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I presupposti di genuinità del trasferimento di rami d'azienda

1. I rapporti di lavoro nel trasferimento d'azienda

Recenti sentenze della Cassazione forniscono l'occasione per un aggiornato riesame delle problematiche inerenti al tema del trasferimento d'azienda (o di un suo proprio ramo) nonché delle salvaguardie legislativamente approntate per la tutela dei lavoratori.

Va premesso - come è stato ben sottolineato [Da L. Bragioli, L’azienda, il suo trasferimento e la tutela dei lavoratori subordinati, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=42695] - che la disciplina del trasferimento d’azienda non rappresenta solo una tecnica di riorganizzazione dell’attività d’impresa finalizzata a regolamentare le trasformazioni della titolarità dell’impresa, ma è al tempo stesso una linea di frontiera ed un punto di equilibrio tra le insostituibili e contrapposte esigenze di tutela dei lavoratori e le necessità di trasformazione per l’attività produttiva.

In quest' ottica, sotto la spinta dell’ esperienza comunitaria, normativa e giurisprudenziale, il mutamento della titolarità dell’azienda (o di parte di essa) è stato sempre più letto dal legislatore come un processo speciale, composito, concertativo, funzionale a rendere compatibili le diverse esigenze coinvolte: non solo quelle dell’azienda, ma anche quelle dei lavoratori coinvolti.

L’inderogabilità della tutela, l’identificazione dei diritti dei lavoratori ceduti, l’impossibilità di ricorrere al trasferimento al fine di occultare ipotesi di licenziamento, la tensione verso la tutela dei lavoratori sotto ogni profilo coinvolti dall’eventuale trasferimento, rappresentano peraltro l’estrinsecazione di un unico concetto di fondo: il rapporto di lavoro, ed il prestatore stesso, non possono essere degradati a semplice fattore di produzione unilateralmente alienabile dal datore di lavoro.

Nel merito va detto che la disciplina legale del trasferimento d’azienda - antecedentemente al cd. "Patto per l'Italia" sottoscritto dalle sole Cisl e Uil con il governo di centro-destra il 5 luglio 2002, il cui all. n. 3 venne poi trasfuso nell'ordinamento per effetto dell'art. 32 del d.lgs. n. 276/2003 -  risiedeva esclusivamente nel vecchio art. 2112 c.c., prima delle innovazioni  apportate al suo testo dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990 n. 428 (c.d. legge comunitaria per il 1990), seguita dal d. lgs. 2 febbraio 2001 n. 18 (“Attuazione della direttiva 98/50/CE relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti”).

Quest’ultima normativa introdusse la seguente formulazione: «Art. 2112 (Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda). - In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.

Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.

Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all'articolo 2119, primo comma.

Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento e' attuato, ivi compresi l'usufrutto o l'affitto d'azienda.

Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità».

Le innovazioni introdotte nel 2001 apparvero subito del tutto incisive: a) attenendo alla nuova nozione di trasferimento d’azienda, nel quale rientrano non solo i mutamenti di titolarità dell’intera azienda ma di singoli rami, preesistenti ed autonomi anteriormente al trasferimento; b) implicando l’affermazione secondo cui il trasferimento non costituisce motivo di licenziamento; c) contemplando la (invero virtuale) possibilità per il lavoratore  - le cui condizioni di lavoro subiscano per effetto del trasferimento una sostanziale modifica (es. logistica, organizzativa, contrattuale, ecc.) - di dimettersi entro 3 mesi per giusta causa (con percezione cioè dell'indennità sostitutiva del preavviso); d) affermando il principio secondo il quale per i lavoratori che passano alle dipendenze dell'impresa incorporante si mantiene il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l'azienda cedente solamente nel caso in cui l'impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo. In caso contrario, invece, la contrattazione collettiva dell'impresa cedente è sostituita immediatamente e in tutto da quella applicata nell'impresa cessionaria anche se più sfavorevole (cfr. Cass., sez. lav., 13 maggio 2011, n. 10614). In sostanza l'art. 2112 c.c. comporta l'inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con l'applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro quale risultante dai contratti collettivi (di vario livello: nazionale, territoriale, aziendale, ecc.) in atto presso l’acquirente al posto di quelli – di pari livello – applicati dal cedente.

La parità del livello contrattuale, contemplata per l'immediata sostituzione dei contratti applicati dal cedente con quelli in atto presso il cessionario, non implica affatto la garanzia per gli esternalizzati ex art. 2112 c.c. di mantenimento di eguali condizioni rispetto a quelle fruite in precedenza, potendo accadere che vi sia un peggioramento determinato giustappunto dalla sostituzione (Cass. 4 aprile 1997, n. 2955). Tale peggioramento non può però pregiudicare i diritti acquisiti dal lavoratore nel corso della precedente contrattazione (quelli, cioè, già entrati a far parte del suo patrimonio, non già le mere aspettative future).

Occorre comunque tener presente che nella prassi tale sostituzione automatica è solitamente accompagnata da intese o accordi ad hoc,  c.d. “di armonizzazione” - realizzati solitamente  per intervento delle OO.SS. - che hanno la finalità di garantire una equilibrata modulazione tra i contratti di lavoro applicati rispettivamente dal cedente e dal cessionario.

La cessione di ramo di azienda risulta assoggettata al regime previsto dall'art. 2112 c.c., con la conseguenza che il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore già suo dipendente - il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario - per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda (cfr. Cass., sez. lav., 22 settembre 2011, n. 19291).

2. Le motivazioni datoriali all'esternalizzazione di attività e di personale: condizioni di legittimità

In pregressi tempi di c.d. "vacche grasse" le aziende traguardavano l'autosufficienza organizzativa, realizzandola mediante l'approntamento dei servizi di supporto (c.d. ausiliari) al proprio interno, tramite assunzioni di personale professionalmente specializzato in attività non direttamente pertinenti al cd. "core business" aziendale, inquadrati sotto lo stesso, unitario, ccnl.

