x

x

Il concetto di "pregiudizio" ai fini dell'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo del ripristino degli abusi edilizi

La vicenda controversa, in materia edilizia, riguarda la demolizione delle opere realizzate in difformità dal titolo edilizio.

La quaestio juris attiene al concetto di "pregiudizio" così come utilizzato dal legislatore nel secondo comma dell'art. 34 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, al ricorrere del quale (pregiudizio) può essere applicata la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione.

Il tema potrebbe apparire plurivoco sul piano legislativo, cui si deve aggiungere una pressoché totale assenza di risposte (poiché non trattato se non marginalmente e per aspetti differenti) da parte della giurisprudenza e della dottrina.

L'art. 34 cit., rubricato "Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire" (Legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 12; d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 107 e 109), prevede:

"1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso. 2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale. 2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, eseguiti in parziale difformità dalla denuncia di inizio attività" (comma aggiunto dal d.lgs. n. 301 del 2002).

Come si evince dalla lettura della norma, il legislatore ha previsto che la sanzione primaria in caso di opere abusive è la demolizione delle stesse al fine del ripristino della legalità violata (comma 1); solo in subordine, ovvero nel caso in cui la demolizione arrechi pregiudizio alle parti conformi al titolo edilizio, è possibile convertire la demolizione in sanzione pecuniaria, che rimane pertanto assoggettata alla valutazione di natura tecnico-edilizia-strutturale del dirigente o responsabile dell'ufficio comunale preposto (comma 2).

L’abusivismo edilizio, d’altra parte, determina una ampia rilevanza sociale per la percezione stessa di illegalità del fenomeno, poiché oltre a danneggiare il paesaggio e l'economia, tende ad incrinare la cultura della legalità e del rispetto delle regole.

Tanto premesso, l’oggetto della controversia risulta essere un fabbricato classificato con vincolo 2A, composto da due piani fuori terra, situato in zona agricola produttiva di pianura, per il quale il proprietario, presentò domanda di concessione edilizia, seguita da un "quesito" in cui  precisava che il fabbricato non era perimetrabile se non con “presunzione virtuale”, dal momento che solo dall’archivio storico comunale del 1949 era possibile risalire ad un corpo di fabbrica addossato al lato sud dell’edificio, di dimensione “circa di 3 metri per lato”, poi scomparso dalle cartografie del P.R.G.

Era pertanto necessario riclassificare e reinserire nelle cartografie del P.R.G. la porzione di fabbricato asseritamente crollata, previa verifica di coerenza con la normativa di PRG e del vigente regolamento edilizio. In altre parole, era necessario presentare una richiesta di variante grafica e normativa affinché l'intervento potesse essere realizzato.

Tale variante non è mai stata presentata. Malgrado ciò, l'interessato eseguì i lavori a sua discrezione, perpetrando diversi interventi non autorizzati e, dunque, abusivi.

Tale fatto determinò l'interessato a presentare domanda di definizione degli illeciti edilizi ai sensi dell’art. 32, d.l. 269/03, conv. in L. 326/03, e della L.R. 23/2004, poiché aveva  ampliato la sagoma del fabbricato de quo, sia in termini di superficie (ampliamento di circa 31,74 mq.), che della volumetria mediante sopraelevazione del coperto, oltre a modifiche estetiche, su immobile che già di per sé era “non conforme alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

Facevano seguito gli accertamenti della Polizia Municipale delle difformità dalla concessione edilizia , ritualmente verbalizzati, con verbale non avversato, cui era conseguita notizia di reato per violazione edilizia.

Il procedimento amministrativo scaturito, proseguiva con la necessaria comunicazione ex art. 10 bis, L. 241/90, contenente le ragioni ostative al rilascio della sanatoria, cui faceva seguito l'apporto procedimentale del privato mediante le osservazioni previste dalla legge, analizzate dal competente Ufficio comunale e ritenute inidonee a superare i contrasti normativi evidenziati.

Pertanto, il Comune provvedeva a notificare il “diniego di titolo edilizio in sanatoria”. Tale provvedimento non veniva impugnato. In conseguenza, l'ordine di ripristino delle opere abusive diveniva atto dovuto e fondamento per la successiva istanza di applicazione della sanzione pecuniaria in luogo del ripristino, così come presentata al Comune.

La pratica ha seguito il suo rituale corso. Con argomentato parere tecnico di cui all'art. 34, comma 2, d.P.R. 380/01, il tecnico comunale responsabile dell’Ufficio preposto, dopo le valutazioni tecniche necessarie, aveva concluso per la possibilità di procedere alla demolizione delle opere abusive, con esclusione di una parte di esse (“scostamento di 0,30 ml della parete perimetrale principale”), poiché queste sole avrebbero potuto recare pregiudizio alle parti conformi. Anche i tecnici di controparte avevano ascritto ogni altro impedimento sulle parti da demolire, “agli oneri tecnici ed economici” per la ridistribuzione degli ambienti interni, questioni irrilevanti ai fini dell’abusivismo edilizio.

A seguito di ulteriori apporti procedimentali, si innescava un ulteriore approfondimento istruttorio in ordine al “pregiudizio” ai fini della conversione della sanzione, che portava però il tecnico comunale a confermare quanto già esposto, poiché l’integrazione depositata “non aggiunge alcun elemento tecnico strutturale utile alla vicenda”.

