x

x

La legittimità dell’aliquota Irap maggiorata per gli istituti finanziari

È in atto un rilevante contenzioso, instaurato da banche, istituti finanziari ed assicurativi, che contestano la legittimità delle maggiorazioni dell'aliquota Irap disposte per tali contribuenti da varie leggi regionali.

Secondo le tesi avanzate dai contribuenti, infatti, tali maggiorazioni dovrebbero considerarsi sospese ex lege (art. 3, comma 1, lett. a) della L. 289/2002 del 29 settembre 2002) e pertanto sarebbe non dovuto e quindi da rimborsare (laddove già il soggetto avesse provveduto al pagamento) la differenza tra l'imposta pagata con l'aliquota base (4,25%) e quella maggiorata.

Nel caso, per esempio, della Toscana, l’aliquota maggiorata prevista per tali soggetti è stata stabilita, con apposita legge regionale (n. 43/2002), nella misura del 4,40%, con dunque una minima maggiorazione dello 0,15% rispetto a quella ordinaria del 4,25%.

Ebbene, come detto, secondo la tesi sostenuta dai contribuenti che presentano ricorso, l'articolo 3, comma 1, lettera a) della legge n. 289/2002 avrebbe però sospeso la maggiorazione dell'aliquota dell'imposta regionale sulle attività produttive prevista dalle Regioni a carico di banche e compagnie assicurative e quindi le maggiori imposte non sarebbero più dovute.

L'articolo 2 della legge n. 350/2003 (Finanziaria per il 2004), del resto, avrebbe poi anche prorogato per tutto il 2004 (proroga rinnovata dalle Finanziarie successive per gli anni 2005 e 2006) la sospensione delle maggiorazioni delle aliquote Irap stabilite dalle Regioni.

A nulla, infine, sempre secondo la suddetta tesi, varrebbe invece quanto previsto al comma 22 del medesimo articolo 2 della citata Legge Finanziaria 2004, che dispone una sorta di "sanatoria" per le leggi regionali emanate in modo non conforme ai poteri stabiliti dalla normativa statale.

La tesi sostenuta nei citati contenziosi, tuttavia, ad un attento esame della disciplina di riferimento è da ritenersi infondata e contraria sia alla lettera della norma che alla chiara intenzione del Legislatore.

Prima di vedere perché la suddetta tesi risulta infondata è però d’obbligo una premessa “storica” e di “sistema”.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 21/2005, si era già pronunciata, infatti, sulla questione di legittimità costituzionale delle maggiorazioni Irap a carico delle banche e compagnie assicurative.

L’IRAP, del resto, è un’imposta che, come noto, è stata attaccata sotto vari profili.

Uno di questi riguardava appunto il fatto che le aliquote IRAP maggiorate, dovute da istituti bancari ed assicurativi, sarebbero state in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 53 della Carta Costituzionale, sia sotto il profilo della corrispondenza dell’imposizione alla capacità contributiva, che sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza e del principio di proporzionalità e generalità dell’obbligo tributario.

La Corte ha però dichiarato la infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 53 della Costituzione. Laddove, in particolare, l’accusa di incostituzionalità della norma si fondava sulle seguenti considerazioni:

1) il criterio di misurazione dell’indice di capacità contributiva, mediante una diversa disciplina di determinazione della base imponibile (in ragione della diversa rappresentazione contabile), è ricondotto ad unità sia per le banche, assicurazioni, ecc, che per gli altri soggetti imprenditoriali;

2) se la capacità contributiva è la stessa (in quanto misurata con una comune unità di misura), allora anche l’aliquota deve essere la stessa per tutti i settori di attività;

3) se questo non succede vengono lesi i principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 53 della Cost.

Le motivazioni erano dunque parzialmente differenti da quanto oggi sostenuto nel “nuovo” contenzioso, ma la conclusione e l’obiettivo degli istituti coinvolti è naturalmente il medesimo: non soggiacere ad un’aliquota di imposta maggiorata.

Per dimostrare la inesattezza della tesi dei contribuenti era stato all’epoca tuttavia sufficiente dimostrare che:

a) un’unica e comune unità di misura (valore della produzione netta) non esprime necessariamente un’identica capacità contributiva (come anzi dimostrato proprio dalla necessità di cercare un comune denominatore tra presupposti economici diversi), dato che la produzione di uno stesso “valore” può essere costato differenti sforzi e impegni e il concetto di capacità contributiva non può essere ridotto ad un mero parametro economico, visto che deve essere considerato anche il suo valore sociale;

b) l’introduzione della nuova imposta aveva tra i suoi scopi principali una ridistribuzione del carico fiscale all’interno del mondo delle imprese; ridistribuzione che però doveva anche tenere conto sia delle necessità e difficoltà dell’economia nazionale (e in particolare dei suoi settori più deboli), sia del reperimento dello stesso gettito assicurato dai tributi soppressi. Quindi, se un particolare settore imprenditoriale (come per esempio quello agricolo) risultava eccessivamente penalizzato dall’introduzione dell’IRAP e al tempo stesso risultava in una condizione di precarietà e debolezza strutturale, era logico e necessario che, proprio in considerazione dei fini sociali ed etici, che per primi devono guidare l’azione del legislatore, si prevedesse una riduzione dell’IRAP per tali soggetti; riduzione che però al tempo stesso non incidesse sul gettito: naturale dunque decidere di incidere con un’aliquota maggiorata su quel settore (bancario/finanziario) che, da una parte, risultava il più avvantaggiato dalla riforma e dall’altra era anche il più solido e in grado di assicurare il perseguimento di quei fini sociali di cui all’art. 41 della Costituzione, laddove si prevede appunto che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Questa era (ed è) infatti la motivazione presente, anche all’interno della relazione governativa, in merito alle aliquote differenziate, laddove si legge che “riguardo alla specificità per i diversi settori di attività, si è constatato che il settore della intermediazione finanziaria godrebbe, mediamente, di uno sgravio consistente, mentre i produttori agricoli soffrirebbero un aggravio significativo. Tenuto anche conto che il primo settore è interessato da altri provvedimenti agevolativi, connessi con la sua ristrutturazione, mentre il secondo è stato recentemente oggetto di inasprimenti (in particolare dalle modifiche del regime speciale dell’IVA) si è deciso di applicare aliquote difformi da quelle base..”.

