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La disciplina dei permessi di funzione e delle assenze dal lavoro degli amministratori degli enti locali in Sicilia

Una delle misure contenute nella legge 14 settembre 2011, n. 148 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo concerne la riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica negli enti locali, più comunemente noti come “costi della politica”. Le disposizioni normative ivi contenute, soprattutto nell’art. 16, introducono nell’ordinamento delle autonomie locali nuove discipline in ordine all’esercizio associato di funzioni comunali ma anche alcune modifiche alle previsioni del TUEL in ordine al diritto riconosciuto ai Consiglieri, lavoratori dipendenti, di assentarsi dal posto di lavoro per l’intera giornata lavorativa.

1. La normativa statale

L’art. 79, commi 1, 2, 3 e 4, del Testo Unico degli enti locali, nel disciplinare le modalità di rimborso degli oneri economici ai datori di lavoro dei propri dipendenti incaricati di svolgere la funzione di Amministratore locale, stabilisce che i relativi oneri economici sono a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche, con l’avvertenza che se il lavoratore dipende da una Pubblica Amministrazione, essi restano a carico della stessa e non vengo traslati sui bilanci dell’ente locale nel quale viene esercitato il mandato elettivo. La previgente disciplina prevedeva la spettanza dell’intera giornata lavorativa per consentire al Consigliere dell’ente locale di partecipare alle sedute di consiglio e di commissione a prescindere dell’effettiva durata della riunione. Noti e diffusi sono i casi in cui i Consiglieri hanno usufruito di detto permesso anche in presenza della celebrazione di sedute deserte per mancanza del numero legale. In tempi di riduzione della spesa pubblica il legislatore ha inteso correre ai ripari modificandone la disciplina.

Il comma 21 del citato art. 16 del D.L. n. 138/2011 così recita: “All’articolo 79, comma 1, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, le parole: «per l’intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli» sono sostituite dalle seguenti: «per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento»”. Evidente è la ratio sottesa alla disposizione in questione, volta a consentire l’assenza del Consigliere dal rispettivo posto di lavoro, sia pubblico che privato, per il tempo strettamente necessario all’esercizio della funzione pubblica. Prima facie, la novella disposizione non sembra vulnerare il diritto politico che la Costituzione riconosce a coloro che sono chiamati a svolgere un mandato di tipo elettivo.

L’impegno politico di tipo elettivo gode infatti di una particolare copertura costituzionale a difesa del sistema democratico ed a tutela di chi viene investito di tale mandato. Ai sensi dell’art. 51 della Costituzione, “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento………”. In applicazione di tale principio l’art. 77, comma 1 del D.lgs. n. 267/2000 ha affermato che “La Repubblica tutela il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche pubbliche nella amministrazioni degli enti locali ad espletare il mandato, disponendo del tempo, dei servizi e delle risorse necessari ed usufruendo di indennità e di rimborsi spese nei modi e nei limiti previsti dalla legge”.

Ora, se è vero che l’esercizio delle funzioni elettive dà luogo ad un rapporto di servizio onorario, il cui compenso è scevro, ex art. 54 Cost., da qualsiasi connotato di sinallagmaticità, con la conseguenza che la corresponsione del gettone di presenza o dell’indennità di funzione non costituisce retribuzione, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione[1], è anche vero che secondo la letteratura che si è affermata sul tema, il concetto di munus pubblicum implica lo svolgimento di un compito che viene si “donato” alla collettività, ma non in chiave eminentemente gratuita, presupponendo pur sempre una situazione di debito a carico di coloro che ricevono tale “dono”[2]. In tale contesto, il debito a carico della finanze pubbliche si riferisce sia al compenso direttamente percepito dal Consigliere che al rimborso economico corrisposto al datore di lavoro per le ore di assenza che il Consigliere matura nell’esercizio della propria pubblica funzione. Sul datore di lavoro infatti “non possono gravare i costi delle assenze ratione muneris, il cui onere economico viene in tal modo traslato sulla collettività o più precisamente sull’erario del bilancio dell’ente locale territoriale nel quale il munus pubblico è esercitato”[3]. Risulta a carico delle finanze pubbliche, ovviamente, anche il tempo di lavoro sottratto all’Amministrazione Pubblica di appartenenza, per l’esercizio delle funzioni svolte dal Consigliere dipendente pubblico.

2. La normativa regionale

La Regione Sicilia è dotata, com’è noto, di autonomia esclusiva in materia (ex artt. 14 e 15 dello Statuto speciale). Va qui ricordato che il legislatore siciliano non ha recepito l’Ordinamento degli Enti Locali di cui al Testo Unico (T.U.E.L.) approvato con d.lgs n. 267/2000; pertanto, buona parte della materia risulta in atto disciplinata da molteplici fonti quali l’Ordinamento amministrativo regionale degli Enti Locali (O.R.E.L.) approvato con la legge 15 marzo 1963, n. 16 e successive modifiche, nonché le ll.rr. n. 44 e n. 48 del 3 e dell’11 dicembre 1991, 26 agosto 1992, n. 7, 1 settembre 1993, n. 26, 20 agosto 1994, n. 32, 5 luglio 1997, n. 23, 15 settembre 1997, n. 35, 7 settembre 1998, n. 23, 23 dicembre 2000, n. 30, 16 dicembre 2000, n. 25 e 16 dicembre 2008, n. 22.

In particolare le citate ll.rr. n. 30/2000 e n. 22/2008 hanno disciplinato la specifica materia dello status degli amministratori locali. L’art. 20 della l.r. n. 30/2000, come modificato dall’art. 8 della l.r. n. 22/2008, così dispone:

“1. I lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali e delle unioni di comuni nonché dei consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a duecentomila abitanti, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli. Nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i predetti lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata successiva.

