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L’affidamento del minore al genitore omosessuale: inspiegabile clamore per una decisione nell’interesse della prole

1. Le massime

Il genitore che intenda ottenere la riforma del provvedimento con il quale sia stato disposto l’affidamento esclusivo del figlio minore non può limitarsi ad addurre il mero pregiudizio che il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale sia dannoso per l’equilibrio del bambino, dovendo egli offrire dimostrazione della specifica dannosità di quel contesto familiare per la prole (nella specie, il padre naturale contestava la decisione, resa in primo grado e confermata dal giudice di appello, con cui si era disposto l’affidamento esclusivo del minore alla madre, la quale conviveva ed aveva una relazione affettiva con un’altra donna).

2. Il caso

Il Tribunale per i Minorenni disponeva con decreto l’affidamento esclusivo del figlio naturale di Caio alla madre Mevia, conferendo incarico ai servizi sociali territorialmente competenti di regolamentare gli incontri del minore con il padre, da tenersi almeno ogni quindici giorni, in un ambiente neutro ed inizialmente protetto, salva la facoltà di ampliamento delle loro modalità e della loro durata fino a giungere ad incontri liberi in caso di positivi sviluppi della situazione esistente. Una simile misura era giustificata dal fatto che il padre, il quale lamentava la difficoltà di accettare il contesto educativo in cui il minore viveva, aveva dato luogo ad un episodio di violenza verso la convivente della madre, figura facente parte del contesto familiare del minore. A seguito di detto episodio, il figlio aveva maturato un sentimento ostile di rabbia verso il genitore.

Avverso il predetto decreto, Caio spiegava reclamo, il quale veniva respinto alla Corte di Appello. Il giudice di seconde cure non riteneva che il Tribunale, delegando ai servizi sociali la decisione circa l’eventuale ampliamento del diritto di visita del padre, avesse abdicato ai poteri spettantegli e qualificava come generico il motivo di gravame con cui il padre, limitandosi a profilare non meglio precisate conseguenze pregiudizievoli per il minore, insisteva per l'affidamento condiviso. Il padre, in particolare, lamentava che il Tribunale non avesse adeguatamente valutato il contesto familiare in cui viveva il minore e le ripercussioni che sarebbero derivate al fanciullo dal fatto che la madre, ex tossicodipendente, avesse una relazione sentimentale con una ex educatrice della comunità di recupero in cui ella era stata in passato ospitata, persona con la quale conviveva.

La Corte di Appello evidenziava, infine, come – nella specie – il rifiuto dell’affidamento condiviso e l’affidamento esclusivo del figlio alla madre traessero giustificazione proprio dall’interesse del minore, soggetto bisognoso di tutela a seguito dello spiacevole episodio di violenza occorso per opera del padre, evento non giustificabile neppure alla luce della difficoltà lamentata da Caio di accettare, data la sua origine e la propria formazione culturale, il contesto familiare in cui suo figlio cresceva e veniva educato. Era, peraltro, accertato che il padre si fosse da ben dieci mesi allontanato dal figlio, sottraendosi agli incontri protetti, ed avesse così manifestando un’intenzione contraria alla pur dichiarata volontà di recuperare il suo ruolo di padre, in stridente contrasto con la richiesta – pure da lui avanzata – volta all’ottenimento dell’affido condiviso.

Caio spiegava, quindi, ricorso per cassazione affidandosi a tre motivi: 1) censurava la delega del giudice ai servizi sociali in ordine all'eventuale ampliamento delle modalità di visita del padre al figlio, osservando che sarebbe stato compito del Tribunale per i minorenni determinare in via definitiva le modalità degli incontri; 2) lamentava la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui riconosceva implicitamente che il potere di determinare libere frequentazioni padre-figlio all'esito positivo degli incontri protetti spettasse al giudice e l'insufficienza della medesima motivazione quanto al diniego dell'affidamento condiviso, sostenendosi da parte del padre che la Corte di Appello, da un lato, avrebbe dovuto verificare la idoneità educativa del nucleo familiare della madre e, dall’altro, se effettivamente il comportamento del padre potesse costituire ostacolo all'affidamento congiunto; 3) il ricorrente riproponeva, infine, la doglianza circa il mancato approfondimento, da parte del Tribunale, sulla idoneità di un nucleo familiare composto da due donne legate da una relazione omosessuale a garantire l'equilibrato sviluppo del bambino, anche in relazione al diritto fondamentale del minore di essere educato secondo i principi educativi e religiosi di entrambi i genitori. Fatto questo che, a dire del padre, di religione musulmana, non poteva prescindere dal proprio contesto religioso e culturale. Mevia non spiegava alcuna attività difensiva.