La questione di legittimità costituzionale, come sopra evidenziata, in merito alle aliquote maggiorate a carico delle banche, veniva quindi rimessa alla Consulta da alcune Commissioni di merito.

In particolare dalla CTP di Bergamo, con Ordinanza del 11.01.2003 e dalla CTP di Milano, con Ordinanza del 17.1.2003.

L’ordinanza della CTP di Bergamo risultava essere quella più articolata.

In tale ordinanza si affermava in particolare che: “la previsione di aliquote differenziate per settori di attività non può trovare autonoma giustificazione nell'esigenza di un passaggio graduale dal vecchio al nuovo regime. È infatti possibile che, proprio per l'effetto redistributivo tipico dell'Irap, vi possano essere contribuenti (fra i quali banche, ma non solo) che vedono ridotto il prelievo a loro carico e contribuenti che lo vedono aggravato: ma se questo è l'effetto voluto dalla riforma, è del tutto incongruente e penalizzante prevedere meccanismi di mantenimento proprio di quelle distorsioni che la riforma vuole eliminare”.

Il ragionamento della Commissione consisteva dunque nel ritenere che la riforma IRAP mirava in via principale ad eliminare distorsioni quale quella di una troppo elevata tassazione a carico delle banche.

Ma che questo fosse lo scopo e lo spirito della riforma IRAP era, onestamente, una mera ed indimostrata supposizione.

Non emergeva dal dettato della norma.

Non emergeva dalla relazione governativa.

E non poteva emergere perché certamente la riforma IRAP non mirava (e non mira) ad agevolare il sistema bancario (oltretutto già oggetto di ben altre agevolazioni e interventi).

E, una volta constatato che, mediante questa sproporzionata ridistribuzione, si verificava un effetto destabilizzante del sistema economico nazionale, il legislatore, giustamente, è corso ai ripari, mediante il solo mezzo a sua disposizione: la leva fiscale.

Per valutare, dunque se tale ragionevolezza ed equità sussistesse nel caso in esame, era innanzitutto necessario esaminare gli effetti redistributivi della tassazione Irap, sui quali, fin da subito si era concentrata la maggiore attenzione del Governo, anche in relazione al buco di entrate: i famosi 9 mila miliardi (di vecchie lire) mancanti alla parità di gettito.

La Commissione era consapevole, infatti, fin dall'inizio che la tassazione Irap era, per la sua stessa struttura, congegnata in modo tale da attenuare il carico fiscale per coloro che in passato avevano contribuito maggiormente al bilancio pubblico (quindi le imprese più patrimonializzate, con maggiori utili dichiarati e con minore fiscalizzazione degli oneri sanitari e minore indebitamento; cioè le Banche) e che avrebbe portato un aggravio di tassazione per coloro che meno avevano in precedenza contribuito al bilancio pubblico (maggiore fiscalizzazione, minori utili dichiarati, minore patrimonializzazione e anche maggiore indebitamento; cioè il settore agricolo).

Andare a vantaggio di chi fa più profitti, infatti, è una regola tipica di tutte le disposizioni che alleggeriscono la tassazione specifica sui profitti e se l'Irap ha implicito in sé questo elemento di detassazione, non poteva distribuirsi diversamente.

Il legislatore, dunque, nel valutare la opportunità di una differenziazione delle aliquote, non ha messo in discussione tali obiettivi, ma ha dovuto ulteriormente valutare se la tassazione Irap avesse o meno ragionevolezza economica nell'inasprire il carico fiscale su particolari categorie, alleggerendolo su altre.

In realtà, quindi, dopo l'esito del gettito, il metro di giudizio si è spostato: dovendosi in particolare constatare se vi fossero particolari categorie di imprese, settori, o aree territoriali che avevano tratto un vantaggio o uno svantaggio non proporzionale alle effettive condizioni economiche.

In tale contesto il settore più avvantaggiato era stato senza dubbio quello finanziario.

Per tale motivo venne deciso di aumentare le aliquote.

La Corte Costituzionale, come detto, con la sentenza n. 21/2005 ha comunque bocciato le censure di incostituzionalità alla normativa in esame.

La Corte ha infatti affermato che “è errato l’assunto dei giudici rimettenti secondo cui la disciplina dell’Irap, per sottrarsi ai prospettati dubbi di legittimità costituzionale, dovrebbe prevedere un’aliquota unica da applicare alle basi imponibili diversificate ai sensi degli artt. Da 4 a 11-bis del Dlgs n. 446 del 1997”.