2. I componenti delle commissioni consiliari previsti dai regolamenti e statuti dei comuni capoluogo e delle province regionali hanno diritto, per la partecipazione alle sedute, di assentarsi dal servizio per l’intera giornata.

3. I lavoratori dipendenti facenti parte delle giunte comunali o provinciali, degli organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, delle unioni di comuni, dei consorzi fra enti locali ovvero delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite e delle commissioni comunali previste per legge, ovvero membri delle conferenze dei capigruppo e degli organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti consiliari, hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte per la loro effettiva durata. Il diritto di assentarsi di cui al presente comma comprende il tempo per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro nonché quello per lo studio preliminare dell’ordine del giorno. Per i militari di leva o richiamati o per coloro che svolgano il servizio sostitutivo si applica l’ultimo periodo dell’articolo 80 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

4. I componenti degli organi esecutivi dei comuni, delle province, delle unioni di comuni, dei consorzi fra enti locali e i presidenti dei consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché i presidenti dei gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione superiore a diecimila abitanti, hanno diritto, oltre ai permessi di cui ai precedenti commi, di assentarsi dai rispettivi posti di lavoro per un massimo di 36 ore lavorative al mese, elevate a 48 ore per i sindaci, presidenti delle province, presidenti dei consigli provinciali e dei comuni con popolazione superiore a trentamila abitanti.

5. Le assenze dal servizio di cui ai commi 1,2,3 e 4 sono retribuite al lavoratore dal datore di lavoro. Gli oneri per i permessi retribuiti sono a carico dell’ente presso il quale i lavoratori dipendenti esercitano le funzioni pubbliche di cui ai commi precedenti. L’ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto per retribuzioni ed assicurazioni per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. In nessun caso l’ammontare complessivo da rimborsare nell’ambito di un mese può superare l’importo pari ad un terzo dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente di provincia. Per i comuni con popolazione fino a 10.000 abitanti, l’ammontare complessivo da rimborsare nell’ambito di un anno solare non può superare l’importo pari a metà dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco nello stesso periodo.

6. I lavoratori dipendenti di cui al presente articolo hanno diritto ad ulteriori permessi non retribuiti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato.

Il legislatore regionale, in forza della potestà esclusiva in materia di organizzazione ed ordinamento degli enti locali, ha quindi deciso di autodeterminarsi, limitando il rinvio alla normativa statale a pochissimi casi.

3. Il rapporto tra normativa statale e normativa regionale

La novella disciplina statale in ordine al riconoscimento del permesso retribuito – permesso di funzione -[4] in base al tempo strettamente necessario all’esercizio della funzione pubblica, rispetto alla precedente versione del TUEL (art. 79, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 ), nel comportare un risparmio in re ipsa delle risorse pubbliche, ci consegna altresì la chiave per interpretare il contenuto nella medesima disposizione. Una volta accertata la finalità della disposizione impugnata, va individuata la materia nella quale la stessa interviene. Ai fini dell’applicazione della norma in questione negli ordinamenti delle Regioni a Statuto speciale come la Sicilia diventa infatti dirimente stabilire se la norma ha un contenuto ordinamentale-organizzativo ovvero finanziario.

L’esame autonomo in via interpretativa della questione è obbligatorio per coloro che hanno l’onere di assumere decisioni (Amministrazione Reg.le ed Amministrazioni locali interessate), attesa l’assenza di specifica disciplina statutaria e legislativa che regoli il rapporto tra legislazione statale e legislazione siciliana[5].

L’art. 19-bis del medesimo d.l. n. 138/2011, aggiunto in sede di conversione in legge, recante “Disposizioni finali concernenti le regioni a statuto speciale e le province autonome”, dispone che “L’attuazione delle disposizioni del presente decreto nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano avviene nel rispetto dei loro statuti e delle relative norme di attuazione e secondo quanto previsto dall’articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42”. In sostanza il legislatore statale, per le Regioni a Statuto speciale, introduce la “clausola di compatibilità” delle disposizioni finanziarie di cui trattasi, aggiungendo il riferimento all’articolo 27 della legge n. 42/09, quale norma che disciplina l’attuazione del federalismo fiscale nelle Regioni a Statuto speciale. L’esplicitazione di questo principio è stata introdotta in passato principalmente nelle leggi finanziarie per evitare che Regioni e Province autonome, nel dubbio sull’effettiva estensione di disposizioni che incidono sulle materie di loro competenza, ritenessero necessario chiedere una pronuncia della Corte Costituzionale. Tuttavia, è stato già’ precisato, in una serie di pronunce[6] concernenti le leggi finanziarie, che simili clausole, formulate in termini generici, non hanno l’effetto di escludere una lesione della potestà legislativa regionale in quanto “l’eccessiva vaghezza della loro formulazione, aggravata dalla complessa struttura delle leggi finanziarie, frutto della prassi invalsa negli ultimi anni, non può valere ad escludere le autonomie speciali dall’applicazione delle norme contenute nelle suddette leggi”[7].

4. Il principio di coordinamento della finanza pubblica

Dalla lettura della giurisprudenza della Corte Costituzionale[8], si ricava che le norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni (anche a Statuto speciale) e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione:

a) in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente;

b) in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti e modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi.

A prescindere dai citati limiti costituzionali del “l’auto-dichiarazione”, tutte le misure contenute nella legge 14 settembre 2011, n. 148 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, presentano una spiccata valenza di natura finanziaria “in considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea”. In tale contesto normativo, anche nell’art. 16, comma 21, qui indagato, si rilevano evidenti caratteri di natura finanziaria connessi alle “’esigenze di coordinamento della finanza pubblica”.

