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La CTP di Lecce applica il principio di non contestazione ex art. 115 cpc

Nella sentenza in commento (Sentenza CTP Lecce n. 389), il contribuente, una società per azioni, a mezzo del sottoscritto difensore, impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Lecce un avviso di recupero del credito d’imposta ex art. 7 della legge n. 388/2000 (cd. credito di imposta per incremento dell’occupazione).

Secondo l’Ufficio, l’indebito utilizzo sarebbe derivato:

1) dal numero dei lavoratori agevolabili, che era inferiore rispetto a quello in base al quale il contribuente aveva commisurato il credito d’imposta;

2) dalla intervenuta decadenza per il periodo 1/10/2000 – 30/09/2001, in quanto, in tale periodo, la società non avrebbe realizzato un incremento della base occupazionale rispetto alla cd. media di riferimento (1/10/1999 – 30/09/2000).

Per quanto concerne il punto 2) dell’avviso di recupero, la società contribuente dimostrava in giudizio come, nel calcolo relativo al periodo 1/10/2000 – 30/09/2001, l’Agenzia delle Entrate non avesse tenuto conto di n. 2 unità lavorative regolarmente iscritte nel libro matricola. Ebbene, sviluppando i calcoli con l’inserimento delle 2 unità citate, si ricavava un valore diverso rispetto a quello ottenuto dall’Ufficio. Così facendo, non si realizzava la decadenza dall’agevolazione sulla base della quale si fondava il recupero impositivo relativamente all’anno 2011.

Per quanto concerne il resto degli anni accertati (2002-2004), ossia il punto 1 di cui supra, il contribuente dimostrava come i lavoratori in relazione ai quali spettava l’agevolazione fossero superiori rispetto a quelli considerati dall’Ufficio. Ne discendeva un ammontare del credito d’imposta superiore rispetto a quello calcolato dall’ente impositore.

Secondo il giudice “si tratta di operazione matematica che non lascia spazio a discrezionalità. Di fatto la ditta ricorrente indica il nome dei lavoratori che l’Agenzia ha omesso di considerare nel novero dei lavoratori agevolabili, e con il deposito del libro matricola, cui fa riferimento, dimostra che il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, non risulta inferiore o pari al numero complessivo dei lavoratori dipendenti mediamente occupati nel periodo 1.10.99 – 30.9.2000”.

Il giudice inoltre osserva: “Su tali eccezioni l’Agenzia nulla osserva. La mancata contestazione delle prove fornite dalla ditta ricorrente trasforma tali circostanze in evento dimostrato”.

In altri termini, di fronte alle articolate prove prodotte in giudizio dalla società, comprensive di tabelle contenenti i calcoli sulla corretta determinazione del credito d’imposta, l’Agenzia delle Entrate non adduceva alcuna eccezione. Secondo la sentenza in commento, tale comportamento processuale dell’Ufficio vale a rendere i fatti addotti dal ricorrente (la spettanza del credito d’imposta) dei fatti provati.

Si tratta di un’applicazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 cpc secondo cui: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”.

Secondo tale norma, dunque, un fatto addotto da una parte e non contestato in maniera specifica dalla controparte è un fatto ormai pacifico, quindi lo stesso non necessita di prova ma deve essere dal giudice posto a base della decisione.

Secondo una visione del processo di natura dispositiva, i fatti allegati da una parte e non contestati dall'altra sono automaticamente espunti dal thema probandum in ossequio ai principi di speditezza, economia processuale, ragionevole durata del processo e autoresponsabilità, letti anche alla luce dei più recenti orientamenti in materia di giusto processo (art. 111, comma 2, Cost. e dall'art. 6 CEDU).

Occorre al riguardo richiamare la stessa circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 17/2010 (par. 2.11) secondo la quale l’art. 115 cpc “impone agli Uffici di contestare punto per punto, nei propri atti difensivi, i fatti enunciati nel ricorso del contribuente, evitando formule generiche”.