Pertanto, preso atto della possibilità di procedere alla demolizione parziale delle opere abusive (con l’esclusione evidenziata), è stata determinata la misura della sanzione pecuniaria per le opere non ripristinabili, ed è stato provveduto in merito al diniego parziale ed all'ordine di pagamento della sanzione.

Solo a questo punto il proprietario decideva di interporre ricorso al TAR.

L'adito Tribunale Amministrativo decideva per l'accoglimento delle tesi del ricorrente, di fatto assegnando al sostantivo “pregiudizio” una interpretazione estensiva non contemplata dall'art. 34 DPR 380/01, così da sostituire con una valutazione di matrice “curiale” quella di natura tecnica prevista per legge in ordine al mantenimento in essere di un abuso edilizio. Il fatto tuttavia più rilevante era costituito dall'aver trascurato de plano (poiché non esaminati e motivati in sentenza), aspetti dirimenti, quali: la mancanza di conformità degli interventi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (zona agricola produttiva di pianura ARA), e il vincolo 2A  apposto sull'immobile (vincolo storico-documentale).

In particolare, il Giudice di prime cure nell'accogliere il ricorso, ha affermato che "la parte abusiva consiste nel «prolungamento della pianta dell’edificio di metri tre» e che, come risulta dalla perizia di parte, «la demolizione parziale dell’immobile richiederebbe lavori “onerosi” anche sulla parte dell’immobile regolare perché la demolizione inciderebbe sul bagno e la cucina, rendendo inabitabile la residua parte, nonché il rifacimento delle reti dell’acqua e del gas, gli scarichi delle acque nere e bianche e parte dell’impianto di riscaldamento»".

La sentenza si conclude affermando che si tratta non solo di un «pregiudizio funzionale», ma anche di un «pregiudizio strutturale», ancorché non incidente sulla staticità della rimanente porzione, evitabile soltanto a seguito di interventi costosi e sproporzionati rispetto al valore del bene, divenendo indispensabile una completa trasformazione dell’assetto distributivo ed impiantistico della porzione rimanente".

Il Giudice di prime cure ha errato per svariati motivi. I principali e dirimenti sono che né il Giudice amministrativo, né le parti private, possono sostituire valutazioni tecniche riservate dalla legge al Settore Tecnico comunale, il quale opera comunque in qualità di pubblico ufficiale (nel caso di specie, nella sua qualità di professionista e pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni, il tecnico del Comune aveva ritenuto che esistessero le condizioni per procedere alla demolizione delle opere abusive rilevate con verbale d'accertamento dalla Polizia Municipale, ad esclusione di uno “scostamento di 0,30 ml della parete perimetrale principale” - eccezione necessaria a "non compromettere le membrature portanti da conservare (solaio di primo piano) nonché la monolicità del cordolo di piano” -, in ciò esprimendo un giudizio valutativo eminentemente tecnico-edilizio sulla staticità della restante parte conforme. Conclusione confermata anche dal tecnico incaricato dalla proprietà e riportata nella relazione tecnica depositata in Comune (ovi si afferma che "il ripristino è certamente fattibile da un punto di vista tecnico ma appare …… un onere operativamente ed economicamente sproporzionato”), ma evidenziando quale elemento ostativo al ripristino un non meglio precisato "pregiudizio funzionale".

L’articolo 34 del d.P.R. 380/01, al comma 2, come si è avuto modo di evidenziare, ammette l’applicazione della sanzione pecuniaria solo “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”, senza operare alcun riferimento all’eventualità di applicare la sanzione qualora fosse dimostrato un pregiudizio funzionale.

Cosa deve intendendersi, allora, per "pregiudizio funzionale"? Il concetto di funzionalità (che si ripete non è preso in esame dall’articolo 34 del d.P.R. 380/01), pare - quantomeno nel caso di specie - utilizzato strumentalmente per ingenerare confusione e per non procedere alla demolizione dell’appendice realizzata abusivamente, come dimostra anche l'error in judicando in cui è incorso il TAR.

Non si comprende come possa altrimenti costituire oggetto di valutazione tale locuzione ai fini dell’applicazione della sanzione: infatti, se occorresse far riferimento a tale parametro ai fini di applicare la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione considerata come sanzione principale, non avrebbe più senso la repressione dell’abusivismo edilizio in quanto, ipoteticamente, tutte le parti abusivamente realizzate risultano funzionali o necessarie rispetto all’immobile cui accedono.

In altre parole, il fatto che ambienti quali cucina e bagno non siano stati realizzati nella parte legittima come previsto nella soluzione di progetto della DIA presentata all'Ente, ma (intenzionalmente?) nella zona abusiva, non può costituire il metro di valutazione per sostenere che l’ampliamento è funzionale per il raggiungimento dei requisiti per le unità pluristanza.

Per assurdo, qualora nell’unità de qua fosse presente un secondo servizio igienico si potrebbe procedere alla demolizione, mentre se ne è presente solo uno, posto nella parte abusiva, si deve applicare la sanzione pecuniaria, creando così una disparità di trattamento tra casi identici?

Ovviamente la risposta non può che essere retorica. Pertanto, il fatto che nella zona da demolire trovino collocazione “sia la cucina che il bagno e dunque, dovrebbe essere trasformato tutto l’assetto distributivo ed impiantistico della porzione rimanente”, appare un ragionamento legato ad una questione esclusivamente economica, incidente sulle finanze dell'autore di una attività illecita a carattere permanente, assolutamente obliterata dalla normativa nazionale, poiché diversamente si legittimerebbe ogni iniziativa illecita.

