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Spunti in tema di responsabilità per danno da disastro, in particolare nei trasporti aerei e marittimi

Premessa

Per quel che riguarda la tematica dei disastri, in particolare nei trasporti aerei e marittimi, essendo il diritto della navigazione e dei trasporti materia specialistica, si ritiene che la stessa andrebbe affrontata - dal punto di vista strettamente giuridico c- on le giuste competenze e nelle sedi più opportune. Tuttavia, i recenti fatti del Giglio e quelli recentissimi del porto di Genova, nonché le memorie legate ai disastri di Linate ed Ustica, hanno lasciato nella comunità e nel cittadini dubbi e questioni irrisolte.

È a questi interrogativi che questo saggio tenterà di rispondere, in una chiave semplicistica e schematica, senza voler ricostruire i fatti o tornare su argomenti ormai ampiamente e correttamente trattati. La Convenzione di Varsavia del 1929 regola il trasporto aereo internazionale e per prima pone una responsabilità per colpa presunta in capo al vettore, con la previsione di relative obbligazioni risarcitorie, per quanto minime. A livello di diritto interno, che si ispira in ogni modo alla Convenzione di Varsavia del 1929, in Italia nel 1933 viene emanato il r.d.l. n. 1733 e nel 1942 il codice della navigazione, novellato nel 2005 con D.lgs. n. 96 e nel 2006 con D. lgs. n. 151.

Nell’arco di alcuni decenni la Convenzione di Varsavia viene poi emendata da protocolli ed accordi aggiuntivi, che hanno concorso a costituire il c.d. sistema di Varsavia, primo blocco di norme fino alla stesura della Convenzione di Montreal del 1999, tramite la quale si è assistiti ad un’evoluzione del concetto di colpa del vettore e della prova che si deve fornire per superare il limite di responsabilità. Rilevano infine la disciplina penalistica (di cui all’art. 434 cod. pen.), quella civilistica in tema di responsabilità, quella di settore (di cui al Codice della Navigazione).

Nozione di disastro

La possibilità di una definizione unitaria di disastro appare fortemente condizionata dalla ricerca di un difficile equilibrio tra contenuti naturalistici e fenomenici, criteri normativi e forme positive: lo stesso percorso giurisprudenziale in materia si è sviluppato: - nell'elaborazione di una nozione di disastro funzionale agli obiettivi propri dell'ordinamento penale; - nell'attribuzione causale di un macroevento; - nella costruzione di un efficace sistema di regole cautelari; - ed, infine, nel giudizio di prevedibilità del disastro.

All'interno del Titolo VI del cod. pen. la maggior parte delle ipotesi delittuose è strutturata nelle forme delle c.d. fattispecie causalmente orientate e ciò sembra dimostrare che il legislatore abbia ritenuto che l'obiettivo ultimo di protezione integrale di un bene giuridico complesso come la pubblica incolumità, possa realizzarsi meglio attraverso una tecnica redazionale concentrata più sulla descrizione dell'evento lesivo, che non sulla selezione delle singole condotte causative. Lo stesso art. 434 cod. pen. prevede ipotesi di reato sussidiarie che si applicano al di fuori dei casi previsti dagli artt. che lo precedono.

Tale genericità circa il c.d. disastro innominato consente di colmare le lacune della stessa norma (si parla anche di consunzione non solo di sussidiarietà infatti). L'interpretazione del concetto di disastro, tuttavia, non è facile sebbene intuitiva. Sia in dottrina che in giurisprudenza viene recepita l'alternativa (in funzione meramente descrittiva) tra disastri nominati e disastri innominati. Mentre i primi sarebbero adeguatamente qualificati dal legislatore attraverso il riferimento alla fonte od al mezzo del pericolo comune (es. fuoco - incendio, acqua - inondazione), ovvero al contesto fenomenico in cui questo si origina (es. disastro ferroviario o aviatorio), i secondi si distinguerebbero solamente per una necessaria diversità ed alterità rispetto alle ipotesi tipiche, risultando sicché ricondotti all'interno di fattispecie inevitabilmente segnate da una maggior residualità ed indeterminatezza.

