x

x

Perequazione urbanistica

[estratto dal libro Perequazione urbanistica, Filodiritto Editore, Bologna, Aprile 2013]

In ragione dei molteplici interessi (economici in primis), pubblici e privati, cui i nuovi strumenti di pianificazione sembrano in grado di rispondere, nell’ultimo decennio si è assistito ad un considerevole sviluppo di legislazioni regionali in materia.

Ciò ha comportato che, nei territori regionali in cui non era presente alcuna disciplina, una delle questioni più avvertite è stata la valutazione sull’ammissibilità o meno dell’istituto perequativo in assenza, fino ad oggi, di un’esplicita previsione legislativa a monte.

La giurisprudenza soccorre ancora una volta alle lacune dell’ordinamento, e comunque in senso favorevole alla perequazione anche in difetto di una espressa normativa che la disciplinasse. E, difatti, i giudici amministrativi si sono espressi sulle eccezioni di non conformità alla legislazione vigente e contrasto con i principi costituzionali in materia di proprietà e di legalità dell’azione amministrativa, non rinvenendo allo stato attuale alcuna disciplina, di fonte legislativa, che autorizzi una riserva di proprietà fondiaria alla mano pubblica in assenza di specifica normativa primaria e al di fuori delle garanzie previste dall’art. 42 della Costituzione.

Invero, è stato affermato che lo strumento della perequazione, «sebbene non contemplato a livello di legislazione nazionale, è stato progressivamente introdotto dalle legislazioni regionali cui è affidata la disciplina del territorio e persegue l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze create dalla funzione pianificatoria, in particolare dalla zonizzazione e dalla localizzazione diretta degli standards, quanto meno all’interno di ambiti di trasformazione, creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo fra i privati proprietari delle aree incluse in essi e promuovere l’iniziativa privata» (cfr. TAR Veneto, Venezia, sez. I, 19 maggio 2009, n. 1504; 10 gennaio 2011, n. 11).

Il delineato regime perequativo si regge – come evidenziato dal Consiglio di Stato, nella cit. sentenza n. 4545/2010 – «su due pilastri fondamentali e immanenti all’ordinamento: a) da un lato, il potere conformativo del territorio di cui l’amministrazione è titolare nell’esercizio della propria attività pianificatoria; b) d’altro lato, la possibilità di ricorrere a modelli privatistici e consensuali per il perseguimento di finalità di pubblico interesse». Il potere conformativo costituisce espressione della funzione amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti. Il ricorso a moduli convenzionali attraverso cui realizzare gli obiettivi di perequazione urbanistica non è, poi, estraneo all’esperienza pianificatoria del nostro ordinamento (basti rammentare le convenzioni di lottizzazione) ed è anche rinvenibile negli accordi sostitutivi dell’espropriazione di cui all’art. 45 del d.p.r. n. 327/2001, che costituiscono proprio una applicazione alla particolare materia dell’ablazione della proprietà privata per la realizzazione di opere pubbliche, del generale principio dell’utilizzabilità di modelli negoziali per il perseguimento di scopi di pubblico interesse.

Più in generale, costituisce un principio giurisprudenziale oramai consolidatosi, quello secondo cui la base normativa della previsione degli strumenti consensuali per il perseguimento di finalità perequative va individuata nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis, e 11 della l. n. 241/1990. Ed invero, il legislatore con tali disposizioni ha optato per una piena e assoluta fungibilità dello strumento consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse.

Essendo, così, venuta meno la previgente riserva alla legge dei casi in cui alle amministrazioni è consentito ricorrere ad accordi in sostituzione di provvedimenti autoritativi, tale possibilità deve ritenersi sempre e comunque sussistente (salvi i casi di espresso divieto normativo); col che non è stato affatto introdotto il principio della atipicità degli strumenti consensuali in contrapposizione a quello di tipicità e nominatività dei provvedimenti, in quanto lo strumento convenzionale deve pur sempre prendere il posto di un provvedimento autoritativo individuato fra quelli tipici disciplinati dalla legge: a garanzia del rispetto di tale limite, l’art. 11 cit. prevede l’obbligo di una previa determinazione amministrativa che anticipi e legittimi il ricorso allo strumento dell’accordo.

Nel caso sottoposto alla cognizione del giudice, l’amministrazione resistente aveva predeterminato le condizioni alle quali avrebbero potuto attivarsi i meccanismi convenzionali di cui alla L. 241/90 (solo se e quando i proprietari interessati avessero ritenuto di avvalersi degli incentivi connessi, e, cioè, di fruire della capacità edificatoria attribuita alla c.d. “superficie integrata”; ove ciò non fosse avvenuto, il Comune interessato alla realizzazione di attrezzature pubbliche, avrebbe dovuto attivarsi con gli strumenti tradizionali all’uopo predisposti dall’ordinamento, e cioè, in primis, con le procedure espropriative, previa localizzazione delle aree su cui operare gli interventi e formale imposizione di vincoli preordinati all’esproprio con apposita variante urbanistica).

Da quanto sopra emerge, dunque, come le prescrizioni urbanistiche de quibus – secondo il giudice amministrativo – trovino «il proprio fondamento in principi ben radicati nel nostro ordinamento, con riguardo, da un lato, al potere pianificatorio e di governo del territorio e, dall’altro, alla facoltà di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti».

