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Moda e proprietà intellettuale, tra estetica e comunicazione

Relazione tenuta al Convegno "Fashion & the Ip Law", Università di Parma, 19 ottobre 2012
1.- “Moda”. Nel preparare quest’intervento mi sono chiesta che cosa sia esattamente, al di là della conoscenza intuiva che noi tutti ne abbiamo, questo fenomeno che gioca un ruolo di rilievo non secondario nelle vite di molte di noi e nell’economia del nostro Paese.La risposta è ovviamente complessa, perché la parola moda indica una realtà multiforme, ove opera un grande numero di soggetti, con attività ed obiettivi fra loro diversi: dalle imprese del lusso alle catene low cost, passando per i terzisti, solo per fare alcuni esempi; e senza naturalmente dimenticare i media ed Internet, che, della moda, sono oggi fra i principali attori, e non solo come veicoli di pubblicità tradizionale e diretta, ma perché, ad esempio, Internet è ormai un canale commerciale rilevantissimo, oltre ad essere luogo di informazione e scambio di idee, o ancora perché la moda si cala nelle vite – pubbliche, fotografate e riprese – dei personaggi famosi.

Ferma questa (ovvia) considerazione, mi pare che si possa tuttavia affermare che l’elemento più caratterizzante del fenomeno “moda” abbia a che fare con la costruzione di un’identità: un’immagine di marca che trascende le singole creazioni e che in qualche modo le qualifica, collocandole all’interno di un orizzonte ideale più vasto, che influenza il pubblico, il quale percepisce il singolo capo non solo (e a volte non tanto) di per sé, ma appunto in quanto espressione di una realtà che ha un suo “significato”.

Ogni marca è anzitutto un’idea (che parla ora di lusso raffinatissimo ed elitario ora di stile graffiante e provocatorio, o, ancora, che richiama signore di buona famiglia borghese che sanno vestirsi in modo adeguato ad una cerimonia invece che adolescenti romantiche e sognatrici: e si potrebbe continuare all’infinito), e, verrebbe da dire, una sorta di “carattere”.

E questa identità si fonda e si nutre di numerosi elementi, che vanno dall’aspetto dei prodotti, che esprimono una certa idea di bello – ma sarebbe più esatto dire un gusto e persino un’intenzione o un proclama, come capita ad esempio nel caso di chi proponga abbigliamento finto sciatto per esprimere un contrasto con certi valori –, alla pubblicità, con la quale la marca definisce se stessa e la propria adesione a certi riferimenti, anche con la scelta dei testimonials, passando per la scelta dei canali di distribuzione e vendita del prodotto fino al layout dei negozi ed al prezzo: e può ovviamente cambiare nel tempo, ove si modifichino gli elementi che delineano il messaggio di cui il marchio diventa portatore.

2.- La percezione del capo come appartenente alla marca (tipicamente grazie alla presenza di un marchio apposto al prodotto: ma talvolta, come diremo meglio di seguito, anche in virtù dell’aspetto o di elemento dell’aspetto di quest’ultimo, ove gli stessi siano in grado di richiamare l’idea identitaria) lo definisce sotto poi molto profili, determinando in misura rilevante ciò che lo stesso è come bene di mercato e nella dinamica degli scambi.

Ciò risulta evidente se si pensa al fatto che l’“occhio” con il quale il consumatore guarda, e valuta, un abito sul quale, ad esempio, sia apposto il marchio “Giorgio Armani” non è lo stesso con il quale guarderebbe, e valuterebbe, il medesimo capo se questo fosse anonimo: e tale diverso approccio appare del tutto giustificato, dal momento il capo anonimo non è lo stesso prodotto di quello firmato, nel senso che la presenza del marchio rappresenta una qualità del capo, ovviamente diversa da quelle intrinseche (il taglio, il tessuto) ma che, al pari di queste (e spesso in misura più determinante), pesa nelle decisioni di acquisto e, soprattutto, in quella di corrispondere un certo prezzo, e quindi, in ultima analisi, sul suo valore.

Ciò ovviamente perchè il prodotto di marca riflette su chi lo indossa una certa immagine (evidentemente ritenuta positiva), di cui la marca stessa è portatrice; ma anche perché è fatto evidente che la presenza di un marchio noto, in quanto “rassicura” il consumatore sul fatto che il capo è stato approvato da chi goda sul mercato di una reputazione positiva (non necessariamente di tutti i consumatori, ma anche solo del gruppo cui l’acquirente ritiene di appartenere), influenzi in senso favorevole la percezione del prodotto in quanto tale, e cioè sul piano estetico: come capita ad esempio nel settore del design o dell’arte, in cui la provenienza dell’oggetto da un celebre designer o artista porta più facilmente a ritenere che vi sia nella creazione “qualcosa di bello”.

Appare dunque evidente che, nel settore della moda, il prodotto venduto è una realtà composita, nel quale convergono elementi sostanziali ed ideali, fra i quali alle volte è difficile individuare un confine (si pensi anche esempio all’aspetto trendy di un capo, caratteristica questa in senso lato estetica del prodotto, e sostanziale in quanto rientrante nella percezione delle qualità del bene in sé, ove nella stessa non sia implicito anche un riferimento alla marca, e che è tuttavia tendenzialmente figlia della comunicazione, che decreta cosa sia di moda e cosa non lo sia).