Non sfuggiva alla Corte, del resto, neppure la considerazione che l’Irap aveva apportato uno “sgravio consistente” per il settore dell’intermediazione finanziaria e “un aggravio significativo” per il settore agricolo. Era giusto dunque ricorrere ad una sorta di “compensazione”.

Ogni dubbio di incostituzionalità è stato quindi respinto.

Consapevoli di ciò allora i contribuenti, attori del “nuovo” contenzioso, cercano di riproporre la medesima questione sotto altra luce, contestando sempre l’applicazione maggiorata dell’aliquota Irap sulle banche ed istituti finanziari, ma, come detto, sotto il diverso profilo di una presunta sospensione delle maggiorazioni regionali ad opera dell’art. 2, comma 21 della L. 289/2002 e successive proroghe.

Tale impostazione è tuttavia infondata, sia sistematicamente che puntualmente in riferimento alla normativa invocata.

Giova infatti fin da subito evidenziare come non sia vero che sussista uno “scontro” tra normativa statale (prevalente) e normativa regionale (soccombente).

Esaminando infatti il combinato disposto delle varie norme emerge che il comma 3 dell’art. 16 del Decreto legislativo (statale) 446/97 stabilisce che “A decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del presente decreto, le regioni hanno facoltà di variare l'aliquota” (ordinaria) “di cui al comma 1 fino ad un massimo di un punto percentuale”.

Peraltro, rapportando ancora i vari profili normativi della disciplina in esame, il comma 2 dell’art. 45 del Dlgs 446/97 stabiliva, seppur in via provvisoria, delle aliquote speciali, stabilendo che “Per i soggetti di cui agli articoli 6 e 7, per i periodi d'imposta in corso al 1° gennaio 1998, al 1° gennaio 1999 e al 1° gennaio 2000 l'aliquota è stabilita nella misura del 5,4 per cento; per i due periodi d'imposta successivi, l'aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 5 e del 4,75 per cento”.

Se quindi, fino al 2002, vigevano per gli istituti finanziari delle aliquote speciali (ben più alte di quella poi stabilita con Legge Regionale in Toscana), dal 2003 tali contribuenti sarebbero stati invece soggetti ad aliquota ordinaria, restando comunque ferma la possibilità per le Regioni, in applicazione del comma 3 del citato art 16, di stabilire un’aliquota (ordinaria) maggiorata.

Cosa appunto successa nel caso di molte Amministrazioni Regionali.

Nel caso della Toscana preso prima ad esempio, come visto, l’aumento (ben entro il punto percentuale) è stato infatti dello 0,15%, avendo portato la Regione, con l’art. 2 della citata Legge Regionale 43/2002, l’aliquota di imposta applicabile alle banche e agli altri istituti al 4,40%.

Tanto premesso, già ad un ragionato raccordo tra le varie disposizioni succedutesi nel tempo, appare in tutta la sua inconsistenza l’affermazione per cui tale maggiorazione si dovrebbe ritenere sospesa ad opera dell’art. 3, comma 1, lett. a) della L. 289/2002 del 27 dicembre 2002, il quale dispone che “… la maggiorazione dell’aliquota di imposta regionale sulle attività produttive … che non sia confermativa delle aliquote in vigore per l’anno 2002, è sospesa fino a quando non si raggiunga un accordo ai sensi del Decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 in sede di conferenza unificata tra Stato, Regioni ed enti locali sui meccanismi strutturali del federalismo fiscale”.

Dalla semplice lettura della norma emergono infatti da subito alcune importanti e dirimenti considerazioni:

1) la norma parla di aliquota sospesa quando non sia confermativa di quella già in vigore per l’anno 2002, pari, come visto, al 4,75%;

2) questo vuol dire che se l’aliquota maggiorata fosse del 4,75%, non ci dovrebbe essere alcun dubbio sul fatto che la sospensione non opera;

3) solo nel caso in cui una legge regionale avesse disposto un’aliquota superiore all’aliquota già vigente nel 2002, allora la sospensione avrebbe eventualmente avuto effetto;

4) la sospensione dunque, logicamente, se è vera la stessa ratio sostenuta dai contribuenti nei contenziosi in esame, varrebbe solo, eventualmente, per aliquote superiori a quella già operante nel 2002 e non certo nel caso di aliquote inferiori a quella già vigente (come appunto nel caso della Toscana): il parametro per la sospensione, anche da un punto di vista di interpretazione letterale della norma, non è dunque la maggiorazione rispetto all’aliquota ordinaria (che peraltro, ex lege, non esisteva!), ma la maggiorazione rispetto all’aliquota speciale già vigente; Anche perché, come detto, non esisteva per le banche un’aliquota ordinaria del 4,25% e quindi una maggiorazione rispetto a tale aliquota sarebbe semplicemente impossibile.

5) Se questo non bastasse, inoltre giova rilevare come la norma parla di sospensione e non di abrogazione, il che vuol dire che, comunque, una volta verificatasi la condizione sospensiva già prevista nella disposizione legislativa, il provvedimento riprenderebbe comunque la propria efficacia, con effetti ex tunc;

6) Essendo infatti, come noto, stato approvato, in sede legislativa, il nuovo quadro normativo sul federalismo fiscale, ed essendo stato raggiunto l’accordo Stato/Regioni a cui la stessa norma richiamata dai ricorrenti che hanno instaurato i contenziosi legava il perdurare della sospensione, appare allora evidente come, in ogni caso, gli effetti delle leggi regionali, laddove sospesi, riprenderebbero efficacia, confermando dunque la loro validità, con effetti ex tunc (e questo peraltro anche in linea e coerenza con i poteri impositivi riconosciuti con il federalismo fiscale e con la natura di tributo proprio, regionale, dell’Irap).