In armonia con tali presupposti, la circostanza che si tratti di principi radicati nella legislazione nazionale consente di elidere in radice la lamentata lesione delle prerogative statali in materia: è evidente, infatti, che in tale panorama, anche in assenza di specifiche previsioni, la perequazione rimane rispettosa dei limiti imposti in materia di governo del territorio, dalla legislazione statale, sia esclusiva sia concorrente, alla potestà normativa delle regioni e dei comuni ex art. 117.

Tuttavia, proprio il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa ha avuto modo di sottolineare a penna rossa come si ravvisi, comunque, «l’opportunità che lo Stato intervenga a disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica, nell’ambito di una legge generale sul governo del territorio, la cui adozione sarebbe auspicabile alla luce dell’inadeguatezza della normativa pregressa a fronte delle profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni dal diritto amministrativo e da quello urbanistico».

Malgrado tale auspicio, la perdurante assenza dell’intervento legislativo statale non può impedire, da un lato, «che le regioni esercitino la propria potestà legislativa in materia nel rispetto dei principi generali della legislazione statale» e, d’altro lato, «che tali principi vadano individuati sulla base del quadro normativo attuale, quale risultante dal complesso della legislazione urbanistica stratificatasi sul ceppo dell’originaria l. n. 1150/1942 e dell’applicazione fattane dalla giurisprudenza (anche costituzionale)»: è in questo modo che può pervenirsi alla conclusione secondo cui tutte le specifiche disposizioni, le quali, di volta in volta e per singoli profili, potrebbero venire intese quali “copertura” legislativa dei controversi istituti perequativi, costituiscono, in realtà, espressione dei principi generali richiamati.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha ritenuto di rinvenire la copertura “normativa” dell’istituto della perequazione nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis e 11 della L. 241/90 ss.mm., ossia nella possibilità di ricorrere agli strumenti convenzionali per il perseguimento delle finalità perequative.

Diversamente opinando, la latitanza del legislatore determinerebbe guasti notevoli in un ambito così delicato, se si pone mente al fatto che, dopo la legge 1150/1942 (la quale, seppur in maniera innovativa per l’epoca, ha disciplinato la materia in generale), l’unico intervento riformatore varato è rappresentato dalla cosiddetta legge-ponte, la L. n. 765/1967 (che, pur introducendo alcuni istituti quali lo standard e lo zoning, non costituisce una disciplina organica della materia).

Visto l’ampio spazio temporale trascorso e visti i mutamenti sociali, economici, territoriali, si comprende perché sia molto sentita l’esigenza di una nuova legge urbanistica nazionale.

Come si è anticipato in precedenza, numerosi sono stati i vari tentativi di riforma, che non hanno avuto esito positivo. Tuttavia, anche precedentemente agli ultimi approdi giurisprudenziali in materia di strumenti convenzionali legittimanti, il legislatore nazionale – pur astenendosi dall’articolare una disciplina esatta – ha (espressamente) evidenziato l’istituto dei diritti edificatori, ancorché “sparsi” in diversi provvedimenti legislativi, ove quindi è possibile rinvenire i prodromi legittimanti.

Le sopracitate leggi, attraverso l’espresso riferimento alla nozione di diritto edificatorio, avevano indotto la dottrina ad interrogarsi se tali interventi potevano costituire il fondamento a livello statale dei concetti di perequazione, compensazione e premialità, concludendo per la soluzione negativa, in quanto trattasi di interventi estemporanei e contingenti.

Con riguardo alle Regioni che non hanno disciplinato la materia, dunque, inizia a profilarsi una generalizzata ammissibilità delle tecniche perequative anche in assenza di un’espressa normativa. E ciò perché le finalità distributive della perequazione sembrano caratterizzare anche istituti già noti, quali il comparto edificatorio di cui all’art. 23, L. n. 1150/1942, il piano di recupero di cui alla L. 457/1978, ed il sistema delle lottizzazioni convenzionate ex art. 28 legge n. 765/1967, «istituti che si basano sul principio secondo il quale chi si giova di una previsione urbanistica favorevole, ritraendone un certo incremento di valore, può legittimamente essere chiamato a sopportare, con una parte di quell’incremento, i costi delle opere di urbanizzazione e più in generale della sistemazione urbanistica, purché si tratti di opere e di interventi la cui utilità pubblica trascende i confini della sua proprietà».

Per completezza è necessario dare atto di un orientamento contrario, sebbene abbastanza isolato, per il quale la possibilità di perequare «non può essere affatto considerata implicita al sistema e la sua compatibilità con la legislazione vigente va preliminarmente dimostrata».

Recentemente, di fronte a legittimazioni di natura giurisprudenziale, sempre subordinate ad oscillazioni e mutamenti, è intervenuto in emergenza il legislatore.

In tal senso può essere letto il recente “decreto sviluppo” n. 70 del 2011, convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106, che consente una minimale “copertura” normativa di livello nazionale alla perequazione. Non si tratta di quel «quadro di regole completo», auspicato dal Consiglio di Stato nelle sue recenti pronunce, bensì pare più come un soccorso d’urgenza, al fine di garantire certezza alla circolazione “aerea” dei diritti edificatori.

