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La sottoscrizione non si fa con un click

Archivisti e diplomatisti dalla parte del diritto in materia di firme elettroniche
1. Una premessa per comprendere l’evoluzione normativa in materia di firme elettroniche

Con il DPR 10 novembre 1997, n. 513, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento la firma digitale, cioè il corrispettivo in ambiente digitale della firma autografa/olografa.Due anni più tardi, con l’intento di definire e di fare chiarezza in un campo in cui nei vari Stati membri legiferava in maniera disomogenea, la Commissione europea è intervenuta con la Direttiva 1999/93/CE, introducendo due nuove tipologie di firma: la “firma elettronica” e la “firma elettronica avanzata”[1].

La prima, è bene chiarire, non ha in alcun modo la funzione della sottoscrizione autografa, essendo volta meramente a identificare il soggetto che appare titolare di un’azione su un dato o un insieme di dati e non a garantire la riferibilità della volontà di un soggetto rispetto a un documento; verifica della provenienza rispetto a un insieme di dati quindi Dati, non documenti: la firma elettronica, pertanto, identifica e non sottoscrive[2].

La seconda, invece, garantisce l’identificazione certa di un soggetto e l’integrità del documento che si intende sottoscritto a tutti gli effetti di legge. Documenti, dunque, non dati: di conseguenza, la firma elettronica avanzata, genus che in Italia ha oggi come principale species la firma digitale, serve a sottoscrivere documenti, certificando al contempo l’integrità di un insieme di bit.

Ecco, pertanto, le due definizioni come oggi presenti, a seguito di qualche modifica e integrazione, nell’art. 1 del Codice dell’amministrazione digitale, contenuto nel D.Lgs. 82/2005:

a) firma elettronica, l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di identificazione informatica;

b) firma digitale, un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici.

La differenza è sostanziale e le due firme non risultano sovrapponibili, né da un punto di vista giuridico-diplomatistico, né da un punto di vista tecnologico. Anzi, a rigore, la firma elettronica non rientra affatto nel concetto né giuridico, né diplomatistico, né nell’accezione comune del concetto di “sottoscrizione”.

La firma elettronica, infatti, viene utilizzata in quei contesti in cui non risulta necessaria la sottoscrizione in senso proprio, normata, ad esempio, dal Codice civile. Essa serve anche a identificare le operazioni eseguite da un soggetto determinato, come quando viene associata a un file di log, che registra la sequenza di click effettuati all’interno di una banca dati. Come diretta conseguenza di questa caratteristica, essa è sufficiente a perfezionare un contratto nei casi in cui non è prevista la forma scritta ad substantiam, in ossequio al principio dell’aformalismo contrattuale (o contratti a forma libera), oppure nei casi in cui risulta sufficiente un “comportamento concludente”, rectius “per facta concludentia”.

In questo caso, si tratta di un’azione con la quale perfezioniamo i contratti di tutti i giorni, come pagare un caffè, comprare un giornale o prenotare un viaggio semplicemente comunicando il numero di carta di credito. Non serve, dunque, una sottoscrizione vera e propria, ma un’azione riconducibile a un soggetto determinato.

Nel caso in commento, dunque, il click su un tasto inserito in una pagina web, perfeziona il contratto. Tuttavia, non viene sottoscritto alcun documento, ma vengono allegati o connessi i dati relativi all’identità (verificata o presunta di un soggetto, visto che, in taluni contesti, l’identità può risultare addirittura irrilevante), che servono a descrivere l’azione effettuata, come aver premuto quel tasto determinato e riconducibile alla manifestazione di un consenso.

In punto di diritto, è lo stesso Codice dell’amministrazione digitale a tracciare le fondamentali differenze che sussistono tra questi due generi di firma. Sul piano probatorio, infatti, un insieme di dati ai quali è associata una firma elettronica, come ha novellato l’art. 21, comma 1, del D.Lgs. 82/2005, è «liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza». In una parola, si tratta di una firma apposta su un oggetto digitale potenzialmente ad alto grado di disconoscibilità.

La seconda, a leggere l’art. 21, comma 2, del D.Lgs. 82/2005, conferisce al documento sottoscritto «l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del codice civile». Da ciò discende che la scrittura privata sottoscritta con firma digitale fa piena prova, fino a querela di falso.

Le differenze sul piano probatorio che si riverberano, quale riflesso, sull’onere della prova, dunque, sono marcate e sostanziali, mentre – cosa che non esamineremo in questa sede – le differenze tecnologiche e applicative sono semplicemente abissali.