Secondo Corte di Cassazione n. 7827 del 31/03/2010 “costituisce, infatti, orientamento ormai affermato (cfr. Cass., 5^, 1540/2007) quello secondo cui "anche al processo tributario - caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità di difesa tecnica e da un sistema di preclusioni, nonchè dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili - è applicabile il principio generale di non contestazione che informa il sistema processuale civile (con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non abbisognevoli di prova i fatti non espressamente contestati), il quale trova fondamento non solo negli artt. 167 e 416 cod. proc. civ., ma anche nel carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena, nella generale organizzazione per preclusioni successive, che caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di lealtà e probità previsto dall'art. 88 cod. proc. civ., il quale impone alle parti di collaborare fin dall'inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa, e nel generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost.".

In accoglimento dell’orientamento del giudice di legittimità, la Commissione tributaria provinciale di Verona n. 123/2011 ha così statuito: “Anche al processo tributario - caratterizzato dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili - è applicabile il principio generale di non contestazione che informa il sistema processuale civile. Per cui la mancata contestazione delle prove fornite dal ricorrente trasforma tali circostanze in eventi dimostrati, sollevando così il diretto interessato da ulteriori oneri al riguardo”.

Nella vicenda di cui alla sentenza in commento occorre evidenziare che vi erano stati diversi rinvii dell’udienza in quanto era stato instaurato il procedimento di conciliazione giudiziale. Detto procedimento, tuttavia, si era trascinato per diverso tempo a causa del comportamento criticabile dell’Ufficio, il quale dapprima aveva mostrato di accettare la proposta conciliativa del contribuente e successivamente l’aveva rigettata senza nessuna motivazione. Non solo nel corso delle udienze processuali, l’Agenzia delle Entrate non aveva replicato alla deduzioni difensive del contribuente ma, nell’ambito del procedimento di conciliazione, aveva rigettato, senza motivazione, la proposta del contribuente.

Per di più i rinvii delle udienze erano stati disposti dal giudice proprio al fine di permettere all’Agenzia delle Entrate di addivenire insieme col contribuente alla corretta determinazione del credito spettante.

Il giudice leccese, dunque, facendo corretto uso del principio di non contestazione ha valutato a favore del contribuente il silenzio dell’Ufficio addivenendo ad una sentenza in linea con i principi di contraddittorio e di economia processuale

Nella sentenza in commento (Sentenza CTP Lecce n. 389), il contribuente, una società per azioni, a mezzo del sottoscritto difensore, impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Lecce un avviso di recupero del credito d’imposta ex art. 7 della legge n. 388/2000 (cd. credito di imposta per incremento dell’occupazione).

Secondo l’Ufficio, l’indebito utilizzo sarebbe derivato:

1) dal numero dei lavoratori agevolabili, che era inferiore rispetto a quello in base al quale il contribuente aveva commisurato il credito d’imposta;

2) dalla intervenuta decadenza per il periodo 1/10/2000 – 30/09/2001, in quanto, in tale periodo, la società non avrebbe realizzato un incremento della base occupazionale rispetto alla cd. media di riferimento (1/10/1999 – 30/09/2000).

Per quanto concerne il punto 2) dell’avviso di recupero, la società contribuente dimostrava in giudizio come, nel calcolo relativo al periodo 1/10/2000 – 30/09/2001, l’Agenzia delle Entrate non avesse tenuto conto di n. 2 unità lavorative regolarmente iscritte nel libro matricola. Ebbene, sviluppando i calcoli con l’inserimento delle 2 unità citate, si ricavava un valore diverso rispetto a quello ottenuto dall’Ufficio. Così facendo, non si realizzava la decadenza dall’agevolazione sulla base della quale si fondava il recupero impositivo relativamente all’anno 2011.

Per quanto concerne il resto degli anni accertati (2002-2004), ossia il punto 1 di cui supra, il contribuente dimostrava come i lavoratori in relazione ai quali spettava l’agevolazione fossero superiori rispetto a quelli considerati dall’Ufficio. Ne discendeva un ammontare del credito d’imposta superiore rispetto a quello calcolato dall’ente impositore.

Secondo il giudice “si tratta di operazione matematica che non lascia spazio a discrezionalità. Di fatto la ditta ricorrente indica il nome dei lavoratori che l’Agenzia ha omesso di considerare nel novero dei lavoratori agevolabili, e con il deposito del libro matricola, cui fa riferimento, dimostra che il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, non risulta inferiore o pari al numero complessivo dei lavoratori dipendenti mediamente occupati nel periodo 1.10.99 – 30.9.2000”.