Insomma da qualsiasi parte la si guardi la pretesa avanzata nei suddetti contenziosi appare effettivamente priva di fondamento.

Ancora, se tutto questo non bastasse, giova anche ricordare che, anche laddove le aliquote maggiorate fossero state stabilite in misura superiore al citato 4,75%, il comma 22 dello stesso articolo 2 della L. 289/2002, ha stabilito una sorta di sanatoria per quelle Regioni che nelle more avessero emanato disposizioni Irap in modo non conforme ai poteri ad esse attribuiti in materia dalla normativa statale (laddove questo fosse successo).

La lettera della norma, quindi, è chiara nello stabilire che la “sanatoria” attiene alle disposizioni eventualmente “non conformi ai poteri attribuiti” alle Regioni, laddove è stata la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 381 del 14 dicembre 2004, relativa proprio all’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. a) della L. 289/2002 del 29 settembre 2002, che ha disposto la sospensione del potere di maggiorazione dell’aliquota, ad affermare che i provvedimenti legislativi di aumento delle aliquote adottati dopo il 29 settembre 2002 devono considerarsi “non conformi ai poteri … attribuiti in materia dalla normativa statale”.

Se pertanto il comma 22 mira a sanare provvedimenti emessi in carenza di potere, è evidente come la sanatoria si applichi a tutti i provvedimenti di maggiorazione delle aliquote (superiori al 4,75%) emanati successivamente al 29 settembre 2002.

Pertanto, non solo tali poteri, per quanto sopra detto, sono stati espletati in modo pienamente conforme, ma anche laddove, non conformemente alla L. 289/2002 invocata, fossero state disposte aliquote maggiorate, appare evidente che, comunque, la non conforme applicazione sarebbe sanata.

Anche una sentenza della CTR del Veneto (Sent. n. 1 dell’11 marzo 2011 della Comm. Trib. reg. di Venezia, Sez. XXXIII), seppur, in quel caso, sfavorevole all’Amministrazione, conferma le suddette conclusioni.

La sentenza citata, infatti, stabilisce che “Si applica per il 2004 alle banche venete la aliquota Irap del 4,25 per cento, in quanto questa è l’aliquota vigente ordinaria dal 1 gennaio 2003, non potendosi applicare quelle precedenti e provvisorie oscillanti dal 4,75 al 5,4 per cento, né potendosi applicare quella del 5,25 deliberata nel 2003 in quanto la stessa era stata sospesa per l’anno e tale sospensione era stata successivamente prorogata nel 2004 “.

Il problema in quel caso, a differenza di quanto invece successo, per esempio, in Toscana, atteneva dunque al fatto che fosse stata disposta un’aliquota superiore a quella già vigente nel 2002.

Tanto è vero che la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza, aveva invece accolto solo parzialmente il ricorso della Società, ritenendo applicabile per il periodo d'imposta 2004 solo la più bassa aliquota (pur sempre maggiorata) del 4,75%, già prevista dall'art. 45, co. 2, D.Lgs. n. 446/1997.

In ogni caso, si ricorda, sospensione non equivale ad abrogazione e dunque, oggi, almeno per quanto riguarda gli anni non “coperti” dalla nuova disciplina sul federalismo fiscale (e dai suoi limiti e prescrizioni), anche la distinzione tra aliquota inferiore o pari a quella speciale già vigente nel 2002 (nel qual caso non si applica sicuramente alcuna sospensione, essendo la maggiorazione in linea con il disposto di legge) ed aliquota maggiorata superiore a quella speciale già vigente (nel qual caso, secondo quanto poi stabilito nella successiva legge finanziaria per il 2005, L. 311/2004, la sospensione è stata comunque prorogata per i provvedimenti non conformi e sempre che vi fossero dissesti finanziari regionali e situazioni di disavanzo delle gestioni sanitarie) non dovrebbe più aver ragion d’essere, essendosi anche realizzata quella condizione che, secondo il testo di legge, sospendeva gli effetti delle leggi regionali.

Si segnala, da ultimo, la Sentenza della Suprema Corte, n. 19838 del 14 novembre 2012, la quale ha espressamente riconosciuto che “in tale ottica va coerentemente interpretato anche il disposto della L. n. 289 del 2002, art. 3, comma 1, lett. a), che, nel sospendere l'efficacia degli aumenti dell'aliquota Irap deliberati dalle regioni successivamente al 29 settembre e non confermativi delle aliquote in vigore per l'anno 2002, ha inteso comunque limitare l'effetto sospensivo a quelle maggiorazioni che determinassero, o nella misura in cui determinassero, il superamento delle aliquote in vigore nel 2002 (e, in quanto tali, fossero non confermative di tali aliquote). Infatti, come previsto dallo stesso art. 3, comma 1, lett. a) citato, la sospensione è stata disposta "in funzione dell'attuazione del titolo 5 della parte seconda della Costituzione e in attesa della legge quadro sul federalismo fiscale", in ragione, quindi di una moratoria che, giustificata dalla mancanza di una legge quadro sul federalismo fiscale, non pregiudicasse però del tutto l'obiettivo finale dell'autonomia e del decentramento fiscale delle regioni, obiettivo che sarebbe rimasto certamente ridimensionato dall'applicazione generale e indifferenziata dell'aliquota ordinaria a banche e società finanziarie, soggetti invece destinatari per legge di possibili e specifici incrementi dell'aliquota ordinaria”.

