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Il traffico di influenze illecite

IntroduzioneLa legge 6 novembre 2012 n. 190 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, ha inserito nel codice penale l’art. 346-bis (Traffico di influenze illecite), che recita:

Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.

La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale.

La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio.

Le pene sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie.

Se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita.

Le Convenzioni di Merida e del Consiglio d’Europa[1] configurano un obbligo di incriminare condotte prodromiche rispetto ad accordi corruttivi che potranno coinvolgere il pubblico funzionario sulle cui determinazioni si vorrebbe illecitamente influire; condotte, in particolare, che richiedono l’intervento di terzi soggetti che agiscano, in sostanza, quali mediatori di un futuro accordo corruttivo.

Si vuole quindi anticipare la tutela rispetto a quella realizzata mediante i reati di corruzione, punendo condotte pericolose per i beni giuridici offesi dalla conclusione ed esecuzione di accordi corruttivi[2].

1. La condotta di reato

La fattispecie sembra equiparare la situazione di chi riceva il denaro o la promessa in relazione ad una propria influenza reale sul pubblico ufficiale da corrompere, a quella di chi semplicemente affermi di poter esercitare una simile influenza[3].

Inoltre, l’art 346-bis c.p. punisce chi dà o promette denaro o altra utilità, il quale, come è noto, non è sanzionato dal contiguo reato di millantato credito ex art. 346 c.p.

Tanto l’avverbio “indebitamente” che accompagna la condotta di dazione o di promessa, quanto l’aggettivo “illecita”, che qualifica la mediazione, rivestono, nella struttura della fattispecie, una funzione determinante e, per quello che si dirà, critica.

In altri termini l’illiceità penale della condotta dipende dal complesso delle norme extrapenali che concorrono a determinare le condizioni in cui i comportamenti considerati risultano altrimenti leciti.

Come è stato acutamente evidenziato,

è dunque presupposto, anche per la necessaria componente di consapevolezza dell’agire richiesta dal dolo, che, esplicitamente od implicitamente, sussistano, nell’ordinamento, previsioni in grado di definire il confine tra il consentito ed il non consentito, alla stessa stregua, del resto, di quanto accade in altri paesi, ove è riconosciuta la liceità di attività di mediazione e rappresentanza esercitate in forma professionale specie presso istituzioni politiche o amministrazioni pubbliche. Nella specie, tuttavia, un simile catalogo non è rinvenibile con la conseguente possibilità, tutt’altro che remota, di ritenere sanzionate condotte altrove ritenute del tutto lecite (si pensi all’azione, appunto, di gruppi di pressione per conto di portatori di interessi particolari a favore dell’introduzione o, viceversa, dell’abrogazione di leggi)[4].

In maniera ancora più incisiva[5] è stato rilevato che

senza la regolamentazione previa dell’attività di lobbying, la previsione punitiva del “traffico di influenza” si risolve in un immenso contenitore capace di ricomprendere in modo indeterminato comportamenti abitualmente praticati – e ritenuti, addirittura, commendevoli –, dalle grandi associazioni di categoria.Omissis.

Pertanto, queste attività potrebbero tranquillamente essere ricomprese nella disposizione di cui al testo dell’art. 346-bis, nella parte in cui esso dichiara punibile chiunque, “sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente si fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita”.

Solo la regolamentazione dell’attività di lobbying può guidare l’interprete nella qualificazione di una mediazione come “illecita” e, correlativamente, di una promessa di denaro o di altro vantaggio patrimoniale come “indebita”.

In mancanza di tale regolamentazione la disposizione rischia di essere incostituzionale per violazione degli artt. 25, comma 2, e 3, comma 2 Cost.[6]

Torniamo alla descrizione della fattispecie.

Nell’aggettivazione “esistenti” posso ricomprendersi, a prima vista, sia rapporti estrinsecatisi in una sola occasione, sia rapporti sporadici, sia rapporti stabili e consuetudinari.

Quanto poi alla “mediazione”, resta aperta la questione se il reato sia configurabile anche nel caso in cui la stessa sia effettivamente esercitata nei confronti del soggetto pubblico[7], o debba, invece, restare unicamente a livello di prospettazione, senza che poi l’intermediario agisca effettivamente.

Tale seconda soluzione parrebbe lasciare scoperti tuttavia i casi in cui appunto l’esercizio effettivo della mediazione non giunga ad integrare la corruzione, neppure nella forma della istigazione.

2. La clausola di riserva: i rapporti con la corruzione

La disposizione esordisce con la clausola di riserva “fuori dai casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter”.

Tale clausola è evidentemente volta ad evitare duplicazioni sanzionatorie nell’ipotesi in cui la mediazione sia andata a buon fine, con conseguente corresponsabilità di tutti i partecipi (il privato, il “mediatore” e il pubblico ufficiale corrotto), ai sensi dell’art. 110 c.p., nel delitto di corruzione.

Va rilevato che dalla clausola di riserva scompare il riferimento – contenuto in una precedente versione del testo – al nuovo delitto di “corruzione per l’esercizio della funzione” di cui all’art. 318 c.p.[8]

In altri termini, il delitto di traffico di influenze illecite viene configurato come preparatorio rispetto al delitto di corruzione c.d. propria (per un atto contrario ai doveri d’ufficio) (art. 319 c.p.) o di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.).

La differenza della fattispecie in esame, nella sua prima parte (mediazione illecita), rispetto al concorso nel reato di corruzione sembra potersi individuare nella circostanza che il denaro o gli altri vantaggi patrimoniali non rappresentano il prezzo da corrispondere al pubblico ufficiale[9], ma vengono rappresentati e destinati a retribuire unicamente l’opera di una mediazione.