3. La decisione

La Suprema Corte rigetta integralmente il ricorso. La prima censura è dichiarata inammissibile sia perché non viene ravvisata alcuna contraddizione sia perché non viene riconosciuto autonomo rilievo alla contraddittorietà della motivazione a fronte del potere riconosciuto al giudice di legittimità di correggere, semmai, in tal caso, la motivazione stessa.

Sono ritenute del pari inammissibili le censure di cui al secondo motivo: la prima perché non attinente alla ratio della decisione impugnata sul punto, che ha rilevato l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello per difetto di specificità; la seconda perché la Corte d'appello ha invece ampiamente motivato, le ragioni che nella specie impedivano di disporre l’affidamento congiunto, ravvisate nei comportamenti del padre, il quale non soltanto aveva aggredito la partner convivente con la madre del minore, ma aveva per lungo tempo anche disertato le visite al bambino.

Anche il terzo motivo è dichiarato inammissibile, poiché il padre non aveva offerto alcuna specificazione delle conseguenze pregiudizievoli, sul piano educativo e della crescita del bambino, derivanti dall'ambiente familiare in cui questi viveva presso la madre, omessa specificazione già stigmatizzata dai giudici di appello. Particolare risonanza ha avuto l’affermazione conclusiva del Supremo Collegio, il quale ha rigettato il terzo motivo di ricorso del genitore Caio evidenziando quanto segue: <<Alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si da per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino, che dunque correttamente la Corte d'appello ha preteso fosse specificamente argomentata>>.

Il ricorso è dal Supremo Collegio totalmente respinto.

4. Il clamore mediatico e i precedenti: le famiglie <<ricomposte>> omosessuali

Interpellato dal quotidiano “La Repubblica”, il Presidente della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione non ha celato la propria sorpresa per il clamore suscitato dalla sentenza in commento ed ha rivolto un plausibilissimo invito a leggere pacatamente il provvedimento, non omettendo di rimarcare come la decisione tanto dibattuta abbia statuito con riferimento ad un caso concreto, senza pretesa di legiferare in materia, peraltro sul solco di quanto già deciso nei precedenti due gradi del giudizio di merito, a fronte della già censurata genericità dei motivi di gravame addotti dal ricorrente (si veda la breve e sobria intervista rilasciata al quotidiano “La Repubblica” del 13 gennaio 2013, pag. 14, dalla dottoressa Maria Gabriella Luccioli).

Chiamata a pronunciarsi sul caso sottopostole, giova ribadirlo, la Suprema Corte ha solo evidenziato come, in difetto di alcuna specificazione dei potenziali danni che il minore avrebbe potuto subire, dal mero dato dell’omosessualità della madre non potesse inferirsi l’esistenza di alcun pregiudizio per il minore. I giudici del merito, del resto – come si evince in sentenza – avevano ravvisato una concreta potenzialità pregiudizievole, tale da escludere l’opportunità dell’affidamento condiviso, proprio nelle condotte del padre, concretatesi in un episodio di aggressività che aveva avuto per vittima la convivente della madre e nel disinteresse paterno nel ritessere i rapporti col figlio, atteso che per un ampio lasso temporale egli aveva addirittura omesso di fare visita al minore.