Avverso la succitata decisione del Giudice di prime cure, giuridicamente errata, e contenente un principio socialmente gravissimo, è stato proposto l'appello, il cui accoglimento - mediante la sentenza in commento da parte del Supremo Consesso della Giusitizia amministrativa - ha sgombrato il panorama giurisprudenziale in materia di abusivismo edilizio da un precedente pericolosissimo: la possibilità di realizzare porzioni abusive di immobili inserendo impianti tecnologici, al fine di ottenere la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, legittimando di fatto degli impropri condoni extra ordinem. Con buona pace dei principi di legalità e rispetto delle regole.

Come è stato precisato, il dato di partenza è che le opere edilizie in questione non erano mai state autorizzate all'interessato, che anzi, ne aveva dichiarato la difformità sia al PRG che per l'edificio vincolato, in sede di richiesta di sanatoria. Dunque senza una specifica variante che riclassificasse il PRG le opere non potevano essere edificate. Nel diniego di condono era espressamente evidenziato come gli abusi insistessero su “edificio classificato 2A dagli strumenti urbanistici comunali, ossia di interesse storico architettonico”, disciplinato dall'art. 66, R.E. vigente al 31/3/2003 (prescriveva l'inalterabilità dei fronti) e, pertanto, in contrasto con le disposizioni dell'art. 33, c. 7, L.R. 23/2004.

Il primo Giudice ha omesso qualsiasi pronuncia al riguardo, obliterando completamente che il vincolo 2A-edificio di interesse storico architettonico comporta insuscettibilità di sanatoria e, pertanto, un maggior rigore sulle valutazioni comunali in merito all'applicazione della sanzione primaria (che si rammenta è la demolizione), rispetto a quella residuale (ovvero pecuniaria) su edifici di tal guisa, a tutela dell'interesse pubblico e del territorio, attesa la contestuale presenza del vincolo del PRG vigente al 31/3/2003, “Zona APP” (Zona Agricola Produttiva di pianura e piatto aereo).

La decisione è apparsa subito chiaramente viziata perchè il primo Giudice ha esaminato ed accolto il ricorso trascurando tale sostanziale motivo: l'opera era realizzata su edificio vincolato in zona non conforme alla strumentazione urbanistica.

Al contrario, il Comune aveva compiuto una scrupolosa valutazione eminentemente tecnica del pregiudizio, in relazione al possibile pregiudizio statico, edilizio, costruttivo e geometrico della parte autorizzata, concludendo - in analogia con le conclusioni tecniche di controparte - che la demolizione del prolungamento costituisse solo un pregiudizio economico a carico del “costruttore abusivo”, ma non un pregiudizio tecnicamente apprezzabile, come richiesto dal d.P.R. 380/01.

Il TAR, al contrario, ha del tutto ignorato nella propria analisi tale rilevantissimo aspetto, ben noto alla proprietà ed ai tecnici di sua fiducia, sicché la sentenza de plano appariva  viziata e andava riformata. Infatti, sulla mancanza di conformità urbanistica (oltre che edilizia), il TAR aveva sostenuto che “la norma citata fa riferimento al pregiudizio senza specificare di quale natura ed entità esso sia”. Pertanto, ha aggiunto che “la valutazione richiesta deve avere maggiore ampiezza ed essere riferita anche agli interventi edilizi necessari, sulla parte in conformità, qualora si disponga la demolizione parziale”, ed ha concluso con un macroscopico errore in judicando: “(...) ove la violazione riguardi, come nel caso in esame, un abuso di modesta entità poco incidente sull'assetto edilizio del territorio”.

L'abuso che il TAR ha ritienuto avere, errando, una modesta incidenza sul territorio, in realtà ha una enorme incidenza, se fosse stato ben valutato, atteso che:

a) il nuovo corpo di fabbrica non era mai stato oggetto di classificazione e inserimento nelle planimetrie di PRG, con conseguente impossibilità di ripristino tipologico;

b) l'immobile oggetto di abusi ricade in zona APP-Zona Agricola Produttiva di Pianura, disicplinata dall'art. 85 del PRG vigente al 31/3/2003, e all'interno della zona soggetta al “Piatto aereo” di cui alla L. n. 58/1963;

c) le opere realizzate consistono sì in un ampliamento di superficie (l'unico motivato dal TAR), ma anche ampliamento di volume, in fabbricato classificato 2A-interesse storico architettonico dagli strumenti urbanistici, in difformità dal titolo edilizio rilasciato;

d) gli ampliamenti realizzati esternamente alla sagoma esistente sono classificati “nuova costruzione” dalla lett. g1) dell'Allegato alla L.R. 31/2002, nonché dall'art. 9, lett. c) del R.E. comunale vigente al 31/3/2003. Il combinato disposto di queste norme con l'art. 33, L.R. 23/2004 comporta che il rilascio del titolo in sanatoria è escluso per gli edifici classificati (com'era il caso di specie), oltretutto in contrasto con gli strumenti urbanistici.

Malgrado l'assenza totale di considerazione delle preclusioni urbanistiche ed edilizie, il TAR ha così ritenuto che il tecnico del Comune dovesse valutare anche gli aspetti “onerosi” della demolizione dell'illecito “sulla parte dell'immobile regolare perchè la demolizione inciderebbe sul bagno e sulla cucina”, poiché il ripristino potrebbe avvenire “soltanto a seguito di interventi costosi e sproporzionati rispetto al valore del bene, divenendo indispensabile una completa trasformazione dell'assetto distributivo”.