Con riferimento invece alla seconda parte della disposizione (remunerazione del pubblico funzionario), ove il denaro o altro vantaggio (o la loro promessa) sono, nella rappresentazione dell’intermediario, il prezzo da corrispondere non per l’opera di mediazione, ma per remunerare il pubblico ufficiale in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, parrebbe necessario che tali utilità non vengano corrisposte o la loro promessa non venga accettata: diversamente opinando, verrebbe integrato il concorso nel delitto di corruzione propria.

Insomma la clausola di riserva esclude la stessa tipicità del fatto qualora la condotta di mediazione (e quella di colui che la “finanzia”) sia specificamente inquadrabile nel concorso in corruzione propria o in atti giudiziari: quando cioè l’azione del mediatore (e del suo finanziatore) abbia effettivamente esplicato una efficienza causale nella corruzione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio[10].

Si potrebbe pure immaginare una diversa ricostruzione dell’impianto normativo, tesa a sottrarre il mediatore alla responsabilità per la corruzione consumata in forza della tipizzazione della sua condotta ad opera dell’art 346-bis.

Tuttavia tale minore responsabilità dovrebbe valere anche al suo finanziatore (concorrente necessario nel reato di traffico di influenze), con l’irragionevole conseguenza per cui qualora il corruttore si serva di un intermediario verrebbe punito in maniera meno grave rispetto al caso in cui si rapporti direttamente al corrotto.

3. Rapporti con il delitto di millantato credito

Il delitto di millantato credito è previsto e punito dall’art 346 c.p., nei seguenti termini:

Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309 a euro 2.065.

La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 516 a euro 3.098, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare.

Nel delitto di millantato credito, l’interesse protetto è il prestigio della pubblica amministrazione, il quale viene offeso ogniqualvolta si dia a credere che il pubblico ufficiale o pubblico impiegato addetto a pubblico servizio, anziché uniformarsi a criteri di probità e di correttezza, si lasciano corrompere nell’adempimento dei doveri inerenti alla loro qualità[11].

3.1 La fattispecie di cui al comma 1

Gli estremi della condotta del reato devono intendersi realizzati nel solo fatto di chi, vantando in modo esplicito o dando ad intendere di avere possibilità di influire sul pubblico funzionario, si faccia dare o promettere un compenso per la propria mediazione presso il medesimo funzionario[12].

Per la configurazione del reato di millantato credito è indispensabile che il comportamento del soggetto attivo si concreti in una “vanteria”, cioè in un’ostentazione della possibilità di influire sul pubblico ufficiale che venga fatto apparire come persona “avvicinabile”, cioè “sensibile” a favorire interessi privati in danno degli interessi pubblici di imparzialità, di economicità e di buon andamento degli uffici, cui deve ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione.

Tale condotta deve indurre a far intendere alla vittima che il millantatore abbia la capacità di esercitare un’influenza sui pubblici poteri tale da rendere i detti principi vani e cedevoli al tornaconto personale, con la conseguenza che alla persona del danneggiato deve apparire evidente la lesione del prestigio della pubblica amministrazione che deve emettere l’atto o tenere un dato comportamento (vera parte offesa, che la norma intende proteggere), senza che importi che siano individuati i singoli funzionari e i reali rapporti che il millantatore intrattiene con essi[13].

L’effettivo svolgimento di un’attività di mediazione può avere l’effetto di escludere l’antigiuridicità della condotta solo quando si tratti di mediazione professionale lecita, e sempre con esclusione di aderenze personali extraprofessionali[14].

Infine, non integra il delitto di millantato credito la millanteria consistente in “crediti” presso personaggi politici che non rivestano la qualità di pubblici ufficiali[15].

3.2 La fattispecie di cui al comma 2

In tema di millantato credito, integra l’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 346 c.p. la condotta di colui che riceve o accetta la promessa di denaro o altra utilità con il pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato ovvero di doverlo remunerare; detta ipotesi, rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 346, comma 1 – in cui il raggiro consiste nel presentare il pubblico ufficiale, destinatario di pressioni amicali, come arrendevole – non configura una circostanza aggravante ma una figura autonoma di reato, in quanto il pubblico ufficiale è prospettato dall’agente come persona corrotta o corruttibile[16].

Se l’agente si fa consegnare la somma con l’intenzione effettiva di corrompere il pubblico funzionario, quando la corruzione non abbia luogo o inizio, la condotta non è punibile.

Parimenti, in caso di contestazione del reato a più persone in concorso tra loro, quando si accerta che uno di essi riceva una somma di denaro nella reale convinzione che la stessa sia destinata effettivamente a corrompere un pubblico funzionario ignorando l’intenzione millantatoria del correo, non risponderà di concorso in quest’ultimo reato.

Per il concorrente ignaro non si versa in ipotesi di dolo alternativo perché questi si è prospettato il solo evento della corruzione e ad esso aveva inteso apportare il proprio contributo causale[17].

Nella fattispecie in esame, l’utilità deve essere carpita con il “pretesto” di dover versare una somma o assicurare un vantaggio al pubblico ufficiale o impiegato per ottenere che egli agisca nel senso desiderato ovvero per compensarlo dell’opera svolta.

Se, invece, l’utilità fosse realmente destinata al funzionario infedele, sussisterebbe il diverso reato di corruzione, sempre che di questo ricorrano gli altri estremi.

Ne consegue che, mancando il “pretesto” (e cioè la millanteria, tale dovendosi intendere il fatto di rappresentare alla vittima, contrariamente al vero, che sussiste già la disponibilità del funzionario corrotto), la condotta di colui che induce taluno a dargli danaro (o a prometterne) nel sincero proposito che il danaro serva realmente a corrompere il funzionario, non è punibile, arrestandosi l’azione al limite del tentativo di corruzione, attribuibile, peraltro, anche a colui che il danaro ha versato o promesso[18].

Per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato, occorre osservare che il dolo, come fatto palese dall’impiego del verbo millantare da parte del legislatore, deve corrispondere alla consapevolezza dell’inidoneità della mediazione a raggiungere il risultato promesso.