Un competente osservatore ha evidenziato, tuttavia, che la sentenza in commento – conforme ad analoghi pronunciamenti emersi in seno alla giurisprudenza di merito – risalta, invero, per il respiro generale della sua motivazione, più che per il suo dispositivo: il Supremo Collegio non si è limitato, come pure avrebbe ben potuto, ad una sibillina pronuncia di inammissibilità a fronte di un ricorso generico e che sollecitava nuove valutazioni in fatto, in quanto tali precluse alla Suprema Corte di Cassazione, bensì ha evidenziato il dato per cui, contrariamente a quanto sostenuto nelle proprie difese da Caio, la crescita di un bambino in una famiglia composta da due persone omosessuali non possa considerarsi di per sé fonte di pregiudizio per la prole, non essendovi certezze scientifiche o dati di esperienza a sostegno di una simile tesi, bensì soltanto radicati pregiudizi (si veda “L’interesse del bambino”, articolo apparso sul quotidiano “La Stampa” del 12 gennaio 2013, a firma di Carlo Rimini). Nel peso specifico di una simile enunciazione, tanto più degna di considerazione in quanto proveniente da fonte così autorevole, il professor Rimini, in uno dei più interessanti contributi apparsi nel dibattito pubblico innescatosi al di fuori dalle pagine patinate delle riviste giuridiche alla pubblicazione della sentenza, ha ineccepibilmente individuato l’aspetto più pregnante della decisione.

La Corte, lungi dall’arrogarsi un potere che non le spetta, ha certamente offerto un pregevole spunto al dibattito – non facile nel nostro Paese se solo si pensa alla travagliata vicenda parlamentare dei disegni di legge presentati (e mai approdati alla conclusione dell'iter parlamentare) sullla materia, per molti versi affine, della tutela delle così dette <<coppie di fatto>> – sui diritti delle coppie omosessuali, anche rispetto al tema specifico dell’omogenitorialità. Che quello in oggetto non sia un fenomeno trascurabile è rivelato dai dati offerti da una ricerca Mo.di (2005) fatta per Arcigay con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità, la quale ha rilevato che il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche con più di 40 anni ha figli, mentre ben il 49% delle coppie omosessuali vorrebbe averne.

Nel contesto del dibattito innescatosi, un esperto di psicopatologia generale e dell'ètà evolutiva, ha pure affermato che <<i bambini di coppie omosessuali crescono adeguatamente raggiungendo una propria identità sessuale matura>> ed ha segnalato che sono numerosi Paesi in cui si sono accumulate esperienze consistenti di minori cresciuti da coppie omosessuali, citando anche uno studio francese apparso sulla rivista “Encephale” da cui risulta che in Francia vi sarebbero circa 200-300 mila bambini che crescono nell’ambito di famiglie omosessuali (si veda “Ma i ragazzi crescono meglio in una famiglia arcobaleno che con un solo genitore”, a firma del professor Massimo Ammaniti, apparso sul “Corriere della Sera” del 13 gennaio 2013).

La pronuncia in commento è, peraltro, conforme ad analoga sentenza del Tribunale di Napoli del 28 giugno 2006, per molti aspetti ben più incisiva nello stigmatizzare certi retaggi culturali. In essa già si leggeva che "ai fini dell'affidamento dei minori, prima ancora della valutazione dell'idoneità genitoriale, è di per sé irrilevante e giuridicamente neutra sia la condizione omosessuale del genitore di riferimento, sia la circostanza che questi abbia intrapreso relazioni omosessuali. L'atteggiamento di ostilità, più o meno velata, nei confronti dell'omosessualità è ormai frutto di meri stereotipi pseudoculturali, espressione di moralismo, e non di principi etici condivisi".

