delle singole unità immobiliari, nonché i regolamenti formati con il consenso unanime di tutti i partecipanti alla comunione edilizia (v. sent. nn. 2275 del 1968,882 del 1970). La giurisprudenza più recente e la dottrina ritengono, invece, che, a determinare la contrattualità dei regolamenti, siano esclusivamente le clausole di essi limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive (divieto di destinare l’immobile a studio radiologico, a circolo ecc...) o comuni (limitazioni all’uso delle scale, dei cortili ecc.), ovvero quelle clausole che attribuiscano ad alcuni condomini dei maggiori diritti rispetto agli altri (sent. nn. 208 del 1985,3733 del 1987,854 del 1997).Pertanto, il regolamento predisposto dall’originario, unico proprietario o dai condomini con consenso totalitario può non avere natura contrattuale se le sue clausole si limitano a disciplinare l’uso dei beni comuni pure se immobili. Conseguentemente, mentre è necessaria l’unanimità dei consensi dei condomini per modificare il regolamento convenzionale, come sopra inteso, avendo questo la medesima efficacia vincolante del contratto, è, invece, sufficiente una deliberazione maggioritaria dell’assemblea dei partecipanti alla comunione per apportare variazioni al regolamento che non abbia tale natura" (così Cass. SS. UU. n. 943 del 1999). Va aggiunto che, secondo un’interpretazione, l’unanimità dei consensi può presumersi anche senza una delibera espressa dei condomini, ove siano riscontrabili comportamenti concludenti ( ma questa conclusione è stata esclusa dalla Cassazione 25 Giugno 2001 n.8676 ). “ (…) E’ opportuno, innanzi tutto, precisare che è stata da qualche tempo abbandonata l’opinione secondo cui sarebbero di natura contrattuale, quale che sia il contenuto delle loro clausole, i regolamenti di condominio predisposti dall’originario proprietario dell’edificio e allegati ai contratti d’acquisto delle singole unità immobiliari, nonché i regolamenti formati con il consenso unanime di tutti i partecipanti alla comunione edilizia. La giurisprudenza più recente e la dottrina ritengono, invece, che, a determinare la contrattualità dei regolamenti, siano esclusivamente le clausole di essi limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive (divieto di destinare l’immobile a studio radiologico, a circolo ecc.) o comuni, ovvero quelle clausole che attribuiscano ad alcuni condomini dei maggiori diritti rispetto agli altri.

Il regolamento predisposto dall’originario, unico proprietario o dai condomini con consenso totalitario può non avere natura contrattuale se le sue clausole si limitano a disciplinare l’uso dei beni comuni pure se la delibera assembleare adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2 (vedi Cass. S.U. n. 943/99, Cass. Sez. 2, n. 5626/2002). Nel caso di specie la Corte romana, con motivazione congrua esente da vizi logici e da errori giuridici e pertanto insindacabile nell’attuale sede, ha ritenuto che le disposizioni del regolamento di condominio invocate dalla R. avessero valore regolamentare in quanto attinenti alle modalità d’uso di un cortile interno condominiale senza incidere su diritti ed obblighi dei singoli condomini ed a prescindere da problematiche derivanti da prescrizioni del regolamento d’igiene del Comune di Roma e dall’assoggettamento dell’edificio a vincolo d’interesse storico- artistico (…)” (Cass. 17694-2007)

L’impostazione della Cassazione porta a distinguere all’interno del medesimo regolamento condominiale clausole contrattuali e clausole assembleari, piuttosto che a distinguere fra tipi di regolamenti diversi.