In tempi di incipiente o galoppante crisi, le imprese hanno cercato di ridurre i loro costi e, quindi, hanno scelto la soluzione della frammentazione dei servizi, liberandosi di quelli ritenuti meramente ausiliari, per mantenere al proprio interno solo attività e personale ritenuto essenziale al cd. "core business" societario. Hanno tentato, pertanto, di sgravarsi del personale impiegato in servizi ausiliari, attraverso la tecnica del trasferimento di rami d'azienda destinatari di ccnl meno onerosi (quindi applicanti condizioni retributivo-normative deteriori per i c.d. esternalizzati) o mediante la creazione ad hoc di minisocietà (preferibilmente aldisotto dei 15 dipendenti, onde sottrarsi ai vincoli della cd. "stabilità reale") nelle quali trasferire in capo a terzi parte dei propri dipendenti non essenziali o esuberanti, società sovente destinate, in tempi brevi,  alla chiusura accompagnata dalla espulsione del personale conseguente alla cessazione dei rapporti di lavoro.

Queste studiate soluzioni di esternalizzazione non collidevano con la legislazione ordinaria - costituendo anzi un'applicazione della libertà d'impresa ex art. 41 Cost. - a patto che venissero  rispettate e assicurate, tuttavia, le condizioni di legittimità dell'operazione, rinvenibili nell'art. 2112 c.c.,  così delineate dall'orientamento di Cassazione: «il diritto positivo richiede..., per l'applicazione dell'art. 2112 c. c., che sia ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi. Altrimenti, sarebbe la volontà dell'imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per se privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro»...«...Resta, dunque, confermato il generale principio giurisprudenziale dell'assimilazione tra azienda e parte di azienda, differenziate solo, come é ovvio, sotto il profilo quantitativo, sicché resta escluso che un ramo di azienda possa essere disegnato e identificato solo al momento del trasferimento e in esclusiva funzione di esso, con un'operazione strumentale indirizzata all'espulsione, per questa via indiretta, di lavoratori eccedenti, consegnati ad un cessionario che, strettamente legato all'impresa cedente - ancorché vero imprenditore e non semplice interposto di mano d'opera - sarebbe posto in condizione di modificare liberamente le preesistenti condizioni di lavoro (contratti collettivi, condizioni di stabilità del posto di lavoro, ecc.). Tanto ciò e vero che il d. d. l. per la delega al Governo in materia di mercato di lavoro (collegato alla finanziaria 2002 e approvato dal consiglio dei Ministri il 15 novembre 2001), si propone proprio di incidere su questo punto, annoverando tra i criteri di delega per la modifica all'art. 2112 c.c. l'eliminazione del requisito "dell'autonomia funzionale  del ramo di azienda preesistente al trasferimento» (così Cass. nn. 14961 e 15105/2002, est. Picone).

3.Le pressioni datoriali di "mano libera" interpretate dal governo di centro-destra

Come anticipato, il governo di centro-destra, all'inizio del nuovo millennio, raccolse le pressioni datoriali tese ad avere piena mano libera nelle riorganizzazioni aziendali, e, in data 5 luglio 2002, concluse con due Confederazioni sindacali (Cisl e Uil) il cd. "Patto per l'Italia" il cui all. n. 3 (trasfuso poi nell'art. 32 del d.lgs. n. 276/2003) era stato preordinato per svincolare i datori di lavoro, nei trasferimenti di rami d'azienda, dal rispetto del requisito garante della non fraudolenza delle operazioni di esternalizzazione, costituito dalla cd. "preesistenza" del ramo ceduto all'interno dell'azienda cedente, anteriormente al trasferimento dei lavoratori impegnati nel ramo o servizio ausiliare al "core business".

A seguito di tale concordata quanto esiziale modifica normativa per i trasferimenti di rami d'azienda,  il 5 comma dell'art. 2112 c.c. venne riformulato in questi termini: «Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento é attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

La modifica introdotta da quel Patto (definito, non a caso, "scellerato") venne immediatamente percepita dalla dottrina lavoristica in tutta la sua pericolosità, affermandosi dal prematuramente scomparso Prof. M. Roccella, che: «Con la consueta disinvoltura nei confronti delle regole europee, il governo di centro-destra vorrebbe adesso intervenire sulla disciplina vigente e modificarla nel senso che il requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda dovrebbe sussistere solo “nel momento del suo trasferimento”: un banale escamotage linguistico, dietro il quale non è difficile scorgere l’intenzione di legittimare la costituzione di fittizi rami d’azienda, mai esistiti prima dell’operazione di trasferimento, al solo scopo di consentire l’espulsione dei lavoratori addetti al preteso ramo aggirando qualsiasi regola in materia di licenziamento [Così nell'articolo,  Lavoro: le carte truccate del governo, leggibile nel nostro sito: http://dirittolavoro.altervista.org/, sezione Articoli, n. 142. Nello stesso senso: A. Bellavista,  in Il Patto per l’Italia e la disciplina dei licenziamenti, ibidem, sezione Articoli  n. 138]». Analogamente si espresse il giuslavorista M. Fezzi, secondo cui: «La riforma concordata nel Patto prevede che l'autonomia funzionale del ramo d'azienda in luogo di essere preesistente sussista anche solo nel momento in cui viene attuato il trasferimento. Ciò evidentemente vuol dire che il datore di lavoro può organizzare una pluralità di lavoratori, che nulla hanno a che fare tra di loro, in un unico ufficio o reparto, costituito solo in vista della cessione e al momento della stessa: questi lavoratori saranno quindi automaticamente ceduti all'esterno, anche se, prima della cessione, non facevano parte di un ramo autonomo dell'azienda [ Così nell'articolo, Patto per l’Italia: prime valutazioni, ibidem, sezione Articoli  n. 136]».