Questa premessa, che il lettore più preparato potrebbe percepire come pleonastica, risulta invece necessaria per rimarcare i confini e le differenze tra una volontà espressa mediante una firma elettronica e una volontà espressa mediante una firma digitale. In questo compito, ci supporta mirabilmente una recentissima ordinanza del Tribunale di Catanzaro, che porta chiarezza interpretativa e innovativa a un argomento troppo spesso sottovaluto dal legislatore.

2. La portata rivoluzionaria dell’ordinanza del Tribunale di Catanzaro 30 aprile 2012

L’ordinanza in commento è relativa a una causa le cui parti sono una ditta fornitrice di servizi informatici e un cliente che contesta la mancata sottoscrizione delle clausole vessatorie di un contratto stipulato via web con la tecnica del tasto virtuale, conosciuto anche come point and click.

Va premesso che la causa si inserisce nell’ambito dei rapporti contrattuali a forma libera e, quindi, validi anche attraverso una semplice azione, come quella di manifestare il proprio consenso semplicemente con un click del mouse. In tal senso, l’aformalismo contrattuale permette validamente di perfezionare il contratto anche in assenza di una sottoscrizione vera e propria, sostituita dalla manifestazione di volontà, comunque espressa, in accordo tra i contraenti.

Tuttavia, la volontà negoziale – peraltro pienamente accertata e confermata tra le parti – non può estendersi alle clausole vessatorie. Su quest’ultime, infatti, incombe l’art. 1341 del codice civile che prevede espressamente che «In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria».

L’inciso «specificamente approvate per iscritto» sta a significare che la loro perfezione dipende non tanto dalla manifestazione di una volontà o da un comportamento concludente, realizzabile attraverso anche la firma elettronica, quanto piuttosto da una sottoscrizione, esclusivo appannaggio della firma digitale.

La ratio della norma è proprio far “por mente” alla parte che sottoscrive, trattandosi di condizioni sfavorevoli che devono essere maggiormente ponderate, per le quali è chiaro che una mera identificabilità della “provenienza” può non essere sufficiente, pena la loro nullità; insomma, tamquam non esset.

Ecco allora il decisum del giudice di 1° grado di Catanzaro, emessa il 18 aprile 2012 e depositata il 30 aprile 2012, n. 68/2011:

Tribunale di Catanzaro - Sezione Prima Civile, Ordinanza 30 aprile 2012, n. 68/2011 (rel. Naso)

Vigendo nel nostro ordinamento il principio di libertà delle forme, la tecnica “del tasto virtuale” o “point and click”, utilizzata nella contrattazione telematica, è sufficiente a manifestare il consenso contrattuale e ritenere perfezionato il contratto, laddove si tratti di un contratto a forma libera.

Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza (1370, 2211).

Le clausole vessatorie on line si considerano approvate solo con la specifica sottoscrizione delle medesime, non essendo sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale. Pertanto per i contratti on line, le clausole vessatorie sono efficaci e vincolanti solo se approvate specificamente con la firma digitale.

Correttamente, l’ordinanza distingue i due momenti del sinallagma: da un lato le condizioni generali e dall’altro le clausole vessatorie. Per le prime, risulta sufficiente l’espressione di una volontà (il c.d. “consenso”) attraverso la firma elettronica. Per le seconde risulta invece imprescindibile la sottoscrizione effettuata espressamente attraverso la firma digitale.

Nel medesimo contratto, pertanto, assistiamo alla compresenza dell’aformalismo per le condizioni generali e della forma scritta ad substantiam per le clausole.

3. Conclusioni e differenze tra firma elettronica e firma digitale

Concludendo, l’ordinanza in commento ha chiarito che non sempre può essere sufficiente la sottoscrizione effettuata con un click.

In primo luogo, perché non si si tratta di sottoscrizione. In seconda istanza, perché si incrociano due esigenze distinte, che vanno contemperate tra i contraenti.

L’organo giudicante, infatti, in una pronuncia molto articolata e destinata ad entrare nella storia dell’amministrazione digitale italiana, ha preso in esame e chiarito il rilievo del consenso e della sottoscrizione di un contratto suddiviso logicamente in due parti.