Sarebbe sin troppo sarcastica la domanda: "ma chi obbliga a realizzare un abuso edilizio?". L'interessato non poteva realizzare bagno e cucina laddove previsto nel titolo edilizio depositato? L'abuso dal medesimo perpetrato è stato liberamente posto in essere!

E sin troppo scontata la risposta: non può dunque incidere interessi superiori (interesse pubblico, certezza del diritto, parità di trattamento, ecc.), il frutto di un fatto illecito permanente.

Sul punto la legge è di meridiana chiarezza e prevede che la sanzione pecuniaria, dopo attenta analisi e valutazione da parte della P.A., può sostituire quella demolitoria solo quando le parti difformi non possano essere eliminate senza compromettere la stabilità dell'edificio o delle parti conformi.

Anche la giurisprudenza più “illuminata”, di recente aveva precisato che “in presenza di una situazione incerta circa la riduzione in pristino di opere abusive in termini di possibile pregiudizio alla parte di manufatto legittimamente realizzata, l'Amministrazione è tenuta a compiere una valutazione discrezionale individuando e soppesando le ragioni di pubblico interesse che possono indurre a non affrontare il rischio del paventato pregiudizio” (TAR Torino, II, n. 440 del 11.4.2012; Cons. St., V, n. 1876 del 12.11.1999).

Nel caso in esame, sulle parti abusive da rimuovere non vi era alcuna incertezza sulla possibilità di ripristino (sanzione primaria) senza pregiudizio della staticità della porzione di edificio legittima, poiché le caratteristiche costruttive e geometriche (orditura del solaio perpendicolare alla dimensione maggiore in pianta), erano state analizzate con estremo scrupolo dal tecnico comunale. Quindi, la demolizione non arrecava alcun pregiudizio, se non ... al portafogli dell'abusivista.

Diversamente opinando, sarebbe come dire che chiunque è “legittimato” a compiere abusi edilizi, anche a prescindere dalla classificazione dell'immobile o della zona, poiché sarebbe sufficiente posizionare nell'aumento di superficie un bagno o una cucina: il gravoso onere economico per il ripristino della situazione di liceità obbligherebbe in tal caso il Comune a convertire la demolizione in sanzione pecuniaria, con buona pace dell'interesse pubblico, compresso per favorire l'interesse del solo privato.

In disparte il fatto che la pronuncia appellata, come si è osservato, risultava omissiva su punti sostanziali (proprio per l'omissione di tali punti), il punto maggiormente dolente era incentrato sul fatto che un così abnorme precedente (ndr: costituito dall'eventuale sopravvivenza della pronuncia appellata), avrebbe costituito un grave vulnus al potere del Comune di controllo delle violazioni in materia edilizia ed urbanistica, tanto più rigoroso quanto più sussistono vincoli urbanistici ed edilizi, come nel presente caso.

La decisione del Consiglio di Stato

Con la sentenza n. 1912 del 9 aprile 2013, la VI Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto l’appello fondato, per le ragioni di diritto esposte dal Comune e di seguito elaborate.

L’art. 34 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), prevede, al primo comma, che "gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso" entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio, con l’aggiunta che "decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso", come si è sopra riportato.

Il secondo comma dispone che "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, (…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale".

A giudizio del Consiglio di Stato, la norma citata va interpretata – in conformità alla natura di illecito posto in essere e alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma – "nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso" (cfr., con riferimento a fattispecie analoghe, Cons. Stato, Sez. V, 29 novembre 2012, n. 6071; Cons. Stato, Sez. V, 5 settembre 2011, n. 4982), concludendo che giammai possono venire in rilievo aspetti relativi alla “eccessiva onerosità” dell’intervento.

Il punto saliente in cui è condensato il principio di diritto "sociale" colto perfettamente dal Supremo Consesso amministrativo, sta nell'affermazione secondo cui "se si potessero prendere in esame anche questi profili si rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul complessivo assetto del territorio e in contrasto con la chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui la relativa attività materiale incida sulla stabilità dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o impianti più o meno costosi".

Poiché il Giudice di prime cure aveva proprio deciso per l'accoglimento del ricorso attribuendo rilevanza all’onerosità delle conseguenze derivanti dall’attività di ripristino dello stato dei luoghi, il Consiglio di Stato ha evidenziato "la legittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado, con i quali il Comune, accertato che la demolizione delle opere abusive non avrebbe inciso sulla stabilità del fabbricato, ha rigettato, in parte, la domanda dell’interessato volta ad ottenere la sola applicazione di una sanzione pecuniaria" e, per l'effetto, ha riformato la sentenza respingendo il ricorso di primo grado.

La pronuncia in esame – al di là di mettere chiarezza in un ambito privo di pronunciamenti specifici relativamente a cosa debba intendersi per "pregiudizio funzionale" ai fini della conversione della sanzione demolitoria in sanzione pecuniaria – riveste caratteri di straordinarietà per i principi immanenti salvaguardati: da un lato, il potere/dovere del Comune di esercitare il proprio potere repressivo in materia di abusivismo edilizio, e dall'altro scoraggiare lo scempio ed il consumo di territorio attraverso sistemi illegali ammantati di legalità.