3.- Come già si è accennato, il richiamo a tale patrimonio ideale che la marca rappresenta è spesso affidato al marchio apposto al capo, che unifica creazioni che, pur non essendo fra di loro totalmente disomogenee ed incoerenti (come si è detto, l’immagine si costruisce anche sulla “scelta di campo” in relazione al gusto che le creazioni esprimono), non sarebbero riconducibili ad una medesima identità per il loro solo aspetto.

Vi sono tuttavia casi di prodotti simbolo di una certa firma (penso ad esempio alla borsa “Kelly” di Hermes) la cui forma è sufficiente ad distinguere il capo in relazione sua appartenenza alla marca, senza che vi sia bisogno della presenza di un marchio “estrinseco” al prodotto, con la conseguenza che, in queste ipotesi, anche la stessa forma è il marchio del prodotto.

Così come vi è l’ipotesi in cui l’identità di marca del prodotto è palesata dal fatto che lo stesso risponda ad uno stile talmente coerente e riconoscibile da non lasciare dubbi, nel consumatore medio interessato al prodotto, sulle questioni di appartenenza.

In questo caso, appare del tutto evidente come lo stile sia un segno distintivo, in quanto appunto dotato della idoneità ad essere percepito non solo nella sua componente primaria, e cioè quale caratteristica del prodotto in quanto tale (il suo aspetto), ma anche nella sua componente significante, che trasmette, esattamente come il marchio denominativo, l’identità di marca.

E l’esistenza di questo valore dello stile pone il problema degli strumenti giuridici idonei a conseguire una tutela dello stesso.

4.- Per rispondere al quesito appena posto è necessario far qualche ulteriore distinguo, dal momento che le situazioni che possono porsi sono fra di loro diverse e in qualche misura “gradate”, seppur accomunate dal fatto richiamo identitario.

Il caso di stile distintivo più facile da immaginare è quello della riproposizione su capi diversi di uno stesso motivo, come il “Burberry check” o la greca di Versace (mutuo al riguardo alcuni degli esempi di questo fenomeno fatti in dottrina da GALLI, Comunicazione di impresa e segni distintivi, in IDI, 2011, 125).

Il fenomeno di acquisto di cosiddetto secondary meaning da parte di questi elementi si produce normalmente nel tempo, tendenzialmente con la costante presenza degli stessi sui capi di una certa marca ed a seguito di una comunicazione pubblicitaria che tenda a valorizzarli proprio come segni distintivi, e sempre che ovviamente, prima che il processo sopra delineato si sia in qualche misura consolidato (determinando una percezione dell’elemento non solo in termini di aspetto del prodotto ma come “altro da sé”, e cioè come portatore dell’identità di marca), intervenga sul mercato un uso sul mercato dell’elemento stesso da parte di altri soggetti, idoneo a pregiudicare la nascita del segno distintivo; fermo restando che, quand’anche questo processo di acquisto di secondary meaning si sia compiuto, la percezione può nuovamente cambiare, ove l’elemento perda nel tempo la sua carica identitaria, a causa di un uso generalizzato (che non può naturalmente confondersi con la mera presenza di contraffattori sul mercato che riproducono un certo motivo con lo scopo, ed il risultato, di determinare un nesso con il messaggio di cui lo stesso è portatore) che tornano a farlo percepire come un mero elemento dell’aspetto del prodotto che non indica alcuna esclusiva.

Il fattore tempo può tuttavia non essere sempre necessario affinché l’aspetto del prodotto divenga distintivo. Un certo motivo può acquistare secondary meaning anche in una sola stagione, se ad esempio l’intera collezione di una marca gioca sul medesimo elemento e sullo stesso vengono puntati i riflettori, tramite la pubblicità. E lo stesso può valere, ovviamente, per la forma di un singolo prodotto di punta.

Di recente la giurisprudenza ha affermato, con un’osservazione che mi pare condivisibile in linea tendenziale, ove la stessa lasci comunque lo spazio per una valutazione “caso per caso”, che «nel campo della moda ogni opzione stilistica originale di creatori rinomati ed ampiamente pubblicizzati (…) finisce necessariamente per avere carattere individualizzante della collezione che nella percezione del pubblico distingue nettamente (tale) produzione da quella della concorrenza», precisando altresì (anche in questo caso con un’affermazioni condivisibile in linea di tendenza) che «tale effetto comunicazionale di provenienza da un determinato ambito territoriale ha proprio nel settore della moda una normale breve durata, che coincide con il ricordo del mercato della collezione, che può sopravvivere alla cessazione della commercializzazione due o tre anni» (così, Trib. Milano, 19 luglio 2011, inedita).

5.- Al caso sopra prospettato, e cioè quello della riproposizione seriale di un medesimo motivo, che avendo, o comunque avendo acquisito, capacità distintiva è candidato anzitutto alla valida registrazione come marchio di forma (salvo il possibile impedimento costituito dall’eventuale “valore sostanziale” di cui diremo meglio più avanti), mi sembra sostanzialmente assimilabile quello in cui a riproporsi su una pluralità di capi e/o nel corso del tempo non sia esattamente lo stesso motivo, ma un elemento che si declina anche in numerose varianti, che tuttavia mantengono una stretta unità e coerenza. Sempre per rubare esempi fatti in dottrina, si possono menzionare al riguardo le geometrie di forme e colori di Pucci o la fitta trama di colori dei tessuti di Missoni.