È in atto un rilevante contenzioso, instaurato da banche, istituti finanziari ed assicurativi, che contestano la legittimità delle maggiorazioni dell'aliquota Irap disposte per tali contribuenti da varie leggi regionali.

Secondo le tesi avanzate dai contribuenti, infatti, tali maggiorazioni dovrebbero considerarsi sospese ex lege (art. 3, comma 1, lett. a) della L. 289/2002 del 29 settembre 2002) e pertanto sarebbe non dovuto e quindi da rimborsare (laddove già il soggetto avesse provveduto al pagamento) la differenza tra l'imposta pagata con l'aliquota base (4,25%) e quella maggiorata.

Nel caso, per esempio, della Toscana, l’aliquota maggiorata prevista per tali soggetti è stata stabilita, con apposita legge regionale (n. 43/2002), nella misura del 4,40%, con dunque una minima maggiorazione dello 0,15% rispetto a quella ordinaria del 4,25%.

Ebbene, come detto, secondo la tesi sostenuta dai contribuenti che presentano ricorso, l'articolo 3, comma 1, lettera a) della legge n. 289/2002 avrebbe però sospeso la maggiorazione dell'aliquota dell'imposta regionale sulle attività produttive prevista dalle Regioni a carico di banche e compagnie assicurative e quindi le maggiori imposte non sarebbero più dovute.

L'articolo 2 della legge n. 350/2003 (Finanziaria per il 2004), del resto, avrebbe poi anche prorogato per tutto il 2004 (proroga rinnovata dalle Finanziarie successive per gli anni 2005 e 2006) la sospensione delle maggiorazioni delle aliquote Irap stabilite dalle Regioni.

A nulla, infine, sempre secondo la suddetta tesi, varrebbe invece quanto previsto al comma 22 del medesimo articolo 2 della citata Legge Finanziaria 2004, che dispone una sorta di "sanatoria" per le leggi regionali emanate in modo non conforme ai poteri stabiliti dalla normativa statale.

La tesi sostenuta nei citati contenziosi, tuttavia, ad un attento esame della disciplina di riferimento è da ritenersi infondata e contraria sia alla lettera della norma che alla chiara intenzione del Legislatore.

Prima di vedere perché la suddetta tesi risulta infondata è però d’obbligo una premessa “storica” e di “sistema”.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 21/2005, si era già pronunciata, infatti, sulla questione di legittimità costituzionale delle maggiorazioni Irap a carico delle banche e compagnie assicurative.

L’IRAP, del resto, è un’imposta che, come noto, è stata attaccata sotto vari profili.

Uno di questi riguardava appunto il fatto che le aliquote IRAP maggiorate, dovute da istituti bancari ed assicurativi, sarebbero state in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 53 della Carta Costituzionale, sia sotto il profilo della corrispondenza dell’imposizione alla capacità contributiva, che sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza e del principio di proporzionalità e generalità dell’obbligo tributario.

La Corte ha però dichiarato la infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 53 della Costituzione. Laddove, in particolare, l’accusa di incostituzionalità della norma si fondava sulle seguenti considerazioni:

1) il criterio di misurazione dell’indice di capacità contributiva, mediante una diversa disciplina di determinazione della base imponibile (in ragione della diversa rappresentazione contabile), è ricondotto ad unità sia per le banche, assicurazioni, ecc, che per gli altri soggetti imprenditoriali;

2) se la capacità contributiva è la stessa (in quanto misurata con una comune unità di misura), allora anche l’aliquota deve essere la stessa per tutti i settori di attività;

3) se questo non succede vengono lesi i principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 53 della Cost.

Le motivazioni erano dunque parzialmente differenti da quanto oggi sostenuto nel “nuovo” contenzioso, ma la conclusione e l’obiettivo degli istituti coinvolti è naturalmente il medesimo: non soggiacere ad un’aliquota di imposta maggiorata.

Per dimostrare la inesattezza della tesi dei contribuenti era stato all’epoca tuttavia sufficiente dimostrare che:

a) un’unica e comune unità di misura (valore della produzione netta) non esprime necessariamente un’identica capacità contributiva (come anzi dimostrato proprio dalla necessità di cercare un comune denominatore tra presupposti economici diversi), dato che la produzione di uno stesso “valore” può essere costato differenti sforzi e impegni e il concetto di capacità contributiva non può essere ridotto ad un mero parametro economico, visto che deve essere considerato anche il suo valore sociale;

b) l’introduzione della nuova imposta aveva tra i suoi scopi principali una ridistribuzione del carico fiscale all’interno del mondo delle imprese; ridistribuzione che però doveva anche tenere conto sia delle necessità e difficoltà dell’economia nazionale (e in particolare dei suoi settori più deboli), sia del reperimento dello stesso gettito assicurato dai tributi soppressi. Quindi, se un particolare settore imprenditoriale (come per esempio quello agricolo) risultava eccessivamente penalizzato dall’introduzione dell’IRAP e al tempo stesso risultava in una condizione di precarietà e debolezza strutturale, era logico e necessario che, proprio in considerazione dei fini sociali ed etici, che per primi devono guidare l’azione del legislatore, si prevedesse una riduzione dell’IRAP per tali soggetti; riduzione che però al tempo stesso non incidesse sul gettito: naturale dunque decidere di incidere con un’aliquota maggiorata su quel settore (bancario/finanziario) che, da una parte, risultava il più avvantaggiato dalla riforma e dall’altra era anche il più solido e in grado di assicurare il perseguimento di quei fini sociali di cui all’art. 41 della Costituzione, laddove si prevede appunto che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Questa era (ed è) infatti la motivazione presente, anche all’interno della relazione governativa, in merito alle aliquote differenziate, laddove si legge che “riguardo alla specificità per i diversi settori di attività, si è constatato che il settore della intermediazione finanziaria godrebbe, mediamente, di uno sgravio consistente, mentre i produttori agricoli soffrirebbero un aggravio significativo. Tenuto anche conto che il primo settore è interessato da altri provvedimenti agevolativi, connessi con la sua ristrutturazione, mentre il secondo è stato recentemente oggetto di inasprimenti (in particolare dalle modifiche del regime speciale dell’IVA) si è deciso di applicare aliquote difformi da quelle base..”.