Tuttavia, non avendo il legislatore compiutamente determinato né l'evento intermedio, né gli ulteriori eventi di pericolo o di danno che, rispettivamente, perfezionano il delitto ovvero lo aggravano, la configurazione del reato sembrerebbe completamente rimessa all'arbitrio ed alla discrezionalità del destinatario stesso del precetto penale. Ma la Corte Costituzionale ha ritenuto infondati i suddetti dubbi: sulla base di "un criterio interpretativo la cui validità appare di immediata evidenza, allorché il legislatore - nel descrivere una certa fattispecie criminosa - fa seguire alla elencazione di una serie di casi specifici una formula di chiusura recante un concetto di genere qualificato dall'aggettivo "altro", deve presumersi che il senso di detto concetto (…) sia destinato a ricevere luce dalle species preliminarmente enumerate, le cui connotazioni di fondo debbono potersi rinvenire anche come tratti distintivi del genus".

I secondi costituiscono un accadimento, sicuramente diverso, ma comunque omogeneo rispetto agli eventi tipizzati all'interno del Capo I. Attraverso un procedimento logico di tipo induttivo sarebbe infatti possibile "delineare una nozione unitaria di "disastro", i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo.

Da un alto, sul piano dimensionale, deve trattarsi un evento distruttivo di proporzioni straordinarie (macroevento) atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi in un arco di tempo breve o prolungato.

Dall'altro lato, sul piano dell’offensività, l'evento deve provocare, in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (bene tutelato ricordiamo essere la pubblica incolumità), un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti".

All'interno della giurisprudenza sui cd. disastri tipici si e' formata una precisa distinzione tra due diverse "forme" di causalità:

1) "immediata", la quale, scaturendo direttamente dall'impiego delle leggi scientifiche in funzione di copertura, si caratterizza per una capacità esplicativa di tale "istantaneità" e facilità di comprensione da far pensare che nemmeno esista un effettivo problema causale;

2) "mediata", quasi come se della sua esistenza ci si potesse accorgere soltanto dopo un'attenta riflessione sulle insufficienze eventualmente mostrate della prima. La disponibilità di leggi scientifiche di copertura, nonché di modelli esplicativi di tipo matematico, consente così alle Corti di assumere il decorso reale di ciascun evento storicamente verificatosi - o, quanto meno, la sua parte più consistente, relativa alla c.d. causalità materiale.

Il risultato di tale approccio e' che l'interprete dovrà fare a meno di un paradigma esplicativo unitario cui ricondurre gli accertamenti causali delle varie species disastrose di volta in volta considerate. Tutto questo comporta che ciascun filone giurisprudenziale sia costretto ad elaborare un proprio ed esclusivo modus agendi, attraverso il quale tentare di ovviare agli inevitabili limiti conoscitivi dell'interprete e di creare comunque un collegamento tra la spiegazione astratta (certa, perché fisica) del disastro e l'immane concretezza della singola vicenda storica.

In passato le Corti erano ricorse allo schema "altro disastro" per inquadrare episodi particolarmente gravi di incidenti automobilistici . Attualmente, invece, si può notare come all'interno dell'art. 434 cod. pen. vengano sempre più spesso ricondotte anche le ipotesi di c.d. disastro ambientale (soprattutto casi di smaltimento illecito di rifiuti e fenomeni di inquinamento atmosferico).

Si tratta di una tendenza che può trovare una compiuta spiegazione, non solo nella moltiplicazione dei fattori di rischio cui inevitabilmente il progresso scientifico-tecnologico si accompagna, ma anche nel fatto che "la critica in merito alla genericità che contraddistingue la connotazione di disastro innominato (…) si è trasformata oggi in constatazione di opportunità, in relazione alla necessità di punire fatti criminosi che si manifestano nella quotidiana esperienza industriale (…)".