Opinioni più rassicuranti per i lavoratori, assertrici dell'inidoneità della pattuizione raggiunta a mettere nel nulla il tradizionale requisito antifraudolenza, rappresentato dalla "preesistenza" al trasferimento di un autonomo ramo d'azienda - poi accolte adesivamente dalla successiva giurisprudenza della Cassazione -   vennero espresse dall'accademico giuslavorista  A. Perulli,  il quale asserì che: «sul piano dell’interpretazione letterale l’eliminazione del requisito della “preesistenza” (nell’ipotesi di cessione di ramo d’azienda) troverebbe un bilanciamento nel mantenimento del requisito della “conservazione nel trasferimento della propria identità”. Requisito che, come già detto, non costituisce un requisito ulteriore ed autonomo rispetto a quello della preesistenza “bensì un suo necessario completamento per evitare che, in occasione del trasferimento, le parti (cedente e cessionario) alterino la consistenza di tale articolazione, con aggiunte e sottrazioni di beni o risorse umane, rispetto all’assetto organizzativo che la connotava nella sua pregressa attività” [A. Maresca, Le novità del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda, in La nuova disciplina del trasferimento d’impresa, (a cura di G. Santoro Passarelli e R. Foglia), Milano 2002, 26]. In altri termini, l’autonomia funzionale dell’articolazione dovrebbe, comunque, preesistere al “momento del suo trasferimento”, talché l'espediente convenuto con improvvidi sindacati non sarebbe stato comunque idoneo al raggiungimento dello scopo prefissatosi dai datori di lavoro, consistente nel liberarsi discrezionalmente di personale sgradito o eccedentario.

In senso rassicurante venne altresì richiamata la stessa normativa comunitaria (direttiva 2001/23/CE  del 12 marzo 2001) a mente della quale: «è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria». Argomentandosi di conseguenza che:«riferendosi quest'ultima ad una conservazione dell’identità del ramo di azienda nell’ambito del trasferimento "ne presuppone logicamente la preesistenza, dato che non si può conservare l’identità di ciò che non ha identità prima della cessione" [In tal senso, A. Perulli, Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, in ADL 2003, 482; sostanzialmente nello stesso senso, L. Menghini, L’attuale nozione di ramo d’azienda, in Lav. giur. 2005, 431]».

Opinione condivisa  e sostenuta dalla stessa giurisprudenza di merito, che nel 2008 asserì che: «Nel nostro ordinamento, in virtù del principio di supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, sussiste un preciso obbligo per il giudice di interpretare il diritto interno alla luce della lettera e della ratio della disciplina comunitaria tenendo conto anche dei risultati cui è pervenuta la giurisprudenza comunitaria nell’opera di armonizzazione della legislazione statale dei diversi paesi membri dell’Unione europea. Pertanto – anche in considerazione del valore "normativo" delle pronunce interpretative della Corte di Giustizia – deve ritenersi che la nozione di ramo d’azienda elaborata nell’ambito della giurisprudenza comunitaria sia vincolante anche per il giudice nazionale. ...» [Così Trib. Milano 29 febbraio 2008 (est. Attanasio) e Trib. Roma 3 marzo 2008 (est. Valle)].

4. Il requisito di genuinità del trasferimento di rami d'azienda nell'interpretazione giurisprudenziale

L'orientamento sopra delineato  - assertore  dell'inidoneità della modifica dell'art. 2112,  5 comma, c.c. (quale innovato dal d.lgs. n. 276/2003 attuativo della cd. legge Biagi)  a vanificare  il garantistico requisito della "preesistenza" al trasferimento dell'unità organizzativa  oggetto di esternalizzazione  - è stato, dopo la dottrina, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità: in sequenza temporale,  prima  da Cass. nn. 13068 e 20012 del 2005, poi da Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697, ancora  da Cass. 21 novembre 2012 n. 20422 e da Cass. 21710/12, per poi essere incisivamente sostenuto e riaffermato dalla più recente Cass. 4 dicembre 2012 n. 21711 (est. Balestrieri).

Nella decisione n. 21710/2012, la Cassazione ha dichiarato l'illegittimità del trasferimento del dipendente, mascherato da cessione di ramo di azienda, in una struttura produttiva creata ad hoc, in occasione del passaggio del lavoratore. Nella stessa direzione si è posta  la sentenza n. 20422 del 21 novembre 2012, per effetto della quale alcuni dipendenti di una compagnia telefonica vennero reintegrati perché il trasferimento celava in realtà una operazione fittizia di cessione di ramo di azienda. In sostanza, l'azienda (Telecom) aveva costituito una distinta società (Telepost), senza trasferire realmente tutti i beni materiali, mancando anche i contatti con i fornitori o l'attribuzione di software e strumentazione informatica necessari per l'esercizio dell'impresa.

La più recente Cass. 4 dicembre 2012 n. 2171, chiude il cerchio argomentativo a favore dell'imprescindibilità  della "preesistenza" al trasferimento della porzione autonoma o ramo d'azienda oggetto di cessione, affinché possa essere riconosciuta l'applicazione dell'art. 2112 c.c. con le connesse garanzie per i lavoratori, asserendo che il mancato riscontro di questo requisito converte l'operazione in una mera cessione di contratti ex art. 1406 c.c., notoriamente condizionata al consenso espresso dei lavoratori ceduti.

Questa pregevole decisione, allineata alle precedenti, ha affermato che in materia di trasferimento di ramo di azienda  «tanto la normativa comunitaria (direttive CE nn, 98/50 e 2001/23) quanto la legislazione nazionale (art. 2112, comma quinto, cod. civ., sostituito dall'art. 32 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) perseguono il fine di evitare che il trasferimento si trasformi da semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sia della solvibilità sia dell'attitudine a proseguire con continuità l'attività produttiva. La citata direttiva del 1998 richiede, pertanto, che il ramo d'azienda oggetto del trasferimento costituisca un'entità economica con propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati per un'attività economica, essenziale o accessoria, e, analogamente, l'art. 2112, quinto comma, cod. civ., si riferisce alla "parte d'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata"».

Deve, quindi, trattarsi - ha affermato la Corte - di un'entità economica organizzata in modo stabile e non destinata all'esecuzione di una sola opera (cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza 24 gennaio 2002, C-51/00), ovvero di un'organizzazione quale legame funzionale che renda le attività dei lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati (Cass. 8 giugno 2009 n. 13171). Deve dunque aderirsi, alla tesi - ripete la Cassazione - che l'art. 32 del d.lgs. n. 276/03 (emanato a seguito della legge delega n. 30/2003 che prevedeva innanzitutto il "completo adeguamento della disciplina vigente alla normativa comunitaria"), vada innanzitutto interpretato alla luce di quest'ultima, la quale   presuppone che l'oggetto del trasferimento costituisca un'entità economica con propria identità funzionalmente autonoma che resti conservata con il trasferimento (cfr. in particolare le direttive CE n. 98/50 e n.23/2001; quest'ultima stabilisce infatti, all' art. 1 lett. b), che: "è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria").

