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L'abuso edilizio: l'istituto giuridico, la normativa e la giurisprudenza in materia

Cenni
Il mito della “casa di proprietà”, culturalmente radicato nella tradizione italiana, dal boom economico degli anni ‘90 sino all’insorgenza della attuale crisi finanziaria mondiale, ha spinto l’acceleratore sulla necessità di “investire sul mattone”, fenomeno che non di rado ha dato luogo ad interventi edilizi eseguiti in assenza del titolo edilizio richiesto, o in difformità da esso, o ancora con variazioni ritenute essenziali.

E proprio in ciò consta il reato di “abuso edilizio”, tanto radicato nella nostra Penisola e tanto reiterato, da divenire oramai una forte piaga giuridica e sociale, alimentata e corroborata dai numerosi condoni intervenuti negli anni in materia.

Tale reato (perché non di mero illecito si tratta), rinviene il proprio referente normativo nel D.P.R. 380/2001, il c.d. Testo Unico in materia edilizia, e più specificatamente, nel Titolo IV del Codice medesimo, rubricato “vigilanza sull’attività urbanistico edilizia, responsabilità e sanzioni”, il quale titolo contiene, tra l’altro, agli artt. 44- 45, importanti norme di natura penale, finalizzate al sanzionamento di una così diffusa e radicata infrazione.

In particolare, ai sensi delle norme sancite dal codice, per “interventi eseguiti in totale difformità del permesso di costruire” si intendono i lavori comportanti la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile (art. 31 D.P.R. 380/2001).

Ebbene, l’opera difforme, qualora non venga rimossa o demolita entro novanta giorni dall’avvenuta notificazione dell’ingiunzione, viene acquisita ipso iure dall’Amministrazione, per poi essere successivamente demolita a spese dei fautori dell’abuso medesimo, fermo restando l’attribuzione, al dirigente o ad altro funzionario comunale, della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia svolta sul territorio di competenza, al fine di “assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi” (art. 33 D.P.R. 380/2001).

Altra nota interessante, è rappresentata dalla circostanza per cui, sempre ai sensi del Testo Unico in parola, il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore siano solidalmente responsabili della conformità delle opere rispetto alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano ed anche, unitamente al direttore dei lavori, alle modalità esecutive stabilite all’interno del permesso di costruire.

In tal modo, i soggetti menzionati sono tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, nel caso vi sia necessità di procedere alla demolizione delle opere abusivamente poste in essere, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso (clausola di salvaguardia).

Tra le più importanti sentenze in materia, che anno visto la luce nei primi mesi del 2012, si segnala un’importante pronuncia del T.A.R. lombardo, con cui è stato precisato che è richiesta, per un’istanza di condono edilizio, ai fini della configurabilità di un titolo edilizio tacito, la presentazione, da parte dell’autore dell’abuso, di tutta la documentazione prevista dalla legge (in particolare, quella di cui al comma 37° dell’art. 32 del citato decreto legge), oltre che il pagamento integrale delle somme dovute a titolo di oblazione e di contributo di concessione.

Nel caso non venga a formazione il silenzio-assenso sulla domanda di condono presentata legittimamente, è il Comune a determinare la misura degli oneri concessori e del contributo al momento del rilascio del titolo in sanatoria (cfr. T.A.R. Lombardia, Sez. II, sent. 491/2012).

Altra importante precisazione, di matrice giurisprudenziale, non meno recente, proviene da una pronuncia del Consiglio di Stato.

I Giudici di Palazzo Spada, invero, hanno colto l’occasione per sottolineare come “il Comune non possa rilasciare una concessione edilizia in sanatoria (condono) per una destinazione d’uso diversa da quella richiesta, a nulla rilevando, ai fini del rilascio o meno della concessione in sanatoria per una determinata destinazione d’uso, la concreta utilizzazione alla quale sia stato adibito l’immobile abusivo prima del condono; ed invero la sanatoria prevista dalla l. 28.02.1985 n. 47, come si desume dall’art. 31 stessa legge, ha carattere generale (salvo i vincoli di inedificabilità di cui all’art. 33) e non può escludersi per una specifica destinazione d’uso (la quale, se in atto insussistente o non conforme alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, incide soltanto sulla misura dell’oblazione da versare), salvo la mancanza di un’oggettiva conformazione strutturale dell’immobile coerente con l’uso per il quale è stata avanzata domanda” (Consiglio Stato, Sez. IV, sent. 683/2012). Il mito della “casa di proprietà”, culturalmente radicato nella tradizione italiana, dal boom economico degli anni ‘90 sino all’insorgenza della attuale crisi finanziaria mondiale, ha spinto l’acceleratore sulla necessità di “investire sul mattone”, fenomeno che non di rado ha dato luogo ad interventi edilizi eseguiti in assenza del titolo edilizio richiesto, o in difformità da esso, o ancora con variazioni ritenute essenziali.