Si tratta in altri termini di una deliberata vendita di fumo, anche avuto riguardo al comma 2 dell’articolo 346 c.p., ove si definisce “pretesto” la necessità prospettata di dover comprare il favore del pubblico ufficiale.

Simile elemento soggettivo resta quindi escluso quando l’agente, sia pure indotto in errore, creda nell’efficacia dell’azione intrapresa al fine di conseguire il vantaggio perseguito, così semmai opinando di versare in altre ipotesi di reato, quali, a puro titolo di esempio, la corruzione o l’abuso d’ufficio[19].

3.3 Rapporti tra millantato credito e truffa

Il reato di millantato credito si differenzia da quello di truffa non solo per il carattere preminente dell’offesa dell’interesse all’integrità dell’affidamento e del prestigio che deve fruire la P.A. in ogni settore della sua attività (al quale viene arrecato nocumento dalla prospettazione di potervi interferire comprando il favore dei soggetti preposti ai suoi uffici), ma perché la condotta posta in essere non consiste in artifici o raggiri, ma nella vanteria di potersi ingerire nell’attività pubblica al fine di inquinarne il regolare svolgimento, mediante il mercimonio dell’esercizio dei suoi poteri[20].

In giurisprudenza si è affermato che i due reati possono concorrere, quando l’illecito profitto sia conseguito attraverso le millanterie proprie del secondo reato e la predisposizione di falsi documenti o la assunzione da parte dei soggetti agenti di false qualifiche pubbliche, che costituiscono artifici o raggiri propri della truffa[21].

3.4 La distinzione tra il trading in influence e il millantato credito

Richiedendo che il soggetto sfrutti relazioni esistenti, l’art 346-bis c.p. intende tracciare un confine netto con la fattispecie di millantato credito, nella quale le relazioni sono soltanto falsamente rappresentate da chi riceve la promessa o la dazione.

Le due norme dovrebbero pertanto porsi in rapporto di alternatività.

Insomma: nell’ipotesi di millantato credito il disvalore del fatto sarebbe essenzialmente quello di un raggiro a danno di chi effettua la dazione o la promessa, che, per questo motivo, non verrebbe punito[22].

La specificazione del carattere illecito della mediazione è importante in quanto la precedente versione del testo (che incriminava il fatto chi si faccia dare o promettere denaro o altra utilità, tra l’altro, come “prezzo della propria mediazione”, senza alcuna menzione del carattere illecito di tale mediazione) poteva colpire anche il professionista incaricato dal privato di contattare la pubblica amministrazione per ottenere per suo conto, e legittimamente, licenze, autorizzazioni ecc., e che per l’esecuzione di tale incarico si faccia, altrettanto legittimamente, retribuire.

A differenza poi dell’art. 346 c.p., in cui la millanteria viene riferita al rapporto con un pubblico ufficiale ovvero un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, l’art. 346-bis riferisce la mediazione illecita ad un rapporto intercorrente con il pubblico ufficiale o con l’incaricato di un pubblico servizio, non importa se impiegato o meno.

Se questi sono i rapporti tra le due fattispecie, appare senza dubbio irragionevole il diverso trattamento sanzionatorio.

Il traffico di influenze illecite è destinato ad abbracciare fatti che creano un reale pericolo di distorsione della pubblica funzione, e tuttavia viene punito assai meno severamente rispetto al millantato credito, in cui un tale pericolo non sussisterebbe.

Secondo attenta dottrina simili incongruenze sanzionatorie potrebbero ingenerare dubbi di illegittimità costituzionale del quadro sanzionatorio del millantato credito: bene farebbe il legislatore a rinunziare alla distinzione tra le due figure[23], introducendo un unico delitto di traffico di influenze illecite, punito meno gravemente delle fattispecie di corruzione.

4. La responsabilità delle persone giuridiche

Il nuovo reato in commento non viene inserito tra i reati-presupposto della responsabilità degli enti collettivi ai sensi del d.lg. 231/2001.

La corporate liability per il reato di trading in influence è, invece, richiesta sia dalla Convenzione di Merida (art 26, in relazione al reato di cui all’art 18) che da quella del Consiglio d’Europa (art 18, in relazione al reato di cui all’art 12).

Durante i lavori parlamentari l’estensione del d.lg. 231 al reato di traffico di influenze era previsto da numerosi disegni di legge[24], i quali inserivano la fattispecie nell’art 25, del quale, anzi, si modificava la stessa rubrica (“Corruzione e traffico di influenze illecite”).

Nulla di tutto ciò nel testo definitivo della Legge.

Dal momento che si sono voluti punire atti di persone fisiche, preparatori rispetto alla corruzione vera e propria, lo stesso bisognava fare in relazione alle persone giuridiche.

Il mediatore illecito può ben essere un soggetto privato e, pertanto, agire nell’interesse della società in cui è incardinato; così pure il suo finanziatore.

Ad oggi, pertanto, a meno che la condotta di mediazione non sfoci nella corruzione, almeno tentata, gli enti nel cui interesse è stata realizzata la condotta di traffico di influenze non rispondono ai sensi del d.lg. 231.

Queste riflessioni valgono in punto di diritto, ma non sono sufficienti ad evitare, ad avviso di chi scrive, una corretta gestione del relativo rischio nell’ambito di un Modello organizzativo.

In breve: si tratta di condotte contigue a quelle corruttive e, di conseguenza, vanno “mappate” e gestite con apposite procedure, monitorate dall’Organismo di vigilanza e collegate al sistema sanzionatorio aziendale.

Il tema è di particolare interesse per i rapporti di consulenza aventi ad oggetto “attività di relazioni istituzionali”, laddove il consulente si pone – giuridicamente e di fatto – come intermediario tra l’azienda e il pubblico decisore.