Già in passato la questione in ordine all’applicabilità di norme statali a carattere finanziario nell’ordinamento siciliano ha interessato le Istituzioni regionali e locali a vario titolo coinvolte, il cui approccio non è stato né semplice né coerente. Basti in questa sede evidenziare quanto statuito dalla Corte Costituzionale che, mentre afferma la legittimità costituzionale delle norme statali finalizzate ad assicurare, in vista della tutela dell’unità economica della Repubblica, e del coordinamento della finanza pubblica, la sana gestione finanziaria degli enti locali, nonché il rispetto, da parte di questi ultimi, del patto di stabilità interno e del vincolo in materia di indebitamento posto dall’art. 119, comma 6, Cost[9], in sede di giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 54 e 55, della l. n. 266/2005 afferma che: “Il censurato comma 54, nel fissare la riduzione delle indennità corrisposte ai titolari degli organi politici regionali… pone un precetto specifico e puntuale, comprimendo l’autonomia finanziaria regionale ed eccedendo dall’ambito dei poteri statali in materia di coordinamento della finanza pubblica”[10]. In altri termini, la legge statale può stabilire solo un “limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa” e non può fissare vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle Regioni e degli Enti locali, tali da ledere l’autonomia finanziaria di spesa garantita dall’art. 119 Cost..

In vigenza del nuovo Titolo V° della Costituzione, si registra quindi un orientamento oscillante della giurisprudenza costituzionale volto ora a censurare interventi del legislatore statale restrittivi della libertà e dell’autonomia delle Regioni e, a caduta, degli Enti locali, ora a dare copertura costituzionale a misure statali estese anche per gli ordinamenti regionali e locali al fine di assicurare l’equilibrio finanziario del sistema pubblico.

Invero, la questione sembra non trovare univocità di vedute neanche nella giurisprudenza amministrativa. In occasione della citata legge finanziaria n. 266/2005, all’interno della quale si imponevano già le prime riduzioni ai “costi della politica” con particolare riferimento alla riduzione dei compensi spettanti agli amministratori locali, il Consiglio di Giustizia Amministrativa, investito della questione dall’Amministrazione Regionale, con pareri n. 885 del 6/03/2007 e n. 649 del 5/09/2007 si esprimeva in questi termini: “Un’interpretazione conforme non solo alla lettera della legge, che – va ricordato – ha espressamente ricondotto la novella legislativa riduttiva delle indennità e dei gettoni degli amministratori locali, inserita nella finanziaria 2006, al perseguimento di esigenze di coordinamento della finanza pubblica, ma anche alla ratio e alla sostanza della norma stessa impone, ad avviso della Sezione, di considerare la disposizione applicabile anche all’ambito regionale autonomo e localistico di cui si discute................venendo ad essere coinvolto lo specifico fine (sempre però di principio) della riduzione dei costi della politica, che non può essere disconnesso dalle ragioni di coordinamento finanziario proprie di obiettivi di portata chiaramente nazionale, e le modalità della cui attuazione, per tali motivi, non possono essere rimesse a valutazioni discrezionali di ogni ambito regionale ed autonomistico”.

In sostanza il C.G.A. non mancava di evidenziare che la volontà del legislatore statale di incidere sia sugli aspetti organizzativo-ordinamentali degli enti locali, apportando modifiche al T.U. n. 267/2000, che sugli aspetti della finanza pubblica, introducendo un vincolo riduttivo dei gettoni di presenza spettanti ai consiglieri per finalità che vanno al di là del mero equilibrio finanziario e quindi della riduzione generica della spesa, venendo coinvolto (anche per l’anno corrente) lo specifico scopo della riduzione dei costi della politica, “...non può essere disconnesso dalle ragioni di coordinamento finanziario proprie di obiettivi di portata chiaramente nazionale...”. L’autorevole Organo di Giustizia Amministrativa sembra quindi orientato a dare prevalenza agli aspetti di natura finanziaria sottesi alle disposizioni delle leggi finanziarie statali per giustificare l’applicabilità delle medesime nell’ordinamento siciliano.

Più recentemente, sempre in ordine all’applicabilità delle norme finanziarie statali volte alla riduzione dei “costi della politica” in territorio siciliano, si registra un pronunciamento, di segno contrario, del Tribunale Amministrativo siciliano, espresso in sede cautelare, a proposito della prevista soppressione della figura del Difensore civico contenuta nell’art. 2, comma 186, della legge finanziaria 2010 (legge n. 191/2009). Per il Tar di Catania, chiamato a pronunciarsi sulla soppressione del difensore civico determinata dal Comune di Capo Passero “…la regione siciliana non risulta avere recepito l’art. 1, comma 186, della L. n. 191/2009, alla stregua del comma 183 del medesimo articolo…”[11].

5. L’applicazione in Sicilia dell’art. 16, comma 21, del d.l. n. 138/2011

In ordine all’ubi consistam della presente riflessione, si osserva, come del resto appare evidente dal tenore della rubrica dell’art. 16, denominata “Riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni”, che l’intento del legislatore è chiaramente rivolto a tale finalità, nel contesto del disegno di coordinamento della finanza pubblica, con conseguente necessità di riduzione degli oneri economici spettanti indirettamente ai Consiglieri per la partecipazione alle sedute degli organi istituzionali dell’ente locale in cui esercitano il mandato elettivo. Andrebbe qui aggiunto, che relativamente alla normativa in questione, trattandosi di disposizione inserita all’interno delle periodiche misure di coordinamento della finanza pubblica introdotte nell’ordinamento dal legislatore statale, la sua applicazione è da ritenersi confermata anche dalla circostanza che essa incide sul livello complessivo di una tipologia di spesa e non su singoli atti[12].