La vicenda controversa, in materia edilizia, riguarda la demolizione delle opere realizzate in difformità dal titolo edilizio.

La quaestio juris attiene al concetto di "pregiudizio" così come utilizzato dal legislatore nel secondo comma dell'art. 34 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, al ricorrere del quale (pregiudizio) può essere applicata la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione.

Il tema potrebbe apparire plurivoco sul piano legislativo, cui si deve aggiungere una pressoché totale assenza di risposte (poiché non trattato se non marginalmente e per aspetti differenti) da parte della giurisprudenza e della dottrina.

L'art. 34 cit., rubricato "Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire" (Legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 12; d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 107 e 109), prevede:

"1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso. 2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale. 2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, eseguiti in parziale difformità dalla denuncia di inizio attività" (comma aggiunto dal d.lgs. n. 301 del 2002).

Come si evince dalla lettura della norma, il legislatore ha previsto che la sanzione primaria in caso di opere abusive è la demolizione delle stesse al fine del ripristino della legalità violata (comma 1); solo in subordine, ovvero nel caso in cui la demolizione arrechi pregiudizio alle parti conformi al titolo edilizio, è possibile convertire la demolizione in sanzione pecuniaria, che rimane pertanto assoggettata alla valutazione di natura tecnico-edilizia-strutturale del dirigente o responsabile dell'ufficio comunale preposto (comma 2).

L’abusivismo edilizio, d’altra parte, determina una ampia rilevanza sociale per la percezione stessa di illegalità del fenomeno, poiché oltre a danneggiare il paesaggio e l'economia, tende ad incrinare la cultura della legalità e del rispetto delle regole.

Tanto premesso, l’oggetto della controversia risulta essere un fabbricato classificato con vincolo 2A, composto da due piani fuori terra, situato in zona agricola produttiva di pianura, per il quale il proprietario, presentò domanda di concessione edilizia, seguita da un "quesito" in cui  precisava che il fabbricato non era perimetrabile se non con “presunzione virtuale”, dal momento che solo dall’archivio storico comunale del 1949 era possibile risalire ad un corpo di fabbrica addossato al lato sud dell’edificio, di dimensione “circa di 3 metri per lato”, poi scomparso dalle cartografie del P.R.G.

Era pertanto necessario riclassificare e reinserire nelle cartografie del P.R.G. la porzione di fabbricato asseritamente crollata, previa verifica di coerenza con la normativa di PRG e del vigente regolamento edilizio. In altre parole, era necessario presentare una richiesta di variante grafica e normativa affinché l'intervento potesse essere realizzato.

Tale variante non è mai stata presentata. Malgrado ciò, l'interessato eseguì i lavori a sua discrezione, perpetrando diversi interventi non autorizzati e, dunque, abusivi.

Tale fatto determinò l'interessato a presentare domanda di definizione degli illeciti edilizi ai sensi dell’art. 32, d.l. 269/03, conv. in L. 326/03, e della L.R. 23/2004, poiché aveva  ampliato la sagoma del fabbricato de quo, sia in termini di superficie (ampliamento di circa 31,74 mq.), che della volumetria mediante sopraelevazione del coperto, oltre a modifiche estetiche, su immobile che già di per sé era “non conforme alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

Facevano seguito gli accertamenti della Polizia Municipale delle difformità dalla concessione edilizia , ritualmente verbalizzati, con verbale non avversato, cui era conseguita notizia di reato per violazione edilizia.

Il procedimento amministrativo scaturito, proseguiva con la necessaria comunicazione ex art. 10 bis, L. 241/90, contenente le ragioni ostative al rilascio della sanatoria, cui faceva seguito l'apporto procedimentale del privato mediante le osservazioni previste dalla legge, analizzate dal competente Ufficio comunale e ritenute inidonee a superare i contrasti normativi evidenziati.

Pertanto, il Comune provvedeva a notificare il “diniego di titolo edilizio in sanatoria”. Tale provvedimento non veniva impugnato. In conseguenza, l'ordine di ripristino delle opere abusive diveniva atto dovuto e fondamento per la successiva istanza di applicazione della sanzione pecuniaria in luogo del ripristino, così come presentata al Comune.

La pratica ha seguito il suo rituale corso. Con argomentato parere tecnico di cui all'art. 34, comma 2, d.P.R. 380/01, il tecnico comunale responsabile dell’Ufficio preposto, dopo le valutazioni tecniche necessarie, aveva concluso per la possibilità di procedere alla demolizione delle opere abusive, con esclusione di una parte di esse (“scostamento di 0,30 ml della parete perimetrale principale”), poiché queste sole avrebbero potuto recare pregiudizio alle parti conformi. Anche i tecnici di controparte avevano ascritto ogni altro impedimento sulle parti da demolire, “agli oneri tecnici ed economici” per la ridistribuzione degli ambienti interni, questioni irrilevanti ai fini dell’abusivismo edilizio.

A seguito di ulteriori apporti procedimentali, si innescava un ulteriore approfondimento istruttorio in ordine al “pregiudizio” ai fini della conversione della sanzione, che portava però il tecnico comunale a confermare quanto già esposto, poiché l’integrazione depositata “non aggiunge alcun elemento tecnico strutturale utile alla vicenda”.

