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Al licenziamento ingiustificato dello "pseudodirigente" si applica la tutela reale

1.La figura dello pseudodirigente

La categoria dello “pseudo dirigente” – da altri qualificato emblematicamente come dirigente “apparente” [ Così  Liso F., in Il licenziamento del dirigente "apparente", in Giur. lav. 1981, II, 773] – è costituita da coloro che del dirigente possiedono solo il nomen senza che ad esso corrisponda un sostrato mansionistico e di responsabilità decisorie tipiche della qualifica dirigenziale. Situazione che si verifica – nelle realtà aziendali  – da un lato, e meno frequentemente,  per effetto di demansionamento verificatosi nel tempo a danno e con acquiescenza del dirigente originario (che non ha reagito, mediante azione giudiziaria,  all'inadempienza contrattuale e legale, incentrata sulla violazione dell'art. 2103 c.c.) ovvero, dall'altro e più massicciamente,  per effetto di attribuzione della qualifica dirigenziale per premiazione del merito o accondiscendenza (inclusa la motivazione clientelare), senza corrispondenza delle mansioni pertinenti alla categoria.

Spesso l’iniziativa dell'azienda risulta in ciò  favorita dalla facoltà contrattuale, riscontrabile – esemplificativamente, quanto isolatamente, nel settore del credito - di subordinare l'attribuzione della qualifica di dirigente non già alle esclusive  mansioni disimpegnate ma ad un atto di gradimento sfociante nella c.d. investitura formale per effetto di quelle  singolari pattuizioni contrattuali (modificate da poco tempo solo nella “forma”) per cui «sono dirigenti coloro i quali, in relazione al grado gerarchico, alla natura ed importanza delle funzioni effettivamente svolte, siano dalle rispettive aziende cui appartengono, come tali qualificati».

Alla nostra stessa interpretazione giunge un altro giuslavorista, secondo il quale «la dizione di dirigente convenzionale (rectius, di “pseudodirigente” ora, n.d.r.) concerne il soggetto investito di un 'nomen' (quello di dirigente) cui non corrispondono le specifiche mansioni attribuite, e che pertanto si fregia di tale qualifica per ragioni di condiscendenza, favor o altro» [ Così Papaleoni M., nella nota a Cass. n. 1434/1998, dal titolo "La frontiera mobile del licenziamento disciplinare del dirigente, ecc.", cit., 266. Per la legittimità dell'attribuzione convenzionale, quale trattamento di favore, della qualifica di dirigente a soggetto svolgente mansioni inferiori, vedi Cass. 5.2.1997, n. 1068, in Mass. giur. lav., "Mass. Cass." 1997, n.70, p. 23. Conf. Pera G., Manuale di diritto del lavoro, Padova 1996, 411, secondo cui: «Niente impedisce invero che un superiore inquadramento sia attribuito, anche se non propriamente corrispondente alle mansioni, solo per valutazioni soggettive, in considerazione altamente positiva della collaborazione del dipendenti, per particolare condiscendenza, ecc.»] ; dizione che è ben nota in dottrina ed in giurisprudenza ove sin dagli anni '80 ci si è dovuti occupare [Vedi Vallebona A., La distinzione tra il dirigente e lo pseudo-dirigente per l'applicabilità della tutela legale contro il licenziamento ingiustificato, in Foro. it. 1981, I, 832, che si è espresso a favore delle garanzie contro il licenziamento ad nutum  per lo pseudodirigente. Conf. in giurisprudenza: Cass. 15 febbraio 1992, n. 1836, in Riv. giur. lav. 1992, II, 457; Cass. 5 gennaio 1983, n. 47, in Foro it. 1983, I, 31; Cass. 21 marzo 1980, n. 1922 (leading case), in Foro it. 1981, I, 832, con nota di Vallebona; Pret. Roma 20 gennaio 1981, in Riv. giur. lav. 1981, II, 761; Pret. Genova 15 giugno 1974, in Foro it. 1974, II, 2855. Contra: Liso F., Il licenziamento del dirigente "apparente", cit.; Mannacio G., Ha una qualifica di dirigente, ma se arriva il benservito può trasformarsi in impiegato, in Espansione, febbraio 1977] della problematica del mantenimento, in capo allo «pseudo dirigente», delle garanzie avverso il regime di libera recedibilità (c.d. licenziamento ad nutum ex art. 2118 c.c.), giungendo, in maniera prevalente alla conclusione dell’applicabilità al licenziamento dello «pseudo dirigente» delle garanzie previste per i lavoratori rivestenti qualifica impiegatizia.  Garanzie notoriamente introdotte dalla legge n. 604/66 sui licenziamenti individuali (sostanziantisi nella ricorrenza della «giusta causa e giustificato motivo») e, successivamente, dall'art. 18 dello Stat. lav., introduttivo del regime di stabilità reale (tramite la  sanzione per il datore di lavoro della "reintegrazione" nel posto  del lavoratore ingiustificatamente licenziato).

