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Dall’incandidabilità, all’impresentabilità alla carica di Parlamentare

Nuovi limiti al diritto di elettorato passivo
1. L’“impresentabilità” quale nuovo limite al diritto di elettorato passivoSull’onda dell’anti politica e dell’annunciato, quanto verosimile, ingresso in Parlamento dei rappresentati del Movimento 5 Stelle di Grillo, le prossime elezioni per il rinnovo dei membri di Camera e Senato della Repubblica italiana ci stanno consegnando una nuova categoria invalidante del diritto di elettorato passivo previsto dall’art. 51 della Costituzione. Alle più note categorie della “incompatibilità”, “ineleggibilità” e “incandidabilità”[1], partiti politici e movimenti civici hanno introdotto nei rispettivi statuti interni la categoria della “impresentabilità”.

Diventa impresentabile l’aspirante candidato alla carica elettiva che, sottoposto ad uno screening da un organo interno del partito politico appositamente istituito, pur possedendo i requisiti soggettivi richiesti dalla legge per proporre la propria candidatura, difetta di ulteriori e più stringenti requisiti soggettivi previsti da regolamenti interni ai partiti politici, meglio conosciuti come Codici etici[2]. Trattasi di requisiti che interessano anche la sfera morale e sociale dell’aspirante candidato e che vengono valutati con il metro della mera “opportunità”.

Siamo quindi in presenza non di una “nuova incapacità giuridica speciale” voluta dal legislatore, ma di una forma domestica d’incapacità politica la cui disponibilità rientra nelle prerogative e nelle scelte di un’associazione non riconosciuta qual è il partito politico. In pratica, il partito politico, ritenendosi titolare di siffatta prerogativa in forza di un regolamento interno, si assume la responsabilità (almeno per le proprie liste elettorali) di non candidare un aspirante candidato alla carica elettiva per motivazioni proprie e comunque anche estranee a quelle espressamente stabilite dalla legge.

Orbene, questo nuovo ed aggiuntivo filtro inserito dai partiti politici rischia però di infrangersi sulle norme dell’ordinamento costituzionale e sui principi che la Corte Costituzionale ha sancito in materia. Il diritto di elettorato passivo, che è un diritto soggettivo perfetto, è infatti riconosciuto dalla nostra Costituzione all’art. 51, che così recita: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Nell’ambito del potere di fissazione dei “requisiti” di eleggibilità, che l’art. 51 riserva solamente al legislatore, esistono delle cause ostative all’esercizio di tale diritto, che trovano espressa disciplina nel nostro ordinamento giuridico e che riguardano tutti i livelli istituzionali in cui è prevista una carica di tipo elettivo.

Proprio il principio di cui all’art. 51 Cost. svolge «il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto ad ogni cittadino con i caratteri dell’inviolabilità (ex art. 2 della Costituzione)»[3]. La giurisprudenza costituzionale ha, peraltro, più volte tutelato il fondamentale diritto di elettorato passivo, trattandosi «di un diritto che, essendo intangibile nel suo contenuto di valore, può essere unicamente disciplinato da leggi generali, che possono limitarlo soltanto al fine di realizzare altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadino e cittadino, qualunque sia la Regione o il luogo di appartenenza»[4].

Appare pertinente altresì rilevare che secondo un altro principio sancito dalla Corte Costituzionale «… l’eleggibilità è la regola e l’ineleggibilità l’eccezione: le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate …»[5].

Peraltro, anche la casistica ostativa all’esercizio del diritto di elettorato passivo annoverabile nella “indegnità morale”, alla quale si ispirano parecchie delle norme contenute nei codici etici dei partiti, è sottoposta a riserva di legge per espressa previsione costituzionale. L’art. 48, comma 3°, Cost. così recita: «Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».

In questo quadro normativo, caratterizzato da disposizioni di rango costituzionale, non sembrano rinvenirsi spazi per una disciplina in materia di diritti di elettorato passivo assegnati alla disponibilità ed all’autonomia dei partiti politici.

2. Il recente caso del Partito Democratico

Molti partiti si sono dotati di questi codici etici per filtrare le candidature e tra questi il Partito Democratico. Le recenti decisioni del Partito Democratico di escludere dalle proprie liste i Senatori uscenti Crisafulli, Caputo e Papanìa, rispolverano una questione che a ritmi periodici e, per lo più coincidenti con la fase della formazione delle liste di candidati per il rinnovo delle Istituzioni democratiche, si presenta in tutta la sua arrogante e preoccupante realtà del sistema partitico in Italia: «la democrazia interna ai partiti politici»[6].