Con riferimento a queste ipotesi di plurime “variazioni sul tema”, alla registrazione come marchio di forma si potrebbe opporre la domanda sul “cosa esattamente registrare”, in considerazione del fatto che le forme sono più d’una.

La questione è tuttavia entro certi limiti un falso problema, dal momento che i marchi non sono tutelati sono contro il caso di adozione di un segno identico ma anche contro segni simili, fino a che il grado di somiglianza sia tale da lasciar permanere un richiamo al segno imitato nella sua componente significante.

E apro qui una parentesi su un tema tangenziale che è quello della registrazione dei marchi di colore, relativamente tesi secondo le quali sarebbe ammissibile esclusivamente la registrazione di sfumature di colori, specificamente identificabili addirittura attraverso sistemi di codificazione come ad esempio i pantoni, in quanto il marchio registrato dovrebbe essere esattamente individuabile per ragioni legate alla certezza dei terzi (oltre che per ragioni antimonopolistiche, fondate su preoccupazioni che mi paiono più vere sulla carta che non nella realtà, come ho ampiamente spiegato nella mia tesi di dottorato “La percezione del pubblico come fondamento della tutela nel diritto dei marchi”, consultabile su Internet): problema anche questo a mio avviso falso, o comunque malposto, se si considera che, anche ove si assumano posizioni molto restrittive sul possibile oggetto di registrazione, rimane il fatto che, come si diceva, le norme in materia di ambito di protezione dei marchi consentono di attaccare anche segni simili, finché portatori dello stesso messaggio del marchio registrato: cosicché quand’anche mi fosse consentito di registrare una sola sfumatura, ad esempio, di rosso, io potrò vittoriosamente ottenere provvedimenti di inibitoria anche contro chi utilizzi una sfumatura diversa, che tuttavia non annulli il “nesso”.

Si diceva dunque che il fatto che un certo elemento stilistico si presenti declinato in modi diversi, riconducibili tuttavia ad unità, non è una buona ragione per non procedere alla registrazione come marchio di forma né cosa che imponga la registrazione di tutte le varianti (cosa probabilmente impossibile, oltre che costosa).

Si deve peraltro aggiungere che, in assenza di registrazione, ed anche per superare certe rigidità che possono essere incontrate nella procedura di registrazione stessa con riferimento all’identificazione del segno (ad esempio in relazione alla necessità di dimostrare all’UAMI l’acquisto di capacità distintiva, ove le prove riguardino come del tutto ovvio le diverse varianti del motivo), nel nostro ordinamento è efficacemente invocabile a tutela dei marchi di fatto, i quali è ormai sostanzialmente pacifico che godano di una protezione (in particolare sul versante dell’ampiezza della tutela) del tutto corrispondente a quello dei marchi registrati.

E naturalmente sono invocabili anche le norme in materia di concorrenza sleale, la cui applicabilità, da un lato, si fonda sui medesimi presupposti richiesti per la tutela del marchio di fatto, e segnatamente sulla sussistenza della capacità distintiva, e che, dall’altro, copre anch’essa non solo le imitazioni confusorie ma anche quelle non confusorie (e cioè ove si verifichi un agganciamento parassitario alle valenze positive del segno imitato), con il solo limite della sussistenza del rapporto di concorrenza, che non è invece richiesto per la tutela dei segni di fatto.

6.- Accanto alle situazioni sopra delineati, vi sono casi in cui lo stile non si esprime attraverso singoli e specifici motivi (seppur declinati con variazioni percepite tuttavia come unitarie), rimanendo tuttavia riconoscibile per una sorta di fil rouge, un’ispirazione comune, sotteso ai diversi capi, che viene avvertito dal consumatore come un sicuro rimando alla marca.

Sempre in dottrina sono state ricordate come esempio le eclettiche fantasie dei tessuti di Cavalli o, ad esempio, uno stile come quello di Desigual.

In questo caso, riferirsi alla tutela dei segni distintivi pare di primo acchito più difficile, perché ciò che si ha l’impressione di non riuscire ad “afferrare” e definire è il segno stesso, che in un certo senso si presenta “diluito” in una pluralità di elementi magari pure sparsi in una molteplicità di capi, e che possono essere “andati e tornati” nel tempo, essendo tuttavia tali nella percezione del consumatore da delineare un’immagine dei prodotti di quella marca, uno stile appunto, che questo è in grado di riconoscere.

Se tuttavia sussiste il problema di cui si è detto, è altrettanto difficile negare che quando il prodotto di un terzo richiami la marca, riproponendo nell’aspetto dei propri capi quell’ispirazione che ne caratterizza le creazioni sul piano della riconoscibilità per il pubblico, siamo di fronte ad un fenomeno che si colloca sul piano dell’aggressione al valore dello stile come segno distintivo, che mira a trasferire al prodotto del un terzo l’allure dei capi originali in quanto appunto “di marca”.