La fattispecie dello pseudodirigente – patologicamente connotata – fruirà, anche ad avviso delle SU richiamate dalla recente Cass. n. 20763/2012, della tutela prevista per gli impiegati e, pertanto, della sottrazione al regime del licenziamento discrezionale aziendale (nella stragrande maggioranza dei settori merceologici, condizionato a riscontro di «giustificatezza»), costituito dal recesso con preavviso ex art. 2118 c.c.

Sulla qualificazione convenzionale o "nomen", prevale – in ordine all'individuazione del regime regolante la risoluzione del rapporto - l'effettività delle mansioni disimpegnate ai fini dell'adozione aziendale dell'atto rescissorio. Se così non fosse, il datore di lavoro possederebbe una formidabile arma per privare i lavoratori (meno graditi o di cui intende disfarsi) delle garanzie avverso il  licenziamento discrezionale, ricorrendo al comodo escamotage del conferimento della qualifica di dirigente (non accompagnata dalle mansioni di pertinenza) onde portarli sotto un regime di minor tutela normativa in ordine alla risoluzione del rapporto.

Va subito precisato tuttavia che questa conclusione attinente al mantenimento delle tutele proprie della categoria impiegatizia o dei quadri direttivi di cui, in realtà si disimpegnano in concreto le mansioni, se appare eticamente condivisibile nei confronti dei dirigenti dequalificati (ma vedremo come vi sia giurisprudenza contraria al riguardo) –  in quanto sottoposti ad un processo di erosione mansionistica, grazie anche a ben conosciute pratiche di mobbing aziendale [ Sul tema ci sia consentito rinviare al nostro volume,  Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma (Ediesse ed.) 2012] – è del tutto  priva di tale carattere etico nella misura in cui il "beneficio" della sottrazione dal "recesso ad nutum" viene garantito allo «pseudorigente» titolare dell'attribuzione e/o dell'avanzamento alla qualifica per motivi tutt'altro che riposanti sul merito quanto, invece,  sulla condiscendenza, sul mero favoritismo o sul  vero e proprio clientelismo.

Come anticipato, va sottolineato che, in giurisprudenza, si registrano – allo stato – due decisioni di Cassazione [Trattasi di Cass. 18.10.1997 n. 10627, in Not. giurisp. lav. 1997, 783, concernente il licenziamento di un dirigente apicale-direttore generale di banca dequalificato, a suo dire, in dirigente minore o al limite in funzionario, nonché di Cass.8.11.2005 n. 21673, ivi 2006, 34, parimenti attinente a demansionamento di dirigente apicale] che inducono a seria riflessione, secondo le quali il regime di risoluzione del  rapporto di «pseudo dirigenti» per demansionamento dovrebbe seguire l'inquadramento “formale” iniziale  nella qualifica di dirigente, con la conseguenza che colui che per demansionamento è stato costretto a divenire successivamente «pseudo dirigente» sarebbe assoggettabile al recesso ad nutum (o quanto meno per cd. «giustificatezza», laddove contrattualmente prevista) giacché una pattuizione iniziale per la qualifica di dirigente  non può essere vanificata da un atto nullo ex art. 2103 c.c., ai fini della disciplina applicabile per la risoluzione del rapporto,  cioè a dire da un inadempimento datoriale, cui - dicono le due sentenze di Cassazione citate in nota 5 - si può reagire con le dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c., congiunte a richiesta risarcitoria di danni (professionali, da perdita di chance, esistenziali e morali).

Il ragionamento risulta  giuridicamente non infondato, ma sarebbe apparso più appagante se riferito non allo «pseudodirigente» per vessazione sfociata in mortificante dequalificazione o addirittura in inedia lavorativa, ma allo «pseudo dirigente» per favor, giacché in quest’ultima fattispecie la risoluzione ad nutum  avrebbe trovato etica legittimazione eminentemente in ragione del brocardo per cui «ubi commoda, ibi eius et incommoda», espressivo di un principio giustizialista finalizzato a non consentire, da un lato, di fruire dei vantaggi (economici e di status ricollegabili alla qualifica dirigenziale) e, dall'altro, di sottrarsi agli svantaggi della posizione (quali il recesso discrezionale aziendale).

Del tutto diversa  dalla fattispecie dello «pseudo dirigente» è – come correttamente evidenziato sia da Cass. SU n. 8870/207 sia da Cass. n. 25145/2010 -  la figura del  “medio”  (middle manager)  e “mini dirigente” (low manager), che sono  «dirigenti reali», seppure con poteri più circoscritti, e con la cui nozione - come è stato notato - si «intende descrivere la posizione di un soggetto che, pur investito di specifiche funzioni dirigenziali, non rivestirebbe gli attributi propri di un dirigente a tutto tondo (...).  Se questa premessa è vera, si deve rilevare come (invece, n.d.r) la figura del dirigente convenzionale (rectius, pseudodirigente, ora, n.d.r.) non abbia mai incontrato soverchie difficoltà interpretative, essendosi usualmente ritenuta per esso operante la tutela ordinaria (e, cioè, quella propria della categoria impiegatizia), in ragione delle caratteristiche oggettive della prestazione; tale soluzione trovando intrinseco supporto nel rilievo di fondo secondo il quale sarebbe altrimenti risultato possibile aggirare la garanzia della stabilità semplicemente ricorrendo a qualificazioni convenzionali» [Così, del tutto condivisibilmente sul punto specifico, Papaleoni M., op. cit., 266].

