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Articolo 707 Codice Penale: esegesi dogmatica di un reato vero o fantasma?

Pretermettendo l’aspetto ermeneutico della figura del concorso di reato - che esula dalla trattazione in questa sede- una figura dogmatica e concettuale che  stimola un’esegesi dottrinale di un certo impegno è quella dell’art 707 c.p., com’è noto istituto giuridico da sempre al centro di aspre controversie dottrinali.

Infatti, tale reato è sussunto nella categoria dei cosiddetti reati ostativi o di ostacolo i quali mirano ad agire in chiave preventiva (sia generale che speciale), cercando di impedire (rectius ostacolare) la commissione di determinati crimini, attraverso l’incriminazione di alcune condotte che ne costituiscono antecedente logico e cronologico.

Tale figura, punisce “Chiunque, essendo stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature, dei quali non giustifichi l’attuale destinazione, è punito con l’arresto da sei mesi a due anni”.

Il vero punctum dolens della vicenda è che tali reati arretrano oltremodo la soglia di punibilità da parte del legislatore penale, mirando a colpire delle fattispecie che sembrano appartenere maggiormente ad un desueto ed incostituzionale diritto penale d’autore, in luogo di un più concreto (nonché costituzionalmente armonico) diritto penale del fatto.

Diverse sono le censure mosse al riguardo di queste figure.

Innanzi tutto, si evidenzia come tale reato finisca per contravvenire ad uno dei principi cardine del nostro ordinamento, qual è quello del principio di offensività, dal  momento che la fattispecie in oggetto punisce dei comportamenti che non pervengono nemmeno alla soglia del tentativo, tant’è vero che la sanzione penale retrocede addirittura agli atti preparatori (peraltro eventuali)- per definizione - penalmente irrilevanti!

E’ di tutta evidenza che l’articolo in commento, quindi, punisce soltanto la mera possibilità che un determinato reato venga perpetrato, sanzionando pertanto un comportamento del tutto privo di lesività o di pericolosità, sulla base di un contesto che, dovrebbe (rectius potrebbe) essere espressivo ed indicativo di un crimine in fase preparatoria.

Se questo vale da un punto di vista di diritto sostanziale, il vulnus si accentua sul versante del diritto processuale.

Infatti, il soggetto incriminato per un’ipotesi contravvenzionale di questo genere, per evitare di incorrere nell’irrogazione della sanzione de qua, deve essere lui a dimostrare la propria innocenza, ribaltando clamorosamente la fisiologica prospettiva processuale dell’onus probandi, che, com’è noto, nel processo penale grava sull’accusa.

Naturalmente, tale pesante distorsione processuale è in netto contrasto con uno dei pilastri del nostro ordinamento che è quello scolpito dall’art. 27 comma 2 Cost. il quale sancisce il principio di presunzione di non colpevolezza; oltre ad essere configgente con un altro cardine del nostro sistema ordinamentale espresso dall’art. 24 Cost. che garantisce ad ogni individuo il diritto alla migliore difesa, contemplando anche il diritto al silenzio in ossequio al nemo tenetur se detegere.

Tali fattispecie criminose, quindi, per loro stessa natura (com’è del resto facilmente arguibile) sono state oggetto di diversi interventi giurisprudenziali.

Pertanto, è opportuno soffermarsi soltanto sugli arresti giurisprudenziali maggiormente significativi.

Ex plurimis, la Corte di Cassazione (Sez V 1/7/1999 n.10475), cercando di recuperare dei margini di offensività da ascrivere a tale reato, ha precisato che per la realizzazione dell’elemento oggettivo del reato è necessario che il soggetto sia sorpreso in un contesto di assoluta prossimità con gli oggetti “di sospetto”, che dovranno essere rinvenuti o addosso alla persona o in condizioni di estrema disponibilità, tanto da presumere un utilizzo prossimo.