 

Le perequazioni nelle legislazioni regionali

In ragione dei molteplici interessi (economici in primis), pubblici e privati, cui i nuovi strumenti di pianificazione sembrano in grado di rispondere, nell’ultimo decennio si è assistito ad un considerevole sviluppo di legislazioni regionali in materia.

Ciò ha comportato che, nei territori regionali in cui non era/è presente alcuna disciplina, una delle questioni più avvertite è stata la valutazione sull’ammissibilità o meno dell’istituto perequativo in assenza, fino ad oggi, di un’esplicita previsione legislativa a monte.

La giurisprudenza soccorre ancora una volta alle lacune dell’ordinamento, e comunque in senso favorevole alla perequazione anche in difetto di una espressa normativa che la disciplinasse. E, difatti, i giudici amministrativi si sono espressi sulle eccezioni di non conformità alla legislazione vigente e contrasto con i principi costituzionali in materia di proprietà e di legalità dell’azione amministrativa, non rinvenendo allo stato attuale alcuna disciplina, di fonte legislativa, che autorizzi una riserva di proprietà fondiaria alla mano pubblica in assenza di specifica normativa primaria e al di fuori delle garanzie previste dall’art. 42 della Costituzione.

Invero, è stato affermato che lo strumento della perequazione, «sebbene non contemplato a livello di legislazione nazionale, è stato progressivamente introdotto dalle legislazioni regionali cui è affidata la disciplina del territorio e persegue l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze create dalla funzione pianificatoria, in particolare dalla zonizzazione e dalla localizzazione diretta degli standards, quanto meno all’interno di ambiti di trasformazione, creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo fra i privati proprietari delle aree incluse in essi e promuovere l’iniziativa privata» (cfr. TAR Veneto, Venezia, sez. I, 19 maggio 2009, n. 1504; 10 gennaio 2011, n. 11).

Il delineato regime perequativo si regge – come evidenziato dal Consiglio di Stato, nella cit. sentenza n. 4545/2010 – «su due pilastri fondamentali e immanenti all’ordinamento: a) da un lato, il potere conformativo del territorio di cui l’amministrazione è titolare nell’esercizio della propria attività pianificatoria; b) d’altro lato, la possibilità di ricorrere a modelli privatistici e consensuali per il perseguimento di finalità di pubblico interesse». Il potere conformativo costituisce espressione della funzione amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti. Il ricorso a moduli convenzionali attraverso cui realizzare gli obiettivi di perequazione urbanistica non è, poi, estraneo all’esperienza pianificatoria del nostro ordinamento (basti rammentare le convenzioni di lottizzazione) ed è anche rinvenibile negli accordi sostitutivi dell’espropriazione di cui all’art. 45 del d.p.r. n. 327/2001, che costituiscono proprio una applicazione alla particolare materia dell’ablazione della proprietà privata per la realizzazione di opere pubbliche, del generale principio dell’utilizzabilità di modelli negoziali per il perseguimento di scopi di pubblico interesse.

Più in generale, costituisce un principio giurisprudenziale oramai consolidatosi, quello secondo cui la base normativa della previsione degli strumenti consensuali per il perseguimento di finalità perequative va individuata nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis, e 11 della l. n. 241/1990. Ed invero, il legislatore con tali disposizioni ha optato per una piena e assoluta fungibilità dello strumento consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse.

Essendo, così, venuta meno la previgente riserva alla legge dei casi in cui alle amministrazioni è consentito ricorrere ad accordi in sostituzione di provvedimenti autoritativi, tale possibilità deve ritenersi sempre e comunque sussistente (salvi i casi di espresso divieto normativo); col che non è stato affatto introdotto il principio della atipicità degli strumenti consensuali in contrapposizione a quello di tipicità e nominatività dei provvedimenti, in quanto lo strumento convenzionale deve pur sempre prendere il posto di un provvedimento autoritativo individuato fra quelli tipici disciplinati dalla legge: a garanzia del rispetto di tale limite, l’art. 11 cit. prevede l’obbligo di una previa determinazione amministrativa che anticipi e legittimi il ricorso allo strumento dell’accordo.

Nel caso sottoposto alla cognizione del giudice, l’amministrazione resistente aveva predeterminato le condizioni alle quali avrebbero potuto attivarsi i meccanismi convenzionali di cui alla L. 241/90 (solo se e quando i proprietari interessati avessero ritenuto di avvalersi degli incentivi connessi, e, cioè, di fruire della capacità edificatoria attribuita alla c.d. “superficie integrata”; ove ciò non fosse avvenuto, il Comune interessato alla realizzazione di attrezzature pubbliche, avrebbe dovuto attivarsi con gli strumenti tradizionali all’uopo predisposti dall’ordinamento, e cioè, in primis, con le procedure espropriative, previa localizzazione delle aree su cui operare gli interventi e formale imposizione di vincoli preordinati all’esproprio con apposita variante urbanistica).

Da quanto sopra emerge, dunque, come le prescrizioni urbanistiche de quibus – secondo il giudice amministrativo – trovino «il proprio fondamento in principi ben radicati nel nostro ordinamento, con riguardo, da un lato, al potere pianificatorio e di governo del territorio e, dall’altro, alla facoltà di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti».