La prima parte, espressione del sinallagma contrattuale, è stata validamente perfezionata con firma elettronica e non contestata dal cliente. La seconda parte, di contro, in cui la sottoscrizione avrebbe dovuto comprovare l’assenso a condizioni che richiedono una maggior ponderatezza, non avrebbe potuto ritenersi perfetta se non espressamente sottoscritta con firma digitale.

In pratica, in tutti i casi in cui risulta necessaria la forma scritta deve essere utilizzata, a pena di nullità, la firma digitale. Anzi, più correttamente, il problema non è la forma scritta, bensì i casi in cui la legge richiede, a maggior tutela del sottoscrittore, un formalismo più marcato, quale può essere la forma scritta e una sottoscrizione puntuale.

Essa, infatti, Codice dell’amministrazione digitale alla mano, risulta l’unica in grado di assolvere al compito che nei sistemi tradizionali è affidato alla sottoscrizione autografa in calce a un documento.

A questo punto, sorge spontanea una domanda, alla quale più volte abbiamo cercato di rispondere, riscontrando nei fatti la scarsa attenzione del legislatore italiano. Il contesto giuridico è diverso da quello in commento, ma presenta simmetrie e analogie sul fronte dell’efficacia probatoria e della perfezione giuridica di un documento sottoscritto in ambiente digitale.

Può considerarsi validamente perfezionata un’istanza concorsuale rivolta a una amministrazione pubblica sottoscritta attraverso una firma elettronica? Nel caso di specie, l’invio di una PEC, paragonata in modo destabilizzante dal legislatore a una firma elettronica, può sostituire la sottoscrizione con firma digitale della domanda di concorso? Certamente, no[3].

Senza contare poi il fatto, in aggravio, che ai sensi dell’art. 61 delle imminenti regole tecniche del CAD, la PEC nominativa, a fronte della verifica dell’identità del titolare e se utilizzata nei rapporti tra terzi e le amministrazioni pubbliche, costituisce una soluzione di firma elettronica avanzata[4].

L’ordinanza del Tribunale di Catanzaro, pur dispiegando i suoi effetti in ambito privatistico, nel quale vige la regola della libertà delle forme, ha il merito di chiarire, nella concreta applicazione di ogni giorno, le differenze tecnologiche, giuridiche e sostanziali tra firma elettronica e firma digitale.

Archivisti e diplomatisti, dunque, sono ancora una volta dalla parte del diritto, perché nell’amministrazione digitale la graduazione dei quattro generi di firma (elettronica, elettronica avanzata, elettronica qualificata e digitale) impone profonde riflessioni sulla loro natura applicativa e non sovrapponibile, soprattutto a diretta dipendenza dei contesti nei quali vengono utilizzate. Essere dalla parte del diritto non sembri una forzatura, ma l’applicazione coerente e rigorosa della norma europea sui due generi di firme elettroniche che il legislatore ha spesso disatteso nelle norme di rango inferiore e nella regolamentazione tecnica.

In altri termini, ciò che accade in ambito civilistico può enucleare alcune asimmetrie in ambito amministrativo, soprattutto nei rapporti con le amministrazioni pubbliche. Natura e valore dei generi di firma elettronica, quindi, non possono essere confusi, perché la certezza del diritto impone di converso un diritto alla certezza giuridica, che nella transizione dal tradizionale al digitale non possiamo far finta di non cogliere in tutte le sue sfumature, con impatti non trascurabili nelle aule di tribunali, nella conservazione degli archivi e nella diplomatica del documento contemporaneo.

Su questo fronte, l’alleanza di archivisti e diplomatisti con giuristi (informatica giuridica e diritto dell’informatica, in particolare) e notai (esiste in Italia l’eccellenza metodologica della Commissione informatica in seno al Consiglio nazionale del notariato) è quanto mai da ricercare e da sviluppare in tutte le sedi possibili, perché la memoria digitale dell’Italia non può essere affidata a un click, ma a un sistema complesso di procedure, di risorse e di regole chiare.

[1] Gianni Penzo Doria, La firma elettronica del quinto tipo, “Filodiritto”, 2010.[2] Gianni Penzo Doria, L’invio tramite PEC come sottoscrizione elettronica, “IGED”, XX/1 (2011), pp. 26-27.

[3] Andrea Lisi - Gianni Penzo Doria, L’utilizzo della PEC nei concorsi pubblici: commento alla Circolare n. 12/2010, “Filodiritto”, 2010.

[4] Avremo modo di commentare questa natura mutante della PEC, come novellata nell’art. 61 delle regole tecniche per la parte inerente alla firma elettronica avanzata che da tempo si annunciano di imminente uscita.