Il Tribunale di Napoli evidenziava come <<non vi è, né può esservi, alla base di siffatta prevenzione, alcun fondamento normativo>> e, innalzando lo sguardo al contesto europea, già osservava come lo stesso matrimonio omosessuale fosse realtà in taluni ordinamenti interni all’Unione. Sempre nella sentenza napoletana, si dava atto di come l'omosessualità sia una condizione personale, e non certo una patologia, cosi come le condotte\relazioni omosessuali non presentino, di per sé, alcun fattore di rischio o di disvalore giuridico, rispetto a quelle eterosessuali. Il Tribunale partenopeo non escludeva, tuttavia, che la relazione omosessuale del genitore potrebbe "in concreto>>, vale a dire in casi specifici, fondare un giudizio negativo sull'affidamento o sull'idoneità genitoriale, ma solo allorquando sia posta in essere con modalità pericolose per l'equilibrato sviluppo psico-fisico del minore, rispetto a casi che l'estensore non esitava a definire "residuali". Lo stesso giudice aveva, però, cura di precisare come detto carattere pregiudizievole non possa derivarsi dal mero carattere omosessuale della relazione, ben potendo anche una relazione eterosessuale presentare la medesima potenzialità dannosa per il minore. In altri termini – quel giudice giungeva ad affermare – la relazione extra e post coniugale di un genitore, omosessuale o eterosessuale che sia, in linea di massima non può di per sé essere considerata pregiudizievole per i figli (come confermato dalla presenza di sempre più numerose famiglie "ricomposte”).

Il Tribunale di Bologna, con una sentenza più recente, del 15 luglio 2008, aveva anch’esso enunciato analogo principio, per cui la mera ammissione da parte di un coniuge delle proprie tendenze omosessuali non basta a superare, da sola, la preferenza che il legislatore accorda nei confronti dell'affidamento condiviso. In quella pronuncia si evidenziava che la “tendenza omofila” (questa l’espressione impiegata nella richiamata sentenza) non può giustificare limitazioni dei rapporti del genitore omosessuale con la prole. La sentenza bolognese, tuttavia, non mancava di ravvisare l’obbligo, a carico dei genitori, di procedere con cautela e gradualità nel preparare i minori all’apprendimento delle tendenze sessuali del genitore (nel caso deciso si trattava del padre).

Conclusivamente, si fa osservare che il tema, quanto mai ampio e soltanto superficialmente lambito dalla Cassazione nella pronuncia annotata, sia carico di attualità. La tutela dei diritti degli omosessuali è oggetto di un dibattito che trascende i confini nazionali e che nel nostro Paese è in questi giorni materia incandescente del confronto elettorale. Un invito alla pacatezza andrebbe rivolto anche a quanti, fuori delle aule giudiziarie, partecipano ad un simile confronto, nell'ambito del quale sarebbe opportuno tenere conto delle plurime sollecitazioni che sono offerte, agli osservatori più avveduti, proprio dal diritto vivente: si rammenta, infatti, che risale al 24 giugno 2010 (ricorso n. 30141/04, Schalk e Kopf contro Austria) la pronuncia con cui la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto come non più circoscritto alle sole coppie eterosessuali il diritto al matrimonio, sebbene spetti ai legislatori nazionali valutare l’opportunità di eventuali aperture alle coppie omosessuali (si veda in proposito, di M. Castellaneta, <<Il divieto di matrimonio tra coppie dello stesso sesso non viola la Convenzione>>, in “Famiglia e minori”, n. 8/2010, p. 86).

Nella pronuncia Gas e Dubois contro Francia (ricorso n. 25951/07) del 15 marzo 2012, con specifico riferimento al tema delle adozioni da parte di coppie omosessuali, la Corte ha riconosciuto la latitudine del margine di scelta rimesso al legislatore nazionale, evidenziando – tuttavia – che il diritto alla vita familiare non costituisce dominio esclusivo della coppia eterosessuale (per approfondimenti, si veda, sempre a firma di M. Castellaneta, <<La tendenza sessuale non è più determinante nella regolamentazione dei rapporti familiari>>, in “Guida al diritto”, n. 5/2013). Ed è del 15 marzo 2012 la pronuncia n. 4184 con cui proprio la Prima Sezione della Suprema Corte ha negato che il requisito della diversità di sesso tra i coniugi costituisca condizione “naturalistica” per l’esistenza giuridica del matrimonio nel nostro ordinamento, traendo argomento dall’art. 12 della CEDU, così come interpretato dalla Corte Europea, seppure pervenendo alla soluzione obbligata, in ossequio al vigente quadro normativo nazionale, di negare efficacia al matrimonio contratto all’estero da due cittadini italiani, ambedue di sesso maschile, che ne pretendevano la trascrizione nei registri dello stato civile italiano.