[1] Cfr. art.18 della Convenzione Onu di Merida contro la corruzione del 31 ottobre 2003, ratificata dalla legge 3 agosto 2009, n. 116 (“ciascuno Stato parte esamina l’adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando tali atti sono stati commessi intenzionalmente : a) al fatto di promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona; b) al fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte”); nonché l’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 27 gennaio 1999, ratificata dalla legge 28 giugno 2012, n. 110 (“ciascuna Parte adotta i provvedimenti legislativi e di altro tipo che si rivelano necessari per configurare in quanto reato in conformità al proprio diritto interno quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, il fatto di proporre, offrire o dare, direttamente o indirettamente qualsiasi indebito vantaggio a titolo di rimunerazione a chiunque dichiari o confermi di essere in grado di esercitare un’influenza sulle decisioni delle persone indicate agli articoli 2, 4 a 6 e 9 ad 11, a prescindere che l’indebito vantaggio sia per se stesso o per altra persona, come pure il fatto di sollecitare, di ricevere, o di accettarne l’offerta o la promessa di rimunerazione per tale influenza, a prescindere che quest’ultima sia o meno esercitata o che produca o meno il risultato auspicato”).[2] La Cassazione ha negato che il c.d. “trading in influence” potesse rientrare nelle norme incriminatrici della corruzione, in quanto quest’ultima presuppone, “un nesso tra il pubblico ufficiale e l’atto d’ufficio oggetto del mercimonio” e non potendo essere dilatata “fino al punto da comprendervi, con una operazione analogica non consentita in materia penale…anche la mera venalità della carica” (Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33345; Sez. VI, 6 novembre 2006, n. 5781; Sez. VI, 12 maggio 1983, n. 8043).

[3] Dolcini-Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, Diritto penale contemporaneo, 1/2012, 237.

[4] Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Relazione n. III/11/2012 del 15 novembre 2012.

[5] Ronco, Note per l’audizione avanti alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato della Repubblica, 16 settembre 2012.

[6] Ronco, op. cit.

[7] Senza che allo stesso venga promesso o corrisposto alcunché, posto che, diversamente, si ricadrebbe nell’ipotesi della istigazione alla corruzione, in caso di mancata accettazione, e di corruzione in caso, invece, di accettazione.

[8] La promessa o la dazione dovranno dunque essere effettuate in relazione al compimento di uno (specifico) atto contrario ai doveri d’ufficio, o all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio; non, quindi, in relazione ad un generico asservimento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di p.s. agli interessi del privato. La mancata menzione dell’art. 318 c.p., potrebbe rendere possibile il concorso tra la nuova fattispecie e la corruzione per l’esercizio delle funzioni.

[9] Per far sì che lo stesso pubblico ufficiale ometta o ritardi o abbia omesso o ritardato un atto dell’ufficio ovvero compia od abbia compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio.

[10] Ufficio del massimario, cit.

[11] Cass., sez. V, 83/160515.

[12] E ciò a prescindere dalle particolari modalità della condotta, in forza delle quali egli riesca ad ottenere tale compenso, sia prospettando eventuali ostacoli od incertezze (che tuttavia non siano tali da far recedere il cosiddetto “compratore di fumo”) sia promettendo il sicuro esito del suo intervento (Cass., sez. VI 90/185421).

[13] Cass., sez. VI 00/215651. Il delitto di cui all’art. 346 c.p. è configurabile anche quando il credito vantato presso il pubblico ufficiale o impiegato sia effettivamente sussistente, ma venga artificiosamente magnificato e amplificato dall’agente in modo da far credere al soggetto passivo di essere in grado di influire sulle determinazioni di un pubblico funzionario e correlativamente di poterlo favorire nel conseguimento di preferenze e di vantaggi illeciti in cambio di un prezzo per la propria mediazione (Cass., sez. VI 89/181968).7

[14] Cass., sez. VI 97/208141.

[15] Cass., sez. VI, 04/230644: nella specie, la Corte ha diversamente qualificato come truffa la condotta dell’imputato che aveva ricevuto da privati somme di denaro quale prezzo della propria mediazione per l’ottenimento di posti di lavoro, vantando influenza presso noti esponenti politici.

[16] Cass., sez. VI, 06/234719.

[17] Il dolo alternativo infatti è configurabile non quando vi sia indifferenza del soggetto agente di fronte al possibile verificarsi di due o più eventi, ma quando quelli alternativamente previsti siano entrambi voluti e la indifferenza riguardi soltanto la verificazione di uno di essi sicché già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato l’agente deve prevederli entrambi (Cass., sez. VI, 94/200940).

[18] Nella specie la Corte ha ritenuto insussistente sia il millantato credito sia il reato di corruzione, nell’ipotesi in cui il concorrente nel reato contestato come millantato credito ex art. 346 comma 2 c.p., senza essere a conoscenza dell’altrui attività millantatoria, riceva da terzi somme o promessa di danaro nel convincimento certo che esse debbano servire agli altri concorrenti, che così gli hanno fatto credere, al fine di compensare funzionari corrotti per ottenerne i favori (Cass., sez. VI, 94/200906).

[19] Cass., sez. VI, 22 gennaio 1996.

[20] Cass., sez. VI, 97/209241: fattispecie relativa alla condotta di chi si fa dare una somma di denaro dal partecipante ad un esame con il pretesto di consegnarla al funzionario esaminatore.

[21] Cass., sez. VI, 94/200939. V. pure Cass., sez. VI, 03/224844.

[22] Il millantato credito costituirebbe insomma un’ipotesi di truffa in atti illeciti, collocata tra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione in ragione del suo carattere offensivo anche del prestigio della pubblica amministrazione, derivante dall’idoneità del fatto a convogliare un’immagine di venalità dei pubblici funzionari.

[23] Come peraltro proposto a più riprese durante i lavori parlamentari della Legge Anticorruzione.

[24] AC 3850, AC 4501, AC 4516; AS 2164, AS 2168, AS 2174, AS 2340. L’ente, secondo questi d.d.l., poteva essere punito con sanzione pecuniaria fino ad 800 quote e con le sanzioni interdittive di cui all’art 9 comma 2 del d.lg. 231.