Il regolamento di condominio deve avere necessariamente forma scritta, in quanto altrimenti i problemi interpretativi, derivanti dalle singole disposizioni del medesimo, sarebbero insolubili. L’esigenza della forma scritta si desume dalla circostanza che l’art. 1138 ha previsto un obbligo di trascrizione del regolamento, sia dalla previsione, secondo cui le clausole adottabili a maggioranza siano trascritte in apposito registro, tenuto dall’amministratore (art. 1136, 7° c.). le clausole regolamentari “contrattuali” incidono su diritti reali immobiliari e da ciò discende l’obbligo della forma scritta. Le modificazioni delle norme regolamentari dovranno anch’esse essere effettuate per iscritto. Anche la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 1999 sopra citata insiste sulla necessità della forma scritta del regolamento condominiale, statuendo che “un regolamento di condominio non contenuto nello scritto è inconcepibile perché l’applicazione delle sue disposizioni, a volte di incerta interpretazione, e la sua impugnazione sarebbero difficili se non impossibili in assenza di un riferimento documentale. Inoltre per la necessità della forma scritta militano le seguenti decisive osservazioni: a) l’art. 1138 del codice civile prevede la trascrizione del regolamento nel registro di cui all’art. 71 disp. att. cod. civ., in deposito presso l’associazione professionale dei proprietari di fabbricati, e questa previsione rivela la volontà del legislatore di richiedere il requisito formale anche se la norma è divenuta inapplicabile presupponendo la sua operatività l’esistenza dell’ordinamento corporativo non più in vigore; b) per l’art. 1136 7° comma del codice civile deve redigersi processo verbale, da trascrivere in un registro conservato dall’amministratore del Condominio, di tutte le deliberazioni dell’assemblea dei partecipanti alla comunione e, quindi, anche della delibera di approvazione del regolamento a maggioranza; e, per l’identità di ratio deve essere, altresì, depositato presso l’amministratore il documento contenente il regolamento; c) la tesi secondo cui la forma scritta sarebbe richiesta solo "ad probationem" non merita adesione. Infatti, accertato che il regolamento deve essere racchiuso in un documento, la scrittura costituisce un elemento essenziale per la sua validità in difetto di una disposizione che ne preveda la rilevanza solo probatoria, presupponendo questa, per la sua eccezionalità, un’espressa previsione normativa nella specie mancante; d) la forma scritta per la validità del regolamento contrattuale è poi fuori discussione, incidendo le sue clausole sui diritti che i condomini hanno sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva o comune (così Cass. SS.UU. n. 943 del 1999). (…). Ritenuto che il regolamento di condominio per essere valido debba risultare da un atto scritto, è indubbio che la stessa forma sia richiesta per le sue modificazioni perché queste, risolvendosi nell’inserimento nel documento di nuove clausole in sostituzione delle originarie, non possono non avere i medesimi requisiti di esse" (Cass. ult. cit).:

Ai sensi dell’art. 1138, ult. c, c.c., il regolamento di condominio, anche se di natura contrattuale, non può derogare alle seguenti disposizioni: la rinuncia del condòmino al diritto sulle cose comuni (art. 1118, 2° co., c.c.), l’indivisibilità delle parti comuni dell’edificio (art. 1119 c.c.), le innovazioni (art. 1120 c.c.) la nomina e la revoca dell’amministratore (art. 1129 c.c.), la rappresentanza del condominio (art. 1131 c.c.), il dissenso dei condomini, rispetto alle liti (art. 1132 c.c.), la costituzione dell’assemblea e la validità delle deliberazioni assembleari (art. 1136 c.c.), nonché la loro eventuale impugnazione (art. 1137 c.c.). Ai sensi dell’art. 72, disp. att. c.c., sono imperative, e quindi inderogabili, anche le disposizioni concernenti le modalità di riscossione dei contributi condominiali (art. 63, disp. att. c.c.), il procedimento di convocazione dell’assemblea (art. 66, disp. att. c.c.), il diritto di intervento e di voto in assemblea (art. 67, disp. att. c.c.), la revisione dei valori millesimali (art. 69, disp. att. c.c.). L’art. 155, disp. att. c.c. stabilisce che le norme concernenti la revisione dei regolamenti di condominio e la loro trascrizione si applicano anche ai regolamenti formati prima del 28 ottobre 1941 (cioè prima dell’entrata in vigore del nuovo codice) e che cessano di avere efficacia le disposizioni dei vecchi regolamenti contrarie alle norme dichiarate inderogabili dagli artt. 1138, ult. co., c.c. e 72, disp. att. c.c..

PARTI COMUNI E PARTI DI PROPRIETA’ DEI SINGOLI CONDOMINI

Si è già rilevato che la peculiarità del condominio, rispetto ad altre ipotesi di comunione è la presenza, accanto a beni di proprietà dei singoli, di parti comuni, che sono in regime di “comunione forzosa”, nel senso che trattasi di una disciplina che non può essere derogata da una diversa volontà delle parti. L’art. 1117 cod. civ. contiene un’elencazione delle parti comuni, la quale, secondo l’interpretazione prevalente e condivisibile, va considerata meramente esemplificativa e non tassativa (cfr. sentenza n. 16914-2011).

Questo il disposto della disciplina in esame: “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo:

1) il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti necessarie all’uso comune;

2) i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune;

3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti e inoltre le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l’acqua, per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini”.

L’art. 1117 delinea una presunzione di comproprietà su talune parti dell’edificio condominiale, la quale può essere superata, ove venga fornita la dimostrazione che la singola parte giovi esclusivamente alla proprietà del singolo condomino. La destinazione effettiva del bene prevale sulla presunzione legale. In ogni caso, si desume esplicitamente dall’art. 1117 che il regolamento condominiale può, riguardo alle singole tipologie di beni nel medesimo indicate, optare per un regime giuridico differente, nel senso della non inclusione di quel bene fra le parti comuni. Si aggiunga che anche beni non compresi nell’elencazione, di cui all’art. 1117 possono entrare a far parte dell’insieme di parti comuni, in conformità a espressa previsione del regolamento condominiale.