In armonia con tali presupposti, la circostanza che si tratti di principi radicati nella legislazione nazionale consente di elidere in radice la lamentata lesione delle prerogative statali in materia: è evidente, infatti, che in tale panorama, anche in assenza di specifiche previsioni, la perequazione rimane rispettosa dei limiti imposti in materia di governo del territorio, dalla legislazione statale, sia esclusiva sia concorrente, alla potestà normativa delle regioni e dei comuni ex art. 117.

Tuttavia, proprio il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa ha avuto modo di sottolineare a penna rossa come si ravvisi, comunque, «l’opportunità che lo Stato intervenga a disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica, nell’ambito di una legge generale sul governo del territorio, la cui adozione sarebbe auspicabile alla luce dell’inadeguatezza della normativa pregressa a fronte delle profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni dal diritto amministrativo e da quello urbanistico».

Malgrado tale auspicio, la perdurante assenza dell’intervento legislativo statale non può impedire, da un lato, «che le regioni esercitino la propria potestà legislativa in materia nel rispetto dei principi generali della legislazione statale» e, d’altro lato, «che tali principi vadano individuati sulla base del quadro normativo attuale, quale risultante dal complesso della legislazione urbanistica stratificatasi sul ceppo dell’originaria l. n. 1150/1942 e dell’applicazione fattane dalla giurisprudenza (anche costituzionale)»: è in questo modo che può pervenirsi alla conclusione secondo cui tutte le specifiche disposizioni, le quali, di volta in volta e per singoli profili, potrebbero venire intese quali “copertura” legislativa dei controversi istituti perequativi, costituiscono, in realtà, espressione dei principi generali richiamati.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha ritenuto di rinvenire la copertura “normativa” dell’istituto della perequazione nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis e 11 della L. 241/90 ss.mm., ossia nella possibilità di ricorrere agli strumenti convenzionali per il perseguimento delle finalità perequative.

Diversamente opinando, la latitanza del legislatore determinerebbe guasti notevoli in un ambito così delicato, se si pone mente al fatto che, dopo la legge 1150/1942 (la quale, seppur in maniera innovativa per l’epoca, ha disciplinato la materia in generale), l’unico intervento riformatore varato è rappresentato dalla cosiddetta legge-ponte, la L. n. 765/1967 (che, pur introducendo alcuni istituti quali lo standard e lo zoning, non costituisce una disciplina organica della materia).

Visto l’ampio spazio temporale trascorso e visti i mutamenti sociali, economici, territoriali, si comprende perché sia molto sentita l’esigenza di una nuova legge urbanistica nazionale.

Come si è anticipato in precedenza, numerosi sono stati i vari tentativi di riforma, che non hanno avuto esito positivo. Tuttavia, anche precedentemente agli ultimi approdi giurisprudenziali in materia di strumenti convenzionali legittimanti, il legislatore nazionale – pur astenendosi dall’articolare una disciplina esatta – ha (espressamente) evidenziato l’istituto dei diritti edificatori, ancorché “sparsi” in diversi provvedimenti legislativi, ove quindi è possibile rinvenire i prodromi legittimanti.

Le sopracitate leggi, attraverso l’espresso riferimento alla nozione di diritto edificatorio, avevano indotto la dottrina ad interrogarsi se tali interventi potevano costituire il fondamento a livello statale dei concetti di perequazione, compensazione e premialità, concludendo per la soluzione negativa, in quanto trattasi di interventi estemporanei e contingenti.

Con riguardo alle Regioni che non hanno disciplinato la materia, dunque, inizia a profilarsi una generalizzata ammissibilità delle tecniche perequative anche in assenza di un’espressa normativa. E ciò perché le finalità distributive della perequazione sembrano caratterizzare anche istituti già noti, quali il comparto edificatorio di cui all’art. 23, L. n. 1150/1942, il piano di recupero di cui alla L. 457/1978, ed il sistema delle lottizzazioni convenzionate ex art. 28 legge n. 765/1967, «istituti che si basano sul principio secondo il quale chi si giova di una previsione urbanistica favorevole, ritraendone un certo incremento di valore, può legittimamente essere chiamato a sopportare, con una parte di quell’incremento, i costi delle opere di urbanizzazione e più in generale della sistemazione urbanistica, purché si tratti di opere e di interventi la cui utilità pubblica trascende i confini della sua proprietà».

Per completezza è necessario dare atto di un orientamento contrario, sebbene abbastanza isolato, per il quale la possibilità di perequare «non può essere affatto considerata implicita al sistema e la sua compatibilità con la legislazione vigente va preliminarmente dimostrata».

Recentemente, di fronte a legittimazioni di natura giurisprudenziale, sempre subordinate ad oscillazioni e mutamenti, è intervenuto in emergenza il legislatore.

In tal senso può essere letto il recente “decreto sviluppo” n. 70 del 2011, convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106, che consente una minimale “copertura” normativa di livello nazionale alla perequazione. Non si tratta di quel «quadro di regole completo», auspicato dal Consiglio di Stato nelle sue recenti pronunce, bensì pare più come un soccorso d’urgenza, al fine di garantire certezza alla circolazione “aerea” dei diritti edificatori. [estratto dal libro Perequazione urbanistica, Filodiritto Editore, Bologna, Aprile 2013]

In ragione dei molteplici interessi (economici in primis), pubblici e privati, cui i nuovi strumenti di pianificazione sembrano in grado di rispondere, nell’ultimo decennio si è assistito ad un considerevole sviluppo di legislazioni regionali in materia.