IntroduzioneLa legge 6 novembre 2012 n. 190 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, ha inserito nel codice penale l’art. 346-bis (Traffico di influenze illecite), che recita:

Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.

La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale.

La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio.

Le pene sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie.

Se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita.

Le Convenzioni di Merida e del Consiglio d’Europa[1] configurano un obbligo di incriminare condotte prodromiche rispetto ad accordi corruttivi che potranno coinvolgere il pubblico funzionario sulle cui determinazioni si vorrebbe illecitamente influire; condotte, in particolare, che richiedono l’intervento di terzi soggetti che agiscano, in sostanza, quali mediatori di un futuro accordo corruttivo.

Si vuole quindi anticipare la tutela rispetto a quella realizzata mediante i reati di corruzione, punendo condotte pericolose per i beni giuridici offesi dalla conclusione ed esecuzione di accordi corruttivi[2].

1. La condotta di reato

La fattispecie sembra equiparare la situazione di chi riceva il denaro o la promessa in relazione ad una propria influenza reale sul pubblico ufficiale da corrompere, a quella di chi semplicemente affermi di poter esercitare una simile influenza[3].

Inoltre, l’art 346-bis c.p. punisce chi dà o promette denaro o altra utilità, il quale, come è noto, non è sanzionato dal contiguo reato di millantato credito ex art. 346 c.p.

Tanto l’avverbio “indebitamente” che accompagna la condotta di dazione o di promessa, quanto l’aggettivo “illecita”, che qualifica la mediazione, rivestono, nella struttura della fattispecie, una funzione determinante e, per quello che si dirà, critica.

In altri termini l’illiceità penale della condotta dipende dal complesso delle norme extrapenali che concorrono a determinare le condizioni in cui i comportamenti considerati risultano altrimenti leciti.

Come è stato acutamente evidenziato,

è dunque presupposto, anche per la necessaria componente di consapevolezza dell’agire richiesta dal dolo, che, esplicitamente od implicitamente, sussistano, nell’ordinamento, previsioni in grado di definire il confine tra il consentito ed il non consentito, alla stessa stregua, del resto, di quanto accade in altri paesi, ove è riconosciuta la liceità di attività di mediazione e rappresentanza esercitate in forma professionale specie presso istituzioni politiche o amministrazioni pubbliche. Nella specie, tuttavia, un simile catalogo non è rinvenibile con la conseguente possibilità, tutt’altro che remota, di ritenere sanzionate condotte altrove ritenute del tutto lecite (si pensi all’azione, appunto, di gruppi di pressione per conto di portatori di interessi particolari a favore dell’introduzione o, viceversa, dell’abrogazione di leggi)[4].

In maniera ancora più incisiva[5] è stato rilevato che

senza la regolamentazione previa dell’attività di lobbying, la previsione punitiva del “traffico di influenza” si risolve in un immenso contenitore capace di ricomprendere in modo indeterminato comportamenti abitualmente praticati – e ritenuti, addirittura, commendevoli –, dalle grandi associazioni di categoria.Omissis.

Pertanto, queste attività potrebbero tranquillamente essere ricomprese nella disposizione di cui al testo dell’art. 346-bis, nella parte in cui esso dichiara punibile chiunque, “sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente si fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita”.

Solo la regolamentazione dell’attività di lobbying può guidare l’interprete nella qualificazione di una mediazione come “illecita” e, correlativamente, di una promessa di denaro o di altro vantaggio patrimoniale come “indebita”.

In mancanza di tale regolamentazione la disposizione rischia di essere incostituzionale per violazione degli artt. 25, comma 2, e 3, comma 2 Cost.[6]

Torniamo alla descrizione della fattispecie.

Nell’aggettivazione “esistenti” posso ricomprendersi, a prima vista, sia rapporti estrinsecatisi in una sola occasione, sia rapporti sporadici, sia rapporti stabili e consuetudinari.

Quanto poi alla “mediazione”, resta aperta la questione se il reato sia configurabile anche nel caso in cui la stessa sia effettivamente esercitata nei confronti del soggetto pubblico[7], o debba, invece, restare unicamente a livello di prospettazione, senza che poi l’intermediario agisca effettivamente.

Tale seconda soluzione parrebbe lasciare scoperti tuttavia i casi in cui appunto l’esercizio effettivo della mediazione non giunga ad integrare la corruzione, neppure nella forma della istigazione.

2. La clausola di riserva: i rapporti con la corruzione

La disposizione esordisce con la clausola di riserva “fuori dai casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter”.

Tale clausola è evidentemente volta ad evitare duplicazioni sanzionatorie nell’ipotesi in cui la mediazione sia andata a buon fine, con conseguente corresponsabilità di tutti i partecipi (il privato, il “mediatore” e il pubblico ufficiale corrotto), ai sensi dell’art. 110 c.p., nel delitto di corruzione.

Va rilevato che dalla clausola di riserva scompare il riferimento – contenuto in una precedente versione del testo – al nuovo delitto di “corruzione per l’esercizio della funzione” di cui all’art. 318 c.p.[8]

In altri termini, il delitto di traffico di influenze illecite viene configurato come preparatorio rispetto al delitto di corruzione c.d. propria (per un atto contrario ai doveri d’ufficio) (art. 319 c.p.) o di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.).

La differenza della fattispecie in esame, nella sua prima parte (mediazione illecita), rispetto al concorso nel reato di corruzione sembra potersi individuare nella circostanza che il denaro o gli altri vantaggi patrimoniali non rappresentano il prezzo da corrispondere al pubblico ufficiale[9], ma vengono rappresentati e destinati a retribuire unicamente l’opera di una mediazione.

Con riferimento invece alla seconda parte della disposizione (remunerazione del pubblico funzionario), ove il denaro o altro vantaggio (o la loro promessa) sono, nella rappresentazione dell’intermediario, il prezzo da corrispondere non per l’opera di mediazione, ma per remunerare il pubblico ufficiale in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, parrebbe necessario che tali utilità non vengano corrisposte o la loro promessa non venga accettata: diversamente opinando, verrebbe integrato il concorso nel delitto di corruzione propria.