Sono abbastanza convinta che anche in queste situazioni, l’area degli istituti di tutela dei segni distintivi non debba essere abbandonata e che vi siano degli agganci normativi solidi per sostenere questa tesi.

Viene in considerazione, ad esempio, la previsione di cui all’art. 2 del Codice della Proprietà Industriale, che annovera tra i diritti della proprietà industriale anche “i segni distintivi diversi dal marchio registrato”: definizione aperta, che consente di immaginare la tutela di segni distintivi atipici, che possano essere protetti con l’apparato sanzionatorio del Codice.

Ancora, vi sono le norme in materia di concorrenza sleale, venendo in considerazione non solo l’art. 2958 n. 1 c.c., che contiene un divieto generale di determinare confusione sul mercato (cosa che può avvenire anche con la ripresa dello stile, nell’ipotesi che stiamo qui considerando), ma anche l’art. 2598 n. 2 c.c., che sanziona l’appropriazione di pregi: e, a proposito di quest’ultima previsione, è necessario chiarire che, sebbene la dottrina e la giurisprudenza abbiano costantemente sottolineato come tale fattispecie non riguardi il caso della riproduzione di un pregio peculiare e specifico di un concorrente, tale osservazione non sembra potersi applicare all’ipotesi qui delineata per escludere l’applicazione delle norma, nell’ipotesi in cui lo stile costituisca un pregio non in sé ma in quanto stile di una certa marca, cosicché la riproduzione di tale pregio non è per definizione per definizione possibile, ricorrendo dunque il caso (classico) della auto-attribuzione di un pregio altrui.

E ancora, la giurisprudenza sta correttamente valorizzando la previsione di cui all’art. 2598 n. 3 come norma deputata a reprimere ipotesi di sfruttamento parassitario del lavoro e degli investimenti altrui, qual è quella dell’usurpazione dello stile.

7.- Ogni volta che si parla di tutela dell’aspetto dei prodotti con gli istituti di protezione dei marchi e più in generale dei segni distintivi, aleggia sul discorso il fantasma dell’art. 9 della Codice della Proprietà Industriale, e della norma corrispondente del Regolamento sul Marchio Comunitario, che pone tra gli impedimenti alla valida registrazione del marchio di forma il fatto che quest’ultima dia “valore sostanziale” al prodotto: formula questa interpretata nel senso dell’incidenza della forma stessa sulle decisioni di acquisto del bene, che viene appunto acquistato proprio perché presenta un certo aspetto o che in virtù di quest’ultimo viene preferito ad un altro dello stesso genere.

Su questo tema mi sono dilungata nella relazione tenuta qui a Parma due anni orsono, sostenendo che, con riferimento alla forma dotata di capacità distintiva in quanto dotata di secondary meaning, al fine di stabilire se sussista l’impedimento del “valore sostanziale” è necessario chiedersi se il vantaggio competitivo legato all’adozione della medesima dipenda dalla forma in quanto tale (sotto il profilo del suo apprezzamento estetico) ovvero (essenzialmente o prevalentemente) dalle sue componenti “ideali”, e cioè dal fatto che la forma sia riconoscibile come quella di un prodotto di marca.

E avevo anche sottolineato come sia ragionevole immaginare che, specie nel campo dei prodotti di moda, ove l’estetica viene consumata rapidamente (in quanto ciò che è di moda e considerato bello in una stagione non lo è più nella stagione successiva), il valore sostanziale abbia carattere “recessivo”, nel senso che ad un apprezzamento iniziale della forma da parte del mercato sul piano estetico possa gradatamente sostituirsi un potere di vendita legato alle componenti ideali.

Qui aggiungo solo che non condivido l’opinione, pur autorevolmente rappresentata in giurisprudenza, secondo la quale gli impedimenti alla registrazione delle forme come marchio, ove sussistenti, non precluderebbero anche la tutela della forma con la disciplina della concorrenza sleale.

Essa si fonda infatti su un presupposto non del tutto corretto, e cioè quello secondo cui, a differenza della registrazione di marchio, la tutela concorrenziale fornirebbe una protezione “precaria” che regge solo finché permangano i requisiti di protezione della forma stessa (e cioè la capacità distintiva), non ponendosi dunque il problema del possibile carattere perpetuo della protezione.

In realtà, da un lato anche il marchio registrato conosce l’istituto della decadenza per volgarizzazione: e l’interpretazione rigorosa del presupposto dell’inattività del titolare data dalla giurisprudenza comunitaria, che richiede che questi reagisca giudizialmente contro l’uso del segno da parte di terzi al fine di non perdere il proprio diritto di esclusiva, rende evidente come anche la tutela del marchio registrato abbia un carattere “precario”, ove il marchio perda concretamente il proprio valore di segno distintivo.

Ancora, il rischio di monopolizzazione in perpetuo potrebbe porsi anche nell’ipotesi della tutela concorrenziale, potendo la capacità distintiva della forma sopravvivere a lungo (grazie all’attività del titolare) e sicuramente per un tempo maggiore rispetto alla durata delle privative che sulla medesima potrebbero essere ottenute: situazione anche quest’ultima che l’ordinamento, per ragioni di coerenza interna, mira ad evitare.