Pertanto, preso atto della possibilità di procedere alla demolizione parziale delle opere abusive (con l’esclusione evidenziata), è stata determinata la misura della sanzione pecuniaria per le opere non ripristinabili, ed è stato provveduto in merito al diniego parziale ed all'ordine di pagamento della sanzione.

Solo a questo punto il proprietario decideva di interporre ricorso al TAR.

L'adito Tribunale Amministrativo decideva per l'accoglimento delle tesi del ricorrente, di fatto assegnando al sostantivo “pregiudizio” una interpretazione estensiva non contemplata dall'art. 34 DPR 380/01, così da sostituire con una valutazione di matrice “curiale” quella di natura tecnica prevista per legge in ordine al mantenimento in essere di un abuso edilizio. Il fatto tuttavia più rilevante era costituito dall'aver trascurato de plano (poiché non esaminati e motivati in sentenza), aspetti dirimenti, quali: la mancanza di conformità degli interventi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (zona agricola produttiva di pianura ARA), e il vincolo 2A  apposto sull'immobile (vincolo storico-documentale).

In particolare, il Giudice di prime cure nell'accogliere il ricorso, ha affermato che "la parte abusiva consiste nel «prolungamento della pianta dell’edificio di metri tre» e che, come risulta dalla perizia di parte, «la demolizione parziale dell’immobile richiederebbe lavori “onerosi” anche sulla parte dell’immobile regolare perché la demolizione inciderebbe sul bagno e la cucina, rendendo inabitabile la residua parte, nonché il rifacimento delle reti dell’acqua e del gas, gli scarichi delle acque nere e bianche e parte dell’impianto di riscaldamento»".

La sentenza si conclude affermando che si tratta non solo di un «pregiudizio funzionale», ma anche di un «pregiudizio strutturale», ancorché non incidente sulla staticità della rimanente porzione, evitabile soltanto a seguito di interventi costosi e sproporzionati rispetto al valore del bene, divenendo indispensabile una completa trasformazione dell’assetto distributivo ed impiantistico della porzione rimanente".

Il Giudice di prime cure ha errato per svariati motivi. I principali e dirimenti sono che né il Giudice amministrativo, né le parti private, possono sostituire valutazioni tecniche riservate dalla legge al Settore Tecnico comunale, il quale opera comunque in qualità di pubblico ufficiale (nel caso di specie, nella sua qualità di professionista e pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni, il tecnico del Comune aveva ritenuto che esistessero le condizioni per procedere alla demolizione delle opere abusive rilevate con verbale d'accertamento dalla Polizia Municipale, ad esclusione di uno “scostamento di 0,30 ml della parete perimetrale principale” - eccezione necessaria a "non compromettere le membrature portanti da conservare (solaio di primo piano) nonché la monolicità del cordolo di piano” -, in ciò esprimendo un giudizio valutativo eminentemente tecnico-edilizio sulla staticità della restante parte conforme. Conclusione confermata anche dal tecnico incaricato dalla proprietà e riportata nella relazione tecnica depositata in Comune (ovi si afferma che "il ripristino è certamente fattibile da un punto di vista tecnico ma appare …… un onere operativamente ed economicamente sproporzionato”), ma evidenziando quale elemento ostativo al ripristino un non meglio precisato "pregiudizio funzionale".

L’articolo 34 del d.P.R. 380/01, al comma 2, come si è avuto modo di evidenziare, ammette l’applicazione della sanzione pecuniaria solo “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”, senza operare alcun riferimento all’eventualità di applicare la sanzione qualora fosse dimostrato un pregiudizio funzionale.

Cosa deve intendendersi, allora, per "pregiudizio funzionale"? Il concetto di funzionalità (che si ripete non è preso in esame dall’articolo 34 del d.P.R. 380/01), pare - quantomeno nel caso di specie - utilizzato strumentalmente per ingenerare confusione e per non procedere alla demolizione dell’appendice realizzata abusivamente, come dimostra anche l'error in judicando in cui è incorso il TAR.

Non si comprende come possa altrimenti costituire oggetto di valutazione tale locuzione ai fini dell’applicazione della sanzione: infatti, se occorresse far riferimento a tale parametro ai fini di applicare la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione considerata come sanzione principale, non avrebbe più senso la repressione dell’abusivismo edilizio in quanto, ipoteticamente, tutte le parti abusivamente realizzate risultano funzionali o necessarie rispetto all’immobile cui accedono.

In altre parole, il fatto che ambienti quali cucina e bagno non siano stati realizzati nella parte legittima come previsto nella soluzione di progetto della DIA presentata all'Ente, ma (intenzionalmente?) nella zona abusiva, non può costituire il metro di valutazione per sostenere che l’ampliamento è funzionale per il raggiungimento dei requisiti per le unità pluristanza.

Per assurdo, qualora nell’unità de qua fosse presente un secondo servizio igienico si potrebbe procedere alla demolizione, mentre se ne è presente solo uno, posto nella parte abusiva, si deve applicare la sanzione pecuniaria, creando così una disparità di trattamento tra casi identici?

Ovviamente la risposta non può che essere retorica. Pertanto, il fatto che nella zona da demolire trovino collocazione “sia la cucina che il bagno e dunque, dovrebbe essere trasformato tutto l’assetto distributivo ed impiantistico della porzione rimanente”, appare un ragionamento legato ad una questione esclusivamente economica, incidente sulle finanze dell'autore di una attività illecita a carattere permanente, assolutamente obliterata dalla normativa nazionale, poiché diversamente si legittimerebbe ogni iniziativa illecita.