Il giudice inoltre osserva: “Su tali eccezioni l’Agenzia nulla osserva. La mancata contestazione delle prove fornite dalla ditta ricorrente trasforma tali circostanze in evento dimostrato”.

In altri termini, di fronte alle articolate prove prodotte in giudizio dalla società, comprensive di tabelle contenenti i calcoli sulla corretta determinazione del credito d’imposta, l’Agenzia delle Entrate non adduceva alcuna eccezione. Secondo la sentenza in commento, tale comportamento processuale dell’Ufficio vale a rendere i fatti addotti dal ricorrente (la spettanza del credito d’imposta) dei fatti provati.

Si tratta di un’applicazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 cpc secondo cui: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”.

Secondo tale norma, dunque, un fatto addotto da una parte e non contestato in maniera specifica dalla controparte è un fatto ormai pacifico, quindi lo stesso non necessita di prova ma deve essere dal giudice posto a base della decisione.

Secondo una visione del processo di natura dispositiva, i fatti allegati da una parte e non contestati dall'altra sono automaticamente espunti dal thema probandum in ossequio ai principi di speditezza, economia processuale, ragionevole durata del processo e autoresponsabilità, letti anche alla luce dei più recenti orientamenti in materia di giusto processo (art. 111, comma 2, Cost. e dall'art. 6 CEDU).

Occorre al riguardo richiamare la stessa circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 17/2010 (par. 2.11) secondo la quale l’art. 115 cpc “impone agli Uffici di contestare punto per punto, nei propri atti difensivi, i fatti enunciati nel ricorso del contribuente, evitando formule generiche”.

Secondo Corte di Cassazione n. 7827 del 31/03/2010 “costituisce, infatti, orientamento ormai affermato (cfr. Cass., 5^, 1540/2007) quello secondo cui "anche al processo tributario - caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità di difesa tecnica e da un sistema di preclusioni, nonchè dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili - è applicabile il principio generale di non contestazione che informa il sistema processuale civile (con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non abbisognevoli di prova i fatti non espressamente contestati), il quale trova fondamento non solo negli artt. 167 e 416 cod. proc. civ., ma anche nel carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena, nella generale organizzazione per preclusioni successive, che caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di lealtà e probità previsto dall'art. 88 cod. proc. civ., il quale impone alle parti di collaborare fin dall'inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa, e nel generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost.".

In accoglimento dell’orientamento del giudice di legittimità, la Commissione tributaria provinciale di Verona n. 123/2011 ha così statuito: “Anche al processo tributario - caratterizzato dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili - è applicabile il principio generale di non contestazione che informa il sistema processuale civile. Per cui la mancata contestazione delle prove fornite dal ricorrente trasforma tali circostanze in eventi dimostrati, sollevando così il diretto interessato da ulteriori oneri al riguardo”.

Nella vicenda di cui alla sentenza in commento occorre evidenziare che vi erano stati diversi rinvii dell’udienza in quanto era stato instaurato il procedimento di conciliazione giudiziale. Detto procedimento, tuttavia, si era trascinato per diverso tempo a causa del comportamento criticabile dell’Ufficio, il quale dapprima aveva mostrato di accettare la proposta conciliativa del contribuente e successivamente l’aveva rigettata senza nessuna motivazione. Non solo nel corso delle udienze processuali, l’Agenzia delle Entrate non aveva replicato alla deduzioni difensive del contribuente ma, nell’ambito del procedimento di conciliazione, aveva rigettato, senza motivazione, la proposta del contribuente.

Per di più i rinvii delle udienze erano stati disposti dal giudice proprio al fine di permettere all’Agenzia delle Entrate di addivenire insieme col contribuente alla corretta determinazione del credito spettante.

Il giudice leccese, dunque, facendo corretto uso del principio di non contestazione ha valutato a favore del contribuente il silenzio dell’Ufficio addivenendo ad una sentenza in linea con i principi di contraddittorio e di economia processuale