1. Una premessa per comprendere l’evoluzione normativa in materia di firme elettroniche

Con il DPR 10 novembre 1997, n. 513, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento la firma digitale, cioè il corrispettivo in ambiente digitale della firma autografa/olografa.Due anni più tardi, con l’intento di definire e di fare chiarezza in un campo in cui nei vari Stati membri legiferava in maniera disomogenea, la Commissione europea è intervenuta con la Direttiva 1999/93/CE, introducendo due nuove tipologie di firma: la “firma elettronica” e la “firma elettronica avanzata”[1].

La prima, è bene chiarire, non ha in alcun modo la funzione della sottoscrizione autografa, essendo volta meramente a identificare il soggetto che appare titolare di un’azione su un dato o un insieme di dati e non a garantire la riferibilità della volontà di un soggetto rispetto a un documento; verifica della provenienza rispetto a un insieme di dati quindi Dati, non documenti: la firma elettronica, pertanto, identifica e non sottoscrive[2].

La seconda, invece, garantisce l’identificazione certa di un soggetto e l’integrità del documento che si intende sottoscritto a tutti gli effetti di legge. Documenti, dunque, non dati: di conseguenza, la firma elettronica avanzata, genus che in Italia ha oggi come principale species la firma digitale, serve a sottoscrivere documenti, certificando al contempo l’integrità di un insieme di bit.

Ecco, pertanto, le due definizioni come oggi presenti, a seguito di qualche modifica e integrazione, nell’art. 1 del Codice dell’amministrazione digitale, contenuto nel D.Lgs. 82/2005:

a) firma elettronica, l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di identificazione informatica;

b) firma digitale, un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici.

La differenza è sostanziale e le due firme non risultano sovrapponibili, né da un punto di vista giuridico-diplomatistico, né da un punto di vista tecnologico. Anzi, a rigore, la firma elettronica non rientra affatto nel concetto né giuridico, né diplomatistico, né nell’accezione comune del concetto di “sottoscrizione”.

La firma elettronica, infatti, viene utilizzata in quei contesti in cui non risulta necessaria la sottoscrizione in senso proprio, normata, ad esempio, dal Codice civile. Essa serve anche a identificare le operazioni eseguite da un soggetto determinato, come quando viene associata a un file di log, che registra la sequenza di click effettuati all’interno di una banca dati. Come diretta conseguenza di questa caratteristica, essa è sufficiente a perfezionare un contratto nei casi in cui non è prevista la forma scritta ad substantiam, in ossequio al principio dell’aformalismo contrattuale (o contratti a forma libera), oppure nei casi in cui risulta sufficiente un “comportamento concludente”, rectius “per facta concludentia”.

In questo caso, si tratta di un’azione con la quale perfezioniamo i contratti di tutti i giorni, come pagare un caffè, comprare un giornale o prenotare un viaggio semplicemente comunicando il numero di carta di credito. Non serve, dunque, una sottoscrizione vera e propria, ma un’azione riconducibile a un soggetto determinato.

Nel caso in commento, dunque, il click su un tasto inserito in una pagina web, perfeziona il contratto. Tuttavia, non viene sottoscritto alcun documento, ma vengono allegati o connessi i dati relativi all’identità (verificata o presunta di un soggetto, visto che, in taluni contesti, l’identità può risultare addirittura irrilevante), che servono a descrivere l’azione effettuata, come aver premuto quel tasto determinato e riconducibile alla manifestazione di un consenso.

In punto di diritto, è lo stesso Codice dell’amministrazione digitale a tracciare le fondamentali differenze che sussistono tra questi due generi di firma. Sul piano probatorio, infatti, un insieme di dati ai quali è associata una firma elettronica, come ha novellato l’art. 21, comma 1, del D.Lgs. 82/2005, è «liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza». In una parola, si tratta di una firma apposta su un oggetto digitale potenzialmente ad alto grado di disconoscibilità.

La seconda, a leggere l’art. 21, comma 2, del D.Lgs. 82/2005, conferisce al documento sottoscritto «l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del codice civile». Da ciò discende che la scrittura privata sottoscritta con firma digitale fa piena prova, fino a querela di falso.

Le differenze sul piano probatorio che si riverberano, quale riflesso, sull’onere della prova, dunque, sono marcate e sostanziali, mentre – cosa che non esamineremo in questa sede – le differenze tecnologiche e applicative sono semplicemente abissali.