Lungi dall’entrare nel merito delle singole questioni esaminate dalla Commissione di garanzia all’uopo istituita e presieduta dal già Ministro Luigi Berlinguer, ciò che risalta all’evidenza e che merita una prima, e certamente non esaustiva, riflessione, concerne la tardività della decisione assunta dal vertice del PD rispetto ad un percorso, quello delle primarie, che, in disparte l’ottimo risultato ottenuto dai singoli interessati, si è regolarmente celebrato senza alcuna avvertenza e/o fattispecie di clausola risolutiva.

In sostanza, il PD si è posto il problema della “impresentabilità” “per meri motivi di opportunità” non nella fase propedeutica deliberatamente scelta dal medesimo partito attraverso lo svolgimento di primarie interne, ma solo in quella successiva e consequenziale della formazione delle liste. Quindi, i tre Parlamentari raggiunti dal provvedimento di esclusione, mentre sono stati, anche se implicitamente, ritenuti presentabili e conformi al Codice etico di cui si è dotato il PD ai fini della presentazione alle primarie, sono diventati improvvisamente “impresentabili” dopo il vaglio della citata Commissione di garanzia che, evidentemente, ha ritenuto ininfluente l’affidamento creatosi in capo ai destinatari.

Non vi è chi non veda in questo provvedimento di esclusione un comportamento dei vertici del PD che, ancorché insindacabile in ordine alle valutazioni di opportunità, si pone in manifesta violazione di almeno due principi del nostro ordinamento che, nella fattispecie, convergono nell’irrobustire la posizione giuridica dei soggetti destinatari della decisione: il principio del legittimo affidamento di matrice pubblicistica e il principio della buona fede di matrice privatistica. Entrambi i principi, la cui scansione preliminare risulterebbe pregiudiziale ai fini dell’individuazione della giurisdizione, mirano a proteggere il diritto di chi, avendo confidato su una procedura e/o su un comportamento ritenuto in un primo tempo legittimo (o lecito) dalla parte attiva, si vede negare apoditticamente lo stesso.

L’affidamento rappresenta lo stato di fiducia dei soggetti dichiarati dal PD “impresentabili” in base all’apparenza delle situazioni e dei fatti divergenti dalla loro sostanza, che si configura e si consolida a seguito di un comportamento concludente (rectius, apparentia iuris) – lo svolgimento delle primarie – che, in virtù del tempo e della buona fede viene a sovrapporsi alla fattispecie reale. Secondo tale accezione, l’affidamento «esprime l’esigenza, propria della giustizia sostanziale, di dare giusto rilievo ad una valutazione della buona fede che tenga conto, nella regolazione dei rapporti giuridici, del comportamento delle parti. Più specificatamente, nel suo significato più ristretto l’affidamento indica le ipotesi in cui l’ordinamento accorda la propria tutela allo stato di fiducia. È appena il caso di ricordare, peraltro, che il principio di buona fede è esplicitamente contemplato nel codice civile agli artt. 1375 e 1175; anche se in quest’ultimo articolo viene usato il termine correttezza, esso può considerarsi un sinonimo del concetto di buona fede, al pari di altri termini come solidarietà o leale cooperazione, o comunque un elemento della situazione di legittimo affidamento»[7].

Invero, la clausola generale di buona fede e correttezza, mentre è ordinariamente operante nei rapporti negoziali tra i soci dell’associazione partitica, acquisisce ben altro spessore allorquando la posta in gioco investe diritti che trovano copertura in fonti di rango superprimario come gli articoli 49 e 51 della Costituzione.

Il PD avrebbe dovuto, pertanto, anticipare alla fase delle primarie il controllo delle singole candidature affidato alla Commissione di garanzia, pena il consolidarsi di un legittimo affidamento alla candidatura in capo agli aspiranti una volta vinte le primarie. Né, può andare a scapito dei legittimi aspiranti candidati il fatto che né lo statuto né il successivo regolamento sulle primarie prescrivono l’esercizio del controllo ad opera della Commissione di garanzia nella fase prodromica alla formazione delle liste. In pratica, il PD non può fare ricadere sugli aspiranti candidati legittimamente scelti dalle primarie le conseguenze negative dei suoi errori, con ciò ledendo fondamentali diritti soggettivi quali sono i diritti politici derivanti dall’elettorato passivo.