Detto questo, il punctum pruriens della questione postula, come prospettato nei precedenti paragrafi, l’assorbente esame relativo all’applicabilità nella Regione Sicilia della norma richiamata. Ciò in considerazione della riserva nell’ambito ordinamentale ed organizzativo in materia di enti locali prevista dall’art. 14 dello Statuto e dalla puntuale e specifica occupazione legislativa operata dal legislatore regionale. Bisogna però porre in rilievo che la norma oggetto della nostra riflessione non incide sugli aspetti ordinamentali ed organizzativi, già disciplinati autonomamente dalle citate leggi regionali nn. 30/2000 e 22/2008, bensì sull’aspetto prettamente finanziario della spesa pubblica, cioè sulla caratteristica della legge statale di fissare limiti alla spesa pubblica applicabili anche alle autonomie speciali, in considerazione dell’obbligo generale di tutte le componenti della Repubblica di contribuire all’azione di risanamento della finanza pubblica[13]. Viene infatti interessato dalla disposizione statale, così aderendo al citato orientamento del CGA, “lo specifico fine (sempre però di principio) della riduzione dei costi della politica, che non può essere disconnesso dalle ragioni di coordinamento finanziario proprie di obiettivi di portata chiaramente nazionale, e le modalità della cui attuazione, per tali motivi, non possono essere rimesse a valutazioni discrezionali di ogni ambito regionale ed autonomistico”.

Peraltro, la disposizione statale, mentre non pone in discussione il diritto dell’Amministratore locale di assentarsi dal posto di lavoro per la durata necessaria all’esercizio delle funzione durante le sedute degli organi collegiali dell’Ente locale, mira solamente a raggiungere l’obiettivo di ridurre i relativi rimborsi previsti per i rispettivi datori di lavoro a beneficio delle risorse finanziarie di cui dispongono i bilanci comunali e provinciali. In sostanza, la facoltà riconosciuta al legislatore regionale di disciplinare autonomamente le modalità di esercizio delle funzioni elettive negli Enti locali trova il limite, diventato sempre più stringente negli ultimi anni per le note emergenze finanziarie, del contenimento della spesa pubblica anche locale, la cui programmazione, quanto meno per voci di costo aggregate, risente inevitabilmente delle scelte statali.

L’art. 16 del D.L. n. 138/2011, come convertito, dunque, si ritiene applicabile agli enti locali della Regione Sicilia, così come ritenuto implicitamente plausibile in altra Regione a Statuto speciale come la Sardegna.

Sulla medesima questione, si registra infatti il parere della Corte dei Conti, Sez. Contr. Sardegna, n. 79 del 12/10/2012 chiamata a pronunciarsi sulla portata della deroga disposta dall’art. 1 della l.r. Sardegna n. 4 del 22/02/2012 all’art. 16, comma 21, del d.l. n. 138/2011. L’autorevole Organo consultivo, pur in presenza di una specifica legge regionale derogatoria rispetto alla previsione statale non sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, non ha mancato di manifestare “le perplessità legate alla necessità di trovare la copertura delle relative spese nei bilanci degli enti locali e alla necessità di rispettare, comunque, un proprio piano di contenimento delle spese nell’ottica del coordinamento della finanza pubblica a livello nazionale”.

In tale contesto, e per le argomentazioni sopra illustrate, non può essere condivisa la Circolare dell’Assessorato Reg.le alle Autonomie locali n. 1 del 13/01/2011 che esclude, tout court, l’applicabilità delle disposizioni statali contenute nel precedente d.l. n. 78/2010, come convertito nella l. n. 191/2009, in materia di riduzione del costo degli apparati politici amministrativi senza discriminare le disposizioni normative a prevalente contenuto ordinamentale-organizzativo da quelle a prevalente contenuto finanziario.

[1] Cons. Stato, sez. V°, sent. 10/09/2010 n. 6526.

[2] Tar Sicilia, Palermo, sent. 06/10/2009 n. 1569.

[3] Riccardo Nobile, “La disciplina dei permessi e delle assenze dal lavoro degli amministratori degli enti locali territoriali”, LexItalia.it, n. 10/2010.

[4] Tale tipologia di permesso va distinta dal cosiddetto permesso plafond, fattispecie prevista dai successivi commi 4 e 5 dell’art. 79 del TUEL e, a sua volta, divisa tra permesso retribuito e permesso non retribuito.

[5] A tal proposito, risulta presentato in Parlamento, ma ancora impolverato, il d.d.l. n. 110 di modifica dello Statuto siciliano che mira a disciplinare i rapporti tra la legislazione statale e quella regionale nelle materie di esclusiva competenza statutaria.

[6] Corte Cost. sent. n. 326/2008, nn. 165, 162 e 105/2007 e nn. 234, 118 e 88/2006.

[7] Corte Cost. sent. n. 105/2007.

[8] Tra le tante si veda Corte Cost. sent. 24/04/2008 n. 120.

[9] Corte Cost, sent. nn. 376/2003; 36/2004; 4/2004; 64/2005 e 417/2005.

[10] Corte Cost. sent. n. 157/2007.

[11] Tar Catania, Ord. n. 864 del 06/07/2010.

[12] In questa direzione si vedano le deliberazioni della Corte dei Conti, Sezioni Riunite per la Regione Siciliana, in sede consultiva nn. 71 e 72 del 2011 e n. 10 del 2012.

[13] Corte Cost. sent. nn. 139 e 297 del 2009.