La questione di legittimità costituzionale, come sopra evidenziata, in merito alle aliquote maggiorate a carico delle banche, veniva quindi rimessa alla Consulta da alcune Commissioni di merito.

In particolare dalla CTP di Bergamo, con Ordinanza del 11.01.2003 e dalla CTP di Milano, con Ordinanza del 17.1.2003.

L’ordinanza della CTP di Bergamo risultava essere quella più articolata.

In tale ordinanza si affermava in particolare che: “la previsione di aliquote differenziate per settori di attività non può trovare autonoma giustificazione nell'esigenza di un passaggio graduale dal vecchio al nuovo regime. È infatti possibile che, proprio per l'effetto redistributivo tipico dell'Irap, vi possano essere contribuenti (fra i quali banche, ma non solo) che vedono ridotto il prelievo a loro carico e contribuenti che lo vedono aggravato: ma se questo è l'effetto voluto dalla riforma, è del tutto incongruente e penalizzante prevedere meccanismi di mantenimento proprio di quelle distorsioni che la riforma vuole eliminare”.

Il ragionamento della Commissione consisteva dunque nel ritenere che la riforma IRAP mirava in via principale ad eliminare distorsioni quale quella di una troppo elevata tassazione a carico delle banche.

Ma che questo fosse lo scopo e lo spirito della riforma IRAP era, onestamente, una mera ed indimostrata supposizione.

Non emergeva dal dettato della norma.

Non emergeva dalla relazione governativa.

E non poteva emergere perché certamente la riforma IRAP non mirava (e non mira) ad agevolare il sistema bancario (oltretutto già oggetto di ben altre agevolazioni e interventi).

E, una volta constatato che, mediante questa sproporzionata ridistribuzione, si verificava un effetto destabilizzante del sistema economico nazionale, il legislatore, giustamente, è corso ai ripari, mediante il solo mezzo a sua disposizione: la leva fiscale.

Per valutare, dunque se tale ragionevolezza ed equità sussistesse nel caso in esame, era innanzitutto necessario esaminare gli effetti redistributivi della tassazione Irap, sui quali, fin da subito si era concentrata la maggiore attenzione del Governo, anche in relazione al buco di entrate: i famosi 9 mila miliardi (di vecchie lire) mancanti alla parità di gettito.

La Commissione era consapevole, infatti, fin dall'inizio che la tassazione Irap era, per la sua stessa struttura, congegnata in modo tale da attenuare il carico fiscale per coloro che in passato avevano contribuito maggiormente al bilancio pubblico (quindi le imprese più patrimonializzate, con maggiori utili dichiarati e con minore fiscalizzazione degli oneri sanitari e minore indebitamento; cioè le Banche) e che avrebbe portato un aggravio di tassazione per coloro che meno avevano in precedenza contribuito al bilancio pubblico (maggiore fiscalizzazione, minori utili dichiarati, minore patrimonializzazione e anche maggiore indebitamento; cioè il settore agricolo).

Andare a vantaggio di chi fa più profitti, infatti, è una regola tipica di tutte le disposizioni che alleggeriscono la tassazione specifica sui profitti e se l'Irap ha implicito in sé questo elemento di detassazione, non poteva distribuirsi diversamente.

Il legislatore, dunque, nel valutare la opportunità di una differenziazione delle aliquote, non ha messo in discussione tali obiettivi, ma ha dovuto ulteriormente valutare se la tassazione Irap avesse o meno ragionevolezza economica nell'inasprire il carico fiscale su particolari categorie, alleggerendolo su altre.

In realtà, quindi, dopo l'esito del gettito, il metro di giudizio si è spostato: dovendosi in particolare constatare se vi fossero particolari categorie di imprese, settori, o aree territoriali che avevano tratto un vantaggio o uno svantaggio non proporzionale alle effettive condizioni economiche.

In tale contesto il settore più avvantaggiato era stato senza dubbio quello finanziario.

Per tale motivo venne deciso di aumentare le aliquote.

La Corte Costituzionale, come detto, con la sentenza n. 21/2005 ha comunque bocciato le censure di incostituzionalità alla normativa in esame.

La Corte ha infatti affermato che “è errato l’assunto dei giudici rimettenti secondo cui la disciplina dell’Irap, per sottrarsi ai prospettati dubbi di legittimità costituzionale, dovrebbe prevedere un’aliquota unica da applicare alle basi imponibili diversificate ai sensi degli artt. Da 4 a 11-bis del Dlgs n. 446 del 1997”.

Non sfuggiva alla Corte, del resto, neppure la considerazione che l’Irap aveva apportato uno “sgravio consistente” per il settore dell’intermediazione finanziaria e “un aggravio significativo” per il settore agricolo. Era giusto dunque ricorrere ad una sorta di “compensazione”.