Ciò ha comportato che, nei territori regionali in cui non era presente alcuna disciplina, una delle questioni più avvertite è stata la valutazione sull’ammissibilità o meno dell’istituto perequativo in assenza, fino ad oggi, di un’esplicita previsione legislativa a monte.

La giurisprudenza soccorre ancora una volta alle lacune dell’ordinamento, e comunque in senso favorevole alla perequazione anche in difetto di una espressa normativa che la disciplinasse. E, difatti, i giudici amministrativi si sono espressi sulle eccezioni di non conformità alla legislazione vigente e contrasto con i principi costituzionali in materia di proprietà e di legalità dell’azione amministrativa, non rinvenendo allo stato attuale alcuna disciplina, di fonte legislativa, che autorizzi una riserva di proprietà fondiaria alla mano pubblica in assenza di specifica normativa primaria e al di fuori delle garanzie previste dall’art. 42 della Costituzione.

Invero, è stato affermato che lo strumento della perequazione, «sebbene non contemplato a livello di legislazione nazionale, è stato progressivamente introdotto dalle legislazioni regionali cui è affidata la disciplina del territorio e persegue l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze create dalla funzione pianificatoria, in particolare dalla zonizzazione e dalla localizzazione diretta degli standards, quanto meno all’interno di ambiti di trasformazione, creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo fra i privati proprietari delle aree incluse in essi e promuovere l’iniziativa privata» (cfr. TAR Veneto, Venezia, sez. I, 19 maggio 2009, n. 1504; 10 gennaio 2011, n. 11).

Il delineato regime perequativo si regge – come evidenziato dal Consiglio di Stato, nella cit. sentenza n. 4545/2010 – «su due pilastri fondamentali e immanenti all’ordinamento: a) da un lato, il potere conformativo del territorio di cui l’amministrazione è titolare nell’esercizio della propria attività pianificatoria; b) d’altro lato, la possibilità di ricorrere a modelli privatistici e consensuali per il perseguimento di finalità di pubblico interesse». Il potere conformativo costituisce espressione della funzione amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti. Il ricorso a moduli convenzionali attraverso cui realizzare gli obiettivi di perequazione urbanistica non è, poi, estraneo all’esperienza pianificatoria del nostro ordinamento (basti rammentare le convenzioni di lottizzazione) ed è anche rinvenibile negli accordi sostitutivi dell’espropriazione di cui all’art. 45 del d.p.r. n. 327/2001, che costituiscono proprio una applicazione alla particolare materia dell’ablazione della proprietà privata per la realizzazione di opere pubbliche, del generale principio dell’utilizzabilità di modelli negoziali per il perseguimento di scopi di pubblico interesse.

Più in generale, costituisce un principio giurisprudenziale oramai consolidatosi, quello secondo cui la base normativa della previsione degli strumenti consensuali per il perseguimento di finalità perequative va individuata nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis, e 11 della l. n. 241/1990. Ed invero, il legislatore con tali disposizioni ha optato per una piena e assoluta fungibilità dello strumento consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse.

Essendo, così, venuta meno la previgente riserva alla legge dei casi in cui alle amministrazioni è consentito ricorrere ad accordi in sostituzione di provvedimenti autoritativi, tale possibilità deve ritenersi sempre e comunque sussistente (salvi i casi di espresso divieto normativo); col che non è stato affatto introdotto il principio della atipicità degli strumenti consensuali in contrapposizione a quello di tipicità e nominatività dei provvedimenti, in quanto lo strumento convenzionale deve pur sempre prendere il posto di un provvedimento autoritativo individuato fra quelli tipici disciplinati dalla legge: a garanzia del rispetto di tale limite, l’art. 11 cit. prevede l’obbligo di una previa determinazione amministrativa che anticipi e legittimi il ricorso allo strumento dell’accordo.

Nel caso sottoposto alla cognizione del giudice, l’amministrazione resistente aveva predeterminato le condizioni alle quali avrebbero potuto attivarsi i meccanismi convenzionali di cui alla L. 241/90 (solo se e quando i proprietari interessati avessero ritenuto di avvalersi degli incentivi connessi, e, cioè, di fruire della capacità edificatoria attribuita alla c.d. “superficie integrata”; ove ciò non fosse avvenuto, il Comune interessato alla realizzazione di attrezzature pubbliche, avrebbe dovuto attivarsi con gli strumenti tradizionali all’uopo predisposti dall’ordinamento, e cioè, in primis, con le procedure espropriative, previa localizzazione delle aree su cui operare gli interventi e formale imposizione di vincoli preordinati all’esproprio con apposita variante urbanistica).

Da quanto sopra emerge, dunque, come le prescrizioni urbanistiche de quibus – secondo il giudice amministrativo – trovino «il proprio fondamento in principi ben radicati nel nostro ordinamento, con riguardo, da un lato, al potere pianificatorio e di governo del territorio e, dall’altro, alla facoltà di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti».