2.Sola tutela obbligatoria (cd. monetizzazione) per il licenziamento ingiustificato del dirigente reale

Con una serie di decisioni uniformi [L'orientamento risale originariamente a Cass. SU n. 7880/2007, seguita  poi da Cass. 24/6/2009 n. 14835, da Cass. 13/12/2010 n. 25145  e, più recentemente, da Cass. 23/11/2012 n. 20763] tali da costituire oramai orientamento consolidato, la Cassazione ha  da tempo stabilito  che, in caso di licenziamento ingiustificato giudiziariamente accertato (esclusi quelli riposanti su motivi abietti fondati sulla discriminazione [Il licenziamento discriminatorio ricorre nelle ipotesi in cui venga adottato  dal datore per avversione alla razza, lingua, religione, sesso, opinioni politiche e sindacali, ivi compresa la ritorsione per aver il lavoratore  osato adire la magistratura per la difesa dei propri diritti. Al riscontro di queste causali abiette, il licenziamento non è ingiustificato, cioè invalido, ma  del tutto nullo (cfr. art. 3, l. n. 108/1990 reiterato da art. 1, 42 c., l. n. 92/2012, cd. legge Fornero) e si considera tanquam non esset, come non mai esistito, per cui la sanzione ricostitutiva, anche per i dirigenti, è la reintegra]), il magistrato non potrà disporre - per l'intera categoria dei dirigenti (comprensiva indifferentemente dei dirigenti apicali, medi e minori) - la sanzione/rimedio della reintegra nel posto di lavoro (cd. tutela reale) ma soltanto una tutela indennitaria (cd. tutela obbligatoria monetizzante), normalmente quantificata nei ccnl in un ammontare di mensilità del preavviso proporzionali all'età anagrafica (cd. indennità supplementare).

Si può dire che la cd. riforma (rectius controriforma) Fornero del mercato del lavoro, che ha visto il cd.  "governo tecnico" impegnato a traguardare una (contrastata e pertanto non realizzata) demolizione della tutela reale reintegratoria garantita dall'art. 18 S.d.l. agli impiegati ed operai, per una sostituzione con una mortificante monetizzazione generalizzata dei licenziamenti ingiustificati, ha trovato come antesignana la categoria dirigenziale, cui la tutela reintegratoria non era stata mai  accordata dal nostrano legislatore, stante l'elevato carattere fiduciario del rapporto con l'azienda e i detenuti poteri di sua rappresentanza interno/esterna.

Nelle decisioni riferite in nota 6, la Cassazione ha  affermato di voler dare continuità all’orientamento che sin dal 2007 affermò l’unitarietà della categoria dirigenziale e negò rilevanza giuridica alle diversificazioni interne alla categoria fra dirigente apicale, medio e minore - considerate di natura meramente sociologica e descrittiva - quindi giudicate inidonee a conferire al middle e al low manager le garanzie contro il licenziamento accordate, invece  giustificatamente, dalla legislazione (l. n. 604/66 e art. 18, l. n. 300/70) alle sottordinate categorie dei quadri, impiegati e operai; riconoscendone l’estensibilità solo ai c.d. «pseudo-dirigenti», cioè a coloro che della categoria hanno solo il nomen ma, in concreto, sono privi delle attribuzioni di potere e di mansioni, tali da farli ricondurre tra gli impiegati.

Sia nella decisione n. 3175/2013 sia nella precedente n. 20763/2012 sia nell'anteriore n. 25145/2010, la Cassazione  ha trovato il modo di precisare - dopo avere passato in rassegna la sua più recente giurisprudenza in materia - che la qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come alter ego dell'imprenditore, ricopre un ruolo di vertice nell'organizzazione, ma anche a chi per qualificazione professionale o responsabilità nell'organizzazione aziendale riveste di fatto una posizione di autonomia.

Ad essere esclusi dalla disciplina del licenziamento monetizzato prevista per la categoria dei dirigenti – dice la Cassazione - sono «unicamente i cosiddetti pseudo-dirigenti, cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome e il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell'organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quello dei cosiddetti dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva».

Ne è scaturita l'affermazione del  seguente principio di diritto: «La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi nn. 604 del 1966 e 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi dell'articolo 10 della prima delle leggi citate, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente».