Ogni dubbio di incostituzionalità è stato quindi respinto.

Consapevoli di ciò allora i contribuenti, attori del “nuovo” contenzioso, cercano di riproporre la medesima questione sotto altra luce, contestando sempre l’applicazione maggiorata dell’aliquota Irap sulle banche ed istituti finanziari, ma, come detto, sotto il diverso profilo di una presunta sospensione delle maggiorazioni regionali ad opera dell’art. 2, comma 21 della L. 289/2002 e successive proroghe.

Tale impostazione è tuttavia infondata, sia sistematicamente che puntualmente in riferimento alla normativa invocata.

Giova infatti fin da subito evidenziare come non sia vero che sussista uno “scontro” tra normativa statale (prevalente) e normativa regionale (soccombente).

Esaminando infatti il combinato disposto delle varie norme emerge che il comma 3 dell’art. 16 del Decreto legislativo (statale) 446/97 stabilisce che “A decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del presente decreto, le regioni hanno facoltà di variare l'aliquota” (ordinaria) “di cui al comma 1 fino ad un massimo di un punto percentuale”.

Peraltro, rapportando ancora i vari profili normativi della disciplina in esame, il comma 2 dell’art. 45 del Dlgs 446/97 stabiliva, seppur in via provvisoria, delle aliquote speciali, stabilendo che “Per i soggetti di cui agli articoli 6 e 7, per i periodi d'imposta in corso al 1° gennaio 1998, al 1° gennaio 1999 e al 1° gennaio 2000 l'aliquota è stabilita nella misura del 5,4 per cento; per i due periodi d'imposta successivi, l'aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 5 e del 4,75 per cento”.

Se quindi, fino al 2002, vigevano per gli istituti finanziari delle aliquote speciali (ben più alte di quella poi stabilita con Legge Regionale in Toscana), dal 2003 tali contribuenti sarebbero stati invece soggetti ad aliquota ordinaria, restando comunque ferma la possibilità per le Regioni, in applicazione del comma 3 del citato art 16, di stabilire un’aliquota (ordinaria) maggiorata.

Cosa appunto successa nel caso di molte Amministrazioni Regionali.

Nel caso della Toscana preso prima ad esempio, come visto, l’aumento (ben entro il punto percentuale) è stato infatti dello 0,15%, avendo portato la Regione, con l’art. 2 della citata Legge Regionale 43/2002, l’aliquota di imposta applicabile alle banche e agli altri istituti al 4,40%.

Tanto premesso, già ad un ragionato raccordo tra le varie disposizioni succedutesi nel tempo, appare in tutta la sua inconsistenza l’affermazione per cui tale maggiorazione si dovrebbe ritenere sospesa ad opera dell’art. 3, comma 1, lett. a) della L. 289/2002 del 27 dicembre 2002, il quale dispone che “… la maggiorazione dell’aliquota di imposta regionale sulle attività produttive … che non sia confermativa delle aliquote in vigore per l’anno 2002, è sospesa fino a quando non si raggiunga un accordo ai sensi del Decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 in sede di conferenza unificata tra Stato, Regioni ed enti locali sui meccanismi strutturali del federalismo fiscale”.

Dalla semplice lettura della norma emergono infatti da subito alcune importanti e dirimenti considerazioni:

1) la norma parla di aliquota sospesa quando non sia confermativa di quella già in vigore per l’anno 2002, pari, come visto, al 4,75%;

2) questo vuol dire che se l’aliquota maggiorata fosse del 4,75%, non ci dovrebbe essere alcun dubbio sul fatto che la sospensione non opera;

3) solo nel caso in cui una legge regionale avesse disposto un’aliquota superiore all’aliquota già vigente nel 2002, allora la sospensione avrebbe eventualmente avuto effetto;

4) la sospensione dunque, logicamente, se è vera la stessa ratio sostenuta dai contribuenti nei contenziosi in esame, varrebbe solo, eventualmente, per aliquote superiori a quella già operante nel 2002 e non certo nel caso di aliquote inferiori a quella già vigente (come appunto nel caso della Toscana): il parametro per la sospensione, anche da un punto di vista di interpretazione letterale della norma, non è dunque la maggiorazione rispetto all’aliquota ordinaria (che peraltro, ex lege, non esisteva!), ma la maggiorazione rispetto all’aliquota speciale già vigente; Anche perché, come detto, non esisteva per le banche un’aliquota ordinaria del 4,25% e quindi una maggiorazione rispetto a tale aliquota sarebbe semplicemente impossibile.

5) Se questo non bastasse, inoltre giova rilevare come la norma parla di sospensione e non di abrogazione, il che vuol dire che, comunque, una volta verificatasi la condizione sospensiva già prevista nella disposizione legislativa, il provvedimento riprenderebbe comunque la propria efficacia, con effetti ex tunc;

6) Essendo infatti, come noto, stato approvato, in sede legislativa, il nuovo quadro normativo sul federalismo fiscale, ed essendo stato raggiunto l’accordo Stato/Regioni a cui la stessa norma richiamata dai ricorrenti che hanno instaurato i contenziosi legava il perdurare della sospensione, appare allora evidente come, in ogni caso, gli effetti delle leggi regionali, laddove sospesi, riprenderebbero efficacia, confermando dunque la loro validità, con effetti ex tunc (e questo peraltro anche in linea e coerenza con i poteri impositivi riconosciuti con il federalismo fiscale e con la natura di tributo proprio, regionale, dell’Irap).