La questione diventa speciosa, e meritevole di essere sottoposta al vaglio della giustizia ordinaria, nel caso in cui l’acclarata “impresentabilità” degli aspiranti candidati sia stata assunta dai vertici del PD per motivazioni che non trovano riscontro oggettivo neanche nell’adottato Codice etico.

3. Considerazioni finali

In tale contesto, non si può non ribadire, ancora una volta, che la mancata attuazione dell’art. 49 della Costituzione crea, a ritmi periodici ma costanti, seri problemi di democrazia all’interno di organizzazioni esponenziali della società civile alle quali la medesima Costituzione affida fondamentali e, per alcuni autorevoli commentatori[8], irrinunciabili funzioni pubbliche: “la determinazione della politica nazionale”.

Le funzioni svolte dai partiti politici, oltreché pubbliche, sono anche costituzionalmente rilevanti, perché trovano fondamento nel citato art. 49 Cost.. Esse non possono quindi essere lese dall’autonomia, cosiddetta interna, riconosciuta ai partiti senza con ciò ledere il ruolo fondamentale che la Costituzione assegna agli stessi. I partiti politici sono infatti il principale, se non unico, strumento attraverso cui si esprime il pluralismo politico dei cittadini, i quali, loro tramite, possono partecipare quotidianamente alla determinazione della politica nazionale. Al riguardo è decisivo rilevare che «i partiti politici sono garantiti dalla carta costituzionale – nella prospettiva del diritto dei cittadini di associarsi – quali strumenti di rappresentanza di interessi politicamente organizzati; diritto di associazione al quale si ricollega la garanzia del pluralismo»[9].

I partiti, quindi, concorrono alla formazione e manifestazione della volontà popolare e sono strumento fondamentale per la partecipazione politica e democratica. Le funzioni attribuite ai medesimi nel procedimento elettorale – deposito contrassegni delle candidature individuali e di lista, raccolta firme, selezione delle candidature, presentazione delle liste, campagna elettorale, applicazione della par condicio – costituiscono l’unico modo costituzionalmente possibile e legittimo perché nelle odierne democrazie rappresentative il popolo possa esercitare la propria sovranità, cioè per “raccordare”, come dice la Corte Costituzionale[10], democrazia e rappresentanza politica. Il ruolo fondamentale svolto dai partiti nel procedimento elettorale assume quindi natura non solo pubblica ma anche costituzionale perché costituisce la principale modalità di esercizio del ruolo attribuito ai partiti dall’art. 49 Cost.[11].

È di tutta evidenza come l’effettiva possibilità, per i cittadini, di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale abbia necessità di una serie di garanzie che investono anche vicende interne ai partiti politici. Nell’attuale sistema politico-elettorale, la selezione dei candidati (e futuri eletti) alle cariche politiche è affidata esclusivamente agli organi di partito, con notevole alterazione dei principi a fondamento del suffragio universale consacrati nell’art. 48 della Costituzione. La democrazia interna ai partiti, nei sistemi elettorali a prevalente contenuto maggioritario, è divenuta, quindi, indispensabile per ristabilire l’effettività della sovranità popolare. L’organizzazione interna dei partiti, infatti, non può essere indifferente nelle relazioni giuridiche, e la giustiziabilità di talune pretese si profila sempre più spesso sullo sfondo dell’attività dei partiti.

Non si tratta (tanto) di riproporre le vessate questioni circa il controllo pubblico (id est: amministrativo alla stregua della disciplina legislativa) sui partiti, ma di “leggere” le relazioni tra singolo e associazioni privilegiate, valorizzando le logiche proprie del diritto comune dei rapporti interprivati, il quale non a caso si impernia sulla tutela delle posizioni soggettive e – di conseguenza – sui poteri del giudice[12].

Il diritto all’elettorato passivo gode infatti di una copertura costituzionale e di conseguenza non è ipotizzabile pensare ad alcun margine di discrezionalità riservato al potere normativo di un‘associazione partitica, trattandosi di materia coperta da riserva di legge e come tale inevitabilmente sottratta alla potestà regolamentare e statutaria dei partiti politici. Senza considerare che se fosse lasciato alla discrezionalità dei partiti politici stabilire in via autonoma criteri differenti da quelli legali, risulterebbe eluso anche il fine voluto dall’art. 51 della Costituzione di assicurare a tutti i cittadini “condizioni di eguaglianza nell’accesso alle cariche elettive”.