In armonia con tali presupposti, la circostanza che si tratti di principi radicati nella legislazione nazionale consente di elidere in radice la lamentata lesione delle prerogative statali in materia: è evidente, infatti, che in tale panorama, anche in assenza di specifiche previsioni, la perequazione rimane rispettosa dei limiti imposti in materia di governo del territorio, dalla legislazione statale, sia esclusiva sia concorrente, alla potestà normativa delle regioni e dei comuni ex art. 117.

Tuttavia, proprio il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa ha avuto modo di sottolineare a penna rossa come si ravvisi, comunque, «l’opportunità che lo Stato intervenga a disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica, nell’ambito di una legge generale sul governo del territorio, la cui adozione sarebbe auspicabile alla luce dell’inadeguatezza della normativa pregressa a fronte delle profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni dal diritto amministrativo e da quello urbanistico».

Malgrado tale auspicio, la perdurante assenza dell’intervento legislativo statale non può impedire, da un lato, «che le regioni esercitino la propria potestà legislativa in materia nel rispetto dei principi generali della legislazione statale» e, d’altro lato, «che tali principi vadano individuati sulla base del quadro normativo attuale, quale risultante dal complesso della legislazione urbanistica stratificatasi sul ceppo dell’originaria l. n. 1150/1942 e dell’applicazione fattane dalla giurisprudenza (anche costituzionale)»: è in questo modo che può pervenirsi alla conclusione secondo cui tutte le specifiche disposizioni, le quali, di volta in volta e per singoli profili, potrebbero venire intese quali “copertura” legislativa dei controversi istituti perequativi, costituiscono, in realtà, espressione dei principi generali richiamati.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha ritenuto di rinvenire la copertura “normativa” dell’istituto della perequazione nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis e 11 della L. 241/90 ss.mm., ossia nella possibilità di ricorrere agli strumenti convenzionali per il perseguimento delle finalità perequative.

Diversamente opinando, la latitanza del legislatore determinerebbe guasti notevoli in un ambito così delicato, se si pone mente al fatto che, dopo la legge 1150/1942 (la quale, seppur in maniera innovativa per l’epoca, ha disciplinato la materia in generale), l’unico intervento riformatore varato è rappresentato dalla cosiddetta legge-ponte, la L. n. 765/1967 (che, pur introducendo alcuni istituti quali lo standard e lo zoning, non costituisce una disciplina organica della materia).

Visto l’ampio spazio temporale trascorso e visti i mutamenti sociali, economici, territoriali, si comprende perché sia molto sentita l’esigenza di una nuova legge urbanistica nazionale.

Come si è anticipato in precedenza, numerosi sono stati i vari tentativi di riforma, che non hanno avuto esito positivo. Tuttavia, anche precedentemente agli ultimi approdi giurisprudenziali in materia di strumenti convenzionali legittimanti, il legislatore nazionale – pur astenendosi dall’articolare una disciplina esatta – ha (espressamente) evidenziato l’istituto dei diritti edificatori, ancorché “sparsi” in diversi provvedimenti legislativi, ove quindi è possibile rinvenire i prodromi legittimanti.

Le sopracitate leggi, attraverso l’espresso riferimento alla nozione di diritto edificatorio, avevano indotto la dottrina ad interrogarsi se tali interventi potevano costituire il fondamento a livello statale dei concetti di perequazione, compensazione e premialità, concludendo per la soluzione negativa, in quanto trattasi di interventi estemporanei e contingenti.

Con riguardo alle Regioni che non hanno disciplinato la materia, dunque, inizia a profilarsi una generalizzata ammissibilità delle tecniche perequative anche in assenza di un’espressa normativa. E ciò perché le finalità distributive della perequazione sembrano caratterizzare anche istituti già noti, quali il comparto edificatorio di cui all’art. 23, L. n. 1150/1942, il piano di recupero di cui alla L. 457/1978, ed il sistema delle lottizzazioni convenzionate ex art. 28 legge n. 765/1967, «istituti che si basano sul principio secondo il quale chi si giova di una previsione urbanistica favorevole, ritraendone un certo incremento di valore, può legittimamente essere chiamato a sopportare, con una parte di quell’incremento, i costi delle opere di urbanizzazione e più in generale della sistemazione urbanistica, purché si tratti di opere e di interventi la cui utilità pubblica trascende i confini della sua proprietà».

Per completezza è necessario dare atto di un orientamento contrario, sebbene abbastanza isolato, per il quale la possibilità di perequare «non può essere affatto considerata implicita al sistema e la sua compatibilità con la legislazione vigente va preliminarmente dimostrata».

Recentemente, di fronte a legittimazioni di natura giurisprudenziale, sempre subordinate ad oscillazioni e mutamenti, è intervenuto in emergenza il legislatore.

In tal senso può essere letto il recente “decreto sviluppo” n. 70 del 2011, convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106, che consente una minimale “copertura” normativa di livello nazionale alla perequazione. Non si tratta di quel «quadro di regole completo», auspicato dal Consiglio di Stato nelle sue recenti pronunce, bensì pare più come un soccorso d’urgenza, al fine di garantire certezza alla circolazione “aerea” dei diritti edificatori.