Ne consegue - ha rilevato la Corte - che, nonostante talune difformi opinioni basate sul dato letterale dell'assenza, nelle Direttive comunitarie, del concetto di "preesistenza" (pur essendo previsto quello della conservazione dell'identità), l'entità economica trasferita deve in realtà ritenersi preesistente al trasferimento, non potendo conservarsi quel che non c'è (cfr. sul punto Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697). Il concetto di preesistenza deve poi ritenersi necessariamente riferito ad una articolazione funzionalmente autonoma dell'azienda, posto che qualunque lavorazione aziendale, per poter essere ceduta, non potrebbe che preesistere al negozio traslativo, essendone il necessario oggetto contrattuale. Tale conclusione risulta obbligata anche alla luce della legge delega n. 30/2003, considerando che essa prevedeva la sussistenza del requisito dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda al momento del suo trasferimento, dovendosi conseguentemente ritenere non consentito attribuire unicamente alle parti imprenditoriali di individuare a quali cessioni si applichi la fondamentale garanzia di cui all'art. 2112 c.c., risultando peraltro arduo sostenere che competa unicamente al datore di lavoro decidere sull'applicabilità di disposizioni inderogabili a garanzia dei lavoratori. Resta dunque assodato che quando oggetto di cessione non sia un complesso di beni e contratti funzionalmente coordinati all'esercizio almeno potenziale ad una attività di impresa, ma solo contratti di lavoro (con l'aggiunta eventuale di taluni beni strumentali non legati da un nesso organizzativo-funzionale), si è fuori dall'ipotesi di cui all'art. 2112 cod. civ., essendo invece applicabile l'art. 1406 cod. civ., che condiziona l'efficacia della cessione al consenso del contraente ceduto.

Ed invero - ha precisato la Corte - seppure può oggi ritenersi che l'autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto non coincida con la "materialità" dello stesso (quanto a strutture, beni strumentali ed attrezzature, etc.), ma possa consistere anche in un ramo "smaterializzato" o "leggero", costituito in prevalenza da rapporti di lavoro organizzati in modo idoneo, anche potenzialmente (od al netto dei supporti generali sussistenti presso l'azienda cedente), allo svolgimento di un'attività economica, ciò non toglie che tale autonomia dell'entità ceduta debba essere obiettivamente apprezzabile, sia pur con possibili interventi integrativi imprenditoriali ad opera del cessionario, al fine di verificarne l'imprescindibile requisito comunitario della sua "conservazione". Non può ammettersi invece - alla luce dei principi comunitari, cfr. C.G.E. 24 gennaio 2002, causa C-51/00 - che tale legame funzionale possa derivare (soggettivamente) solo dalla qualificazione fattane dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, consentendo ai soggetti stipulanti il negozio traslativo (peraltro neppure portatori di superiori interessi pubblici o collettivi), la libera definizione della fattispecie cui la norma inderogabile si applica, e ciò in contrasto con la disciplina comunitaria in ordine all'inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda.

Prosegue poi,  la Cassazione,  affermando che: «questa Corte ha poi già ritenuto che mentre nell'ipotesi della cessione di ramo di azienda si realizza la successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario senza bisogno del consenso dei contraenti ceduti, nel caso della mera esternalizzazione di servizi ricorre la fattispecie della cessione dei contratti di lavoro, che richiede per il suo perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti (Cass. 16 ottobre 2006 n. 22125; Cass. 5 marzo 2008 n. 5932). Deve pertanto ritenersi operante, anche a seguito dell'art. 32 del d.lgs. n. 276/03, il principio per cui per "ramo d'azienda", ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità - come del resto previsto dalla prima parte dell'art. 32 del d.lgs. n. 276/03 - pur potendosi individuare, nel contratto di cessione, una porzione o frazione produttiva che precedentemente era strettamente legata ai supporti logistici e materiali presenti nell'azienda cedente. Ciò presuppone comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata "ad hoc" in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore (cfr. Cass. 9 ottobre 2009 n. 21481) e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità.

Ne consegue che può applicarsi la disciplina dettata dall'art. 2112 cod. civ. anche in caso di frazionamento e cessione di parte dello specifico settore aziendale destinato a fornire il supporto logistico sia al ramo ceduto che all'attività della società cessionaria, purché esso presenti, all'interno della più ampia struttura aziendale oggetto della cessione, la propria organizzazione di beni e persone al fine della fornitura di particolari servizi per il conseguimento di obiettive finalità produttive, sicché i reciproci rapporti vengono trasferiti dal cedente al cessionario, ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., senza necessità di un loro consenso (cfr., già Cass. 1° febbraio 2008 n. 2489; Cass. 17 marzo 2009 n. 6452; Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697)».

Alla  luce dei principi sopraesposti, la  Suprema Corte ha cassato la decisione di merito che aveva erroneamente  affermato  che -  a seguito della modifica del 5° comma dell'art. 2112 c.c., ad opera del d.lgs. n. 276/03 - il requisito della preesistenza del ramo d'azienda (funzionalmente autonomo) rispetto al momento del trasferimento, non poteva più considerarsi sussistente nell'ordinamento positivo e pretendibile dalla lavoratrice ricorrente, ritenendosi dalla corte di merito  sufficiente la preesistenza di una "entità economica suscettibile di divenire articolazione autonoma a seguito del trasferimento, identificata come tale dalle parti". Altro errore di motivazione è stato ravvisato dalla Cassazione nell'aver la sentenza cassata ritenuto che le eterogenee "funzioni di reception, guardiania, fattorinaggio, potessero costituire entità economiche potenzialmente idonee a divenire autonome...a seguito dell'identificazione operata nell'ambito della cessione" dalle stesse parti interessate, cioè in base ad opinioni meramente soggettive e non già ad un riscontro fattuale oggettivo.

A conclusione esprimiamo l'avviso che l'orientamento innanzi delineato sia insuscettibile di subire inversioni e, pertanto, da qualificarsi oramai graniticamente consolidato.