Dall’art, 1117 cod. civ. è possibile enucleare determinate tipologie di parti comuni: gli elementi necessari per l’esistenza dell’edificio (suolo, muri maestri, tetti); parti destinate allo svolgimento di servizi comuni (locali per portineria, stenditori etc.); parti destinate all’uso, con carattere di accessorietà (ascensore, fognature, impianti di acqua e riscaldamento)

Il suolo è la porzione di terreno, su cui poggia l’edificio e ricomprende anche la parte di sottosuolo in cui sono presenti le fondamenta della costruzione. Pertanto, tale parte comune comprende anche il sottosuolo, pur non essendo il medesimo menzionato nell’art. 1117 c. civ., anche in conformità alla disposizione dell’art. 840 c. civ., secondo cui la proprietà del suolo si estende anche al sottosuolo.

Le fondazioni sono costituite da quanto si è realizzato nel sottosuolo, come scavi, opere di consolidamento, etc, al fine di consentire l’elevazione dell’edificio. I muri maestri sono i pannelli di riempimento collocati fra i pilastri in cemento armato, nonché i muri perimetrali, che costituiscono parte essenziale dell’edificio. Tra le parti comuni va inserita anche la facciata, che costituisce una struttura essenziale dell’edificio, determinandone la fisionomia esterna.

E’ noto come la giurisprudenza prevalente reputi da non inserire nel novero delle parti comuni dell’edificio, in quanto, secondo l’interpretazione maggioritaria, rappresentano delle mere prosecuzioni dell’unità immobiliare. In senso contrario eventuali elementi decorativi e/o ornamentali, presenti nei balconi (per es. frontalini) sono da includere fra le parti comuni del condominio, in quanto le medesime consento un miglioramento della qualità estetica dell’edificio e assolvono a un interesse condominiale. Ove il singolo proprietario porvi che un pregiudizio si è verificato in conseguenza del distacco di fregi ornamentali, presenti nel suo balcone, il medesimo andrà esente da responsabilità, che ricadrà sul condominio.

Anche tetto e lastrico solare rientrano fra le parti comuni dell’edificio, in quanto rappresentano la copertura del medesimo. La terrazza, di regola, rientra fra le parti comuni dell’edificio, ma la giurisprudenza ritiene che la “terrazza a livello”, espressione con cui deve intendersi un edificio condominiale, una superficie scoperta posta al sommo di alcuni vani e, nel contempo, sullo stesso piano di altri, dei quali costituisce parte integrante strutturalmente e funzionalmente, tal che deve ritenersi, per il modo in cui è stata realizzata, che è destinata non solo e non tanto a coprire una parte di fabbricato, ma soprattutto a dare possibilità di espansione e di ulteriore comodità all’appartamento del quale è contigua, costituendo di esso una proiezione all’aperto (DE TILLA). La terrazza a livello è strumentale alla migliore fruibilità dell’unità immobiliare, cui è limitrofa, con la conseguenza che si ritiene di dover qualificare la medesima come parte di proprietà esclusiva.

Riguardo alle scale, secondo la tesi prevalente, esse costituiscono parte comune, solo in rapporto ai condomini, che le utilizzano (si ha un’ipotesi di condominio parziale; in senso contrario si è espressa la sentenza della Cassazione n. 1357-1996).

Secondo l’interpretazione prevalente, l’art. 1117 cod. civ. introduce una presunzione di condominialità dei beni, elencati nell’art. 1117 c.civ..

In senso conforme anche la Cassazione Sentenza 16 aprile 2007, n. 9093, secondo cui In mancanza di una specifica previsione contraria del titolo costitutivo, la destinazione all’uso e al godimento comune di taluni servizi, beni o parti dell’edificio comune, risultante dall’attitudine funzionale del bene al servizio dell’edificio, considerato nella sua unità, e al godimento collettivo, fanno presumere la condominialità, a prescindere dal fatto che il bene sia o possa essere utilizzato da tutti i condomini o solo da taluni di essi.

Non sono mancati interpreti, che hanno sostenuto come l’art.1117 non preveda una presunzione legale di condominialità di talune parti dell’edificio (TERZAGO). Secondo la Cassazione n 5891 del 4/3/2008 “l’art.1117 c.c. non stabilisce propriamente una presunzione di condominialità dei beni che vi sono menzionati, trattandosi piuttosto di norma che direttamente li attribuisce ai titolari delle proprietà individuali, i quali senz’altro li acquistano insieme con le rispettive loro porzioni immobiliari, in ragione della connessione materiale e funzionale che lega gli uni alle altre, salvo che il titolo disponga diversamente”.