1.- “Moda”. Nel preparare quest’intervento mi sono chiesta che cosa sia esattamente, al di là della conoscenza intuiva che noi tutti ne abbiamo, questo fenomeno che gioca un ruolo di rilievo non secondario nelle vite di molte di noi e nell’economia del nostro Paese.La risposta è ovviamente complessa, perché la parola moda indica una realtà multiforme, ove opera un grande numero di soggetti, con attività ed obiettivi fra loro diversi: dalle imprese del lusso alle catene low cost, passando per i terzisti, solo per fare alcuni esempi; e senza naturalmente dimenticare i media ed Internet, che, della moda, sono oggi fra i principali attori, e non solo come veicoli di pubblicità tradizionale e diretta, ma perché, ad esempio, Internet è ormai un canale commerciale rilevantissimo, oltre ad essere luogo di informazione e scambio di idee, o ancora perché la moda si cala nelle vite – pubbliche, fotografate e riprese – dei personaggi famosi.

Ferma questa (ovvia) considerazione, mi pare che si possa tuttavia affermare che l’elemento più caratterizzante del fenomeno “moda” abbia a che fare con la costruzione di un’identità: un’immagine di marca che trascende le singole creazioni e che in qualche modo le qualifica, collocandole all’interno di un orizzonte ideale più vasto, che influenza il pubblico, il quale percepisce il singolo capo non solo (e a volte non tanto) di per sé, ma appunto in quanto espressione di una realtà che ha un suo “significato”.

Ogni marca è anzitutto un’idea (che parla ora di lusso raffinatissimo ed elitario ora di stile graffiante e provocatorio, o, ancora, che richiama signore di buona famiglia borghese che sanno vestirsi in modo adeguato ad una cerimonia invece che adolescenti romantiche e sognatrici: e si potrebbe continuare all’infinito), e, verrebbe da dire, una sorta di “carattere”.

E questa identità si fonda e si nutre di numerosi elementi, che vanno dall’aspetto dei prodotti, che esprimono una certa idea di bello – ma sarebbe più esatto dire un gusto e persino un’intenzione o un proclama, come capita ad esempio nel caso di chi proponga abbigliamento finto sciatto per esprimere un contrasto con certi valori –, alla pubblicità, con la quale la marca definisce se stessa e la propria adesione a certi riferimenti, anche con la scelta dei testimonials, passando per la scelta dei canali di distribuzione e vendita del prodotto fino al layout dei negozi ed al prezzo: e può ovviamente cambiare nel tempo, ove si modifichino gli elementi che delineano il messaggio di cui il marchio diventa portatore.

2.- La percezione del capo come appartenente alla marca (tipicamente grazie alla presenza di un marchio apposto al prodotto: ma talvolta, come diremo meglio di seguito, anche in virtù dell’aspetto o di elemento dell’aspetto di quest’ultimo, ove gli stessi siano in grado di richiamare l’idea identitaria) lo definisce sotto poi molto profili, determinando in misura rilevante ciò che lo stesso è come bene di mercato e nella dinamica degli scambi.

Ciò risulta evidente se si pensa al fatto che l’“occhio” con il quale il consumatore guarda, e valuta, un abito sul quale, ad esempio, sia apposto il marchio “Giorgio Armani” non è lo stesso con il quale guarderebbe, e valuterebbe, il medesimo capo se questo fosse anonimo: e tale diverso approccio appare del tutto giustificato, dal momento il capo anonimo non è lo stesso prodotto di quello firmato, nel senso che la presenza del marchio rappresenta una qualità del capo, ovviamente diversa da quelle intrinseche (il taglio, il tessuto) ma che, al pari di queste (e spesso in misura più determinante), pesa nelle decisioni di acquisto e, soprattutto, in quella di corrispondere un certo prezzo, e quindi, in ultima analisi, sul suo valore.

Ciò ovviamente perchè il prodotto di marca riflette su chi lo indossa una certa immagine (evidentemente ritenuta positiva), di cui la marca stessa è portatrice; ma anche perché è fatto evidente che la presenza di un marchio noto, in quanto “rassicura” il consumatore sul fatto che il capo è stato approvato da chi goda sul mercato di una reputazione positiva (non necessariamente di tutti i consumatori, ma anche solo del gruppo cui l’acquirente ritiene di appartenere), influenzi in senso favorevole la percezione del prodotto in quanto tale, e cioè sul piano estetico: come capita ad esempio nel settore del design o dell’arte, in cui la provenienza dell’oggetto da un celebre designer o artista porta più facilmente a ritenere che vi sia nella creazione “qualcosa di bello”.

Appare dunque evidente che, nel settore della moda, il prodotto venduto è una realtà composita, nel quale convergono elementi sostanziali ed ideali, fra i quali alle volte è difficile individuare un confine (si pensi anche esempio all’aspetto trendy di un capo, caratteristica questa in senso lato estetica del prodotto, e sostanziale in quanto rientrante nella percezione delle qualità del bene in sé, ove nella stessa non sia implicito anche un riferimento alla marca, e che è tuttavia tendenzialmente figlia della comunicazione, che decreta cosa sia di moda e cosa non lo sia).