Questa premessa, che il lettore più preparato potrebbe percepire come pleonastica, risulta invece necessaria per rimarcare i confini e le differenze tra una volontà espressa mediante una firma elettronica e una volontà espressa mediante una firma digitale. In questo compito, ci supporta mirabilmente una recentissima ordinanza del Tribunale di Catanzaro, che porta chiarezza interpretativa e innovativa a un argomento troppo spesso sottovaluto dal legislatore.

2. La portata rivoluzionaria dell’ordinanza del Tribunale di Catanzaro 30 aprile 2012

L’ordinanza in commento è relativa a una causa le cui parti sono una ditta fornitrice di servizi informatici e un cliente che contesta la mancata sottoscrizione delle clausole vessatorie di un contratto stipulato via web con la tecnica del tasto virtuale, conosciuto anche come point and click.

Va premesso che la causa si inserisce nell’ambito dei rapporti contrattuali a forma libera e, quindi, validi anche attraverso una semplice azione, come quella di manifestare il proprio consenso semplicemente con un click del mouse. In tal senso, l’aformalismo contrattuale permette validamente di perfezionare il contratto anche in assenza di una sottoscrizione vera e propria, sostituita dalla manifestazione di volontà, comunque espressa, in accordo tra i contraenti.

Tuttavia, la volontà negoziale – peraltro pienamente accertata e confermata tra le parti – non può estendersi alle clausole vessatorie. Su quest’ultime, infatti, incombe l’art. 1341 del codice civile che prevede espressamente che «In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria».

L’inciso «specificamente approvate per iscritto» sta a significare che la loro perfezione dipende non tanto dalla manifestazione di una volontà o da un comportamento concludente, realizzabile attraverso anche la firma elettronica, quanto piuttosto da una sottoscrizione, esclusivo appannaggio della firma digitale.

La ratio della norma è proprio far “por mente” alla parte che sottoscrive, trattandosi di condizioni sfavorevoli che devono essere maggiormente ponderate, per le quali è chiaro che una mera identificabilità della “provenienza” può non essere sufficiente, pena la loro nullità; insomma, tamquam non esset.

Ecco allora il decisum del giudice di 1° grado di Catanzaro, emessa il 18 aprile 2012 e depositata il 30 aprile 2012, n. 68/2011:

Tribunale di Catanzaro - Sezione Prima Civile, Ordinanza 30 aprile 2012, n. 68/2011 (rel. Naso)

Vigendo nel nostro ordinamento il principio di libertà delle forme, la tecnica “del tasto virtuale” o “point and click”, utilizzata nella contrattazione telematica, è sufficiente a manifestare il consenso contrattuale e ritenere perfezionato il contratto, laddove si tratti di un contratto a forma libera.

Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza (1370, 2211).

Le clausole vessatorie on line si considerano approvate solo con la specifica sottoscrizione delle medesime, non essendo sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale. Pertanto per i contratti on line, le clausole vessatorie sono efficaci e vincolanti solo se approvate specificamente con la firma digitale.

Correttamente, l’ordinanza distingue i due momenti del sinallagma: da un lato le condizioni generali e dall’altro le clausole vessatorie. Per le prime, risulta sufficiente l’espressione di una volontà (il c.d. “consenso”) attraverso la firma elettronica. Per le seconde risulta invece imprescindibile la sottoscrizione effettuata espressamente attraverso la firma digitale.

Nel medesimo contratto, pertanto, assistiamo alla compresenza dell’aformalismo per le condizioni generali e della forma scritta ad substantiam per le clausole.

3. Conclusioni e differenze tra firma elettronica e firma digitale

Concludendo, l’ordinanza in commento ha chiarito che non sempre può essere sufficiente la sottoscrizione effettuata con un click.

In primo luogo, perché non si si tratta di sottoscrizione. In seconda istanza, perché si incrociano due esigenze distinte, che vanno contemperate tra i contraenti.

L’organo giudicante, infatti, in una pronuncia molto articolata e destinata ad entrare nella storia dell’amministrazione digitale italiana, ha preso in esame e chiarito il rilievo del consenso e della sottoscrizione di un contratto suddiviso logicamente in due parti.

La prima parte, espressione del sinallagma contrattuale, è stata validamente perfezionata con firma elettronica e non contestata dal cliente. La seconda parte, di contro, in cui la sottoscrizione avrebbe dovuto comprovare l’assenso a condizioni che richiedono una maggior ponderatezza, non avrebbe potuto ritenersi perfetta se non espressamente sottoscritta con firma digitale.