 

Tale presunzione di comproprietà ex art. 1117 c.c. tra tutti i condomini viene riferita a quelle parti che, se non disciplinate diversamente nel regolamento di condominio o nel rogito, rientrano tra le cose di uso comune.

La presunzione in parola si sostanzia fondamentalmente nella destinazione di un bene all’uso e al godimento comune, la quale destinazione può essere variata da un titolo contrario.

Elemento indispensabile per configurare l’esistenza di una situazione condominiale è rappresentato dalla contitolarità necessaria del diritto di proprietà sulle parti comuni (ed è proprio la contestuale presenza di parti comuni e parti di proprietà individuale, che caratterizza la realtà giuridica del condominio) dell’edificio, in rapporto alla loro specifica funzione di servire per l’utilizzazione e il godimento delle parti dell’edificio stesso.

Pertanto, anche in presenza di più edifici strutturalmente autonomi, ciascuno appartenente a un unico soggetto, è dato profilare una situazione condominiale, quando tali edifici fruiscano, per la loro utilizzazione e il loro godimento, di opere comuni anche se strutturalmente distaccate (portineria, garage, parco, eventuali viali ecc.).

La presunzione di condominialità ex art. 1117, ove si ammetta la sua esistenza, può esser vinta solo da un titolo contrario, che dimostri la proprietà esclusiva del singolo bene, con una prova certa e rigorosa, non bastando allo scopo una ricognizione dello stato di fatto attinente al caso concreto. Andrà, pertanto, effettuato un esame dell’atto costitutivo del condominio e del primo atto di trasferimento del bene dal proprietario originario al primo acquirente.

 

DIRITTI DEI CONDOMINI SULLE PARTI COMUNI DEL CONDOMINIO

Ai sensi dell’art. 1118 c. civ., ciascun condomino ha un diritto sulle parti comuni, proporzionale al valore del piano o porzione di piano, che gli appartengono in via esclusiva (è fatta salva la possibilità che il regolamento condominiale preveda una diversa disciplina). In ogni caso, il condomino è tenuto a non mutare la destinazione economica delle parti comuni e a consentire agli altri condomini di fruirne in maniera analoga. La salvaguardia della destinazione economica originaria delle parti comuni è strumentale alla realizzazione dell’interesse del condominio, nella sua globalità. Il Giudice di merito è tenuto ad accertare se un’eventuale intensificazione da parte del singolo condomino di una o più parti comuni implichi il rischio di un mutamento della destinazione originaria delle medesime. In materia condominiale si applica anche l’art. 1102 cod. civ., previsto per la comunione ordinaria, secondo cui si utilizza in modo abusivo la cosa comune quando ciò comporti un’alterazione della sua destinazione o l’impedimento del pari uso agli altri partecipanti. Può precisarsi che l’uso della cosa comune da parte del singolo condomino può avvenire anche con modalità diverse, rispetto alla generalità dei condomini, ma tale uso deve pur sempre rientrare nelle destinazioni normali della cosa e non deve pregiudicare l’utilizzo del bene comune, anche da parte degli altri condomini. La rinuncia, da parte di un condomino, al proprio diritto sulle parti comuni non esonera il medesimo all’obbligo di contribuire alle spese relative; tale regola si giustifica, al fine di evitare di addossare ai restanti condomini l’onere di sopportare le spese di un condomino, che ha rinunciato a un suo diritto.

Quanto ai contenuti sostanziali del predetto diritto, sembra da condividere l’impostazione, secondo cui il medesimo, piuttosto che esser collegato al condomino, si connette al bene di proprietà esclusiva del medesimo (in senso parzialmente difforme cfr. sentenza Cass.855-2000 e 2255-2000, la quale ultima perviene alla distinzione fra parti comuni destinate a servire il bene di proprietà esclusiva e parte comune, destinata a servire il condomino).

Va ritenuto che il decoro architettonico dell’edificio condominiale costituisca un limite alla facoltà di uso della parte comune, da parte del condomino, in conformità al principio, secondo cui l’interesse condominiale deve prevalere sull’interesse del condomino. Ai fini dell’individuazione dell’uso delle parti comuni, consentito dall’ordinamento, occorre guardare all’uso potenziale, che ciascun condomino è in grado di effettuare, piuttosto che all’uso effettivo della parte comune.

Tra i compiti dell’Amministratore (art. 1130, n. 2)) è presente quello di regolamentare il potere di disciplinare l’uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell’interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a tutti i condomini.

In ogni caso, è preclusa la possibilità di attrarre la cosa comune nell’ambito della disponibilità esclusiva del singolo condomino.

Da quanto esposto discende il divieto di effettuare innovazioni, che coinvolgano le parti comuni, in modo da mutarne la destinazione.