Il principio di diritto sopra riferito è stato riconfermato dalla recentissima Cass. n. 3175/2013, in questi termini: «...deve ritenersi che il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli arti. 1 e 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e che la nozione di "giustificatezza" posta dalla contrattazione collettiva al fine della legittimità del suo licenziamento non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall'art. 3 della stessa legge n. 604/66; con la conseguenza che, ai fini dell'indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la suddetta "giustificatezza" non deve necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 della Costituzione, che verrebbe realmente negata ove si impedisse all'imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa». Ribadendo, in tal modo, altresì - in ordine alle causali del licenziamento del dirigente quali introdotte dalla contrattazione collettiva – le differenze  tra la cd. «giustificatezza» del licenziamento del dirigente e il «giustificato motivo» quale causale rescissoria codificata per le restanti qualifiche nell’art. 3 della l. n. 604/1966. Precisando che l’asimmetria sussistente tra le due nozioni è riconducibile alla specificità e maggiore intensità e pregnanza del rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, in dipendenza delle mansioni, delle responsabilità e prerogative di autonomia conferitegli per la realizzazione degli obbiettivi aziendali. Da tale considerazione oggettiva è stata tratta in giurisprudenza la conseguenza che, ad esempio, l'avocazione da parte di un dirigente di più elevato livello delle mansioni e delle deleghe originariamente assegnate al dirigente inferiore (tale da concretizzare per quest'ultimo la fattispecie della soppressione del posto di lavoro), se genuina e non strumentalmente adottata per liberarsi del dirigente inferiore, costituisce legittima scelta datoriale, idonea ad attualizzare la fattispecie della «giustificatezza» del licenziamento. Anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili in via preventiva oppure una sua deviazione dalle direttive assegnate dal datore di lavoro o un suo comportamento extralavorativo che incide sull'immagine aziendale, possono giustificare una rottura del rapporto di fiducia e condurre al licenziamento. Questo quanto al piano soggettivo, ma possono verificarsi anche ragioni oggettive per l'interruzione del rapporto di lavoro, quando, ad esempio, la concreta posizione assegnata al dirigente nell'organizzazione aziendale non è più pienamente adeguata allo sviluppo delle strategie d'impresa del datore di lavoro: una situazione che può condurre all'«espulsione del dirigente nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento dell'impresa sul mercato».

In giurisprudenza di legittimità vige oramai  il seguente  consolidato principio di diritto in ordine al licenziamento legittimo del dirigente, assistito da riscontro di cd. "giustificatezza": «... la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento della L. n. 604 del 1966, ex art. 1; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente. La valutazione dell'idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione»(così Cass. 2.3.2006 n. 4614 e Cass. 19.8. 2005 n. 17039).

Va conclusivamente detto che se la risoluzione del rapporto del dirigente (top, middle o low che sia) è ancorata solo alla cd. «giustificatezza», al riscontro della quale il licenziamento è legittimo e che - qualora non riscontrabile - occasiona, non già la sanzione della reintegra nel posto di lavoro ma solo un indennizzo monetizzante contrattualmente prefigurato e qualificato  contrattualmente «indennità supplementare» (correlata ad un determinato numero di mensilità del preavviso), la Cassazione ha riconosciuto - sin dalla sentenza delle S.U. n. 7880/2007 - che anche per il licenziamento ontologicamente disciplinare (cd. punitivo) del dirigente ricorre imprescindibilmente la garanzia della contestazione  degli addebiti, del contraddittorio e del diritto alle controdeduzioni ex art. 7, l. n. 300/70, che la pregressa giurisprudenza aveva riservato ai soli medi e mini dirigenti, e che Cass. n. 7880/2007 affermò essere estensibile all'intera categoria dirigenziale (top managers inclusi). In questi  condivisibili quanto incisivi termini: «...se il tratto caratterizzante dell’articolo 7 stat. lav. va individuato, come emerge, dunque, dai ricordati interventi della Corte Costituzionale, nell’esigenza di garantire ad ogni lavoratore ‑ nel momento in cui gli si addebitano condotte  con finalità sanzionatorie ‑ il diritto di difesa, e se non è, come si è visto, di certo estranea alla ratio della norma in esame l’intento di tutelare la “persona” del lavoratore nella professionalità, nel decoro e nella sua stessa immagine, tutto ciò attesta che non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti, i quali ‑ specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale ‑ possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo».  Linea condivisibilmente garantista proseguita poi da Cass. n. 897/2011 (est. Curzio) tramite la seguente affermazione: «Le garanzie procedimentali sancite dalla l. n. 300/1970 (art. 7, commi 2 e 3) trovano applicazione anche nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che egli riveste nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o colpevole), sia che, a base del recesso, siano comunque poste condotte suscettibili di far venire meno la fiducia. Dalla violazione delle predette garanzie deriva incontestabilmente l’impossibilità di far valutare le condotte che hanno provocato il recesso e la conseguente applicazione degli effetti stabiliti dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento ingiustificato».