Una delle misure contenute nella legge 14 settembre 2011, n. 148 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo concerne la riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica negli enti locali, più comunemente noti come “costi della politica”. Le disposizioni normative ivi contenute, soprattutto nell’art. 16, introducono nell’ordinamento delle autonomie locali nuove discipline in ordine all’esercizio associato di funzioni comunali ma anche alcune modifiche alle previsioni del TUEL in ordine al diritto riconosciuto ai Consiglieri, lavoratori dipendenti, di assentarsi dal posto di lavoro per l’intera giornata lavorativa.

1. La normativa statale

L’art. 79, commi 1, 2, 3 e 4, del Testo Unico degli enti locali, nel disciplinare le modalità di rimborso degli oneri economici ai datori di lavoro dei propri dipendenti incaricati di svolgere la funzione di Amministratore locale, stabilisce che i relativi oneri economici sono a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche, con l’avvertenza che se il lavoratore dipende da una Pubblica Amministrazione, essi restano a carico della stessa e non vengo traslati sui bilanci dell’ente locale nel quale viene esercitato il mandato elettivo. La previgente disciplina prevedeva la spettanza dell’intera giornata lavorativa per consentire al Consigliere dell’ente locale di partecipare alle sedute di consiglio e di commissione a prescindere dell’effettiva durata della riunione. Noti e diffusi sono i casi in cui i Consiglieri hanno usufruito di detto permesso anche in presenza della celebrazione di sedute deserte per mancanza del numero legale. In tempi di riduzione della spesa pubblica il legislatore ha inteso correre ai ripari modificandone la disciplina.

Il comma 21 del citato art. 16 del D.L. n. 138/2011 così recita: “All’articolo 79, comma 1, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, le parole: «per l’intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli» sono sostituite dalle seguenti: «per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento»”. Evidente è la ratio sottesa alla disposizione in questione, volta a consentire l’assenza del Consigliere dal rispettivo posto di lavoro, sia pubblico che privato, per il tempo strettamente necessario all’esercizio della funzione pubblica. Prima facie, la novella disposizione non sembra vulnerare il diritto politico che la Costituzione riconosce a coloro che sono chiamati a svolgere un mandato di tipo elettivo.

L’impegno politico di tipo elettivo gode infatti di una particolare copertura costituzionale a difesa del sistema democratico ed a tutela di chi viene investito di tale mandato. Ai sensi dell’art. 51 della Costituzione, “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento………”. In applicazione di tale principio l’art. 77, comma 1 del D.lgs. n. 267/2000 ha affermato che “La Repubblica tutela il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche pubbliche nella amministrazioni degli enti locali ad espletare il mandato, disponendo del tempo, dei servizi e delle risorse necessari ed usufruendo di indennità e di rimborsi spese nei modi e nei limiti previsti dalla legge”.

Ora, se è vero che l’esercizio delle funzioni elettive dà luogo ad un rapporto di servizio onorario, il cui compenso è scevro, ex art. 54 Cost., da qualsiasi connotato di sinallagmaticità, con la conseguenza che la corresponsione del gettone di presenza o dell’indennità di funzione non costituisce retribuzione, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione[1], è anche vero che secondo la letteratura che si è affermata sul tema, il concetto di munus pubblicum implica lo svolgimento di un compito che viene si “donato” alla collettività, ma non in chiave eminentemente gratuita, presupponendo pur sempre una situazione di debito a carico di coloro che ricevono tale “dono”[2]. In tale contesto, il debito a carico della finanze pubbliche si riferisce sia al compenso direttamente percepito dal Consigliere che al rimborso economico corrisposto al datore di lavoro per le ore di assenza che il Consigliere matura nell’esercizio della propria pubblica funzione. Sul datore di lavoro infatti “non possono gravare i costi delle assenze ratione muneris, il cui onere economico viene in tal modo traslato sulla collettività o più precisamente sull’erario del bilancio dell’ente locale territoriale nel quale il munus pubblico è esercitato”[3]. Risulta a carico delle finanze pubbliche, ovviamente, anche il tempo di lavoro sottratto all’Amministrazione Pubblica di appartenenza, per l’esercizio delle funzioni svolte dal Consigliere dipendente pubblico.

2. La normativa regionale

La Regione Sicilia è dotata, com’è noto, di autonomia esclusiva in materia (ex artt. 14 e 15 dello Statuto speciale). Va qui ricordato che il legislatore siciliano non ha recepito l’Ordinamento degli Enti Locali di cui al Testo Unico (T.U.E.L.) approvato con d.lgs n. 267/2000; pertanto, buona parte della materia risulta in atto disciplinata da molteplici fonti quali l’Ordinamento amministrativo regionale degli Enti Locali (O.R.E.L.) approvato con la legge 15 marzo 1963, n. 16 e successive modifiche, nonché le ll.rr. n. 44 e n. 48 del 3 e dell’11 dicembre 1991, 26 agosto 1992, n. 7, 1 settembre 1993, n. 26, 20 agosto 1994, n. 32, 5 luglio 1997, n. 23, 15 settembre 1997, n. 35, 7 settembre 1998, n. 23, 23 dicembre 2000, n. 30, 16 dicembre 2000, n. 25 e 16 dicembre 2008, n. 22.

In particolare le citate ll.rr. n. 30/2000 e n. 22/2008 hanno disciplinato la specifica materia dello status degli amministratori locali. L’art. 20 della l.r. n. 30/2000, come modificato dall’art. 8 della l.r. n. 22/2008, così dispone:

“1. I lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali e delle unioni di comuni nonché dei consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a duecentomila abitanti, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli. Nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i predetti lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata successiva.