L’art.1122 cod. civ. prevede il divieto, per ciascun condomino, di eseguire opere, che rechino pregiudizio alle parti comuni dell’edificio.

Le quote dei partecipanti al condominio si presumono uguali e si applica il criterio della proporzionalità, per quanto riguarda il concorso dei partecipanti ai vantaggi e svantaggi della cosa comune; tale disciplina, prevista dall’art. 1101 cod. civ. in materia di comunione, si applica anche al condominio. Nell’edificio, le singole unità immobiliari sono soggette anche alla disciplina dei rapporti di vicinato.

TABELLE MILLESIMALI

L’esistenza delle tabelle millesimali non costituisce presupposto indispensabile di validità delle deliberazioni dell’assemblea condominiale, in quanto il criterio di determinazione delle quote esiste a monte, essendo identificabile nel rapporto fra il valore dell’unità immobiliare di proprietà singola e quello dell’intero edificio.

Secondo la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 18477 del 9-8-2010, ai fini dell’approvazione delle tabelle millesimali, non è richiesta l’unanimità dei consensi, bastando la maggioranza qualificata, di cui all’art. 1336, 2° c. cod. civ., proprio perché la tabella millesimale serve a esprimere il sopra richiamato rapporto di valore tra singola unità immobiliare e intero edificio condominiale.

In quest’ottica le Sezioni Unite nella motivazione della citata sentenza criticano il preesistente orientamento, secondo cui le tabelle millesimali costituiscono oggetto di un negozio di accertamento, che richiede il consenso unanime di tutti i condomini e la tesi, secondo cui le tabelle millesimali siano presupposto per la validità delle delibere assembleari. In particolare, si rileva in sentenza come “ (…) Secondo tale orientamento, in conseguenza della inesistenza di una norma la quale attribuisca all’assemblea la competenza a deliberare in tema di tabelle millesimali, la deliberazione di approvazione delle tabelle adottata a maggioranza è inefficace nei confronti del condomino assente o dissenziente per nullità radicale deducibile senza limitazione di tempo (…)” (sent. 9 agosto 1996 n. 7359).

Riguardo alle conseguenze, quanto a una delibera di approvazione delle tabelle millesimali effettuata a maggioranza, si è ipotizzata la nullità assoluta o relativa o la mera inefficacia delle medesime. Così le Sezioni Unite: “ (…) Si è, in proposito, affermato che le deliberazioni in materia adottate dalla assemblea, sia a maggioranza sia ad unanimità dei soli condomini presenti, configurerebbero un’ipotesi di nullità non assoluta, ma soltanto relativa, in quanto non opponibile dai condomini consenzienti, e non obbligherebbero i dissenzienti e gli assenti, i quali potrebbero dedurne l’inefficacia secondo i principi generali, senza essere tenuti all’osservanza del termine di decadenza di cui all’art. 1137 c.c. (sent. 6 marzo 1967, cit.; 23 dicembre 1967 n. 3012/6 maggio 1968 n. 1385; 6 marzo 1970 n. 561; 14 dicembre 1974 n. 4274; nel senso che gli assenti ed i dissenzienti potrebbero far valere la nullità relativa dell’atto, ai sensi dell’art. 1421 cod. civ., costituita dalla loro mancata adesione, cfr. sent. 14 dicembre 1999 n. 14037)(…)”

“(…).Secondo altre decisioni la deliberazione assunta a maggioranza sarebbe affetta da nullità assoluta (e quindi inefficace anche per coloro che hanno votato a favore) ove non sia stata assunta con la maggioranza degli intervenuti che rappresentino anche la metà del valore dell’edificio, mentre sarebbe affetta da nullità relativa derivante dalla loro mancata adesione solo nei confronti degli assenti e dissenzienti ove assunta con la maggioranza in questione (sent. 24 novembre 1983 n. 7040; 9 febbraio 1985 n. 1057).

E’ stata anche prospettata la semplice inefficacia della delibera di approvazione non all’unanimità dei condomini, da ritenere condizionata al raggiungimento in epoca successiva del consenso unanime verificatosi in virtù dell’applicazione di fatto delle tabelle da parte dei condomini assenti (sent. 17 ottobre 1980 n. 5593) (…)”.

Queste le conclusioni delle Sezioni Unite: “L’affermazione che la necessità della unanimità dei consensi dipenderebbe dal fatto che la deliberazione di approvazione delle tabelle millesimali costituirebbe un negozio di accertamento del diritto di proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti comuni è in contrasto con quanto ad altri fini sostenuto nella giurisprudenza di questa S.C. e cioè che la tabella millesimale serve solo ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti”. “(…)Una volta chiarito che a favore della tesi della natura negoziale dell’atto di approvazione delle tabelle millesimali non viene addotto alcun argomento convincente, se si tiene presente che tali tabelle, in base all’art. 68 disp. att. c.c., sono allegate al regolamento di condominio, il quale, in base all’art. 1138 c.c., viene approvato dall’assemblea a maggioranza, e che esse non accertano il diritto dei singoli condomini sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva, ma soltanto il valore di tali unità rispetto all’intero edificio, ai soli fini della gestione del condominio, dovrebbe essere logico concludere che tali tabelle vanno approvate con la stessa maggioranza richiesta per il regolamento di condominio”.