Tuttavia, l’intervento maggiormente importante sulla questione è stato compiuto dalla Corte Costituzionale  (sentenza del 7/7/2005 n.265) la quale è intervenuta sugli asseriti contrasti, oggetto di censura nell’ordinanza di rimessione, del reato de quo con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza, di presunzione di non colpevolezza, della finalità rieducativa della pena e del diritto di difesa, ma soprattutto con il principio di materialità e di offensività del reato.

La Consulta ha disatteso tutte queste obiezioni, soprattutto rimarcando che il principio di materialità non è violato, dal momento che il possesso di determinati oggetti rappresenta di per sé una condotta materiale di tipo positivo, cosciente e volontaria, che viene incriminata.

Per quanto concerne il principio di offensività si è rimarcato che tale comportamento non è affatto elusivo di tale fondamentale canone ordinamentale, il cui vaglio è demandato al legislatore (nella forma astratta), ed al giudice (nella forma concreta), dal momento che gli elementi costitutivi del reato in oggetto permettono di delineare con sufficiente determinatezza l’oggettività giuridica della norma.

Alla luce di tale ricostruzione, la contravvenzione in esame si estrinsecherebbe in una fattispecie di pericolo astratto.

Tuttavia, la Consulta ritiene che non si possa prescindere dalla valutazione ope iudicis della dimensione concreta dell’offensività.

Ancora - a giudizio del Giudice delle leggi - tale figura criminosa, così ricostruita, non è neppure in contrasto con i principi di non colpevolezza e del diritto al silenzio.

Infatti- così come la Consulta affermerà più nel dettaglio expressis verbis- in tal modo si sposa un filone giurisprudenziale già esistente e prevalente,  per il quale occorre che il possesso degli strumenti de quibus  crei una situazione di effettivo pericolo e quindi, conseguentemente, dovrà essere l’accusa a dimostrare la sussistenza dell’attualità e della concretezza del pericolo e non la difesa a dover fornire la prova della propria innocenza.

Tale assunto, in definitiva, finisce per  recuperare la dimensione fisiologica dell’onus probandi ed a tutelare il diritto al silenzio dell’imputato.

Pretermettendo l’aspetto ermeneutico della figura del concorso di reato - che esula dalla trattazione in questa sede- una figura dogmatica e concettuale che  stimola un’esegesi dottrinale di un certo impegno è quella dell’art 707 c.p., com’è noto istituto giuridico da sempre al centro di aspre controversie dottrinali.

Infatti, tale reato è sussunto nella categoria dei cosiddetti reati ostativi o di ostacolo i quali mirano ad agire in chiave preventiva (sia generale che speciale), cercando di impedire (rectius ostacolare) la commissione di determinati crimini, attraverso l’incriminazione di alcune condotte che ne costituiscono antecedente logico e cronologico.

Tale figura, punisce “Chiunque, essendo stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature, dei quali non giustifichi l’attuale destinazione, è punito con l’arresto da sei mesi a due anni”.

Il vero punctum dolens della vicenda è che tali reati arretrano oltremodo la soglia di punibilità da parte del legislatore penale, mirando a colpire delle fattispecie che sembrano appartenere maggiormente ad un desueto ed incostituzionale diritto penale d’autore, in luogo di un più concreto (nonché costituzionalmente armonico) diritto penale del fatto.

Diverse sono le censure mosse al riguardo di queste figure.

Innanzi tutto, si evidenzia come tale reato finisca per contravvenire ad uno dei principi cardine del nostro ordinamento, qual è quello del principio di offensività, dal  momento che la fattispecie in oggetto punisce dei comportamenti che non pervengono nemmeno alla soglia del tentativo, tant’è vero che la sanzione penale retrocede addirittura agli atti preparatori (peraltro eventuali)- per definizione - penalmente irrilevanti!

E’ di tutta evidenza che l’articolo in commento, quindi, punisce soltanto la mera possibilità che un determinato reato venga perpetrato, sanzionando pertanto un comportamento del tutto privo di lesività o di pericolosità, sulla base di un contesto che, dovrebbe (rectius potrebbe) essere espressivo ed indicativo di un crimine in fase preparatoria.