Insomma la clausola di riserva esclude la stessa tipicità del fatto qualora la condotta di mediazione (e quella di colui che la “finanzia”) sia specificamente inquadrabile nel concorso in corruzione propria o in atti giudiziari: quando cioè l’azione del mediatore (e del suo finanziatore) abbia effettivamente esplicato una efficienza causale nella corruzione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio[10].

Si potrebbe pure immaginare una diversa ricostruzione dell’impianto normativo, tesa a sottrarre il mediatore alla responsabilità per la corruzione consumata in forza della tipizzazione della sua condotta ad opera dell’art 346-bis.

Tuttavia tale minore responsabilità dovrebbe valere anche al suo finanziatore (concorrente necessario nel reato di traffico di influenze), con l’irragionevole conseguenza per cui qualora il corruttore si serva di un intermediario verrebbe punito in maniera meno grave rispetto al caso in cui si rapporti direttamente al corrotto.

3. Rapporti con il delitto di millantato credito

Il delitto di millantato credito è previsto e punito dall’art 346 c.p., nei seguenti termini:

Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309 a euro 2.065.

La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 516 a euro 3.098, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare.

Nel delitto di millantato credito, l’interesse protetto è il prestigio della pubblica amministrazione, il quale viene offeso ogniqualvolta si dia a credere che il pubblico ufficiale o pubblico impiegato addetto a pubblico servizio, anziché uniformarsi a criteri di probità e di correttezza, si lasciano corrompere nell’adempimento dei doveri inerenti alla loro qualità[11].

3.1 La fattispecie di cui al comma 1

Gli estremi della condotta del reato devono intendersi realizzati nel solo fatto di chi, vantando in modo esplicito o dando ad intendere di avere possibilità di influire sul pubblico funzionario, si faccia dare o promettere un compenso per la propria mediazione presso il medesimo funzionario[12].

Per la configurazione del reato di millantato credito è indispensabile che il comportamento del soggetto attivo si concreti in una “vanteria”, cioè in un’ostentazione della possibilità di influire sul pubblico ufficiale che venga fatto apparire come persona “avvicinabile”, cioè “sensibile” a favorire interessi privati in danno degli interessi pubblici di imparzialità, di economicità e di buon andamento degli uffici, cui deve ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione.

Tale condotta deve indurre a far intendere alla vittima che il millantatore abbia la capacità di esercitare un’influenza sui pubblici poteri tale da rendere i detti principi vani e cedevoli al tornaconto personale, con la conseguenza che alla persona del danneggiato deve apparire evidente la lesione del prestigio della pubblica amministrazione che deve emettere l’atto o tenere un dato comportamento (vera parte offesa, che la norma intende proteggere), senza che importi che siano individuati i singoli funzionari e i reali rapporti che il millantatore intrattiene con essi[13].

L’effettivo svolgimento di un’attività di mediazione può avere l’effetto di escludere l’antigiuridicità della condotta solo quando si tratti di mediazione professionale lecita, e sempre con esclusione di aderenze personali extraprofessionali[14].

Infine, non integra il delitto di millantato credito la millanteria consistente in “crediti” presso personaggi politici che non rivestano la qualità di pubblici ufficiali[15].

3.2 La fattispecie di cui al comma 2

In tema di millantato credito, integra l’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 346 c.p. la condotta di colui che riceve o accetta la promessa di denaro o altra utilità con il pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato ovvero di doverlo remunerare; detta ipotesi, rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 346, comma 1 – in cui il raggiro consiste nel presentare il pubblico ufficiale, destinatario di pressioni amicali, come arrendevole – non configura una circostanza aggravante ma una figura autonoma di reato, in quanto il pubblico ufficiale è prospettato dall’agente come persona corrotta o corruttibile[16].

Se l’agente si fa consegnare la somma con l’intenzione effettiva di corrompere il pubblico funzionario, quando la corruzione non abbia luogo o inizio, la condotta non è punibile.

Parimenti, in caso di contestazione del reato a più persone in concorso tra loro, quando si accerta che uno di essi riceva una somma di denaro nella reale convinzione che la stessa sia destinata effettivamente a corrompere un pubblico funzionario ignorando l’intenzione millantatoria del correo, non risponderà di concorso in quest’ultimo reato.

Per il concorrente ignaro non si versa in ipotesi di dolo alternativo perché questi si è prospettato il solo evento della corruzione e ad esso aveva inteso apportare il proprio contributo causale[17].

Nella fattispecie in esame, l’utilità deve essere carpita con il “pretesto” di dover versare una somma o assicurare un vantaggio al pubblico ufficiale o impiegato per ottenere che egli agisca nel senso desiderato ovvero per compensarlo dell’opera svolta.

Se, invece, l’utilità fosse realmente destinata al funzionario infedele, sussisterebbe il diverso reato di corruzione, sempre che di questo ricorrano gli altri estremi.

Ne consegue che, mancando il “pretesto” (e cioè la millanteria, tale dovendosi intendere il fatto di rappresentare alla vittima, contrariamente al vero, che sussiste già la disponibilità del funzionario corrotto), la condotta di colui che induce taluno a dargli danaro (o a prometterne) nel sincero proposito che il danaro serva realmente a corrompere il funzionario, non è punibile, arrestandosi l’azione al limite del tentativo di corruzione, attribuibile, peraltro, anche a colui che il danaro ha versato o promesso[18].

Per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato, occorre osservare che il dolo, come fatto palese dall’impiego del verbo millantare da parte del legislatore, deve corrispondere alla consapevolezza dell’inidoneità della mediazione a raggiungere il risultato promesso.