1.La figura dello pseudodirigente

La categoria dello “pseudo dirigente” – da altri qualificato emblematicamente come dirigente “apparente” [ Così  Liso F., in Il licenziamento del dirigente "apparente", in Giur. lav. 1981, II, 773] – è costituita da coloro che del dirigente possiedono solo il nomen senza che ad esso corrisponda un sostrato mansionistico e di responsabilità decisorie tipiche della qualifica dirigenziale. Situazione che si verifica – nelle realtà aziendali  – da un lato, e meno frequentemente,  per effetto di demansionamento verificatosi nel tempo a danno e con acquiescenza del dirigente originario (che non ha reagito, mediante azione giudiziaria,  all'inadempienza contrattuale e legale, incentrata sulla violazione dell'art. 2103 c.c.) ovvero, dall'altro e più massicciamente,  per effetto di attribuzione della qualifica dirigenziale per premiazione del merito o accondiscendenza (inclusa la motivazione clientelare), senza corrispondenza delle mansioni pertinenti alla categoria.

Spesso l’iniziativa dell'azienda risulta in ciò  favorita dalla facoltà contrattuale, riscontrabile – esemplificativamente, quanto isolatamente, nel settore del credito - di subordinare l'attribuzione della qualifica di dirigente non già alle esclusive  mansioni disimpegnate ma ad un atto di gradimento sfociante nella c.d. investitura formale per effetto di quelle  singolari pattuizioni contrattuali (modificate da poco tempo solo nella “forma”) per cui «sono dirigenti coloro i quali, in relazione al grado gerarchico, alla natura ed importanza delle funzioni effettivamente svolte, siano dalle rispettive aziende cui appartengono, come tali qualificati».

Alla nostra stessa interpretazione giunge un altro giuslavorista, secondo il quale «la dizione di dirigente convenzionale (rectius, di “pseudodirigente” ora, n.d.r.) concerne il soggetto investito di un 'nomen' (quello di dirigente) cui non corrispondono le specifiche mansioni attribuite, e che pertanto si fregia di tale qualifica per ragioni di condiscendenza, favor o altro» [ Così Papaleoni M., nella nota a Cass. n. 1434/1998, dal titolo "La frontiera mobile del licenziamento disciplinare del dirigente, ecc.", cit., 266. Per la legittimità dell'attribuzione convenzionale, quale trattamento di favore, della qualifica di dirigente a soggetto svolgente mansioni inferiori, vedi Cass. 5.2.1997, n. 1068, in Mass. giur. lav., "Mass. Cass." 1997, n.70, p. 23. Conf. Pera G., Manuale di diritto del lavoro, Padova 1996, 411, secondo cui: «Niente impedisce invero che un superiore inquadramento sia attribuito, anche se non propriamente corrispondente alle mansioni, solo per valutazioni soggettive, in considerazione altamente positiva della collaborazione del dipendenti, per particolare condiscendenza, ecc.»] ; dizione che è ben nota in dottrina ed in giurisprudenza ove sin dagli anni '80 ci si è dovuti occupare [Vedi Vallebona A., La distinzione tra il dirigente e lo pseudo-dirigente per l'applicabilità della tutela legale contro il licenziamento ingiustificato, in Foro. it. 1981, I, 832, che si è espresso a favore delle garanzie contro il licenziamento ad nutum  per lo pseudodirigente. Conf. in giurisprudenza: Cass. 15 febbraio 1992, n. 1836, in Riv. giur. lav. 1992, II, 457; Cass. 5 gennaio 1983, n. 47, in Foro it. 1983, I, 31; Cass. 21 marzo 1980, n. 1922 (leading case), in Foro it. 1981, I, 832, con nota di Vallebona; Pret. Roma 20 gennaio 1981, in Riv. giur. lav. 1981, II, 761; Pret. Genova 15 giugno 1974, in Foro it. 1974, II, 2855. Contra: Liso F., Il licenziamento del dirigente "apparente", cit.; Mannacio G., Ha una qualifica di dirigente, ma se arriva il benservito può trasformarsi in impiegato, in Espansione, febbraio 1977] della problematica del mantenimento, in capo allo «pseudo dirigente», delle garanzie avverso il regime di libera recedibilità (c.d. licenziamento ad nutum ex art. 2118 c.c.), giungendo, in maniera prevalente alla conclusione dell’applicabilità al licenziamento dello «pseudo dirigente» delle garanzie previste per i lavoratori rivestenti qualifica impiegatizia.  Garanzie notoriamente introdotte dalla legge n. 604/66 sui licenziamenti individuali (sostanziantisi nella ricorrenza della «giusta causa e giustificato motivo») e, successivamente, dall'art. 18 dello Stat. lav., introduttivo del regime di stabilità reale (tramite la  sanzione per il datore di lavoro della "reintegrazione" nel posto  del lavoratore ingiustificatamente licenziato).