3.- Come già si è accennato, il richiamo a tale patrimonio ideale che la marca rappresenta è spesso affidato al marchio apposto al capo, che unifica creazioni che, pur non essendo fra di loro totalmente disomogenee ed incoerenti (come si è detto, l’immagine si costruisce anche sulla “scelta di campo” in relazione al gusto che le creazioni esprimono), non sarebbero riconducibili ad una medesima identità per il loro solo aspetto.

Vi sono tuttavia casi di prodotti simbolo di una certa firma (penso ad esempio alla borsa “Kelly” di Hermes) la cui forma è sufficiente ad distinguere il capo in relazione sua appartenenza alla marca, senza che vi sia bisogno della presenza di un marchio “estrinseco” al prodotto, con la conseguenza che, in queste ipotesi, anche la stessa forma è il marchio del prodotto.

Così come vi è l’ipotesi in cui l’identità di marca del prodotto è palesata dal fatto che lo stesso risponda ad uno stile talmente coerente e riconoscibile da non lasciare dubbi, nel consumatore medio interessato al prodotto, sulle questioni di appartenenza.

In questo caso, appare del tutto evidente come lo stile sia un segno distintivo, in quanto appunto dotato della idoneità ad essere percepito non solo nella sua componente primaria, e cioè quale caratteristica del prodotto in quanto tale (il suo aspetto), ma anche nella sua componente significante, che trasmette, esattamente come il marchio denominativo, l’identità di marca.

E l’esistenza di questo valore dello stile pone il problema degli strumenti giuridici idonei a conseguire una tutela dello stesso.

4.- Per rispondere al quesito appena posto è necessario far qualche ulteriore distinguo, dal momento che le situazioni che possono porsi sono fra di loro diverse e in qualche misura “gradate”, seppur accomunate dal fatto richiamo identitario.

Il caso di stile distintivo più facile da immaginare è quello della riproposizione su capi diversi di uno stesso motivo, come il “Burberry check” o la greca di Versace (mutuo al riguardo alcuni degli esempi di questo fenomeno fatti in dottrina da GALLI, Comunicazione di impresa e segni distintivi, in IDI, 2011, 125).

Il fenomeno di acquisto di cosiddetto secondary meaning da parte di questi elementi si produce normalmente nel tempo, tendenzialmente con la costante presenza degli stessi sui capi di una certa marca ed a seguito di una comunicazione pubblicitaria che tenda a valorizzarli proprio come segni distintivi, e sempre che ovviamente, prima che il processo sopra delineato si sia in qualche misura consolidato (determinando una percezione dell’elemento non solo in termini di aspetto del prodotto ma come “altro da sé”, e cioè come portatore dell’identità di marca), intervenga sul mercato un uso sul mercato dell’elemento stesso da parte di altri soggetti, idoneo a pregiudicare la nascita del segno distintivo; fermo restando che, quand’anche questo processo di acquisto di secondary meaning si sia compiuto, la percezione può nuovamente cambiare, ove l’elemento perda nel tempo la sua carica identitaria, a causa di un uso generalizzato (che non può naturalmente confondersi con la mera presenza di contraffattori sul mercato che riproducono un certo motivo con lo scopo, ed il risultato, di determinare un nesso con il messaggio di cui lo stesso è portatore) che tornano a farlo percepire come un mero elemento dell’aspetto del prodotto che non indica alcuna esclusiva.

Il fattore tempo può tuttavia non essere sempre necessario affinché l’aspetto del prodotto divenga distintivo. Un certo motivo può acquistare secondary meaning anche in una sola stagione, se ad esempio l’intera collezione di una marca gioca sul medesimo elemento e sullo stesso vengono puntati i riflettori, tramite la pubblicità. E lo stesso può valere, ovviamente, per la forma di un singolo prodotto di punta.

Di recente la giurisprudenza ha affermato, con un’osservazione che mi pare condivisibile in linea tendenziale, ove la stessa lasci comunque lo spazio per una valutazione “caso per caso”, che «nel campo della moda ogni opzione stilistica originale di creatori rinomati ed ampiamente pubblicizzati (…) finisce necessariamente per avere carattere individualizzante della collezione che nella percezione del pubblico distingue nettamente (tale) produzione da quella della concorrenza», precisando altresì (anche in questo caso con un’affermazioni condivisibile in linea di tendenza) che «tale effetto comunicazionale di provenienza da un determinato ambito territoriale ha proprio nel settore della moda una normale breve durata, che coincide con il ricordo del mercato della collezione, che può sopravvivere alla cessazione della commercializzazione due o tre anni» (così, Trib. Milano, 19 luglio 2011, inedita).

5.- Al caso sopra prospettato, e cioè quello della riproposizione seriale di un medesimo motivo, che avendo, o comunque avendo acquisito, capacità distintiva è candidato anzitutto alla valida registrazione come marchio di forma (salvo il possibile impedimento costituito dall’eventuale “valore sostanziale” di cui diremo meglio più avanti), mi sembra sostanzialmente assimilabile quello in cui a riproporsi su una pluralità di capi e/o nel corso del tempo non sia esattamente lo stesso motivo, ma un elemento che si declina anche in numerose varianti, che tuttavia mantengono una stretta unità e coerenza. Sempre per rubare esempi fatti in dottrina, si possono menzionare al riguardo le geometrie di forme e colori di Pucci o la fitta trama di colori dei tessuti di Missoni.