Attraverso tale orientamento viene confutata la preesistente, consolidata interpretazione, secondo cui le tabelle millesimali andavano approvate all’unanimità dai condomini, con la conseguente difficoltà di procedere a una modifica delle medesime, la quale anch’essa avrebbe dovuto, ai fini della validità, esser approvata all’unanimità. Va rilevato, in ogni modo, come la Cassazione muova dalla già osservata idea della individuazione delle tabelle millesimali come espressione di un semplice calcolo aritmetico, mentre è anche da rilevare come a esso si sovrappongano valutazioni, che richiedono una specifica competenza professionale.

In assenza di tabelle millesimale validamente approvate, occorrerà applicare la disciplina dell’art. 1123 c.civ..

RIPARTIZIONE DELLE SPESE

L’art. 1123 cod. civ. dispone al 1° e 2° c. che "le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno salvo diversa convenzione. Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne”.

L’art. 1123 1° c. prescrive la regola generale della contribuzione alle spese, in proporzione al valore della proprietà esclusiva, rispetto alle parti comuni, avendo ciascun appartamento un valore diverso, rispetto all’edificio nel suo complesso. Secondo l’interpretazione prevalente, tale disposizione costituisce il parametro principale di riferimento, in materia di contribuzione alle spese, per i singoli condomini. Resta ferma la possibilità che i condomini prevedano un accordo inter partes derogatorio, rispetto alla disciplina di cui all’art. 1123, 1° c., come espressamente previsto da tale disposizione. Tra le clausole contrattuali, eventualmente contenute in un regolamento condominiale, rientrano senz’altro quelle concernenti la ripartizione delle spese, con possibilità di una deroga convenzionale a quanto contenuto nell’art. 1123 cod. civ., ad esempio nel senso che una singola unità sia parzialmente esonerata dall’obbligo di pagamento o nel senso che il pagamento vada effettuato in rapporto ai vani delle singole unità immobiliari. Va precisato che le disposizioni in materia di ripartizione delle spese, contenute in un regolamento condominiale di natura contrattuale, possono esser modificate o con una nuova convenzione, deliberata da tutti i condomini, o, in caso di dissenso e d’impossibilità di raggiungere l’unanimità, attraverso una statuizione del Giudice, possibile purché ricorrano le condizioni, per la revisione o la modificazione dei valori proporzionali dei piani o porzioni di piano, di cui all’art. 69 disp. att. cod. civ.).

La Corte di Cassazione (sentenza 2237/2012) ha stabilito che la ripartizione di una spesa condominiale può essere deliberata anche in mancanza di tabella millesimale, purché nel rispetto della proporzione tra la quota di essa posta a carico di ciascun condomino e la quota di proprietà esclusiva a questo appartenente e, in definitiva, del parametro, di cui all’art. 1123, 1° c.. Tale conclusione è possibile, in quanto le singole quote possono essere predeterminate, a prescindere dalla formazione della tabella millesimale, tenendo in considerazione come parametro la relazione tra il valore della proprietà singola e quello dell’intero edificio. Tale rapporto fra valore della singola unità immobiliare di proprietà esclusiva e quello dell’edificio nel suo complesso è determinale, secondo un criterio matematicamente accertato e, pertanto, non dà luogo a particolari difficoltà e al rischio di una discrepanza nelle relative valutazioni.

L’interpretazione prevalente della disposizione, riguardante l’uso delle cose destinate a servire i condomini in maniera diversa (art. 1123, 2° c.), è nel senso che occorre riferirsi all’uso potenziale, che ciascun condomino possa fare del bene, che viene in considerazione. Pertanto, è necessario che si abbia come riferimento la possibilità che in astratto un soggetto abbia di utilizzare un determinato bene comune (per es. impianto di riscaldamento, quando sia previsto un pagamento predeterminato della quota da pagare periodicamente), non avendo rilievo l’eventuale limitazione nell’uso, derivante da una libera scelta del condomino. Questi, in ipotesi di una scelta siffatta, non potrà richiedere di pagare per l’uso effettivo, in misura inferiore, rispetto agli altri condomini, a meno che non si propenda per l’interpretazione minoritaria della disposizione in parola, secondo cui il contributo delle spese è dovuto in proporzione all’uso effettivo del bene comune. Per quanto esposto l’espressione “in misura diversa”, di cui al 2° c. dell’art. 1123, si riferisce alla diversità nel godimento del bene, derivante da situazioni evidenti, quali la struttura del bene o la sua particolare destinazione.