Avverso la succitata decisione del Giudice di prime cure, giuridicamente errata, e contenente un principio socialmente gravissimo, è stato proposto l'appello, il cui accoglimento - mediante la sentenza in commento da parte del Supremo Consesso della Giusitizia amministrativa - ha sgombrato il panorama giurisprudenziale in materia di abusivismo edilizio da un precedente pericolosissimo: la possibilità di realizzare porzioni abusive di immobili inserendo impianti tecnologici, al fine di ottenere la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, legittimando di fatto degli impropri condoni extra ordinem. Con buona pace dei principi di legalità e rispetto delle regole.

Come è stato precisato, il dato di partenza è che le opere edilizie in questione non erano mai state autorizzate all'interessato, che anzi, ne aveva dichiarato la difformità sia al PRG che per l'edificio vincolato, in sede di richiesta di sanatoria. Dunque senza una specifica variante che riclassificasse il PRG le opere non potevano essere edificate. Nel diniego di condono era espressamente evidenziato come gli abusi insistessero su “edificio classificato 2A dagli strumenti urbanistici comunali, ossia di interesse storico architettonico”, disciplinato dall'art. 66, R.E. vigente al 31/3/2003 (prescriveva l'inalterabilità dei fronti) e, pertanto, in contrasto con le disposizioni dell'art. 33, c. 7, L.R. 23/2004.

Il primo Giudice ha omesso qualsiasi pronuncia al riguardo, obliterando completamente che il vincolo 2A-edificio di interesse storico architettonico comporta insuscettibilità di sanatoria e, pertanto, un maggior rigore sulle valutazioni comunali in merito all'applicazione della sanzione primaria (che si rammenta è la demolizione), rispetto a quella residuale (ovvero pecuniaria) su edifici di tal guisa, a tutela dell'interesse pubblico e del territorio, attesa la contestuale presenza del vincolo del PRG vigente al 31/3/2003, “Zona APP” (Zona Agricola Produttiva di pianura e piatto aereo).

La decisione è apparsa subito chiaramente viziata perchè il primo Giudice ha esaminato ed accolto il ricorso trascurando tale sostanziale motivo: l'opera era realizzata su edificio vincolato in zona non conforme alla strumentazione urbanistica.

Al contrario, il Comune aveva compiuto una scrupolosa valutazione eminentemente tecnica del pregiudizio, in relazione al possibile pregiudizio statico, edilizio, costruttivo e geometrico della parte autorizzata, concludendo - in analogia con le conclusioni tecniche di controparte - che la demolizione del prolungamento costituisse solo un pregiudizio economico a carico del “costruttore abusivo”, ma non un pregiudizio tecnicamente apprezzabile, come richiesto dal d.P.R. 380/01.

Il TAR, al contrario, ha del tutto ignorato nella propria analisi tale rilevantissimo aspetto, ben noto alla proprietà ed ai tecnici di sua fiducia, sicché la sentenza de plano appariva  viziata e andava riformata. Infatti, sulla mancanza di conformità urbanistica (oltre che edilizia), il TAR aveva sostenuto che “la norma citata fa riferimento al pregiudizio senza specificare di quale natura ed entità esso sia”. Pertanto, ha aggiunto che “la valutazione richiesta deve avere maggiore ampiezza ed essere riferita anche agli interventi edilizi necessari, sulla parte in conformità, qualora si disponga la demolizione parziale”, ed ha concluso con un macroscopico errore in judicando: “(...) ove la violazione riguardi, come nel caso in esame, un abuso di modesta entità poco incidente sull'assetto edilizio del territorio”.

L'abuso che il TAR ha ritienuto avere, errando, una modesta incidenza sul territorio, in realtà ha una enorme incidenza, se fosse stato ben valutato, atteso che:

a) il nuovo corpo di fabbrica non era mai stato oggetto di classificazione e inserimento nelle planimetrie di PRG, con conseguente impossibilità di ripristino tipologico;

b) l'immobile oggetto di abusi ricade in zona APP-Zona Agricola Produttiva di Pianura, disicplinata dall'art. 85 del PRG vigente al 31/3/2003, e all'interno della zona soggetta al “Piatto aereo” di cui alla L. n. 58/1963;

c) le opere realizzate consistono sì in un ampliamento di superficie (l'unico motivato dal TAR), ma anche ampliamento di volume, in fabbricato classificato 2A-interesse storico architettonico dagli strumenti urbanistici, in difformità dal titolo edilizio rilasciato;

d) gli ampliamenti realizzati esternamente alla sagoma esistente sono classificati “nuova costruzione” dalla lett. g1) dell'Allegato alla L.R. 31/2002, nonché dall'art. 9, lett. c) del R.E. comunale vigente al 31/3/2003. Il combinato disposto di queste norme con l'art. 33, L.R. 23/2004 comporta che il rilascio del titolo in sanatoria è escluso per gli edifici classificati (com'era il caso di specie), oltretutto in contrasto con gli strumenti urbanistici.

Malgrado l'assenza totale di considerazione delle preclusioni urbanistiche ed edilizie, il TAR ha così ritenuto che il tecnico del Comune dovesse valutare anche gli aspetti “onerosi” della demolizione dell'illecito “sulla parte dell'immobile regolare perchè la demolizione inciderebbe sul bagno e sulla cucina”, poiché il ripristino potrebbe avvenire “soltanto a seguito di interventi costosi e sproporzionati rispetto al valore del bene, divenendo indispensabile una completa trasformazione dell'assetto distributivo”.