1. I rapporti di lavoro nel trasferimento d'azienda

Recenti sentenze della Cassazione forniscono l'occasione per un aggiornato riesame delle problematiche inerenti al tema del trasferimento d'azienda (o di un suo proprio ramo) nonché delle salvaguardie legislativamente approntate per la tutela dei lavoratori.

Va premesso - come è stato ben sottolineato [Da L. Bragioli, L’azienda, il suo trasferimento e la tutela dei lavoratori subordinati, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=42695] - che la disciplina del trasferimento d’azienda non rappresenta solo una tecnica di riorganizzazione dell’attività d’impresa finalizzata a regolamentare le trasformazioni della titolarità dell’impresa, ma è al tempo stesso una linea di frontiera ed un punto di equilibrio tra le insostituibili e contrapposte esigenze di tutela dei lavoratori e le necessità di trasformazione per l’attività produttiva.

In quest' ottica, sotto la spinta dell’ esperienza comunitaria, normativa e giurisprudenziale, il mutamento della titolarità dell’azienda (o di parte di essa) è stato sempre più letto dal legislatore come un processo speciale, composito, concertativo, funzionale a rendere compatibili le diverse esigenze coinvolte: non solo quelle dell’azienda, ma anche quelle dei lavoratori coinvolti.

L’inderogabilità della tutela, l’identificazione dei diritti dei lavoratori ceduti, l’impossibilità di ricorrere al trasferimento al fine di occultare ipotesi di licenziamento, la tensione verso la tutela dei lavoratori sotto ogni profilo coinvolti dall’eventuale trasferimento, rappresentano peraltro l’estrinsecazione di un unico concetto di fondo: il rapporto di lavoro, ed il prestatore stesso, non possono essere degradati a semplice fattore di produzione unilateralmente alienabile dal datore di lavoro.

Nel merito va detto che la disciplina legale del trasferimento d’azienda - antecedentemente al cd. "Patto per l'Italia" sottoscritto dalle sole Cisl e Uil con il governo di centro-destra il 5 luglio 2002, il cui all. n. 3 venne poi trasfuso nell'ordinamento per effetto dell'art. 32 del d.lgs. n. 276/2003 -  risiedeva esclusivamente nel vecchio art. 2112 c.c., prima delle innovazioni  apportate al suo testo dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990 n. 428 (c.d. legge comunitaria per il 1990), seguita dal d. lgs. 2 febbraio 2001 n. 18 (“Attuazione della direttiva 98/50/CE relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti”).

Quest’ultima normativa introdusse la seguente formulazione: «Art. 2112 (Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda). - In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.

Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.

Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all'articolo 2119, primo comma.

Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento e' attuato, ivi compresi l'usufrutto o l'affitto d'azienda.

Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità».

Le innovazioni introdotte nel 2001 apparvero subito del tutto incisive: a) attenendo alla nuova nozione di trasferimento d’azienda, nel quale rientrano non solo i mutamenti di titolarità dell’intera azienda ma di singoli rami, preesistenti ed autonomi anteriormente al trasferimento; b) implicando l’affermazione secondo cui il trasferimento non costituisce motivo di licenziamento; c) contemplando la (invero virtuale) possibilità per il lavoratore  - le cui condizioni di lavoro subiscano per effetto del trasferimento una sostanziale modifica (es. logistica, organizzativa, contrattuale, ecc.) - di dimettersi entro 3 mesi per giusta causa (con percezione cioè dell'indennità sostitutiva del preavviso); d) affermando il principio secondo il quale per i lavoratori che passano alle dipendenze dell'impresa incorporante si mantiene il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l'azienda cedente solamente nel caso in cui l'impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo. In caso contrario, invece, la contrattazione collettiva dell'impresa cedente è sostituita immediatamente e in tutto da quella applicata nell'impresa cessionaria anche se più sfavorevole (cfr. Cass., sez. lav., 13 maggio 2011, n. 10614). In sostanza l'art. 2112 c.c. comporta l'inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con l'applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro quale risultante dai contratti collettivi (di vario livello: nazionale, territoriale, aziendale, ecc.) in atto presso l’acquirente al posto di quelli – di pari livello – applicati dal cedente.

La parità del livello contrattuale, contemplata per l'immediata sostituzione dei contratti applicati dal cedente con quelli in atto presso il cessionario, non implica affatto la garanzia per gli esternalizzati ex art. 2112 c.c. di mantenimento di eguali condizioni rispetto a quelle fruite in precedenza, potendo accadere che vi sia un peggioramento determinato giustappunto dalla sostituzione (Cass. 4 aprile 1997, n. 2955). Tale peggioramento non può però pregiudicare i diritti acquisiti dal lavoratore nel corso della precedente contrattazione (quelli, cioè, già entrati a far parte del suo patrimonio, non già le mere aspettative future).

Occorre comunque tener presente che nella prassi tale sostituzione automatica è solitamente accompagnata da intese o accordi ad hoc,  c.d. “di armonizzazione” - realizzati solitamente  per intervento delle OO.SS. - che hanno la finalità di garantire una equilibrata modulazione tra i contratti di lavoro applicati rispettivamente dal cedente e dal cessionario.

La cessione di ramo di azienda risulta assoggettata al regime previsto dall'art. 2112 c.c., con la conseguenza che il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore già suo dipendente - il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario - per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda (cfr. Cass., sez. lav., 22 settembre 2011, n. 19291).

2. Le motivazioni datoriali all'esternalizzazione di attività e di personale: condizioni di legittimità

In pregressi tempi di c.d. "vacche grasse" le aziende traguardavano l'autosufficienza organizzativa, realizzandola mediante l'approntamento dei servizi di supporto (c.d. ausiliari) al proprio interno, tramite assunzioni di personale professionalmente specializzato in attività non direttamente pertinenti al cd. "core business" aziendale, inquadrati sotto lo stesso, unitario, ccnl.