Corollario di queste argomentazioni è che l’equilibrio tra condivisibili istanze di “moralizzazione” nella selezione della classe politica ed insuperabili limiti costituzionali non può che trovare sede nell’attuazione legislativa dell’art. 49 della Costituzione, e questo, anche per scongiurare che un dirigente di partito, contaminato dalla sindrome dell’onnipotenza, possa sostituirsi alla naturale sede legislativa per determinare egli stesso, con interpretazioni estemporanee ed arbitrarie il “metodo democratico” della vita interna del partito politico.

[1] Recentemente il Governo ha approvato il decreto legislativo 31 dicembre n. 235 recante: “Testo Unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’art. 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190”.[2] L’ordinamento del terzo settore conosce già questi strumenti avendoli sperimentati in Sicilia ad opera delle Associazioni degli Industriali per contrastare le infiltrazioni mafiose all’interno del tessuto imprenditoriale.

[3] Corte Cost. sent. n. 25 del 2008, n. 288 del 2007 e n. 539 del 1990.

[4] cfr. ex plurimis sentenza n. 235 del 1988.

[5] Corte Cost. sent. n. 141/1996.

[6] Sull’argomento si consenta il rinvio a Massimo Greco “La democrazia interna ai partiti politici in Italia”, su Forum di Quaderni Costituzionali, 22/03/2012.

[7] Cons. Stato, sent. n. 2/2012.

[8] Per il Presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky «i partiti politici sono l’unico strumento che conosciamo per unificare la società e tenerla insieme».

[9] Corte Cost. Ordinanza n. 79/2006.

[10] Idem.

[11] S. Curreri, Non varcate quella soglia, 18 aprile 2006 e A. Mannino, I partiti politici davanti alla Corte Costituzionale, 3 maggio 2006 in Forum di Quaderni Costituzionali.

[12] D. Messineo, L’ammissione del cittadino ai partiti: osservazioni a margine del caso Pannella, in liberalfondazione.it.

1. L’“impresentabilità” quale nuovo limite al diritto di elettorato passivoSull’onda dell’anti politica e dell’annunciato, quanto verosimile, ingresso in Parlamento dei rappresentati del Movimento 5 Stelle di Grillo, le prossime elezioni per il rinnovo dei membri di Camera e Senato della Repubblica italiana ci stanno consegnando una nuova categoria invalidante del diritto di elettorato passivo previsto dall’art. 51 della Costituzione. Alle più note categorie della “incompatibilità”, “ineleggibilità” e “incandidabilità”[1], partiti politici e movimenti civici hanno introdotto nei rispettivi statuti interni la categoria della “impresentabilità”.

Diventa impresentabile l’aspirante candidato alla carica elettiva che, sottoposto ad uno screening da un organo interno del partito politico appositamente istituito, pur possedendo i requisiti soggettivi richiesti dalla legge per proporre la propria candidatura, difetta di ulteriori e più stringenti requisiti soggettivi previsti da regolamenti interni ai partiti politici, meglio conosciuti come Codici etici[2]. Trattasi di requisiti che interessano anche la sfera morale e sociale dell’aspirante candidato e che vengono valutati con il metro della mera “opportunità”.

Siamo quindi in presenza non di una “nuova incapacità giuridica speciale” voluta dal legislatore, ma di una forma domestica d’incapacità politica la cui disponibilità rientra nelle prerogative e nelle scelte di un’associazione non riconosciuta qual è il partito politico. In pratica, il partito politico, ritenendosi titolare di siffatta prerogativa in forza di un regolamento interno, si assume la responsabilità (almeno per le proprie liste elettorali) di non candidare un aspirante candidato alla carica elettiva per motivazioni proprie e comunque anche estranee a quelle espressamente stabilite dalla legge.