L’art. 1123, 3° c. prevede che “qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità". I soggetti che non traggono un’utilità dall’opera non devono partecipare alla delibera sulla relativa spesa.

L’art. 1102 consente ai singoli condomini di apportare innovazioni, per il miglior utilizzo della proprietà individuale; l’art. 1120 indica quali “innovazioni” possono essere costituite, previa deliberazione di assemblea condominiale, con una maggioranza di partecipanti, tale da rappresentare almeno i due terzi dei millesimi. Per “innovazione” deve intendersi la modifica di una parte comune, tale da alterarne la preesistente destinazione, attraverso un intervento, eccedente l’ordinaria amministrazione, con la conseguenza di modificare la modalità di godimento della medesima, il che rende necessario che l’assemblea dei condomini possa valutare la convenienza di attuare la stessa innovazione. Secondo la disciplina dell’art. 1120 sono vietate le innovazioni, che possono recare pregiudizio alla stabilità e sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico, che rendano alcune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche da parte di un solo condomino.

Quanto sopra esposto è coerente con la definizione di innovazione, fornita dalla giurisprudenza, secondo cui “ (…) costituisce innovazione, ai fini dell’art. 1120 cod. civ., qualsiasi opera nuova che, eccedendo i limiti della conservazione, dell’ordinaria amministrazione o del godimento della cosa comune, ne comporti una totale o parziale modificazione nella forma o nella sostanza, con l’effetto di migliorarne o peggiorarne il godimento e comunque alterarne la destinazione originaria, con conseguente implicita incidenza sull’interesse di tutti i condomini, i quali devono essere liberi di valutare la convenienza dell’innovazione, anche se sia stata programmata ad iniziativa di un solo condomino che se ne sia assunto le spese, mentre non costituiscono innovazione - e sono quindi soggetti alla disciplina dell’art. 1102 cod. civ. - tutti gli atti di maggiore o più intensa utilizzazione della cosa comune che non importino alterazioni o modificazioni della stessa e non precludano agli altri partecipanti la possibilità di utilizzare la cosa facendone lo stesso maggior uso del condomino che abbia attuato la modifica”. (Cass. civ., sez. II, 6 giugno 1989, n. 2746, De Paolo c. Ferrulli ed altro). In coerenza con la sopra citata pronuncia, si è affermato che In tema di condominio di edifici costituisce innovazione ex art. 1120 c.c., non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quella che alteri l’entità materiale del bene operandone la trasformazione, ovvero determini la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l’esecuzione delle opere. Ove invece, la modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell’ambito dell’art. 1102 c.c., che pur dettato in materia di comunione in generale, è applicabile in materia di condominio degli edifici per il richiamo contenuto nell’art. 1139 c.c. ( Cass. civ., sez. II, 11 gennaio 1997, n. 240, Botteri ed altro c. Messina ed altro). Si comprende, pertanto, che l’innovazione rappresenta un intervento sulla fisionomia del bene comune assai più radicale della semplice modificazione, la quale non altera la destinazione economica della cosa. Va precisato che In tema di condominio di edifici, l’art. 1121 c.c. riconosce ai condomini dissenzienti (e ai loro eredi e aventi causa), in caso di innovazioni gravose o voluttuarie, il diritto potestativo di partecipare successivamente ai vantaggi delle innovazioni stesse, contribuendo pro quota nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera ragguagliate al valore attuale della moneta, onde evitare arricchimenti in danno dei condomini che hanno assunto l’iniziativa dell’opera (Cass. civ., sez. II, 18 agosto 1993, n. 8746, Oddi c. Tantarelli).

Tale possibilità, attribuita ai condomini dissenzienti, di scegliere se partecipare o meno alla contribuzione economica per le innovazioni voluttuarie si spiega con la manifesta non necessarietà delle medesime, in rapporto a un effettivo perseguimento dell’interesse comune dei condomini.