Se questo vale da un punto di vista di diritto sostanziale, il vulnus si accentua sul versante del diritto processuale.

Infatti, il soggetto incriminato per un’ipotesi contravvenzionale di questo genere, per evitare di incorrere nell’irrogazione della sanzione de qua, deve essere lui a dimostrare la propria innocenza, ribaltando clamorosamente la fisiologica prospettiva processuale dell’onus probandi, che, com’è noto, nel processo penale grava sull’accusa.

Naturalmente, tale pesante distorsione processuale è in netto contrasto con uno dei pilastri del nostro ordinamento che è quello scolpito dall’art. 27 comma 2 Cost. il quale sancisce il principio di presunzione di non colpevolezza; oltre ad essere configgente con un altro cardine del nostro sistema ordinamentale espresso dall’art. 24 Cost. che garantisce ad ogni individuo il diritto alla migliore difesa, contemplando anche il diritto al silenzio in ossequio al nemo tenetur se detegere.

Tali fattispecie criminose, quindi, per loro stessa natura (com’è del resto facilmente arguibile) sono state oggetto di diversi interventi giurisprudenziali.

Pertanto, è opportuno soffermarsi soltanto sugli arresti giurisprudenziali maggiormente significativi.

Ex plurimis, la Corte di Cassazione (Sez V 1/7/1999 n.10475), cercando di recuperare dei margini di offensività da ascrivere a tale reato, ha precisato che per la realizzazione dell’elemento oggettivo del reato è necessario che il soggetto sia sorpreso in un contesto di assoluta prossimità con gli oggetti “di sospetto”, che dovranno essere rinvenuti o addosso alla persona o in condizioni di estrema disponibilità, tanto da presumere un utilizzo prossimo.

Tuttavia, l’intervento maggiormente importante sulla questione è stato compiuto dalla Corte Costituzionale  (sentenza del 7/7/2005 n.265) la quale è intervenuta sugli asseriti contrasti, oggetto di censura nell’ordinanza di rimessione, del reato de quo con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza, di presunzione di non colpevolezza, della finalità rieducativa della pena e del diritto di difesa, ma soprattutto con il principio di materialità e di offensività del reato.

La Consulta ha disatteso tutte queste obiezioni, soprattutto rimarcando che il principio di materialità non è violato, dal momento che il possesso di determinati oggetti rappresenta di per sé una condotta materiale di tipo positivo, cosciente e volontaria, che viene incriminata.

Per quanto concerne il principio di offensività si è rimarcato che tale comportamento non è affatto elusivo di tale fondamentale canone ordinamentale, il cui vaglio è demandato al legislatore (nella forma astratta), ed al giudice (nella forma concreta), dal momento che gli elementi costitutivi del reato in oggetto permettono di delineare con sufficiente determinatezza l’oggettività giuridica della norma.

Alla luce di tale ricostruzione, la contravvenzione in esame si estrinsecherebbe in una fattispecie di pericolo astratto.

Tuttavia, la Consulta ritiene che non si possa prescindere dalla valutazione ope iudicis della dimensione concreta dell’offensività.

Ancora - a giudizio del Giudice delle leggi - tale figura criminosa, così ricostruita, non è neppure in contrasto con i principi di non colpevolezza e del diritto al silenzio.

Infatti- così come la Consulta affermerà più nel dettaglio expressis verbis- in tal modo si sposa un filone giurisprudenziale già esistente e prevalente,  per il quale occorre che il possesso degli strumenti de quibus  crei una situazione di effettivo pericolo e quindi, conseguentemente, dovrà essere l’accusa a dimostrare la sussistenza dell’attualità e della concretezza del pericolo e non la difesa a dover fornire la prova della propria innocenza.

Tale assunto, in definitiva, finisce per  recuperare la dimensione fisiologica dell’onus probandi ed a tutelare il diritto al silenzio dell’imputato.