2. I componenti delle commissioni consiliari previsti dai regolamenti e statuti dei comuni capoluogo e delle province regionali hanno diritto, per la partecipazione alle sedute, di assentarsi dal servizio per l’intera giornata.

3. I lavoratori dipendenti facenti parte delle giunte comunali o provinciali, degli organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, delle unioni di comuni, dei consorzi fra enti locali ovvero delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite e delle commissioni comunali previste per legge, ovvero membri delle conferenze dei capigruppo e degli organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti consiliari, hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte per la loro effettiva durata. Il diritto di assentarsi di cui al presente comma comprende il tempo per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro nonché quello per lo studio preliminare dell’ordine del giorno. Per i militari di leva o richiamati o per coloro che svolgano il servizio sostitutivo si applica l’ultimo periodo dell’articolo 80 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

4. I componenti degli organi esecutivi dei comuni, delle province, delle unioni di comuni, dei consorzi fra enti locali e i presidenti dei consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché i presidenti dei gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione superiore a diecimila abitanti, hanno diritto, oltre ai permessi di cui ai precedenti commi, di assentarsi dai rispettivi posti di lavoro per un massimo di 36 ore lavorative al mese, elevate a 48 ore per i sindaci, presidenti delle province, presidenti dei consigli provinciali e dei comuni con popolazione superiore a trentamila abitanti.

5. Le assenze dal servizio di cui ai commi 1,2,3 e 4 sono retribuite al lavoratore dal datore di lavoro. Gli oneri per i permessi retribuiti sono a carico dell’ente presso il quale i lavoratori dipendenti esercitano le funzioni pubbliche di cui ai commi precedenti. L’ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto per retribuzioni ed assicurazioni per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. In nessun caso l’ammontare complessivo da rimborsare nell’ambito di un mese può superare l’importo pari ad un terzo dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente di provincia. Per i comuni con popolazione fino a 10.000 abitanti, l’ammontare complessivo da rimborsare nell’ambito di un anno solare non può superare l’importo pari a metà dell’indennità massima prevista per il rispettivo sindaco nello stesso periodo.

6. I lavoratori dipendenti di cui al presente articolo hanno diritto ad ulteriori permessi non retribuiti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato.

Il legislatore regionale, in forza della potestà esclusiva in materia di organizzazione ed ordinamento degli enti locali, ha quindi deciso di autodeterminarsi, limitando il rinvio alla normativa statale a pochissimi casi.

3. Il rapporto tra normativa statale e normativa regionale

La novella disciplina statale in ordine al riconoscimento del permesso retribuito – permesso di funzione -[4] in base al tempo strettamente necessario all’esercizio della funzione pubblica, rispetto alla precedente versione del TUEL (art. 79, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 ), nel comportare un risparmio in re ipsa delle risorse pubbliche, ci consegna altresì la chiave per interpretare il contenuto nella medesima disposizione. Una volta accertata la finalità della disposizione impugnata, va individuata la materia nella quale la stessa interviene. Ai fini dell’applicazione della norma in questione negli ordinamenti delle Regioni a Statuto speciale come la Sicilia diventa infatti dirimente stabilire se la norma ha un contenuto ordinamentale-organizzativo ovvero finanziario.

L’esame autonomo in via interpretativa della questione è obbligatorio per coloro che hanno l’onere di assumere decisioni (Amministrazione Reg.le ed Amministrazioni locali interessate), attesa l’assenza di specifica disciplina statutaria e legislativa che regoli il rapporto tra legislazione statale e legislazione siciliana[5].

L’art. 19-bis del medesimo d.l. n. 138/2011, aggiunto in sede di conversione in legge, recante “Disposizioni finali concernenti le regioni a statuto speciale e le province autonome”, dispone che “L’attuazione delle disposizioni del presente decreto nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano avviene nel rispetto dei loro statuti e delle relative norme di attuazione e secondo quanto previsto dall’articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42”. In sostanza il legislatore statale, per le Regioni a Statuto speciale, introduce la “clausola di compatibilità” delle disposizioni finanziarie di cui trattasi, aggiungendo il riferimento all’articolo 27 della legge n. 42/09, quale norma che disciplina l’attuazione del federalismo fiscale nelle Regioni a Statuto speciale. L’esplicitazione di questo principio è stata introdotta in passato principalmente nelle leggi finanziarie per evitare che Regioni e Province autonome, nel dubbio sull’effettiva estensione di disposizioni che incidono sulle materie di loro competenza, ritenessero necessario chiedere una pronuncia della Corte Costituzionale. Tuttavia, è stato già’ precisato, in una serie di pronunce[6] concernenti le leggi finanziarie, che simili clausole, formulate in termini generici, non hanno l’effetto di escludere una lesione della potestà legislativa regionale in quanto “l’eccessiva vaghezza della loro formulazione, aggravata dalla complessa struttura delle leggi finanziarie, frutto della prassi invalsa negli ultimi anni, non può valere ad escludere le autonomie speciali dall’applicazione delle norme contenute nelle suddette leggi”[7].

4. Il principio di coordinamento della finanza pubblica

Dalla lettura della giurisprudenza della Corte Costituzionale[8], si ricava che le norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni (anche a Statuto speciale) e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione:

a) in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente;

b) in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti e modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi.

A prescindere dai citati limiti costituzionali del “l’auto-dichiarazione”, tutte le misure contenute nella legge 14 settembre 2011, n. 148 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, presentano una spiccata valenza di natura finanziaria “in considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea”. In tale contesto normativo, anche nell’art. 16, comma 21, qui indagato, si rilevano evidenti caratteri di natura finanziaria connessi alle “’esigenze di coordinamento della finanza pubblica”.