La fattispecie dello pseudodirigente – patologicamente connotata – fruirà, anche ad avviso delle SU richiamate dalla recente Cass. n. 20763/2012, della tutela prevista per gli impiegati e, pertanto, della sottrazione al regime del licenziamento discrezionale aziendale (nella stragrande maggioranza dei settori merceologici, condizionato a riscontro di «giustificatezza»), costituito dal recesso con preavviso ex art. 2118 c.c.

Sulla qualificazione convenzionale o "nomen", prevale – in ordine all'individuazione del regime regolante la risoluzione del rapporto - l'effettività delle mansioni disimpegnate ai fini dell'adozione aziendale dell'atto rescissorio. Se così non fosse, il datore di lavoro possederebbe una formidabile arma per privare i lavoratori (meno graditi o di cui intende disfarsi) delle garanzie avverso il  licenziamento discrezionale, ricorrendo al comodo escamotage del conferimento della qualifica di dirigente (non accompagnata dalle mansioni di pertinenza) onde portarli sotto un regime di minor tutela normativa in ordine alla risoluzione del rapporto.

Va subito precisato tuttavia che questa conclusione attinente al mantenimento delle tutele proprie della categoria impiegatizia o dei quadri direttivi di cui, in realtà si disimpegnano in concreto le mansioni, se appare eticamente condivisibile nei confronti dei dirigenti dequalificati (ma vedremo come vi sia giurisprudenza contraria al riguardo) –  in quanto sottoposti ad un processo di erosione mansionistica, grazie anche a ben conosciute pratiche di mobbing aziendale [ Sul tema ci sia consentito rinviare al nostro volume,  Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma (Ediesse ed.) 2012] – è del tutto  priva di tale carattere etico nella misura in cui il "beneficio" della sottrazione dal "recesso ad nutum" viene garantito allo «pseudorigente» titolare dell'attribuzione e/o dell'avanzamento alla qualifica per motivi tutt'altro che riposanti sul merito quanto, invece,  sulla condiscendenza, sul mero favoritismo o sul  vero e proprio clientelismo.

Come anticipato, va sottolineato che, in giurisprudenza, si registrano – allo stato – due decisioni di Cassazione [Trattasi di Cass. 18.10.1997 n. 10627, in Not. giurisp. lav. 1997, 783, concernente il licenziamento di un dirigente apicale-direttore generale di banca dequalificato, a suo dire, in dirigente minore o al limite in funzionario, nonché di Cass.8.11.2005 n. 21673, ivi 2006, 34, parimenti attinente a demansionamento di dirigente apicale] che inducono a seria riflessione, secondo le quali il regime di risoluzione del  rapporto di «pseudo dirigenti» per demansionamento dovrebbe seguire l'inquadramento “formale” iniziale  nella qualifica di dirigente, con la conseguenza che colui che per demansionamento è stato costretto a divenire successivamente «pseudo dirigente» sarebbe assoggettabile al recesso ad nutum (o quanto meno per cd. «giustificatezza», laddove contrattualmente prevista) giacché una pattuizione iniziale per la qualifica di dirigente  non può essere vanificata da un atto nullo ex art. 2103 c.c., ai fini della disciplina applicabile per la risoluzione del rapporto,  cioè a dire da un inadempimento datoriale, cui - dicono le due sentenze di Cassazione citate in nota 5 - si può reagire con le dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c., congiunte a richiesta risarcitoria di danni (professionali, da perdita di chance, esistenziali e morali).

Il ragionamento risulta  giuridicamente non infondato, ma sarebbe apparso più appagante se riferito non allo «pseudodirigente» per vessazione sfociata in mortificante dequalificazione o addirittura in inedia lavorativa, ma allo «pseudo dirigente» per favor, giacché in quest’ultima fattispecie la risoluzione ad nutum  avrebbe trovato etica legittimazione eminentemente in ragione del brocardo per cui «ubi commoda, ibi eius et incommoda», espressivo di un principio giustizialista finalizzato a non consentire, da un lato, di fruire dei vantaggi (economici e di status ricollegabili alla qualifica dirigenziale) e, dall'altro, di sottrarsi agli svantaggi della posizione (quali il recesso discrezionale aziendale).

Del tutto diversa  dalla fattispecie dello «pseudo dirigente» è – come correttamente evidenziato sia da Cass. SU n. 8870/207 sia da Cass. n. 25145/2010 -  la figura del  “medio”  (middle manager)  e “mini dirigente” (low manager), che sono  «dirigenti reali», seppure con poteri più circoscritti, e con la cui nozione - come è stato notato - si «intende descrivere la posizione di un soggetto che, pur investito di specifiche funzioni dirigenziali, non rivestirebbe gli attributi propri di un dirigente a tutto tondo (...).  Se questa premessa è vera, si deve rilevare come (invece, n.d.r) la figura del dirigente convenzionale (rectius, pseudodirigente, ora, n.d.r.) non abbia mai incontrato soverchie difficoltà interpretative, essendosi usualmente ritenuta per esso operante la tutela ordinaria (e, cioè, quella propria della categoria impiegatizia), in ragione delle caratteristiche oggettive della prestazione; tale soluzione trovando intrinseco supporto nel rilievo di fondo secondo il quale sarebbe altrimenti risultato possibile aggirare la garanzia della stabilità semplicemente ricorrendo a qualificazioni convenzionali» [Così, del tutto condivisibilmente sul punto specifico, Papaleoni M., op. cit., 266].