 

Le perequazioni nelle legislazioni regionali

In ragione dei molteplici interessi (economici in primis), pubblici e privati, cui i nuovi strumenti di pianificazione sembrano in grado di rispondere, nell’ultimo decennio si è assistito ad un considerevole sviluppo di legislazioni regionali in materia.

Ciò ha comportato che, nei territori regionali in cui non era/è presente alcuna disciplina, una delle questioni più avvertite è stata la valutazione sull’ammissibilità o meno dell’istituto perequativo in assenza, fino ad oggi, di un’esplicita previsione legislativa a monte.

La giurisprudenza soccorre ancora una volta alle lacune dell’ordinamento, e comunque in senso favorevole alla perequazione anche in difetto di una espressa normativa che la disciplinasse. E, difatti, i giudici amministrativi si sono espressi sulle eccezioni di non conformità alla legislazione vigente e contrasto con i principi costituzionali in materia di proprietà e di legalità dell’azione amministrativa, non rinvenendo allo stato attuale alcuna disciplina, di fonte legislativa, che autorizzi una riserva di proprietà fondiaria alla mano pubblica in assenza di specifica normativa primaria e al di fuori delle garanzie previste dall’art. 42 della Costituzione.

Invero, è stato affermato che lo strumento della perequazione, «sebbene non contemplato a livello di legislazione nazionale, è stato progressivamente introdotto dalle legislazioni regionali cui è affidata la disciplina del territorio e persegue l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze create dalla funzione pianificatoria, in particolare dalla zonizzazione e dalla localizzazione diretta degli standards, quanto meno all’interno di ambiti di trasformazione, creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo fra i privati proprietari delle aree incluse in essi e promuovere l’iniziativa privata» (cfr. TAR Veneto, Venezia, sez. I, 19 maggio 2009, n. 1504; 10 gennaio 2011, n. 11).

Il delineato regime perequativo si regge – come evidenziato dal Consiglio di Stato, nella cit. sentenza n. 4545/2010 – «su due pilastri fondamentali e immanenti all’ordinamento: a) da un lato, il potere conformativo del territorio di cui l’amministrazione è titolare nell’esercizio della propria attività pianificatoria; b) d’altro lato, la possibilità di ricorrere a modelli privatistici e consensuali per il perseguimento di finalità di pubblico interesse». Il potere conformativo costituisce espressione della funzione amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti. Il ricorso a moduli convenzionali attraverso cui realizzare gli obiettivi di perequazione urbanistica non è, poi, estraneo all’esperienza pianificatoria del nostro ordinamento (basti rammentare le convenzioni di lottizzazione) ed è anche rinvenibile negli accordi sostitutivi dell’espropriazione di cui all’art. 45 del d.p.r. n. 327/2001, che costituiscono proprio una applicazione alla particolare materia dell’ablazione della proprietà privata per la realizzazione di opere pubbliche, del generale principio dell’utilizzabilità di modelli negoziali per il perseguimento di scopi di pubblico interesse.

Più in generale, costituisce un principio giurisprudenziale oramai consolidatosi, quello secondo cui la base normativa della previsione degli strumenti consensuali per il perseguimento di finalità perequative va individuata nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis, e 11 della l. n. 241/1990. Ed invero, il legislatore con tali disposizioni ha optato per una piena e assoluta fungibilità dello strumento consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse.

Essendo, così, venuta meno la previgente riserva alla legge dei casi in cui alle amministrazioni è consentito ricorrere ad accordi in sostituzione di provvedimenti autoritativi, tale possibilità deve ritenersi sempre e comunque sussistente (salvi i casi di espresso divieto normativo); col che non è stato affatto introdotto il principio della atipicità degli strumenti consensuali in contrapposizione a quello di tipicità e nominatività dei provvedimenti, in quanto lo strumento convenzionale deve pur sempre prendere il posto di un provvedimento autoritativo individuato fra quelli tipici disciplinati dalla legge: a garanzia del rispetto di tale limite, l’art. 11 cit. prevede l’obbligo di una previa determinazione amministrativa che anticipi e legittimi il ricorso allo strumento dell’accordo.

Nel caso sottoposto alla cognizione del giudice, l’amministrazione resistente aveva predeterminato le condizioni alle quali avrebbero potuto attivarsi i meccanismi convenzionali di cui alla L. 241/90 (solo se e quando i proprietari interessati avessero ritenuto di avvalersi degli incentivi connessi, e, cioè, di fruire della capacità edificatoria attribuita alla c.d. “superficie integrata”; ove ciò non fosse avvenuto, il Comune interessato alla realizzazione di attrezzature pubbliche, avrebbe dovuto attivarsi con gli strumenti tradizionali all’uopo predisposti dall’ordinamento, e cioè, in primis, con le procedure espropriative, previa localizzazione delle aree su cui operare gli interventi e formale imposizione di vincoli preordinati all’esproprio con apposita variante urbanistica).

Da quanto sopra emerge, dunque, come le prescrizioni urbanistiche de quibus – secondo il giudice amministrativo – trovino «il proprio fondamento in principi ben radicati nel nostro ordinamento, con riguardo, da un lato, al potere pianificatorio e di governo del territorio e, dall’altro, alla facoltà di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti».