La giurisprudenza si dimostra pertanto omogenea ed univoca nel riconoscere i tratti del disastro ambientale in qualsiasi "evento che colpisca collettivamente - con effetti eccezionalmente gravi, o complessi ed estesi - cose o persone, ingenerando pubblica apprensione".

Al contempo, risulta costante anche l'affermazione per cui tale evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità non dovrebbe essere inteso nel senso "di eccezionalmente immane, essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone e che l'eccezionalità della dimensione dell'evento abbia destato un senso di allarme".

Responsabilità

Per quanto concerne la responsabilità del vettore essa è configurabile come una responsabilità contrattuale nascente dall’inadempimento delle obbligazioni che derivano dal contratto di trasporto. Le obbligazioni del vettore sono di doppia natura: la prima è di operare il trasferimento concordato, la seconda di vigilare sulla sicurezza del passeggero – c.d. obbligo di protezione.

Tali obblighi si concentrano nell’obbligazione di trasferire incolume il passeggero dal luogo di partenza a quello di destinazione. A questa responsabilità la dottrina e la giurisprudenza affiancano quella di natura extracontrattuale “da atto illecito” prevista dall’art. 2043 cod. civ.: essendo il trasporto aereo ritenuto un’attività pericolosa, l’azione extracontrattuale per danni potrebbe essere intentata anche sulla base dell’art. 2050 cod. civ., a norma del quale “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi operati, è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.

Secondo questa disposizione, in presenza di un’attività pericolosa, per sua natura o per i mezzi adoperati, dei danni da questa cagionati risponde colui che svolge tale attività, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Al di là della formulazione non proprio felice della disposizione, l’art. 2050 cod. civ. vede all’opera un criterio di imputazione diverso da quello fondato sulla colpa, nel caso di specie da quello fondato sulla violazione addirittura del più altro grado di diligenza ed aggravato dall’inversione dell’onere della prova.

Infatti, per i danni cagionati nello svolgimento di attività qualificata come pericolosa, la responsabilità non si evita semplicemente provando di aver tenuto una condotta conforme ad un parametro seppur molto rigoroso di diligenza. E’ indispensabile fornire la prova di aver organizzato tale attività ponendo in campo mezzi ed energie i più avanzati tecnologicamente ed oggettivamente idonei ad evitare il prodursi dei danni, senza che rilevi la loro diseconomicità, dovuta ai relativi costi, rispetto all’attività pericolosa in concreto esercitata.

A ben vedere, quindi, la disciplina voluta dal legislatore del 1942 ha il peculiare significato di sottrarre alla regola generale dell’art. 2043 cod. civ. il fenomeno delle attività pericolose. La norma dell’art. 2050 cod. civ. riguarda attività che sono destinate a generare danni con un grado di probabilità particolarmente alto, o come accade nel caso dei sinistri aeronautici con una magnitudo di dannosità elevata, o in quelli marittimi dove il controllo delle operazioni nello spazio marittimo presenta comunque dei limiti tecnici ed umani, ma che non possono che venire considerate lecite, in virtù della loro utilità sociale.

La Cassazione ha dato risposta positiva al quesito circa la sussistenza del la responsabilità dello Stato italiano per il disastro, ad esempio, di Ustica , per non aver garantito la sicurezza dei voli da eventi come il lancio di un missile che ha colpito un aereo di linea che viaggiava sulla rotta prescritta. Per le riflessioni sul processo si rimanda ai lavori dei colleghi pubblicati in questo stesso numero.

La stessa Cassazione precisa che in tema di responsabilità civile, l'omissione di una condotta rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l'esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell'evento. Una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell'obbligo di osservare la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l'evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, non rileva, ai fini dell'esonero dalla responsabilità; che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo.

Pertanto, e' sufficiente a giustificare l'imputazione di responsabilità il fatto che il disastro di Ustica rientrasse negli eventi che la norma cautelare mirava ad evitare. Le stesse Corti si trovano in realtà a doversi confrontare con contestazioni di c.d. colpa generica, in ordine alle quali non possono che limitarsi ad esprimere (ex post) un giudizio sulla ragionevolezza delle scelte di un pilota, come di uno sciatore, come di un comandante di nave, di qualsiasi soggetto qualificato al quale è affidata in prima persona la responsabilità del rispetto delle procedure.