Orbene, questo nuovo ed aggiuntivo filtro inserito dai partiti politici rischia però di infrangersi sulle norme dell’ordinamento costituzionale e sui principi che la Corte Costituzionale ha sancito in materia. Il diritto di elettorato passivo, che è un diritto soggettivo perfetto, è infatti riconosciuto dalla nostra Costituzione all’art. 51, che così recita: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Nell’ambito del potere di fissazione dei “requisiti” di eleggibilità, che l’art. 51 riserva solamente al legislatore, esistono delle cause ostative all’esercizio di tale diritto, che trovano espressa disciplina nel nostro ordinamento giuridico e che riguardano tutti i livelli istituzionali in cui è prevista una carica di tipo elettivo.

Proprio il principio di cui all’art. 51 Cost. svolge «il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto ad ogni cittadino con i caratteri dell’inviolabilità (ex art. 2 della Costituzione)»[3]. La giurisprudenza costituzionale ha, peraltro, più volte tutelato il fondamentale diritto di elettorato passivo, trattandosi «di un diritto che, essendo intangibile nel suo contenuto di valore, può essere unicamente disciplinato da leggi generali, che possono limitarlo soltanto al fine di realizzare altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadino e cittadino, qualunque sia la Regione o il luogo di appartenenza»[4].

Appare pertinente altresì rilevare che secondo un altro principio sancito dalla Corte Costituzionale «… l’eleggibilità è la regola e l’ineleggibilità l’eccezione: le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate …»[5].

Peraltro, anche la casistica ostativa all’esercizio del diritto di elettorato passivo annoverabile nella “indegnità morale”, alla quale si ispirano parecchie delle norme contenute nei codici etici dei partiti, è sottoposta a riserva di legge per espressa previsione costituzionale. L’art. 48, comma 3°, Cost. così recita: «Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».

In questo quadro normativo, caratterizzato da disposizioni di rango costituzionale, non sembrano rinvenirsi spazi per una disciplina in materia di diritti di elettorato passivo assegnati alla disponibilità ed all’autonomia dei partiti politici.

2. Il recente caso del Partito Democratico

Molti partiti si sono dotati di questi codici etici per filtrare le candidature e tra questi il Partito Democratico. Le recenti decisioni del Partito Democratico di escludere dalle proprie liste i Senatori uscenti Crisafulli, Caputo e Papanìa, rispolverano una questione che a ritmi periodici e, per lo più coincidenti con la fase della formazione delle liste di candidati per il rinnovo delle Istituzioni democratiche, si presenta in tutta la sua arrogante e preoccupante realtà del sistema partitico in Italia: «la democrazia interna ai partiti politici»[6].

Lungi dall’entrare nel merito delle singole questioni esaminate dalla Commissione di garanzia all’uopo istituita e presieduta dal già Ministro Luigi Berlinguer, ciò che risalta all’evidenza e che merita una prima, e certamente non esaustiva, riflessione, concerne la tardività della decisione assunta dal vertice del PD rispetto ad un percorso, quello delle primarie, che, in disparte l’ottimo risultato ottenuto dai singoli interessati, si è regolarmente celebrato senza alcuna avvertenza e/o fattispecie di clausola risolutiva.

In sostanza, il PD si è posto il problema della “impresentabilità” “per meri motivi di opportunità” non nella fase propedeutica deliberatamente scelta dal medesimo partito attraverso lo svolgimento di primarie interne, ma solo in quella successiva e consequenziale della formazione delle liste. Quindi, i tre Parlamentari raggiunti dal provvedimento di esclusione, mentre sono stati, anche se implicitamente, ritenuti presentabili e conformi al Codice etico di cui si è dotato il PD ai fini della presentazione alle primarie, sono diventati improvvisamente “impresentabili” dopo il vaglio della citata Commissione di garanzia che, evidentemente, ha ritenuto ininfluente l’affidamento creatosi in capo ai destinatari.

Non vi è chi non veda in questo provvedimento di esclusione un comportamento dei vertici del PD che, ancorché insindacabile in ordine alle valutazioni di opportunità, si pone in manifesta violazione di almeno due principi del nostro ordinamento che, nella fattispecie, convergono nell’irrobustire la posizione giuridica dei soggetti destinatari della decisione: il principio del legittimo affidamento di matrice pubblicistica e il principio della buona fede di matrice privatistica. Entrambi i principi, la cui scansione preliminare risulterebbe pregiudiziale ai fini dell’individuazione della giurisdizione, mirano a proteggere il diritto di chi, avendo confidato su una procedura e/o su un comportamento ritenuto in un primo tempo legittimo (o lecito) dalla parte attiva, si vede negare apoditticamente lo stesso.