In armonia con tali presupposti, la circostanza che si tratti di principi radicati nella legislazione nazionale consente di elidere in radice la lamentata lesione delle prerogative statali in materia: è evidente, infatti, che in tale panorama, anche in assenza di specifiche previsioni, la perequazione rimane rispettosa dei limiti imposti in materia di governo del territorio, dalla legislazione statale, sia esclusiva sia concorrente, alla potestà normativa delle regioni e dei comuni ex art. 117.

Tuttavia, proprio il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa ha avuto modo di sottolineare a penna rossa come si ravvisi, comunque, «l’opportunità che lo Stato intervenga a disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica, nell’ambito di una legge generale sul governo del territorio, la cui adozione sarebbe auspicabile alla luce dell’inadeguatezza della normativa pregressa a fronte delle profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni dal diritto amministrativo e da quello urbanistico».

Malgrado tale auspicio, la perdurante assenza dell’intervento legislativo statale non può impedire, da un lato, «che le regioni esercitino la propria potestà legislativa in materia nel rispetto dei principi generali della legislazione statale» e, d’altro lato, «che tali principi vadano individuati sulla base del quadro normativo attuale, quale risultante dal complesso della legislazione urbanistica stratificatasi sul ceppo dell’originaria l. n. 1150/1942 e dell’applicazione fattane dalla giurisprudenza (anche costituzionale)»: è in questo modo che può pervenirsi alla conclusione secondo cui tutte le specifiche disposizioni, le quali, di volta in volta e per singoli profili, potrebbero venire intese quali “copertura” legislativa dei controversi istituti perequativi, costituiscono, in realtà, espressione dei principi generali richiamati.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha ritenuto di rinvenire la copertura “normativa” dell’istituto della perequazione nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis e 11 della L. 241/90 ss.mm., ossia nella possibilità di ricorrere agli strumenti convenzionali per il perseguimento delle finalità perequative.

Diversamente opinando, la latitanza del legislatore determinerebbe guasti notevoli in un ambito così delicato, se si pone mente al fatto che, dopo la legge 1150/1942 (la quale, seppur in maniera innovativa per l’epoca, ha disciplinato la materia in generale), l’unico intervento riformatore varato è rappresentato dalla cosiddetta legge-ponte, la L. n. 765/1967 (che, pur introducendo alcuni istituti quali lo standard e lo zoning, non costituisce una disciplina organica della materia).

Visto l’ampio spazio temporale trascorso e visti i mutamenti sociali, economici, territoriali, si comprende perché sia molto sentita l’esigenza di una nuova legge urbanistica nazionale.

Come si è anticipato in precedenza, numerosi sono stati i vari tentativi di riforma, che non hanno avuto esito positivo. Tuttavia, anche precedentemente agli ultimi approdi giurisprudenziali in materia di strumenti convenzionali legittimanti, il legislatore nazionale – pur astenendosi dall’articolare una disciplina esatta – ha (espressamente) evidenziato l’istituto dei diritti edificatori, ancorché “sparsi” in diversi provvedimenti legislativi, ove quindi è possibile rinvenire i prodromi legittimanti.

Le sopracitate leggi, attraverso l’espresso riferimento alla nozione di diritto edificatorio, avevano indotto la dottrina ad interrogarsi se tali interventi potevano costituire il fondamento a livello statale dei concetti di perequazione, compensazione e premialità, concludendo per la soluzione negativa, in quanto trattasi di interventi estemporanei e contingenti.

Con riguardo alle Regioni che non hanno disciplinato la materia, dunque, inizia a profilarsi una generalizzata ammissibilità delle tecniche perequative anche in assenza di un’espressa normativa. E ciò perché le finalità distributive della perequazione sembrano caratterizzare anche istituti già noti, quali il comparto edificatorio di cui all’art. 23, L. n. 1150/1942, il piano di recupero di cui alla L. 457/1978, ed il sistema delle lottizzazioni convenzionate ex art. 28 legge n. 765/1967, «istituti che si basano sul principio secondo il quale chi si giova di una previsione urbanistica favorevole, ritraendone un certo incremento di valore, può legittimamente essere chiamato a sopportare, con una parte di quell’incremento, i costi delle opere di urbanizzazione e più in generale della sistemazione urbanistica, purché si tratti di opere e di interventi la cui utilità pubblica trascende i confini della sua proprietà».

Per completezza è necessario dare atto di un orientamento contrario, sebbene abbastanza isolato, per il quale la possibilità di perequare «non può essere affatto considerata implicita al sistema e la sua compatibilità con la legislazione vigente va preliminarmente dimostrata».

Recentemente, di fronte a legittimazioni di natura giurisprudenziale, sempre subordinate ad oscillazioni e mutamenti, è intervenuto in emergenza il legislatore.

In tal senso può essere letto il recente “decreto sviluppo” n. 70 del 2011, convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106, che consente una minimale “copertura” normativa di livello nazionale alla perequazione. Non si tratta di quel «quadro di regole completo», auspicato dal Consiglio di Stato nelle sue recenti pronunce, bensì pare più come un soccorso d’urgenza, al fine di garantire certezza alla circolazione “aerea” dei diritti edificatori.