In tempi di incipiente o galoppante crisi, le imprese hanno cercato di ridurre i loro costi e, quindi, hanno scelto la soluzione della frammentazione dei servizi, liberandosi di quelli ritenuti meramente ausiliari, per mantenere al proprio interno solo attività e personale ritenuto essenziale al cd. "core business" societario. Hanno tentato, pertanto, di sgravarsi del personale impiegato in servizi ausiliari, attraverso la tecnica del trasferimento di rami d'azienda destinatari di ccnl meno onerosi (quindi applicanti condizioni retributivo-normative deteriori per i c.d. esternalizzati) o mediante la creazione ad hoc di minisocietà (preferibilmente aldisotto dei 15 dipendenti, onde sottrarsi ai vincoli della cd. "stabilità reale") nelle quali trasferire in capo a terzi parte dei propri dipendenti non essenziali o esuberanti, società sovente destinate, in tempi brevi,  alla chiusura accompagnata dalla espulsione del personale conseguente alla cessazione dei rapporti di lavoro.

Queste studiate soluzioni di esternalizzazione non collidevano con la legislazione ordinaria - costituendo anzi un'applicazione della libertà d'impresa ex art. 41 Cost. - a patto che venissero  rispettate e assicurate, tuttavia, le condizioni di legittimità dell'operazione, rinvenibili nell'art. 2112 c.c.,  così delineate dall'orientamento di Cassazione: «il diritto positivo richiede..., per l'applicazione dell'art. 2112 c. c., che sia ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi. Altrimenti, sarebbe la volontà dell'imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per se privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro»...«...Resta, dunque, confermato il generale principio giurisprudenziale dell'assimilazione tra azienda e parte di azienda, differenziate solo, come é ovvio, sotto il profilo quantitativo, sicché resta escluso che un ramo di azienda possa essere disegnato e identificato solo al momento del trasferimento e in esclusiva funzione di esso, con un'operazione strumentale indirizzata all'espulsione, per questa via indiretta, di lavoratori eccedenti, consegnati ad un cessionario che, strettamente legato all'impresa cedente - ancorché vero imprenditore e non semplice interposto di mano d'opera - sarebbe posto in condizione di modificare liberamente le preesistenti condizioni di lavoro (contratti collettivi, condizioni di stabilità del posto di lavoro, ecc.). Tanto ciò e vero che il d. d. l. per la delega al Governo in materia di mercato di lavoro (collegato alla finanziaria 2002 e approvato dal consiglio dei Ministri il 15 novembre 2001), si propone proprio di incidere su questo punto, annoverando tra i criteri di delega per la modifica all'art. 2112 c.c. l'eliminazione del requisito "dell'autonomia funzionale  del ramo di azienda preesistente al trasferimento» (così Cass. nn. 14961 e 15105/2002, est. Picone).

3.Le pressioni datoriali di "mano libera" interpretate dal governo di centro-destra

Come anticipato, il governo di centro-destra, all'inizio del nuovo millennio, raccolse le pressioni datoriali tese ad avere piena mano libera nelle riorganizzazioni aziendali, e, in data 5 luglio 2002, concluse con due Confederazioni sindacali (Cisl e Uil) il cd. "Patto per l'Italia" il cui all. n. 3 (trasfuso poi nell'art. 32 del d.lgs. n. 276/2003) era stato preordinato per svincolare i datori di lavoro, nei trasferimenti di rami d'azienda, dal rispetto del requisito garante della non fraudolenza delle operazioni di esternalizzazione, costituito dalla cd. "preesistenza" del ramo ceduto all'interno dell'azienda cedente, anteriormente al trasferimento dei lavoratori impegnati nel ramo o servizio ausiliare al "core business".

A seguito di tale concordata quanto esiziale modifica normativa per i trasferimenti di rami d'azienda,  il 5 comma dell'art. 2112 c.c. venne riformulato in questi termini: «Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento é attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

La modifica introdotta da quel Patto (definito, non a caso, "scellerato") venne immediatamente percepita dalla dottrina lavoristica in tutta la sua pericolosità, affermandosi dal prematuramente scomparso Prof. M. Roccella, che: «Con la consueta disinvoltura nei confronti delle regole europee, il governo di centro-destra vorrebbe adesso intervenire sulla disciplina vigente e modificarla nel senso che il requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda dovrebbe sussistere solo “nel momento del suo trasferimento”: un banale escamotage linguistico, dietro il quale non è difficile scorgere l’intenzione di legittimare la costituzione di fittizi rami d’azienda, mai esistiti prima dell’operazione di trasferimento, al solo scopo di consentire l’espulsione dei lavoratori addetti al preteso ramo aggirando qualsiasi regola in materia di licenziamento [Così nell'articolo,  Lavoro: le carte truccate del governo, leggibile nel nostro sito: http://dirittolavoro.altervista.org/, sezione Articoli, n. 142. Nello stesso senso: A. Bellavista,  in Il Patto per l’Italia e la disciplina dei licenziamenti, ibidem, sezione Articoli  n. 138]». Analogamente si espresse il giuslavorista M. Fezzi, secondo cui: «La riforma concordata nel Patto prevede che l'autonomia funzionale del ramo d'azienda in luogo di essere preesistente sussista anche solo nel momento in cui viene attuato il trasferimento. Ciò evidentemente vuol dire che il datore di lavoro può organizzare una pluralità di lavoratori, che nulla hanno a che fare tra di loro, in un unico ufficio o reparto, costituito solo in vista della cessione e al momento della stessa: questi lavoratori saranno quindi automaticamente ceduti all'esterno, anche se, prima della cessione, non facevano parte di un ramo autonomo dell'azienda [ Così nell'articolo, Patto per l’Italia: prime valutazioni, ibidem, sezione Articoli  n. 136]».