Con riferimento a queste ipotesi di plurime “variazioni sul tema”, alla registrazione come marchio di forma si potrebbe opporre la domanda sul “cosa esattamente registrare”, in considerazione del fatto che le forme sono più d’una.

La questione è tuttavia entro certi limiti un falso problema, dal momento che i marchi non sono tutelati sono contro il caso di adozione di un segno identico ma anche contro segni simili, fino a che il grado di somiglianza sia tale da lasciar permanere un richiamo al segno imitato nella sua componente significante.

E apro qui una parentesi su un tema tangenziale che è quello della registrazione dei marchi di colore, relativamente tesi secondo le quali sarebbe ammissibile esclusivamente la registrazione di sfumature di colori, specificamente identificabili addirittura attraverso sistemi di codificazione come ad esempio i pantoni, in quanto il marchio registrato dovrebbe essere esattamente individuabile per ragioni legate alla certezza dei terzi (oltre che per ragioni antimonopolistiche, fondate su preoccupazioni che mi paiono più vere sulla carta che non nella realtà, come ho ampiamente spiegato nella mia tesi di dottorato “La percezione del pubblico come fondamento della tutela nel diritto dei marchi”, consultabile su Internet): problema anche questo a mio avviso falso, o comunque malposto, se si considera che, anche ove si assumano posizioni molto restrittive sul possibile oggetto di registrazione, rimane il fatto che, come si diceva, le norme in materia di ambito di protezione dei marchi consentono di attaccare anche segni simili, finché portatori dello stesso messaggio del marchio registrato: cosicché quand’anche mi fosse consentito di registrare una sola sfumatura, ad esempio, di rosso, io potrò vittoriosamente ottenere provvedimenti di inibitoria anche contro chi utilizzi una sfumatura diversa, che tuttavia non annulli il “nesso”.

Si diceva dunque che il fatto che un certo elemento stilistico si presenti declinato in modi diversi, riconducibili tuttavia ad unità, non è una buona ragione per non procedere alla registrazione come marchio di forma né cosa che imponga la registrazione di tutte le varianti (cosa probabilmente impossibile, oltre che costosa).

Si deve peraltro aggiungere che, in assenza di registrazione, ed anche per superare certe rigidità che possono essere incontrate nella procedura di registrazione stessa con riferimento all’identificazione del segno (ad esempio in relazione alla necessità di dimostrare all’UAMI l’acquisto di capacità distintiva, ove le prove riguardino come del tutto ovvio le diverse varianti del motivo), nel nostro ordinamento è efficacemente invocabile a tutela dei marchi di fatto, i quali è ormai sostanzialmente pacifico che godano di una protezione (in particolare sul versante dell’ampiezza della tutela) del tutto corrispondente a quello dei marchi registrati.

E naturalmente sono invocabili anche le norme in materia di concorrenza sleale, la cui applicabilità, da un lato, si fonda sui medesimi presupposti richiesti per la tutela del marchio di fatto, e segnatamente sulla sussistenza della capacità distintiva, e che, dall’altro, copre anch’essa non solo le imitazioni confusorie ma anche quelle non confusorie (e cioè ove si verifichi un agganciamento parassitario alle valenze positive del segno imitato), con il solo limite della sussistenza del rapporto di concorrenza, che non è invece richiesto per la tutela dei segni di fatto.

6.- Accanto alle situazioni sopra delineati, vi sono casi in cui lo stile non si esprime attraverso singoli e specifici motivi (seppur declinati con variazioni percepite tuttavia come unitarie), rimanendo tuttavia riconoscibile per una sorta di fil rouge, un’ispirazione comune, sotteso ai diversi capi, che viene avvertito dal consumatore come un sicuro rimando alla marca.

Sempre in dottrina sono state ricordate come esempio le eclettiche fantasie dei tessuti di Cavalli o, ad esempio, uno stile come quello di Desigual.

In questo caso, riferirsi alla tutela dei segni distintivi pare di primo acchito più difficile, perché ciò che si ha l’impressione di non riuscire ad “afferrare” e definire è il segno stesso, che in un certo senso si presenta “diluito” in una pluralità di elementi magari pure sparsi in una molteplicità di capi, e che possono essere “andati e tornati” nel tempo, essendo tuttavia tali nella percezione del consumatore da delineare un’immagine dei prodotti di quella marca, uno stile appunto, che questo è in grado di riconoscere.

Se tuttavia sussiste il problema di cui si è detto, è altrettanto difficile negare che quando il prodotto di un terzo richiami la marca, riproponendo nell’aspetto dei propri capi quell’ispirazione che ne caratterizza le creazioni sul piano della riconoscibilità per il pubblico, siamo di fronte ad un fenomeno che si colloca sul piano dell’aggressione al valore dello stile come segno distintivo, che mira a trasferire al prodotto del un terzo l’allure dei capi originali in quanto appunto “di marca”.