L’affidamento rappresenta lo stato di fiducia dei soggetti dichiarati dal PD “impresentabili” in base all’apparenza delle situazioni e dei fatti divergenti dalla loro sostanza, che si configura e si consolida a seguito di un comportamento concludente (rectius, apparentia iuris) – lo svolgimento delle primarie – che, in virtù del tempo e della buona fede viene a sovrapporsi alla fattispecie reale. Secondo tale accezione, l’affidamento «esprime l’esigenza, propria della giustizia sostanziale, di dare giusto rilievo ad una valutazione della buona fede che tenga conto, nella regolazione dei rapporti giuridici, del comportamento delle parti. Più specificatamente, nel suo significato più ristretto l’affidamento indica le ipotesi in cui l’ordinamento accorda la propria tutela allo stato di fiducia. È appena il caso di ricordare, peraltro, che il principio di buona fede è esplicitamente contemplato nel codice civile agli artt. 1375 e 1175; anche se in quest’ultimo articolo viene usato il termine correttezza, esso può considerarsi un sinonimo del concetto di buona fede, al pari di altri termini come solidarietà o leale cooperazione, o comunque un elemento della situazione di legittimo affidamento»[7].

Invero, la clausola generale di buona fede e correttezza, mentre è ordinariamente operante nei rapporti negoziali tra i soci dell’associazione partitica, acquisisce ben altro spessore allorquando la posta in gioco investe diritti che trovano copertura in fonti di rango superprimario come gli articoli 49 e 51 della Costituzione.

Il PD avrebbe dovuto, pertanto, anticipare alla fase delle primarie il controllo delle singole candidature affidato alla Commissione di garanzia, pena il consolidarsi di un legittimo affidamento alla candidatura in capo agli aspiranti una volta vinte le primarie. Né, può andare a scapito dei legittimi aspiranti candidati il fatto che né lo statuto né il successivo regolamento sulle primarie prescrivono l’esercizio del controllo ad opera della Commissione di garanzia nella fase prodromica alla formazione delle liste. In pratica, il PD non può fare ricadere sugli aspiranti candidati legittimamente scelti dalle primarie le conseguenze negative dei suoi errori, con ciò ledendo fondamentali diritti soggettivi quali sono i diritti politici derivanti dall’elettorato passivo.

La questione diventa speciosa, e meritevole di essere sottoposta al vaglio della giustizia ordinaria, nel caso in cui l’acclarata “impresentabilità” degli aspiranti candidati sia stata assunta dai vertici del PD per motivazioni che non trovano riscontro oggettivo neanche nell’adottato Codice etico.

3. Considerazioni finali

In tale contesto, non si può non ribadire, ancora una volta, che la mancata attuazione dell’art. 49 della Costituzione crea, a ritmi periodici ma costanti, seri problemi di democrazia all’interno di organizzazioni esponenziali della società civile alle quali la medesima Costituzione affida fondamentali e, per alcuni autorevoli commentatori[8], irrinunciabili funzioni pubbliche: “la determinazione della politica nazionale”.

Le funzioni svolte dai partiti politici, oltreché pubbliche, sono anche costituzionalmente rilevanti, perché trovano fondamento nel citato art. 49 Cost.. Esse non possono quindi essere lese dall’autonomia, cosiddetta interna, riconosciuta ai partiti senza con ciò ledere il ruolo fondamentale che la Costituzione assegna agli stessi. I partiti politici sono infatti il principale, se non unico, strumento attraverso cui si esprime il pluralismo politico dei cittadini, i quali, loro tramite, possono partecipare quotidianamente alla determinazione della politica nazionale. Al riguardo è decisivo rilevare che «i partiti politici sono garantiti dalla carta costituzionale – nella prospettiva del diritto dei cittadini di associarsi – quali strumenti di rappresentanza di interessi politicamente organizzati; diritto di associazione al quale si ricollega la garanzia del pluralismo»[9].