Insomma da qualsiasi parte la si guardi la pretesa avanzata nei suddetti contenziosi appare effettivamente priva di fondamento.

Ancora, se tutto questo non bastasse, giova anche ricordare che, anche laddove le aliquote maggiorate fossero state stabilite in misura superiore al citato 4,75%, il comma 22 dello stesso articolo 2 della L. 289/2002, ha stabilito una sorta di sanatoria per quelle Regioni che nelle more avessero emanato disposizioni Irap in modo non conforme ai poteri ad esse attribuiti in materia dalla normativa statale (laddove questo fosse successo).

La lettera della norma, quindi, è chiara nello stabilire che la “sanatoria” attiene alle disposizioni eventualmente “non conformi ai poteri attribuiti” alle Regioni, laddove è stata la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 381 del 14 dicembre 2004, relativa proprio all’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. a) della L. 289/2002 del 29 settembre 2002, che ha disposto la sospensione del potere di maggiorazione dell’aliquota, ad affermare che i provvedimenti legislativi di aumento delle aliquote adottati dopo il 29 settembre 2002 devono considerarsi “non conformi ai poteri … attribuiti in materia dalla normativa statale”.

Se pertanto il comma 22 mira a sanare provvedimenti emessi in carenza di potere, è evidente come la sanatoria si applichi a tutti i provvedimenti di maggiorazione delle aliquote (superiori al 4,75%) emanati successivamente al 29 settembre 2002.

Pertanto, non solo tali poteri, per quanto sopra detto, sono stati espletati in modo pienamente conforme, ma anche laddove, non conformemente alla L. 289/2002 invocata, fossero state disposte aliquote maggiorate, appare evidente che, comunque, la non conforme applicazione sarebbe sanata.

Anche una sentenza della CTR del Veneto (Sent. n. 1 dell’11 marzo 2011 della Comm. Trib. reg. di Venezia, Sez. XXXIII), seppur, in quel caso, sfavorevole all’Amministrazione, conferma le suddette conclusioni.

La sentenza citata, infatti, stabilisce che “Si applica per il 2004 alle banche venete la aliquota Irap del 4,25 per cento, in quanto questa è l’aliquota vigente ordinaria dal 1 gennaio 2003, non potendosi applicare quelle precedenti e provvisorie oscillanti dal 4,75 al 5,4 per cento, né potendosi applicare quella del 5,25 deliberata nel 2003 in quanto la stessa era stata sospesa per l’anno e tale sospensione era stata successivamente prorogata nel 2004 “.

Il problema in quel caso, a differenza di quanto invece successo, per esempio, in Toscana, atteneva dunque al fatto che fosse stata disposta un’aliquota superiore a quella già vigente nel 2002.

Tanto è vero che la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza, aveva invece accolto solo parzialmente il ricorso della Società, ritenendo applicabile per il periodo d'imposta 2004 solo la più bassa aliquota (pur sempre maggiorata) del 4,75%, già prevista dall'art. 45, co. 2, D.Lgs. n. 446/1997.

In ogni caso, si ricorda, sospensione non equivale ad abrogazione e dunque, oggi, almeno per quanto riguarda gli anni non “coperti” dalla nuova disciplina sul federalismo fiscale (e dai suoi limiti e prescrizioni), anche la distinzione tra aliquota inferiore o pari a quella speciale già vigente nel 2002 (nel qual caso non si applica sicuramente alcuna sospensione, essendo la maggiorazione in linea con il disposto di legge) ed aliquota maggiorata superiore a quella speciale già vigente (nel qual caso, secondo quanto poi stabilito nella successiva legge finanziaria per il 2005, L. 311/2004, la sospensione è stata comunque prorogata per i provvedimenti non conformi e sempre che vi fossero dissesti finanziari regionali e situazioni di disavanzo delle gestioni sanitarie) non dovrebbe più aver ragion d’essere, essendosi anche realizzata quella condizione che, secondo il testo di legge, sospendeva gli effetti delle leggi regionali.

Si segnala, da ultimo, la Sentenza della Suprema Corte, n. 19838 del 14 novembre 2012, la quale ha espressamente riconosciuto che “in tale ottica va coerentemente interpretato anche il disposto della L. n. 289 del 2002, art. 3, comma 1, lett. a), che, nel sospendere l'efficacia degli aumenti dell'aliquota Irap deliberati dalle regioni successivamente al 29 settembre e non confermativi delle aliquote in vigore per l'anno 2002, ha inteso comunque limitare l'effetto sospensivo a quelle maggiorazioni che determinassero, o nella misura in cui determinassero, il superamento delle aliquote in vigore nel 2002 (e, in quanto tali, fossero non confermative di tali aliquote). Infatti, come previsto dallo stesso art. 3, comma 1, lett. a) citato, la sospensione è stata disposta "in funzione dell'attuazione del titolo 5 della parte seconda della Costituzione e in attesa della legge quadro sul federalismo fiscale", in ragione, quindi di una moratoria che, giustificata dalla mancanza di una legge quadro sul federalismo fiscale, non pregiudicasse però del tutto l'obiettivo finale dell'autonomia e del decentramento fiscale delle regioni, obiettivo che sarebbe rimasto certamente ridimensionato dall'applicazione generale e indifferenziata dell'aliquota ordinaria a banche e società finanziarie, soggetti invece destinatari per legge di possibili e specifici incrementi dell'aliquota ordinaria”.