2.Sola tutela obbligatoria (cd. monetizzazione) per il licenziamento ingiustificato del dirigente reale

Con una serie di decisioni uniformi [L'orientamento risale originariamente a Cass. SU n. 7880/2007, seguita  poi da Cass. 24/6/2009 n. 14835, da Cass. 13/12/2010 n. 25145  e, più recentemente, da Cass. 23/11/2012 n. 20763] tali da costituire oramai orientamento consolidato, la Cassazione ha  da tempo stabilito  che, in caso di licenziamento ingiustificato giudiziariamente accertato (esclusi quelli riposanti su motivi abietti fondati sulla discriminazione [Il licenziamento discriminatorio ricorre nelle ipotesi in cui venga adottato  dal datore per avversione alla razza, lingua, religione, sesso, opinioni politiche e sindacali, ivi compresa la ritorsione per aver il lavoratore  osato adire la magistratura per la difesa dei propri diritti. Al riscontro di queste causali abiette, il licenziamento non è ingiustificato, cioè invalido, ma  del tutto nullo (cfr. art. 3, l. n. 108/1990 reiterato da art. 1, 42 c., l. n. 92/2012, cd. legge Fornero) e si considera tanquam non esset, come non mai esistito, per cui la sanzione ricostitutiva, anche per i dirigenti, è la reintegra]), il magistrato non potrà disporre - per l'intera categoria dei dirigenti (comprensiva indifferentemente dei dirigenti apicali, medi e minori) - la sanzione/rimedio della reintegra nel posto di lavoro (cd. tutela reale) ma soltanto una tutela indennitaria (cd. tutela obbligatoria monetizzante), normalmente quantificata nei ccnl in un ammontare di mensilità del preavviso proporzionali all'età anagrafica (cd. indennità supplementare).

Si può dire che la cd. riforma (rectius controriforma) Fornero del mercato del lavoro, che ha visto il cd.  "governo tecnico" impegnato a traguardare una (contrastata e pertanto non realizzata) demolizione della tutela reale reintegratoria garantita dall'art. 18 S.d.l. agli impiegati ed operai, per una sostituzione con una mortificante monetizzazione generalizzata dei licenziamenti ingiustificati, ha trovato come antesignana la categoria dirigenziale, cui la tutela reintegratoria non era stata mai  accordata dal nostrano legislatore, stante l'elevato carattere fiduciario del rapporto con l'azienda e i detenuti poteri di sua rappresentanza interno/esterna.

Nelle decisioni riferite in nota 6, la Cassazione ha  affermato di voler dare continuità all’orientamento che sin dal 2007 affermò l’unitarietà della categoria dirigenziale e negò rilevanza giuridica alle diversificazioni interne alla categoria fra dirigente apicale, medio e minore - considerate di natura meramente sociologica e descrittiva - quindi giudicate inidonee a conferire al middle e al low manager le garanzie contro il licenziamento accordate, invece  giustificatamente, dalla legislazione (l. n. 604/66 e art. 18, l. n. 300/70) alle sottordinate categorie dei quadri, impiegati e operai; riconoscendone l’estensibilità solo ai c.d. «pseudo-dirigenti», cioè a coloro che della categoria hanno solo il nomen ma, in concreto, sono privi delle attribuzioni di potere e di mansioni, tali da farli ricondurre tra gli impiegati.

Sia nella decisione n. 3175/2013 sia nella precedente n. 20763/2012 sia nell'anteriore n. 25145/2010, la Cassazione  ha trovato il modo di precisare - dopo avere passato in rassegna la sua più recente giurisprudenza in materia - che la qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come alter ego dell'imprenditore, ricopre un ruolo di vertice nell'organizzazione, ma anche a chi per qualificazione professionale o responsabilità nell'organizzazione aziendale riveste di fatto una posizione di autonomia.

Ad essere esclusi dalla disciplina del licenziamento monetizzato prevista per la categoria dei dirigenti – dice la Cassazione - sono «unicamente i cosiddetti pseudo-dirigenti, cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome e il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell'organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quello dei cosiddetti dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva».

Ne è scaturita l'affermazione del  seguente principio di diritto: «La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi nn. 604 del 1966 e 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi dell'articolo 10 della prima delle leggi citate, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente».