L’art. 1134 cod. civ. disciplina l’ipotesi, in cui il singolo condomino abbia senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea effettuato delle spese per le cose comuni. In tal caso, non spetta il diritto al rimborso, salva l’ipotesi, in cui le spese effettuate possano qualificarsi come “urgenti”. La giurisprudenza, in passato, ha ritenuto che la nozione di “urgenza” potesse interpretarsi in senso ampio, attraverso un’applicazione del criterio romanistico del “buon padre di famiglia”: infatti, era considerata urgente la spesa, che non può esser differita, senza danno o nocumento alle cose comuni, anche quando il nocumento a tali beni sia solo verosimile e non certo nel suo configurarsi. Sul connotato dell’urgenza, peraltro, è intervenuta in senso differente una recente pronuncia della Cassazione, secondo cui : “(…) Premesso che il connotato dell’urgenza deve essere valutato alla luce di tali rigorosissimi criteri, la giurisprudenza di questa Corte afferma che:

a) ai fini dell’applicabilità dell’art. 1134 c.c., va considerata urgente la

spesa, che deve essere eseguita senza ritardo;

b) è urgente la spesa, la cui erogazione non può essere differita senza danno o pericolo, secondo il criterio del buon padre di famiglia;

c) per aver diritto al rimborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, il condomino deve dimostrarne l’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 cod. civ., ossia la necessità di eseguirla senza ritardo, e quindi senza poter avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini. Nella fattispecie in esame, il giudice di appello aveva esaminato documentazione fotografica allegata alla relazione del consulente tecnico di ufficio e aveva rilevato che le macchie di umidità, in relazione alle quali si sarebbero resi necessari i lavori, non erano né diffuse né numerose così che nessuna urgenza era ravvisabile (…) (Cass. sentenza 4330 del 19 Marzo 2012).

 

ASSEMBLEA CONDOMINIALE

1) Attribuzioni

L’assemblea è l’organo principale del condominio e si occupa anzitutto delle funzioni, indicate nell’art. 1135 cod. civ., vale a dire:

 

1. nomina, conferma, sostituzione o revoca dell’amministratore e alla eventuale sua retribuzione;

2. approvazione del bilancio preventivo e consuntivo annuali ripartendo le relative spese tra i condomini;

3. delibera in ordine alle opere di manutenzione straordinaria nonché in ordine agli atti di acquisto, alienazione o costituzione di diritti reali sulle parti comuni dell’edificio;

4. delibera di promuovere liti o resistere a domande intraprese contro il condominio;

5. a modificare il regolamento di condominio;

6. all’uso o al godimento delle parti comuni con esclusione di qualsiasi ingerenza sulle parti in proprietà esclusiva:

7. qualsiasi altra decisione eccedente l’ordinaria amministrazione;

L’assemblea di condominio è organo collegiale, che ha una posizione di preminenza all’interno della compagine condominiale, anche rispetto all’amministratore, come normativamente è dimostrato dal 2° c. dell’art. 1135 cod. civ., secondo cui l’amministratore di condominio può autonomamente ordinare l’effettuazione di lavori di manutenzione straordinaria, quando i medesimi non possano essere posticipati per il rischio di un grave pregiudizio all’incolumità di persone o cose. La circostanza che tale attribuzione autonoma dell’amministratore sia esplicitamente prevista e codificata dimostra che, di regola, è l’assemblea ad avere potere decisionale, e l’amministratore deve essere un esecutore delle decisioni della medesima, secondo lo schema del contratto di mandato.

L’assemblea è organo del condominio non coincidente con la sommatoria di tutti i condomini, proprio in ragione della sua natura di struttura di natura collegiale e la sua legittimazione, una volta che il condominio si è costituito non abbisogna di un formale atto di costituzione.

L’organo in parola mantiene una sia posizione dio supremazia all’interno del condominio, ma non può avocare a sé le funzioni proprie dell’amministratore, come è desumibile dagli artt. 1105 e 1108 del codice, previsti in materia di comunione, ma applicabili anche al condominio, in ragione dell’espressa previsione dell’art. 1139.

L’assemblea si fa portatrice dell’interesse del condominio, come entità collettiva e non può invadere la sfera giuridica dei singoli condomini. L’interesse condominiale è perseguito mediante atti che sono da considerare “collettivi” o, secondo altra ricostruzione, “complessi”. La differenza fra le due configurazioni è rilevante, in quanto si considera collettivo un atto, che rappresenti una pluralità di interessi singoli coincidenti, mentre la nozione di atto complesso riguarda la tendenziale fusione di varie manifestazioni di volontà, con la presenza di una più spiccata autonomia negoziale. L’assemblea è, di regola, convocata dall’amministratore e non esiste una ordinaria legittimazione del singolo condomino a sostituirsi al medesimo, anche nell’ipotesi in cui l’amministratore abbia presentato le dimissioni dall’ufficio (cfr. Corte Appello Milano, 9-11-1976).

L’assemblea condominiale ha compiti delicati, fra cui quello di mediare quando all’interno di essa si configurino diverse opzioni, in rapporto a singole questioni. Va rilevato come la medesima non possa qualificarsi quale effettivo organo di un ente collettivo, in quanto una delibera approvata all’unanimità ben potrebbe essere successivamente superata da una delibera approvata a maggioranza, nel rispetto dell’art. 1136 cod. civ.. Le