Già in passato la questione in ordine all’applicabilità di norme statali a carattere finanziario nell’ordinamento siciliano ha interessato le Istituzioni regionali e locali a vario titolo coinvolte, il cui approccio non è stato né semplice né coerente. Basti in questa sede evidenziare quanto statuito dalla Corte Costituzionale che, mentre afferma la legittimità costituzionale delle norme statali finalizzate ad assicurare, in vista della tutela dell’unità economica della Repubblica, e del coordinamento della finanza pubblica, la sana gestione finanziaria degli enti locali, nonché il rispetto, da parte di questi ultimi, del patto di stabilità interno e del vincolo in materia di indebitamento posto dall’art. 119, comma 6, Cost[9], in sede di giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 54 e 55, della l. n. 266/2005 afferma che: “Il censurato comma 54, nel fissare la riduzione delle indennità corrisposte ai titolari degli organi politici regionali… pone un precetto specifico e puntuale, comprimendo l’autonomia finanziaria regionale ed eccedendo dall’ambito dei poteri statali in materia di coordinamento della finanza pubblica”[10]. In altri termini, la legge statale può stabilire solo un “limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa” e non può fissare vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle Regioni e degli Enti locali, tali da ledere l’autonomia finanziaria di spesa garantita dall’art. 119 Cost..

In vigenza del nuovo Titolo V° della Costituzione, si registra quindi un orientamento oscillante della giurisprudenza costituzionale volto ora a censurare interventi del legislatore statale restrittivi della libertà e dell’autonomia delle Regioni e, a caduta, degli Enti locali, ora a dare copertura costituzionale a misure statali estese anche per gli ordinamenti regionali e locali al fine di assicurare l’equilibrio finanziario del sistema pubblico.

Invero, la questione sembra non trovare univocità di vedute neanche nella giurisprudenza amministrativa. In occasione della citata legge finanziaria n. 266/2005, all’interno della quale si imponevano già le prime riduzioni ai “costi della politica” con particolare riferimento alla riduzione dei compensi spettanti agli amministratori locali, il Consiglio di Giustizia Amministrativa, investito della questione dall’Amministrazione Regionale, con pareri n. 885 del 6/03/2007 e n. 649 del 5/09/2007 si esprimeva in questi termini: “Un’interpretazione conforme non solo alla lettera della legge, che – va ricordato – ha espressamente ricondotto la novella legislativa riduttiva delle indennità e dei gettoni degli amministratori locali, inserita nella finanziaria 2006, al perseguimento di esigenze di coordinamento della finanza pubblica, ma anche alla ratio e alla sostanza della norma stessa impone, ad avviso della Sezione, di considerare la disposizione applicabile anche all’ambito regionale autonomo e localistico di cui si discute................venendo ad essere coinvolto lo specifico fine (sempre però di principio) della riduzione dei costi della politica, che non può essere disconnesso dalle ragioni di coordinamento finanziario proprie di obiettivi di portata chiaramente nazionale, e le modalità della cui attuazione, per tali motivi, non possono essere rimesse a valutazioni discrezionali di ogni ambito regionale ed autonomistico”.

In sostanza il C.G.A. non mancava di evidenziare che la volontà del legislatore statale di incidere sia sugli aspetti organizzativo-ordinamentali degli enti locali, apportando modifiche al T.U. n. 267/2000, che sugli aspetti della finanza pubblica, introducendo un vincolo riduttivo dei gettoni di presenza spettanti ai consiglieri per finalità che vanno al di là del mero equilibrio finanziario e quindi della riduzione generica della spesa, venendo coinvolto (anche per l’anno corrente) lo specifico scopo della riduzione dei costi della politica, “...non può essere disconnesso dalle ragioni di coordinamento finanziario proprie di obiettivi di portata chiaramente nazionale...”. L’autorevole Organo di Giustizia Amministrativa sembra quindi orientato a dare prevalenza agli aspetti di natura finanziaria sottesi alle disposizioni delle leggi finanziarie statali per giustificare l’applicabilità delle medesime nell’ordinamento siciliano.

Più recentemente, sempre in ordine all’applicabilità delle norme finanziarie statali volte alla riduzione dei “costi della politica” in territorio siciliano, si registra un pronunciamento, di segno contrario, del Tribunale Amministrativo siciliano, espresso in sede cautelare, a proposito della prevista soppressione della figura del Difensore civico contenuta nell’art. 2, comma 186, della legge finanziaria 2010 (legge n. 191/2009). Per il Tar di Catania, chiamato a pronunciarsi sulla soppressione del difensore civico determinata dal Comune di Capo Passero “…la regione siciliana non risulta avere recepito l’art. 1, comma 186, della L. n. 191/2009, alla stregua del comma 183 del medesimo articolo…”[11].

5. L’applicazione in Sicilia dell’art. 16, comma 21, del d.l. n. 138/2011

In ordine all’ubi consistam della presente riflessione, si osserva, come del resto appare evidente dal tenore della rubrica dell’art. 16, denominata “Riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni”, che l’intento del legislatore è chiaramente rivolto a tale finalità, nel contesto del disegno di coordinamento della finanza pubblica, con conseguente necessità di riduzione degli oneri economici spettanti indirettamente ai Consiglieri per la partecipazione alle sedute degli organi istituzionali dell’ente locale in cui esercitano il mandato elettivo. Andrebbe qui aggiunto, che relativamente alla normativa in questione, trattandosi di disposizione inserita all’interno delle periodiche misure di coordinamento della finanza pubblica introdotte nell’ordinamento dal legislatore statale, la sua applicazione è da ritenersi confermata anche dalla circostanza che essa incide sul livello complessivo di una tipologia di spesa e non su singoli atti[12].