Sarebbe sin troppo sarcastica la domanda: "ma chi obbliga a realizzare un abuso edilizio?". L'interessato non poteva realizzare bagno e cucina laddove previsto nel titolo edilizio depositato? L'abuso dal medesimo perpetrato è stato liberamente posto in essere!

E sin troppo scontata la risposta: non può dunque incidere interessi superiori (interesse pubblico, certezza del diritto, parità di trattamento, ecc.), il frutto di un fatto illecito permanente.

Sul punto la legge è di meridiana chiarezza e prevede che la sanzione pecuniaria, dopo attenta analisi e valutazione da parte della P.A., può sostituire quella demolitoria solo quando le parti difformi non possano essere eliminate senza compromettere la stabilità dell'edificio o delle parti conformi.

Anche la giurisprudenza più “illuminata”, di recente aveva precisato che “in presenza di una situazione incerta circa la riduzione in pristino di opere abusive in termini di possibile pregiudizio alla parte di manufatto legittimamente realizzata, l'Amministrazione è tenuta a compiere una valutazione discrezionale individuando e soppesando le ragioni di pubblico interesse che possono indurre a non affrontare il rischio del paventato pregiudizio” (TAR Torino, II, n. 440 del 11.4.2012; Cons. St., V, n. 1876 del 12.11.1999).

Nel caso in esame, sulle parti abusive da rimuovere non vi era alcuna incertezza sulla possibilità di ripristino (sanzione primaria) senza pregiudizio della staticità della porzione di edificio legittima, poiché le caratteristiche costruttive e geometriche (orditura del solaio perpendicolare alla dimensione maggiore in pianta), erano state analizzate con estremo scrupolo dal tecnico comunale. Quindi, la demolizione non arrecava alcun pregiudizio, se non ... al portafogli dell'abusivista.

Diversamente opinando, sarebbe come dire che chiunque è “legittimato” a compiere abusi edilizi, anche a prescindere dalla classificazione dell'immobile o della zona, poiché sarebbe sufficiente posizionare nell'aumento di superficie un bagno o una cucina: il gravoso onere economico per il ripristino della situazione di liceità obbligherebbe in tal caso il Comune a convertire la demolizione in sanzione pecuniaria, con buona pace dell'interesse pubblico, compresso per favorire l'interesse del solo privato.

In disparte il fatto che la pronuncia appellata, come si è osservato, risultava omissiva su punti sostanziali (proprio per l'omissione di tali punti), il punto maggiormente dolente era incentrato sul fatto che un così abnorme precedente (ndr: costituito dall'eventuale sopravvivenza della pronuncia appellata), avrebbe costituito un grave vulnus al potere del Comune di controllo delle violazioni in materia edilizia ed urbanistica, tanto più rigoroso quanto più sussistono vincoli urbanistici ed edilizi, come nel presente caso.

La decisione del Consiglio di Stato

Con la sentenza n. 1912 del 9 aprile 2013, la VI Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto l’appello fondato, per le ragioni di diritto esposte dal Comune e di seguito elaborate.

L’art. 34 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), prevede, al primo comma, che "gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso" entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio, con l’aggiunta che "decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso", come si è sopra riportato.

Il secondo comma dispone che "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, (…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale".

A giudizio del Consiglio di Stato, la norma citata va interpretata – in conformità alla natura di illecito posto in essere e alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma – "nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso" (cfr., con riferimento a fattispecie analoghe, Cons. Stato, Sez. V, 29 novembre 2012, n. 6071; Cons. Stato, Sez. V, 5 settembre 2011, n. 4982), concludendo che giammai possono venire in rilievo aspetti relativi alla “eccessiva onerosità” dell’intervento.

Il punto saliente in cui è condensato il principio di diritto "sociale" colto perfettamente dal Supremo Consesso amministrativo, sta nell'affermazione secondo cui "se si potessero prendere in esame anche questi profili si rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul complessivo assetto del territorio e in contrasto con la chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui la relativa attività materiale incida sulla stabilità dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o impianti più o meno costosi".

Poiché il Giudice di prime cure aveva proprio deciso per l'accoglimento del ricorso attribuendo rilevanza all’onerosità delle conseguenze derivanti dall’attività di ripristino dello stato dei luoghi, il Consiglio di Stato ha evidenziato "la legittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado, con i quali il Comune, accertato che la demolizione delle opere abusive non avrebbe inciso sulla stabilità del fabbricato, ha rigettato, in parte, la domanda dell’interessato volta ad ottenere la sola applicazione di una sanzione pecuniaria" e, per l'effetto, ha riformato la sentenza respingendo il ricorso di primo grado.

La pronuncia in esame – al di là di mettere chiarezza in un ambito privo di pronunciamenti specifici relativamente a cosa debba intendersi per "pregiudizio funzionale" ai fini della conversione della sanzione demolitoria in sanzione pecuniaria – riveste caratteri di straordinarietà per i principi immanenti salvaguardati: da un lato, il potere/dovere del Comune di esercitare il proprio potere repressivo in materia di abusivismo edilizio, e dall'altro scoraggiare lo scempio ed il consumo di territorio attraverso sistemi illegali ammantati di legalità.