1. Le massime

Il genitore che intenda ottenere la riforma del provvedimento con il quale sia stato disposto l’affidamento esclusivo del figlio minore non può limitarsi ad addurre il mero pregiudizio che il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale sia dannoso per l’equilibrio del bambino, dovendo egli offrire dimostrazione della specifica dannosità di quel contesto familiare per la prole (nella specie, il padre naturale contestava la decisione, resa in primo grado e confermata dal giudice di appello, con cui si era disposto l’affidamento esclusivo del minore alla madre, la quale conviveva ed aveva una relazione affettiva con un’altra donna).

2. Il caso

Il Tribunale per i Minorenni disponeva con decreto l’affidamento esclusivo del figlio naturale di Caio alla madre Mevia, conferendo incarico ai servizi sociali territorialmente competenti di regolamentare gli incontri del minore con il padre, da tenersi almeno ogni quindici giorni, in un ambiente neutro ed inizialmente protetto, salva la facoltà di ampliamento delle loro modalità e della loro durata fino a giungere ad incontri liberi in caso di positivi sviluppi della situazione esistente. Una simile misura era giustificata dal fatto che il padre, il quale lamentava la difficoltà di accettare il contesto educativo in cui il minore viveva, aveva dato luogo ad un episodio di violenza verso la convivente della madre, figura facente parte del contesto familiare del minore. A seguito di detto episodio, il figlio aveva maturato un sentimento ostile di rabbia verso il genitore.

Avverso il predetto decreto, Caio spiegava reclamo, il quale veniva respinto alla Corte di Appello. Il giudice di seconde cure non riteneva che il Tribunale, delegando ai servizi sociali la decisione circa l’eventuale ampliamento del diritto di visita del padre, avesse abdicato ai poteri spettantegli e qualificava come generico il motivo di gravame con cui il padre, limitandosi a profilare non meglio precisate conseguenze pregiudizievoli per il minore, insisteva per l'affidamento condiviso. Il padre, in particolare, lamentava che il Tribunale non avesse adeguatamente valutato il contesto familiare in cui viveva il minore e le ripercussioni che sarebbero derivate al fanciullo dal fatto che la madre, ex tossicodipendente, avesse una relazione sentimentale con una ex educatrice della comunità di recupero in cui ella era stata in passato ospitata, persona con la quale conviveva.

La Corte di Appello evidenziava, infine, come – nella specie – il rifiuto dell’affidamento condiviso e l’affidamento esclusivo del figlio alla madre traessero giustificazione proprio dall’interesse del minore, soggetto bisognoso di tutela a seguito dello spiacevole episodio di violenza occorso per opera del padre, evento non giustificabile neppure alla luce della difficoltà lamentata da Caio di accettare, data la sua origine e la propria formazione culturale, il contesto familiare in cui suo figlio cresceva e veniva educato. Era, peraltro, accertato che il padre si fosse da ben dieci mesi allontanato dal figlio, sottraendosi agli incontri protetti, ed avesse così manifestando un’intenzione contraria alla pur dichiarata volontà di recuperare il suo ruolo di padre, in stridente contrasto con la richiesta – pure da lui avanzata – volta all’ottenimento dell’affido condiviso.

Caio spiegava, quindi, ricorso per cassazione affidandosi a tre motivi: 1) censurava la delega del giudice ai servizi sociali in ordine all'eventuale ampliamento delle modalità di visita del padre al figlio, osservando che sarebbe stato compito del Tribunale per i minorenni determinare in via definitiva le modalità degli incontri; 2) lamentava la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui riconosceva implicitamente che il potere di determinare libere frequentazioni padre-figlio all'esito positivo degli incontri protetti spettasse al giudice e l'insufficienza della medesima motivazione quanto al diniego dell'affidamento condiviso, sostenendosi da parte del padre che la Corte di Appello, da un lato, avrebbe dovuto verificare la idoneità educativa del nucleo familiare della madre e, dall’altro, se effettivamente il comportamento del padre potesse costituire ostacolo all'affidamento congiunto; 3) il ricorrente riproponeva, infine, la doglianza circa il mancato approfondimento, da parte del Tribunale, sulla idoneità di un nucleo familiare composto da due donne legate da una relazione omosessuale a garantire l'equilibrato sviluppo del bambino, anche in relazione al diritto fondamentale del minore di essere educato secondo i principi educativi e religiosi di entrambi i genitori. Fatto questo che, a dire del padre, di religione musulmana, non poteva prescindere dal proprio contesto religioso e culturale. Mevia non spiegava alcuna attività difensiva.