In pratica, in tutti i casi in cui risulta necessaria la forma scritta deve essere utilizzata, a pena di nullità, la firma digitale. Anzi, più correttamente, il problema non è la forma scritta, bensì i casi in cui la legge richiede, a maggior tutela del sottoscrittore, un formalismo più marcato, quale può essere la forma scritta e una sottoscrizione puntuale.

Essa, infatti, Codice dell’amministrazione digitale alla mano, risulta l’unica in grado di assolvere al compito che nei sistemi tradizionali è affidato alla sottoscrizione autografa in calce a un documento.

A questo punto, sorge spontanea una domanda, alla quale più volte abbiamo cercato di rispondere, riscontrando nei fatti la scarsa attenzione del legislatore italiano. Il contesto giuridico è diverso da quello in commento, ma presenta simmetrie e analogie sul fronte dell’efficacia probatoria e della perfezione giuridica di un documento sottoscritto in ambiente digitale.

Può considerarsi validamente perfezionata un’istanza concorsuale rivolta a una amministrazione pubblica sottoscritta attraverso una firma elettronica? Nel caso di specie, l’invio di una PEC, paragonata in modo destabilizzante dal legislatore a una firma elettronica, può sostituire la sottoscrizione con firma digitale della domanda di concorso? Certamente, no[3].

Senza contare poi il fatto, in aggravio, che ai sensi dell’art. 61 delle imminenti regole tecniche del CAD, la PEC nominativa, a fronte della verifica dell’identità del titolare e se utilizzata nei rapporti tra terzi e le amministrazioni pubbliche, costituisce una soluzione di firma elettronica avanzata[4].

L’ordinanza del Tribunale di Catanzaro, pur dispiegando i suoi effetti in ambito privatistico, nel quale vige la regola della libertà delle forme, ha il merito di chiarire, nella concreta applicazione di ogni giorno, le differenze tecnologiche, giuridiche e sostanziali tra firma elettronica e firma digitale.

Archivisti e diplomatisti, dunque, sono ancora una volta dalla parte del diritto, perché nell’amministrazione digitale la graduazione dei quattro generi di firma (elettronica, elettronica avanzata, elettronica qualificata e digitale) impone profonde riflessioni sulla loro natura applicativa e non sovrapponibile, soprattutto a diretta dipendenza dei contesti nei quali vengono utilizzate. Essere dalla parte del diritto non sembri una forzatura, ma l’applicazione coerente e rigorosa della norma europea sui due generi di firme elettroniche che il legislatore ha spesso disatteso nelle norme di rango inferiore e nella regolamentazione tecnica.

In altri termini, ciò che accade in ambito civilistico può enucleare alcune asimmetrie in ambito amministrativo, soprattutto nei rapporti con le amministrazioni pubbliche. Natura e valore dei generi di firma elettronica, quindi, non possono essere confusi, perché la certezza del diritto impone di converso un diritto alla certezza giuridica, che nella transizione dal tradizionale al digitale non possiamo far finta di non cogliere in tutte le sue sfumature, con impatti non trascurabili nelle aule di tribunali, nella conservazione degli archivi e nella diplomatica del documento contemporaneo.

Su questo fronte, l’alleanza di archivisti e diplomatisti con giuristi (informatica giuridica e diritto dell’informatica, in particolare) e notai (esiste in Italia l’eccellenza metodologica della Commissione informatica in seno al Consiglio nazionale del notariato) è quanto mai da ricercare e da sviluppare in tutte le sedi possibili, perché la memoria digitale dell’Italia non può essere affidata a un click, ma a un sistema complesso di procedure, di risorse e di regole chiare.

[1] Gianni Penzo Doria, La firma elettronica del quinto tipo, “Filodiritto”, 2010.[2] Gianni Penzo Doria, L’invio tramite PEC come sottoscrizione elettronica, “IGED”, XX/1 (2011), pp. 26-27.

[3] Andrea Lisi - Gianni Penzo Doria, L’utilizzo della PEC nei concorsi pubblici: commento alla Circolare n. 12/2010, “Filodiritto”, 2010.

[4] Avremo modo di commentare questa natura mutante della PEC, come novellata nell’art. 61 delle regole tecniche per la parte inerente alla firma elettronica avanzata che da tempo si annunciano di imminente uscita.