I partiti, quindi, concorrono alla formazione e manifestazione della volontà popolare e sono strumento fondamentale per la partecipazione politica e democratica. Le funzioni attribuite ai medesimi nel procedimento elettorale – deposito contrassegni delle candidature individuali e di lista, raccolta firme, selezione delle candidature, presentazione delle liste, campagna elettorale, applicazione della par condicio – costituiscono l’unico modo costituzionalmente possibile e legittimo perché nelle odierne democrazie rappresentative il popolo possa esercitare la propria sovranità, cioè per “raccordare”, come dice la Corte Costituzionale[10], democrazia e rappresentanza politica. Il ruolo fondamentale svolto dai partiti nel procedimento elettorale assume quindi natura non solo pubblica ma anche costituzionale perché costituisce la principale modalità di esercizio del ruolo attribuito ai partiti dall’art. 49 Cost.[11].

È di tutta evidenza come l’effettiva possibilità, per i cittadini, di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale abbia necessità di una serie di garanzie che investono anche vicende interne ai partiti politici. Nell’attuale sistema politico-elettorale, la selezione dei candidati (e futuri eletti) alle cariche politiche è affidata esclusivamente agli organi di partito, con notevole alterazione dei principi a fondamento del suffragio universale consacrati nell’art. 48 della Costituzione. La democrazia interna ai partiti, nei sistemi elettorali a prevalente contenuto maggioritario, è divenuta, quindi, indispensabile per ristabilire l’effettività della sovranità popolare. L’organizzazione interna dei partiti, infatti, non può essere indifferente nelle relazioni giuridiche, e la giustiziabilità di talune pretese si profila sempre più spesso sullo sfondo dell’attività dei partiti.

Non si tratta (tanto) di riproporre le vessate questioni circa il controllo pubblico (id est: amministrativo alla stregua della disciplina legislativa) sui partiti, ma di “leggere” le relazioni tra singolo e associazioni privilegiate, valorizzando le logiche proprie del diritto comune dei rapporti interprivati, il quale non a caso si impernia sulla tutela delle posizioni soggettive e – di conseguenza – sui poteri del giudice[12].

Il diritto all’elettorato passivo gode infatti di una copertura costituzionale e di conseguenza non è ipotizzabile pensare ad alcun margine di discrezionalità riservato al potere normativo di un‘associazione partitica, trattandosi di materia coperta da riserva di legge e come tale inevitabilmente sottratta alla potestà regolamentare e statutaria dei partiti politici. Senza considerare che se fosse lasciato alla discrezionalità dei partiti politici stabilire in via autonoma criteri differenti da quelli legali, risulterebbe eluso anche il fine voluto dall’art. 51 della Costituzione di assicurare a tutti i cittadini “condizioni di eguaglianza nell’accesso alle cariche elettive”.

Corollario di queste argomentazioni è che l’equilibrio tra condivisibili istanze di “moralizzazione” nella selezione della classe politica ed insuperabili limiti costituzionali non può che trovare sede nell’attuazione legislativa dell’art. 49 della Costituzione, e questo, anche per scongiurare che un dirigente di partito, contaminato dalla sindrome dell’onnipotenza, possa sostituirsi alla naturale sede legislativa per determinare egli stesso, con interpretazioni estemporanee ed arbitrarie il “metodo democratico” della vita interna del partito politico.

[1] Recentemente il Governo ha approvato il decreto legislativo 31 dicembre n. 235 recante: “Testo Unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’art. 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190”.[2] L’ordinamento del terzo settore conosce già questi strumenti avendoli sperimentati in Sicilia ad opera delle Associazioni degli Industriali per contrastare le infiltrazioni mafiose all’interno del tessuto imprenditoriale.

[3] Corte Cost. sent. n. 25 del 2008, n. 288 del 2007 e n. 539 del 1990.

[4] cfr. ex plurimis sentenza n. 235 del 1988.

[5] Corte Cost. sent. n. 141/1996.

[6] Sull’argomento si consenta il rinvio a Massimo Greco “La democrazia interna ai partiti politici in Italia”, su Forum di Quaderni Costituzionali, 22/03/2012.

[7] Cons. Stato, sent. n. 2/2012.

[8] Per il Presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky «i partiti politici sono l’unico strumento che conosciamo per unificare la società e tenerla insieme».

[9] Corte Cost. Ordinanza n. 79/2006.

[10] Idem.

[11] S. Curreri, Non varcate quella soglia, 18 aprile 2006 e A. Mannino, I partiti politici davanti alla Corte Costituzionale, 3 maggio 2006 in Forum di Quaderni Costituzionali.

[12] D. Messineo, L’ammissione del cittadino ai partiti: osservazioni a margine del caso Pannella, in liberalfondazione.it.