3. La decisione

La Suprema Corte rigetta integralmente il ricorso. La prima censura è dichiarata inammissibile sia perché non viene ravvisata alcuna contraddizione sia perché non viene riconosciuto autonomo rilievo alla contraddittorietà della motivazione a fronte del potere riconosciuto al giudice di legittimità di correggere, semmai, in tal caso, la motivazione stessa.

Sono ritenute del pari inammissibili le censure di cui al secondo motivo: la prima perché non attinente alla ratio della decisione impugnata sul punto, che ha rilevato l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello per difetto di specificità; la seconda perché la Corte d'appello ha invece ampiamente motivato, le ragioni che nella specie impedivano di disporre l’affidamento congiunto, ravvisate nei comportamenti del padre, il quale non soltanto aveva aggredito la partner convivente con la madre del minore, ma aveva per lungo tempo anche disertato le visite al bambino.

Anche il terzo motivo è dichiarato inammissibile, poiché il padre non aveva offerto alcuna specificazione delle conseguenze pregiudizievoli, sul piano educativo e della crescita del bambino, derivanti dall'ambiente familiare in cui questi viveva presso la madre, omessa specificazione già stigmatizzata dai giudici di appello. Particolare risonanza ha avuto l’affermazione conclusiva del Supremo Collegio, il quale ha rigettato il terzo motivo di ricorso del genitore Caio evidenziando quanto segue: <<Alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si da per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino, che dunque correttamente la Corte d'appello ha preteso fosse specificamente argomentata>>.

Il ricorso è dal Supremo Collegio totalmente respinto.

4. Il clamore mediatico e i precedenti: le famiglie <<ricomposte>> omosessuali

Interpellato dal quotidiano “La Repubblica”, il Presidente della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione non ha celato la propria sorpresa per il clamore suscitato dalla sentenza in commento ed ha rivolto un plausibilissimo invito a leggere pacatamente il provvedimento, non omettendo di rimarcare come la decisione tanto dibattuta abbia statuito con riferimento ad un caso concreto, senza pretesa di legiferare in materia, peraltro sul solco di quanto già deciso nei precedenti due gradi del giudizio di merito, a fronte della già censurata genericità dei motivi di gravame addotti dal ricorrente (si veda la breve e sobria intervista rilasciata al quotidiano “La Repubblica” del 13 gennaio 2013, pag. 14, dalla dottoressa Maria Gabriella Luccioli).

Chiamata a pronunciarsi sul caso sottopostole, giova ribadirlo, la Suprema Corte ha solo evidenziato come, in difetto di alcuna specificazione dei potenziali danni che il minore avrebbe potuto subire, dal mero dato dell’omosessualità della madre non potesse inferirsi l’esistenza di alcun pregiudizio per il minore. I giudici del merito, del resto – come si evince in sentenza – avevano ravvisato una concreta potenzialità pregiudizievole, tale da escludere l’opportunità dell’affidamento condiviso, proprio nelle condotte del padre, concretatesi in un episodio di aggressività che aveva avuto per vittima la convivente della madre e nel disinteresse paterno nel ritessere i rapporti col figlio, atteso che per un ampio lasso temporale egli aveva addirittura omesso di fare visita al minore.