Sono abbastanza convinta che anche in queste situazioni, l’area degli istituti di tutela dei segni distintivi non debba essere abbandonata e che vi siano degli agganci normativi solidi per sostenere questa tesi.

Viene in considerazione, ad esempio, la previsione di cui all’art. 2 del Codice della Proprietà Industriale, che annovera tra i diritti della proprietà industriale anche “i segni distintivi diversi dal marchio registrato”: definizione aperta, che consente di immaginare la tutela di segni distintivi atipici, che possano essere protetti con l’apparato sanzionatorio del Codice.

Ancora, vi sono le norme in materia di concorrenza sleale, venendo in considerazione non solo l’art. 2958 n. 1 c.c., che contiene un divieto generale di determinare confusione sul mercato (cosa che può avvenire anche con la ripresa dello stile, nell’ipotesi che stiamo qui considerando), ma anche l’art. 2598 n. 2 c.c., che sanziona l’appropriazione di pregi: e, a proposito di quest’ultima previsione, è necessario chiarire che, sebbene la dottrina e la giurisprudenza abbiano costantemente sottolineato come tale fattispecie non riguardi il caso della riproduzione di un pregio peculiare e specifico di un concorrente, tale osservazione non sembra potersi applicare all’ipotesi qui delineata per escludere l’applicazione delle norma, nell’ipotesi in cui lo stile costituisca un pregio non in sé ma in quanto stile di una certa marca, cosicché la riproduzione di tale pregio non è per definizione per definizione possibile, ricorrendo dunque il caso (classico) della auto-attribuzione di un pregio altrui.

E ancora, la giurisprudenza sta correttamente valorizzando la previsione di cui all’art. 2598 n. 3 come norma deputata a reprimere ipotesi di sfruttamento parassitario del lavoro e degli investimenti altrui, qual è quella dell’usurpazione dello stile.

7.- Ogni volta che si parla di tutela dell’aspetto dei prodotti con gli istituti di protezione dei marchi e più in generale dei segni distintivi, aleggia sul discorso il fantasma dell’art. 9 della Codice della Proprietà Industriale, e della norma corrispondente del Regolamento sul Marchio Comunitario, che pone tra gli impedimenti alla valida registrazione del marchio di forma il fatto che quest’ultima dia “valore sostanziale” al prodotto: formula questa interpretata nel senso dell’incidenza della forma stessa sulle decisioni di acquisto del bene, che viene appunto acquistato proprio perché presenta un certo aspetto o che in virtù di quest’ultimo viene preferito ad un altro dello stesso genere.

Su questo tema mi sono dilungata nella relazione tenuta qui a Parma due anni orsono, sostenendo che, con riferimento alla forma dotata di capacità distintiva in quanto dotata di secondary meaning, al fine di stabilire se sussista l’impedimento del “valore sostanziale” è necessario chiedersi se il vantaggio competitivo legato all’adozione della medesima dipenda dalla forma in quanto tale (sotto il profilo del suo apprezzamento estetico) ovvero (essenzialmente o prevalentemente) dalle sue componenti “ideali”, e cioè dal fatto che la forma sia riconoscibile come quella di un prodotto di marca.

E avevo anche sottolineato come sia ragionevole immaginare che, specie nel campo dei prodotti di moda, ove l’estetica viene consumata rapidamente (in quanto ciò che è di moda e considerato bello in una stagione non lo è più nella stagione successiva), il valore sostanziale abbia carattere “recessivo”, nel senso che ad un apprezzamento iniziale della forma da parte del mercato sul piano estetico possa gradatamente sostituirsi un potere di vendita legato alle componenti ideali.

Qui aggiungo solo che non condivido l’opinione, pur autorevolmente rappresentata in giurisprudenza, secondo la quale gli impedimenti alla registrazione delle forme come marchio, ove sussistenti, non precluderebbero anche la tutela della forma con la disciplina della concorrenza sleale.

Essa si fonda infatti su un presupposto non del tutto corretto, e cioè quello secondo cui, a differenza della registrazione di marchio, la tutela concorrenziale fornirebbe una protezione “precaria” che regge solo finché permangano i requisiti di protezione della forma stessa (e cioè la capacità distintiva), non ponendosi dunque il problema del possibile carattere perpetuo della protezione.

In realtà, da un lato anche il marchio registrato conosce l’istituto della decadenza per volgarizzazione: e l’interpretazione rigorosa del presupposto dell’inattività del titolare data dalla giurisprudenza comunitaria, che richiede che questi reagisca giudizialmente contro l’uso del segno da parte di terzi al fine di non perdere il proprio diritto di esclusiva, rende evidente come anche la tutela del marchio registrato abbia un carattere “precario”, ove il marchio perda concretamente il proprio valore di segno distintivo.

Ancora, il rischio di monopolizzazione in perpetuo potrebbe porsi anche nell’ipotesi della tutela concorrenziale, potendo la capacità distintiva della forma sopravvivere a lungo (grazie all’attività del titolare) e sicuramente per un tempo maggiore rispetto alla durata delle privative che sulla medesima potrebbero essere ottenute: situazione anche quest’ultima che l’ordinamento, per ragioni di coerenza interna, mira ad evitare.