Si tratta in altri termini di una deliberata vendita di fumo, anche avuto riguardo al comma 2 dell’articolo 346 c.p., ove si definisce “pretesto” la necessità prospettata di dover comprare il favore del pubblico ufficiale.

Simile elemento soggettivo resta quindi escluso quando l’agente, sia pure indotto in errore, creda nell’efficacia dell’azione intrapresa al fine di conseguire il vantaggio perseguito, così semmai opinando di versare in altre ipotesi di reato, quali, a puro titolo di esempio, la corruzione o l’abuso d’ufficio[19].

3.3 Rapporti tra millantato credito e truffa

Il reato di millantato credito si differenzia da quello di truffa non solo per il carattere preminente dell’offesa dell’interesse all’integrità dell’affidamento e del prestigio che deve fruire la P.A. in ogni settore della sua attività (al quale viene arrecato nocumento dalla prospettazione di potervi interferire comprando il favore dei soggetti preposti ai suoi uffici), ma perché la condotta posta in essere non consiste in artifici o raggiri, ma nella vanteria di potersi ingerire nell’attività pubblica al fine di inquinarne il regolare svolgimento, mediante il mercimonio dell’esercizio dei suoi poteri[20].

In giurisprudenza si è affermato che i due reati possono concorrere, quando l’illecito profitto sia conseguito attraverso le millanterie proprie del secondo reato e la predisposizione di falsi documenti o la assunzione da parte dei soggetti agenti di false qualifiche pubbliche, che costituiscono artifici o raggiri propri della truffa[21].

3.4 La distinzione tra il trading in influence e il millantato credito

Richiedendo che il soggetto sfrutti relazioni esistenti, l’art 346-bis c.p. intende tracciare un confine netto con la fattispecie di millantato credito, nella quale le relazioni sono soltanto falsamente rappresentate da chi riceve la promessa o la dazione.

Le due norme dovrebbero pertanto porsi in rapporto di alternatività.

Insomma: nell’ipotesi di millantato credito il disvalore del fatto sarebbe essenzialmente quello di un raggiro a danno di chi effettua la dazione o la promessa, che, per questo motivo, non verrebbe punito[22].

La specificazione del carattere illecito della mediazione è importante in quanto la precedente versione del testo (che incriminava il fatto chi si faccia dare o promettere denaro o altra utilità, tra l’altro, come “prezzo della propria mediazione”, senza alcuna menzione del carattere illecito di tale mediazione) poteva colpire anche il professionista incaricato dal privato di contattare la pubblica amministrazione per ottenere per suo conto, e legittimamente, licenze, autorizzazioni ecc., e che per l’esecuzione di tale incarico si faccia, altrettanto legittimamente, retribuire.

A differenza poi dell’art. 346 c.p., in cui la millanteria viene riferita al rapporto con un pubblico ufficiale ovvero un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, l’art. 346-bis riferisce la mediazione illecita ad un rapporto intercorrente con il pubblico ufficiale o con l’incaricato di un pubblico servizio, non importa se impiegato o meno.

Se questi sono i rapporti tra le due fattispecie, appare senza dubbio irragionevole il diverso trattamento sanzionatorio.

Il traffico di influenze illecite è destinato ad abbracciare fatti che creano un reale pericolo di distorsione della pubblica funzione, e tuttavia viene punito assai meno severamente rispetto al millantato credito, in cui un tale pericolo non sussisterebbe.

Secondo attenta dottrina simili incongruenze sanzionatorie potrebbero ingenerare dubbi di illegittimità costituzionale del quadro sanzionatorio del millantato credito: bene farebbe il legislatore a rinunziare alla distinzione tra le due figure[23], introducendo un unico delitto di traffico di influenze illecite, punito meno gravemente delle fattispecie di corruzione.

4. La responsabilità delle persone giuridiche

Il nuovo reato in commento non viene inserito tra i reati-presupposto della responsabilità degli enti collettivi ai sensi del d.lg. 231/2001.

La corporate liability per il reato di trading in influence è, invece, richiesta sia dalla Convenzione di Merida (art 26, in relazione al reato di cui all’art 18) che da quella del Consiglio d’Europa (art 18, in relazione al reato di cui all’art 12).

Durante i lavori parlamentari l’estensione del d.lg. 231 al reato di traffico di influenze era previsto da numerosi disegni di legge[24], i quali inserivano la fattispecie nell’art 25, del quale, anzi, si modificava la stessa rubrica (“Corruzione e traffico di influenze illecite”).

Nulla di tutto ciò nel testo definitivo della Legge.

Dal momento che si sono voluti punire atti di persone fisiche, preparatori rispetto alla corruzione vera e propria, lo stesso bisognava fare in relazione alle persone giuridiche.

Il mediatore illecito può ben essere un soggetto privato e, pertanto, agire nell’interesse della società in cui è incardinato; così pure il suo finanziatore.

Ad oggi, pertanto, a meno che la condotta di mediazione non sfoci nella corruzione, almeno tentata, gli enti nel cui interesse è stata realizzata la condotta di traffico di influenze non rispondono ai sensi del d.lg. 231.

Queste riflessioni valgono in punto di diritto, ma non sono sufficienti ad evitare, ad avviso di chi scrive, una corretta gestione del relativo rischio nell’ambito di un Modello organizzativo.

In breve: si tratta di condotte contigue a quelle corruttive e, di conseguenza, vanno “mappate” e gestite con apposite procedure, monitorate dall’Organismo di vigilanza e collegate al sistema sanzionatorio aziendale.

Il tema è di particolare interesse per i rapporti di consulenza aventi ad oggetto “attività di relazioni istituzionali”, laddove il consulente si pone – giuridicamente e di fatto – come intermediario tra l’azienda e il pubblico decisore.