Un competente osservatore ha evidenziato, tuttavia, che la sentenza in commento – conforme ad analoghi pronunciamenti emersi in seno alla giurisprudenza di merito – risalta, invero, per il respiro generale della sua motivazione, più che per il suo dispositivo: il Supremo Collegio non si è limitato, come pure avrebbe ben potuto, ad una sibillina pronuncia di inammissibilità a fronte di un ricorso generico e che sollecitava nuove valutazioni in fatto, in quanto tali precluse alla Suprema Corte di Cassazione, bensì ha evidenziato il dato per cui, contrariamente a quanto sostenuto nelle proprie difese da Caio, la crescita di un bambino in una famiglia composta da due persone omosessuali non possa considerarsi di per sé fonte di pregiudizio per la prole, non essendovi certezze scientifiche o dati di esperienza a sostegno di una simile tesi, bensì soltanto radicati pregiudizi (si veda “L’interesse del bambino”, articolo apparso sul quotidiano “La Stampa” del 12 gennaio 2013, a firma di Carlo Rimini). Nel peso specifico di una simile enunciazione, tanto più degna di considerazione in quanto proveniente da fonte così autorevole, il professor Rimini, in uno dei più interessanti contributi apparsi nel dibattito pubblico innescatosi al di fuori dalle pagine patinate delle riviste giuridiche alla pubblicazione della sentenza, ha ineccepibilmente individuato l’aspetto più pregnante della decisione.

La Corte, lungi dall’arrogarsi un potere che non le spetta, ha certamente offerto un pregevole spunto al dibattito – non facile nel nostro Paese se solo si pensa alla travagliata vicenda parlamentare dei disegni di legge presentati (e mai approdati alla conclusione dell'iter parlamentare) sullla materia, per molti versi affine, della tutela delle così dette <<coppie di fatto>> – sui diritti delle coppie omosessuali, anche rispetto al tema specifico dell’omogenitorialità. Che quello in oggetto non sia un fenomeno trascurabile è rivelato dai dati offerti da una ricerca Mo.di (2005) fatta per Arcigay con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità, la quale ha rilevato che il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche con più di 40 anni ha figli, mentre ben il 49% delle coppie omosessuali vorrebbe averne.

Nel contesto del dibattito innescatosi, un esperto di psicopatologia generale e dell'ètà evolutiva, ha pure affermato che <<i bambini di coppie omosessuali crescono adeguatamente raggiungendo una propria identità sessuale matura>> ed ha segnalato che sono numerosi Paesi in cui si sono accumulate esperienze consistenti di minori cresciuti da coppie omosessuali, citando anche uno studio francese apparso sulla rivista “Encephale” da cui risulta che in Francia vi sarebbero circa 200-300 mila bambini che crescono nell’ambito di famiglie omosessuali (si veda “Ma i ragazzi crescono meglio in una famiglia arcobaleno che con un solo genitore”, a firma del professor Massimo Ammaniti, apparso sul “Corriere della Sera” del 13 gennaio 2013).

La pronuncia in commento è, peraltro, conforme ad analoga sentenza del Tribunale di Napoli del 28 giugno 2006, per molti aspetti ben più incisiva nello stigmatizzare certi retaggi culturali. In essa già si leggeva che "ai fini dell'affidamento dei minori, prima ancora della valutazione dell'idoneità genitoriale, è di per sé irrilevante e giuridicamente neutra sia la condizione omosessuale del genitore di riferimento, sia la circostanza che questi abbia intrapreso relazioni omosessuali. L'atteggiamento di ostilità, più o meno velata, nei confronti dell'omosessualità è ormai frutto di meri stereotipi pseudoculturali, espressione di moralismo, e non di principi etici condivisi".