Opinioni più rassicuranti per i lavoratori, assertrici dell'inidoneità della pattuizione raggiunta a mettere nel nulla il tradizionale requisito antifraudolenza, rappresentato dalla "preesistenza" al trasferimento di un autonomo ramo d'azienda - poi accolte adesivamente dalla successiva giurisprudenza della Cassazione -   vennero espresse dall'accademico giuslavorista  A. Perulli,  il quale asserì che: «sul piano dell’interpretazione letterale l’eliminazione del requisito della “preesistenza” (nell’ipotesi di cessione di ramo d’azienda) troverebbe un bilanciamento nel mantenimento del requisito della “conservazione nel trasferimento della propria identità”. Requisito che, come già detto, non costituisce un requisito ulteriore ed autonomo rispetto a quello della preesistenza “bensì un suo necessario completamento per evitare che, in occasione del trasferimento, le parti (cedente e cessionario) alterino la consistenza di tale articolazione, con aggiunte e sottrazioni di beni o risorse umane, rispetto all’assetto organizzativo che la connotava nella sua pregressa attività” [A. Maresca, Le novità del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda, in La nuova disciplina del trasferimento d’impresa, (a cura di G. Santoro Passarelli e R. Foglia), Milano 2002, 26]. In altri termini, l’autonomia funzionale dell’articolazione dovrebbe, comunque, preesistere al “momento del suo trasferimento”, talché l'espediente convenuto con improvvidi sindacati non sarebbe stato comunque idoneo al raggiungimento dello scopo prefissatosi dai datori di lavoro, consistente nel liberarsi discrezionalmente di personale sgradito o eccedentario.

In senso rassicurante venne altresì richiamata la stessa normativa comunitaria (direttiva 2001/23/CE  del 12 marzo 2001) a mente della quale: «è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria». Argomentandosi di conseguenza che:«riferendosi quest'ultima ad una conservazione dell’identità del ramo di azienda nell’ambito del trasferimento "ne presuppone logicamente la preesistenza, dato che non si può conservare l’identità di ciò che non ha identità prima della cessione" [In tal senso, A. Perulli, Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, in ADL 2003, 482; sostanzialmente nello stesso senso, L. Menghini, L’attuale nozione di ramo d’azienda, in Lav. giur. 2005, 431]».

Opinione condivisa  e sostenuta dalla stessa giurisprudenza di merito, che nel 2008 asserì che: «Nel nostro ordinamento, in virtù del principio di supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, sussiste un preciso obbligo per il giudice di interpretare il diritto interno alla luce della lettera e della ratio della disciplina comunitaria tenendo conto anche dei risultati cui è pervenuta la giurisprudenza comunitaria nell’opera di armonizzazione della legislazione statale dei diversi paesi membri dell’Unione europea. Pertanto – anche in considerazione del valore "normativo" delle pronunce interpretative della Corte di Giustizia – deve ritenersi che la nozione di ramo d’azienda elaborata nell’ambito della giurisprudenza comunitaria sia vincolante anche per il giudice nazionale. ...» [Così Trib. Milano 29 febbraio 2008 (est. Attanasio) e Trib. Roma 3 marzo 2008 (est. Valle)].

4. Il requisito di genuinità del trasferimento di rami d'azienda nell'interpretazione giurisprudenziale

L'orientamento sopra delineato  - assertore  dell'inidoneità della modifica dell'art. 2112,  5 comma, c.c. (quale innovato dal d.lgs. n. 276/2003 attuativo della cd. legge Biagi)  a vanificare  il garantistico requisito della "preesistenza" al trasferimento dell'unità organizzativa  oggetto di esternalizzazione  - è stato, dopo la dottrina, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità: in sequenza temporale,  prima  da Cass. nn. 13068 e 20012 del 2005, poi da Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697, ancora  da Cass. 21 novembre 2012 n. 20422 e da Cass. 21710/12, per poi essere incisivamente sostenuto e riaffermato dalla più recente Cass. 4 dicembre 2012 n. 21711 (est. Balestrieri).

Nella decisione n. 21710/2012, la Cassazione ha dichiarato l'illegittimità del trasferimento del dipendente, mascherato da cessione di ramo di azienda, in una struttura produttiva creata ad hoc, in occasione del passaggio del lavoratore. Nella stessa direzione si è posta  la sentenza n. 20422 del 21 novembre 2012, per effetto della quale alcuni dipendenti di una compagnia telefonica vennero reintegrati perché il trasferimento celava in realtà una operazione fittizia di cessione di ramo di azienda. In sostanza, l'azienda (Telecom) aveva costituito una distinta società (Telepost), senza trasferire realmente tutti i beni materiali, mancando anche i contatti con i fornitori o l'attribuzione di software e strumentazione informatica necessari per l'esercizio dell'impresa.

La più recente Cass. 4 dicembre 2012 n. 2171, chiude il cerchio argomentativo a favore dell'imprescindibilità  della "preesistenza" al trasferimento della porzione autonoma o ramo d'azienda oggetto di cessione, affinché possa essere riconosciuta l'applicazione dell'art. 2112 c.c. con le connesse garanzie per i lavoratori, asserendo che il mancato riscontro di questo requisito converte l'operazione in una mera cessione di contratti ex art. 1406 c.c., notoriamente condizionata al consenso espresso dei lavoratori ceduti.

Questa pregevole decisione, allineata alle precedenti, ha affermato che in materia di trasferimento di ramo di azienda  «tanto la normativa comunitaria (direttive CE nn, 98/50 e 2001/23) quanto la legislazione nazionale (art. 2112, comma quinto, cod. civ., sostituito dall'art. 32 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) perseguono il fine di evitare che il trasferimento si trasformi da semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sia della solvibilità sia dell'attitudine a proseguire con continuità l'attività produttiva. La citata direttiva del 1998 richiede, pertanto, che il ramo d'azienda oggetto del trasferimento costituisca un'entità economica con propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati per un'attività economica, essenziale o accessoria, e, analogamente, l'art. 2112, quinto comma, cod. civ., si riferisce alla "parte d'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata"».

Deve, quindi, trattarsi - ha affermato la Corte - di un'entità economica organizzata in modo stabile e non destinata all'esecuzione di una sola opera (cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza 24 gennaio 2002, C-51/00), ovvero di un'organizzazione quale legame funzionale che renda le attività dei lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati (Cass. 8 giugno 2009 n. 13171). Deve dunque aderirsi, alla tesi - ripete la Cassazione - che l'art. 32 del d.lgs. n. 276/03 (emanato a seguito della legge delega n. 30/2003 che prevedeva innanzitutto il "completo adeguamento della disciplina vigente alla normativa comunitaria"), vada innanzitutto interpretato alla luce di quest'ultima, la quale   presuppone che l'oggetto del trasferimento costituisca un'entità economica con propria identità funzionalmente autonoma che resti conservata con il trasferimento (cfr. in particolare le direttive CE n. 98/50 e n.23/2001; quest'ultima stabilisce infatti, all' art. 1 lett. b), che: "è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria").