[1] Cfr. art.18 della Convenzione Onu di Merida contro la corruzione del 31 ottobre 2003, ratificata dalla legge 3 agosto 2009, n. 116 (“ciascuno Stato parte esamina l’adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando tali atti sono stati commessi intenzionalmente : a) al fatto di promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona; b) al fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte”); nonché l’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 27 gennaio 1999, ratificata dalla legge 28 giugno 2012, n. 110 (“ciascuna Parte adotta i provvedimenti legislativi e di altro tipo che si rivelano necessari per configurare in quanto reato in conformità al proprio diritto interno quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, il fatto di proporre, offrire o dare, direttamente o indirettamente qualsiasi indebito vantaggio a titolo di rimunerazione a chiunque dichiari o confermi di essere in grado di esercitare un’influenza sulle decisioni delle persone indicate agli articoli 2, 4 a 6 e 9 ad 11, a prescindere che l’indebito vantaggio sia per se stesso o per altra persona, come pure il fatto di sollecitare, di ricevere, o di accettarne l’offerta o la promessa di rimunerazione per tale influenza, a prescindere che quest’ultima sia o meno esercitata o che produca o meno il risultato auspicato”).[2] La Cassazione ha negato che il c.d. “trading in influence” potesse rientrare nelle norme incriminatrici della corruzione, in quanto quest’ultima presuppone, “un nesso tra il pubblico ufficiale e l’atto d’ufficio oggetto del mercimonio” e non potendo essere dilatata “fino al punto da comprendervi, con una operazione analogica non consentita in materia penale…anche la mera venalità della carica” (Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33345; Sez. VI, 6 novembre 2006, n. 5781; Sez. VI, 12 maggio 1983, n. 8043).

[3] Dolcini-Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, Diritto penale contemporaneo, 1/2012, 237.

[4] Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Relazione n. III/11/2012 del 15 novembre 2012.

[5] Ronco, Note per l’audizione avanti alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato della Repubblica, 16 settembre 2012.

[6] Ronco, op. cit.

[7] Senza che allo stesso venga promesso o corrisposto alcunché, posto che, diversamente, si ricadrebbe nell’ipotesi della istigazione alla corruzione, in caso di mancata accettazione, e di corruzione in caso, invece, di accettazione.

[8] La promessa o la dazione dovranno dunque essere effettuate in relazione al compimento di uno (specifico) atto contrario ai doveri d’ufficio, o all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio; non, quindi, in relazione ad un generico asservimento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di p.s. agli interessi del privato. La mancata menzione dell’art. 318 c.p., potrebbe rendere possibile il concorso tra la nuova fattispecie e la corruzione per l’esercizio delle funzioni.

[9] Per far sì che lo stesso pubblico ufficiale ometta o ritardi o abbia omesso o ritardato un atto dell’ufficio ovvero compia od abbia compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio.

[10] Ufficio del massimario, cit.

[11] Cass., sez. V, 83/160515.

[12] E ciò a prescindere dalle particolari modalità della condotta, in forza delle quali egli riesca ad ottenere tale compenso, sia prospettando eventuali ostacoli od incertezze (che tuttavia non siano tali da far recedere il cosiddetto “compratore di fumo”) sia promettendo il sicuro esito del suo intervento (Cass., sez. VI 90/185421).

[13] Cass., sez. VI 00/215651. Il delitto di cui all’art. 346 c.p. è configurabile anche quando il credito vantato presso il pubblico ufficiale o impiegato sia effettivamente sussistente, ma venga artificiosamente magnificato e amplificato dall’agente in modo da far credere al soggetto passivo di essere in grado di influire sulle determinazioni di un pubblico funzionario e correlativamente di poterlo favorire nel conseguimento di preferenze e di vantaggi illeciti in cambio di un prezzo per la propria mediazione (Cass., sez. VI 89/181968).7

[14] Cass., sez. VI 97/208141.

[15] Cass., sez. VI, 04/230644: nella specie, la Corte ha diversamente qualificato come truffa la condotta dell’imputato che aveva ricevuto da privati somme di denaro quale prezzo della propria mediazione per l’ottenimento di posti di lavoro, vantando influenza presso noti esponenti politici.

[16] Cass., sez. VI, 06/234719.

[17] Il dolo alternativo infatti è configurabile non quando vi sia indifferenza del soggetto agente di fronte al possibile verificarsi di due o più eventi, ma quando quelli alternativamente previsti siano entrambi voluti e la indifferenza riguardi soltanto la verificazione di uno di essi sicché già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato l’agente deve prevederli entrambi (Cass., sez. VI, 94/200940).

[18] Nella specie la Corte ha ritenuto insussistente sia il millantato credito sia il reato di corruzione, nell’ipotesi in cui il concorrente nel reato contestato come millantato credito ex art. 346 comma 2 c.p., senza essere a conoscenza dell’altrui attività millantatoria, riceva da terzi somme o promessa di danaro nel convincimento certo che esse debbano servire agli altri concorrenti, che così gli hanno fatto credere, al fine di compensare funzionari corrotti per ottenerne i favori (Cass., sez. VI, 94/200906).

[19] Cass., sez. VI, 22 gennaio 1996.

[20] Cass., sez. VI, 97/209241: fattispecie relativa alla condotta di chi si fa dare una somma di denaro dal partecipante ad un esame con il pretesto di consegnarla al funzionario esaminatore.

[21] Cass., sez. VI, 94/200939. V. pure Cass., sez. VI, 03/224844.

[22] Il millantato credito costituirebbe insomma un’ipotesi di truffa in atti illeciti, collocata tra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione in ragione del suo carattere offensivo anche del prestigio della pubblica amministrazione, derivante dall’idoneità del fatto a convogliare un’immagine di venalità dei pubblici funzionari.

[23] Come peraltro proposto a più riprese durante i lavori parlamentari della Legge Anticorruzione.

[24] AC 3850, AC 4501, AC 4516; AS 2164, AS 2168, AS 2174, AS 2340. L’ente, secondo questi d.d.l., poteva essere punito con sanzione pecuniaria fino ad 800 quote e con le sanzioni interdittive di cui all’art 9 comma 2 del d.lg. 231.