Il Tribunale di Napoli evidenziava come <<non vi è, né può esservi, alla base di siffatta prevenzione, alcun fondamento normativo>> e, innalzando lo sguardo al contesto europea, già osservava come lo stesso matrimonio omosessuale fosse realtà in taluni ordinamenti interni all’Unione. Sempre nella sentenza napoletana, si dava atto di come l'omosessualità sia una condizione personale, e non certo una patologia, cosi come le condotte\relazioni omosessuali non presentino, di per sé, alcun fattore di rischio o di disvalore giuridico, rispetto a quelle eterosessuali. Il Tribunale partenopeo non escludeva, tuttavia, che la relazione omosessuale del genitore potrebbe "in concreto>>, vale a dire in casi specifici, fondare un giudizio negativo sull'affidamento o sull'idoneità genitoriale, ma solo allorquando sia posta in essere con modalità pericolose per l'equilibrato sviluppo psico-fisico del minore, rispetto a casi che l'estensore non esitava a definire "residuali". Lo stesso giudice aveva, però, cura di precisare come detto carattere pregiudizievole non possa derivarsi dal mero carattere omosessuale della relazione, ben potendo anche una relazione eterosessuale presentare la medesima potenzialità dannosa per il minore. In altri termini – quel giudice giungeva ad affermare – la relazione extra e post coniugale di un genitore, omosessuale o eterosessuale che sia, in linea di massima non può di per sé essere considerata pregiudizievole per i figli (come confermato dalla presenza di sempre più numerose famiglie "ricomposte”).

Il Tribunale di Bologna, con una sentenza più recente, del 15 luglio 2008, aveva anch’esso enunciato analogo principio, per cui la mera ammissione da parte di un coniuge delle proprie tendenze omosessuali non basta a superare, da sola, la preferenza che il legislatore accorda nei confronti dell'affidamento condiviso. In quella pronuncia si evidenziava che la “tendenza omofila” (questa l’espressione impiegata nella richiamata sentenza) non può giustificare limitazioni dei rapporti del genitore omosessuale con la prole. La sentenza bolognese, tuttavia, non mancava di ravvisare l’obbligo, a carico dei genitori, di procedere con cautela e gradualità nel preparare i minori all’apprendimento delle tendenze sessuali del genitore (nel caso deciso si trattava del padre).

Conclusivamente, si fa osservare che il tema, quanto mai ampio e soltanto superficialmente lambito dalla Cassazione nella pronuncia annotata, sia carico di attualità. La tutela dei diritti degli omosessuali è oggetto di un dibattito che trascende i confini nazionali e che nel nostro Paese è in questi giorni materia incandescente del confronto elettorale. Un invito alla pacatezza andrebbe rivolto anche a quanti, fuori delle aule giudiziarie, partecipano ad un simile confronto, nell'ambito del quale sarebbe opportuno tenere conto delle plurime sollecitazioni che sono offerte, agli osservatori più avveduti, proprio dal diritto vivente: si rammenta, infatti, che risale al 24 giugno 2010 (ricorso n. 30141/04, Schalk e Kopf contro Austria) la pronuncia con cui la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto come non più circoscritto alle sole coppie eterosessuali il diritto al matrimonio, sebbene spetti ai legislatori nazionali valutare l’opportunità di eventuali aperture alle coppie omosessuali (si veda in proposito, di M. Castellaneta, <<Il divieto di matrimonio tra coppie dello stesso sesso non viola la Convenzione>>, in “Famiglia e minori”, n. 8/2010, p. 86).

Nella pronuncia Gas e Dubois contro Francia (ricorso n. 25951/07) del 15 marzo 2012, con specifico riferimento al tema delle adozioni da parte di coppie omosessuali, la Corte ha riconosciuto la latitudine del margine di scelta rimesso al legislatore nazionale, evidenziando – tuttavia – che il diritto alla vita familiare non costituisce dominio esclusivo della coppia eterosessuale (per approfondimenti, si veda, sempre a firma di M. Castellaneta, <<La tendenza sessuale non è più determinante nella regolamentazione dei rapporti familiari>>, in “Guida al diritto”, n. 5/2013). Ed è del 15 marzo 2012 la pronuncia n. 4184 con cui proprio la Prima Sezione della Suprema Corte ha negato che il requisito della diversità di sesso tra i coniugi costituisca condizione “naturalistica” per l’esistenza giuridica del matrimonio nel nostro ordinamento, traendo argomento dall’art. 12 della CEDU, così come interpretato dalla Corte Europea, seppure pervenendo alla soluzione obbligata, in ossequio al vigente quadro normativo nazionale, di negare efficacia al matrimonio contratto all’estero da due cittadini italiani, ambedue di sesso maschile, che ne pretendevano la trascrizione nei registri dello stato civile italiano.