Ne consegue - ha rilevato la Corte - che, nonostante talune difformi opinioni basate sul dato letterale dell'assenza, nelle Direttive comunitarie, del concetto di "preesistenza" (pur essendo previsto quello della conservazione dell'identità), l'entità economica trasferita deve in realtà ritenersi preesistente al trasferimento, non potendo conservarsi quel che non c'è (cfr. sul punto Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697). Il concetto di preesistenza deve poi ritenersi necessariamente riferito ad una articolazione funzionalmente autonoma dell'azienda, posto che qualunque lavorazione aziendale, per poter essere ceduta, non potrebbe che preesistere al negozio traslativo, essendone il necessario oggetto contrattuale. Tale conclusione risulta obbligata anche alla luce della legge delega n. 30/2003, considerando che essa prevedeva la sussistenza del requisito dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda al momento del suo trasferimento, dovendosi conseguentemente ritenere non consentito attribuire unicamente alle parti imprenditoriali di individuare a quali cessioni si applichi la fondamentale garanzia di cui all'art. 2112 c.c., risultando peraltro arduo sostenere che competa unicamente al datore di lavoro decidere sull'applicabilità di disposizioni inderogabili a garanzia dei lavoratori. Resta dunque assodato che quando oggetto di cessione non sia un complesso di beni e contratti funzionalmente coordinati all'esercizio almeno potenziale ad una attività di impresa, ma solo contratti di lavoro (con l'aggiunta eventuale di taluni beni strumentali non legati da un nesso organizzativo-funzionale), si è fuori dall'ipotesi di cui all'art. 2112 cod. civ., essendo invece applicabile l'art. 1406 cod. civ., che condiziona l'efficacia della cessione al consenso del contraente ceduto.

Ed invero - ha precisato la Corte - seppure può oggi ritenersi che l'autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto non coincida con la "materialità" dello stesso (quanto a strutture, beni strumentali ed attrezzature, etc.), ma possa consistere anche in un ramo "smaterializzato" o "leggero", costituito in prevalenza da rapporti di lavoro organizzati in modo idoneo, anche potenzialmente (od al netto dei supporti generali sussistenti presso l'azienda cedente), allo svolgimento di un'attività economica, ciò non toglie che tale autonomia dell'entità ceduta debba essere obiettivamente apprezzabile, sia pur con possibili interventi integrativi imprenditoriali ad opera del cessionario, al fine di verificarne l'imprescindibile requisito comunitario della sua "conservazione". Non può ammettersi invece - alla luce dei principi comunitari, cfr. C.G.E. 24 gennaio 2002, causa C-51/00 - che tale legame funzionale possa derivare (soggettivamente) solo dalla qualificazione fattane dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, consentendo ai soggetti stipulanti il negozio traslativo (peraltro neppure portatori di superiori interessi pubblici o collettivi), la libera definizione della fattispecie cui la norma inderogabile si applica, e ciò in contrasto con la disciplina comunitaria in ordine all'inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda.

Prosegue poi,  la Cassazione,  affermando che: «questa Corte ha poi già ritenuto che mentre nell'ipotesi della cessione di ramo di azienda si realizza la successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario senza bisogno del consenso dei contraenti ceduti, nel caso della mera esternalizzazione di servizi ricorre la fattispecie della cessione dei contratti di lavoro, che richiede per il suo perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti (Cass. 16 ottobre 2006 n. 22125; Cass. 5 marzo 2008 n. 5932). Deve pertanto ritenersi operante, anche a seguito dell'art. 32 del d.lgs. n. 276/03, il principio per cui per "ramo d'azienda", ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità - come del resto previsto dalla prima parte dell'art. 32 del d.lgs. n. 276/03 - pur potendosi individuare, nel contratto di cessione, una porzione o frazione produttiva che precedentemente era strettamente legata ai supporti logistici e materiali presenti nell'azienda cedente. Ciò presuppone comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata "ad hoc" in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore (cfr. Cass. 9 ottobre 2009 n. 21481) e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità.

Ne consegue che può applicarsi la disciplina dettata dall'art. 2112 cod. civ. anche in caso di frazionamento e cessione di parte dello specifico settore aziendale destinato a fornire il supporto logistico sia al ramo ceduto che all'attività della società cessionaria, purché esso presenti, all'interno della più ampia struttura aziendale oggetto della cessione, la propria organizzazione di beni e persone al fine della fornitura di particolari servizi per il conseguimento di obiettive finalità produttive, sicché i reciproci rapporti vengono trasferiti dal cedente al cessionario, ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., senza necessità di un loro consenso (cfr., già Cass. 1° febbraio 2008 n. 2489; Cass. 17 marzo 2009 n. 6452; Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697)».

Alla  luce dei principi sopraesposti, la  Suprema Corte ha cassato la decisione di merito che aveva erroneamente  affermato  che -  a seguito della modifica del 5° comma dell'art. 2112 c.c., ad opera del d.lgs. n. 276/03 - il requisito della preesistenza del ramo d'azienda (funzionalmente autonomo) rispetto al momento del trasferimento, non poteva più considerarsi sussistente nell'ordinamento positivo e pretendibile dalla lavoratrice ricorrente, ritenendosi dalla corte di merito  sufficiente la preesistenza di una "entità economica suscettibile di divenire articolazione autonoma a seguito del trasferimento, identificata come tale dalle parti". Altro errore di motivazione è stato ravvisato dalla Cassazione nell'aver la sentenza cassata ritenuto che le eterogenee "funzioni di reception, guardiania, fattorinaggio, potessero costituire entità economiche potenzialmente idonee a divenire autonome...a seguito dell'identificazione operata nell'ambito della cessione" dalle stesse parti interessate, cioè in base ad opinioni meramente soggettive e non già ad un riscontro fattuale oggettivo.

A conclusione esprimiamo l'avviso che l'orientamento innanzi delineato sia insuscettibile di subire inversioni e, pertanto, da qualificarsi oramai graniticamente consolidato.