Il principio di diritto sopra riferito è stato riconfermato dalla recentissima Cass. n. 3175/2013, in questi termini: «...deve ritenersi che il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli arti. 1 e 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e che la nozione di "giustificatezza" posta dalla contrattazione collettiva al fine della legittimità del suo licenziamento non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall'art. 3 della stessa legge n. 604/66; con la conseguenza che, ai fini dell'indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la suddetta "giustificatezza" non deve necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 della Costituzione, che verrebbe realmente negata ove si impedisse all'imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa». Ribadendo, in tal modo, altresì - in ordine alle causali del licenziamento del dirigente quali introdotte dalla contrattazione collettiva – le differenze  tra la cd. «giustificatezza» del licenziamento del dirigente e il «giustificato motivo» quale causale rescissoria codificata per le restanti qualifiche nell’art. 3 della l. n. 604/1966. Precisando che l’asimmetria sussistente tra le due nozioni è riconducibile alla specificità e maggiore intensità e pregnanza del rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, in dipendenza delle mansioni, delle responsabilità e prerogative di autonomia conferitegli per la realizzazione degli obbiettivi aziendali. Da tale considerazione oggettiva è stata tratta in giurisprudenza la conseguenza che, ad esempio, l'avocazione da parte di un dirigente di più elevato livello delle mansioni e delle deleghe originariamente assegnate al dirigente inferiore (tale da concretizzare per quest'ultimo la fattispecie della soppressione del posto di lavoro), se genuina e non strumentalmente adottata per liberarsi del dirigente inferiore, costituisce legittima scelta datoriale, idonea ad attualizzare la fattispecie della «giustificatezza» del licenziamento. Anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili in via preventiva oppure una sua deviazione dalle direttive assegnate dal datore di lavoro o un suo comportamento extralavorativo che incide sull'immagine aziendale, possono giustificare una rottura del rapporto di fiducia e condurre al licenziamento. Questo quanto al piano soggettivo, ma possono verificarsi anche ragioni oggettive per l'interruzione del rapporto di lavoro, quando, ad esempio, la concreta posizione assegnata al dirigente nell'organizzazione aziendale non è più pienamente adeguata allo sviluppo delle strategie d'impresa del datore di lavoro: una situazione che può condurre all'«espulsione del dirigente nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento dell'impresa sul mercato».

In giurisprudenza di legittimità vige oramai  il seguente  consolidato principio di diritto in ordine al licenziamento legittimo del dirigente, assistito da riscontro di cd. "giustificatezza": «... la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento della L. n. 604 del 1966, ex art. 1; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente. La valutazione dell'idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione»(così Cass. 2.3.2006 n. 4614 e Cass. 19.8. 2005 n. 17039).

Va conclusivamente detto che se la risoluzione del rapporto del dirigente (top, middle o low che sia) è ancorata solo alla cd. «giustificatezza», al riscontro della quale il licenziamento è legittimo e che - qualora non riscontrabile - occasiona, non già la sanzione della reintegra nel posto di lavoro ma solo un indennizzo monetizzante contrattualmente prefigurato e qualificato  contrattualmente «indennità supplementare» (correlata ad un determinato numero di mensilità del preavviso), la Cassazione ha riconosciuto - sin dalla sentenza delle S.U. n. 7880/2007 - che anche per il licenziamento ontologicamente disciplinare (cd. punitivo) del dirigente ricorre imprescindibilmente la garanzia della contestazione  degli addebiti, del contraddittorio e del diritto alle controdeduzioni ex art. 7, l. n. 300/70, che la pregressa giurisprudenza aveva riservato ai soli medi e mini dirigenti, e che Cass. n. 7880/2007 affermò essere estensibile all'intera categoria dirigenziale (top managers inclusi). In questi  condivisibili quanto incisivi termini: «...se il tratto caratterizzante dell’articolo 7 stat. lav. va individuato, come emerge, dunque, dai ricordati interventi della Corte Costituzionale, nell’esigenza di garantire ad ogni lavoratore ‑ nel momento in cui gli si addebitano condotte  con finalità sanzionatorie ‑ il diritto di difesa, e se non è, come si è visto, di certo estranea alla ratio della norma in esame l’intento di tutelare la “persona” del lavoratore nella professionalità, nel decoro e nella sua stessa immagine, tutto ciò attesta che non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti, i quali ‑ specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale ‑ possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo».  Linea condivisibilmente garantista proseguita poi da Cass. n. 897/2011 (est. Curzio) tramite la seguente affermazione: «Le garanzie procedimentali sancite dalla l. n. 300/1970 (art. 7, commi 2 e 3) trovano applicazione anche nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che egli riveste nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o colpevole), sia che, a base del recesso, siano comunque poste condotte suscettibili di far venire meno la fiducia. Dalla violazione delle predette garanzie deriva incontestabilmente l’impossibilità di far valutare le condotte che hanno provocato il recesso e la conseguente applicazione degli effetti stabiliti dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento ingiustificato».