Detto questo, il punctum pruriens della questione postula, come prospettato nei precedenti paragrafi, l’assorbente esame relativo all’applicabilità nella Regione Sicilia della norma richiamata. Ciò in considerazione della riserva nell’ambito ordinamentale ed organizzativo in materia di enti locali prevista dall’art. 14 dello Statuto e dalla puntuale e specifica occupazione legislativa operata dal legislatore regionale. Bisogna però porre in rilievo che la norma oggetto della nostra riflessione non incide sugli aspetti ordinamentali ed organizzativi, già disciplinati autonomamente dalle citate leggi regionali nn. 30/2000 e 22/2008, bensì sull’aspetto prettamente finanziario della spesa pubblica, cioè sulla caratteristica della legge statale di fissare limiti alla spesa pubblica applicabili anche alle autonomie speciali, in considerazione dell’obbligo generale di tutte le componenti della Repubblica di contribuire all’azione di risanamento della finanza pubblica[13]. Viene infatti interessato dalla disposizione statale, così aderendo al citato orientamento del CGA, “lo specifico fine (sempre però di principio) della riduzione dei costi della politica, che non può essere disconnesso dalle ragioni di coordinamento finanziario proprie di obiettivi di portata chiaramente nazionale, e le modalità della cui attuazione, per tali motivi, non possono essere rimesse a valutazioni discrezionali di ogni ambito regionale ed autonomistico”.

Peraltro, la disposizione statale, mentre non pone in discussione il diritto dell’Amministratore locale di assentarsi dal posto di lavoro per la durata necessaria all’esercizio delle funzione durante le sedute degli organi collegiali dell’Ente locale, mira solamente a raggiungere l’obiettivo di ridurre i relativi rimborsi previsti per i rispettivi datori di lavoro a beneficio delle risorse finanziarie di cui dispongono i bilanci comunali e provinciali. In sostanza, la facoltà riconosciuta al legislatore regionale di disciplinare autonomamente le modalità di esercizio delle funzioni elettive negli Enti locali trova il limite, diventato sempre più stringente negli ultimi anni per le note emergenze finanziarie, del contenimento della spesa pubblica anche locale, la cui programmazione, quanto meno per voci di costo aggregate, risente inevitabilmente delle scelte statali.

L’art. 16 del D.L. n. 138/2011, come convertito, dunque, si ritiene applicabile agli enti locali della Regione Sicilia, così come ritenuto implicitamente plausibile in altra Regione a Statuto speciale come la Sardegna.

Sulla medesima questione, si registra infatti il parere della Corte dei Conti, Sez. Contr. Sardegna, n. 79 del 12/10/2012 chiamata a pronunciarsi sulla portata della deroga disposta dall’art. 1 della l.r. Sardegna n. 4 del 22/02/2012 all’art. 16, comma 21, del d.l. n. 138/2011. L’autorevole Organo consultivo, pur in presenza di una specifica legge regionale derogatoria rispetto alla previsione statale non sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, non ha mancato di manifestare “le perplessità legate alla necessità di trovare la copertura delle relative spese nei bilanci degli enti locali e alla necessità di rispettare, comunque, un proprio piano di contenimento delle spese nell’ottica del coordinamento della finanza pubblica a livello nazionale”.

In tale contesto, e per le argomentazioni sopra illustrate, non può essere condivisa la Circolare dell’Assessorato Reg.le alle Autonomie locali n. 1 del 13/01/2011 che esclude, tout court, l’applicabilità delle disposizioni statali contenute nel precedente d.l. n. 78/2010, come convertito nella l. n. 191/2009, in materia di riduzione del costo degli apparati politici amministrativi senza discriminare le disposizioni normative a prevalente contenuto ordinamentale-organizzativo da quelle a prevalente contenuto finanziario.

[1] Cons. Stato, sez. V°, sent. 10/09/2010 n. 6526.

[2] Tar Sicilia, Palermo, sent. 06/10/2009 n. 1569.

[3] Riccardo Nobile, “La disciplina dei permessi e delle assenze dal lavoro degli amministratori degli enti locali territoriali”, LexItalia.it, n. 10/2010.

[4] Tale tipologia di permesso va distinta dal cosiddetto permesso plafond, fattispecie prevista dai successivi commi 4 e 5 dell’art. 79 del TUEL e, a sua volta, divisa tra permesso retribuito e permesso non retribuito.

[5] A tal proposito, risulta presentato in Parlamento, ma ancora impolverato, il d.d.l. n. 110 di modifica dello Statuto siciliano che mira a disciplinare i rapporti tra la legislazione statale e quella regionale nelle materie di esclusiva competenza statutaria.

[6] Corte Cost. sent. n. 326/2008, nn. 165, 162 e 105/2007 e nn. 234, 118 e 88/2006.

[7] Corte Cost. sent. n. 105/2007.

[8] Tra le tante si veda Corte Cost. sent. 24/04/2008 n. 120.

[9] Corte Cost, sent. nn. 376/2003; 36/2004; 4/2004; 64/2005 e 417/2005.

[10] Corte Cost. sent. n. 157/2007.

[11] Tar Catania, Ord. n. 864 del 06/07/2010.

[12] In questa direzione si vedano le deliberazioni della Corte dei Conti, Sezioni Riunite per la Regione Siciliana, in sede consultiva nn. 71 e 72 del 2011 e n. 10 del 2012.

[13] Corte Cost. sent. nn. 139 e 297 del 2009.