E proprio in ciò consta il reato di “abuso edilizio”, tanto radicato nella nostra Penisola e tanto reiterato, da divenire oramai una forte piaga giuridica e sociale, alimentata e corroborata dai numerosi condoni intervenuti negli anni in materia.

Tale reato (perché non di mero illecito si tratta), rinviene il proprio referente normativo nel D.P.R. 380/2001, il c.d. Testo Unico in materia edilizia, e più specificatamente, nel Titolo IV del Codice medesimo, rubricato “vigilanza sull’attività urbanistico edilizia, responsabilità e sanzioni”, il quale titolo contiene, tra l’altro, agli artt. 44- 45, importanti norme di natura penale, finalizzate al sanzionamento di una così diffusa e radicata infrazione.

In particolare, ai sensi delle norme sancite dal codice, per “interventi eseguiti in totale difformità del permesso di costruire” si intendono i lavori comportanti la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile (art. 31 D.P.R. 380/2001).

Ebbene, l’opera difforme, qualora non venga rimossa o demolita entro novanta giorni dall’avvenuta notificazione dell’ingiunzione, viene acquisita ipso iure dall’Amministrazione, per poi essere successivamente demolita a spese dei fautori dell’abuso medesimo, fermo restando l’attribuzione, al dirigente o ad altro funzionario comunale, della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia svolta sul territorio di competenza, al fine di “assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi” (art. 33 D.P.R. 380/2001).

Altra nota interessante, è rappresentata dalla circostanza per cui, sempre ai sensi del Testo Unico in parola, il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore siano solidalmente responsabili della conformità delle opere rispetto alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano ed anche, unitamente al direttore dei lavori, alle modalità esecutive stabilite all’interno del permesso di costruire.

In tal modo, i soggetti menzionati sono tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, nel caso vi sia necessità di procedere alla demolizione delle opere abusivamente poste in essere, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso (clausola di salvaguardia).

Tra le più importanti sentenze in materia, che anno visto la luce nei primi mesi del 2012, si segnala un’importante pronuncia del T.A.R. lombardo, con cui è stato precisato che è richiesta, per un’istanza di condono edilizio, ai fini della configurabilità di un titolo edilizio tacito, la presentazione, da parte dell’autore dell’abuso, di tutta la documentazione prevista dalla legge (in particolare, quella di cui al comma 37° dell’art. 32 del citato decreto legge), oltre che il pagamento integrale delle somme dovute a titolo di oblazione e di contributo di concessione.

Nel caso non venga a formazione il silenzio-assenso sulla domanda di condono presentata legittimamente, è il Comune a determinare la misura degli oneri concessori e del contributo al momento del rilascio del titolo in sanatoria (cfr. T.A.R. Lombardia, Sez. II, sent. 491/2012).

Altra importante precisazione, di matrice giurisprudenziale, non meno recente, proviene da una pronuncia del Consiglio di Stato.

I Giudici di Palazzo Spada, invero, hanno colto l’occasione per sottolineare come “il Comune non possa rilasciare una concessione edilizia in sanatoria (condono) per una destinazione d’uso diversa da quella richiesta, a nulla rilevando, ai fini del rilascio o meno della concessione in sanatoria per una determinata destinazione d’uso, la concreta utilizzazione alla quale sia stato adibito l’immobile abusivo prima del condono; ed invero la sanatoria prevista dalla l. 28.02.1985 n. 47, come si desume dall’art. 31 stessa legge, ha carattere generale (salvo i vincoli di inedificabilità di cui all’art. 33) e non può escludersi per una specifica destinazione d’uso (la quale, se in atto insussistente o non conforme alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, incide soltanto sulla misura dell’oblazione da versare), salvo la mancanza di un’oggettiva conformazione strutturale dell’immobile coerente con l’uso per il quale è stata avanzata domanda” (Consiglio Stato, Sez. IV, sent. 683/2012).