All'interno della giurisprudenza, si rinvengono anche alcune ipotesi di rimprovero a titolo di c.d. colpa specifica, (sub specie es. mancata e/o inadeguata redazione del documento di valutazione del rischio-incendio ); di violazione dei doveri di protezione civile in occasione di calamità naturali ed infine di violazione delle disposizioni attuative delle direttive comunitarie (es. sulla gestione dei c.d. rifiuti pericolosi). E’ tuttavia evidente come in questo campo un approccio meramente fisico-naturalistico risulti insufficiente. Per questo è opportuno spendere qualche considerazione a seguire sulla causalità.

Causalità

I moderni sistemi di produzione industriale ed i vari settori in cui si articola il trasporto per terra, aria e mare, si caratterizzano infatti per una notevole complessità, intrinseca tanto alle attività medesime (pericolose, ma autorizzate dall'ordinamento perché socialmente utili), quanto ai contesti in cui queste si svolgono.

Una complessità che non può essere compresa a pieno, se non attraverso il ricorso allo schema esplicativo della interazione tra fattori antecedenti (antropici e non): dunque, come la stessa giurisprudenza giustamente riconosce, nessun disastro c.d. tecnologico può essere ragionevolmente riferito ad un unico fattore condizionante.

In particolare, i profili che sembrano essere maggiormente problematici per il penalista sono: la divisione del lavoro, la decentralizzazione dei processi di azione e di decisione e l'inevitabile ricorso a strutture esterne all'impresa per lo svolgimento in sicurezza di attività intrinsecamente pericolose.

Un'impostazione meramente fisico-naturalistica, si è visto come si riveli limitata, in quanto finisce per restituire una spiegazione dell'accaduto quanto meno parziale, focalizzando le attenzioni soltanto sugli ultimi "fotogrammi" della sequenza causale, e quindi esasperando le responsabilità dei soggetti già di per sé più esposti allo stigma della condotta criminale: operatori, macchinisti, comandanti e piloti. Occorre uno sforzo di approfondimento che faccia emergere quella causalità che è "mediata" proprio perché frutto di una rimeditazione delle spiegazioni eziologiche offerte dalla causalità "immediatamente scientifica".

Elemento psicologico

Il dolo nei disastri è generico, ma c’è chi ritiene che il verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità sia condizione obiettiva di punibilità e quindi non vi rientra il dolo. Altri ritengono il pericolo per la pubblica incolumità un evento essenziale qal fatto, causalmente legato alla condotta e quidi come tale rientrante nel dolo (Fiandaca-Musco).

La colpa non vive solo della sua dimensione normativa: l'oggettiva violazione della regola cautelare, infatti, di per sé non basta ad integrare l'elemento soggettivo del reato, essendo necessaria anche la prevedibilità (ex ante) dell'evento, profilo che, in generale, sembra trovare poco spazio all'interno della giurisprudenza in materia: si pensi al significativo filone giurisprudenziale relativo alle contestazioni di omicidio colposo per mancato impedimento dei decessi conseguenti al disastro naturale. Al riguardo possono distinguersi due orientamenti.

Da una parte quello secondo cui lo svolgimento del decorso reale del disastro - nei limiti in cui il giudice può ricostruirlo sulla base delle leggi scientifiche - costituisce esso stesso oggetto del giudizio di prevedibilità e rappresenta elemento necessario di individualizzazione dell'evento nuovamente descritto; dall'altra, invece, quello per il quale risulterebbe decisiva, ai fini del giudizio di colpa, soltanto una "generale, riconoscibile e riconosciuta situazione di pericolo incombente".

All'interno di un orizzonte in cui - come visto - le leggi di copertura disponibili sono universali, infatti, anche il contenuto delle regole preventive e la loro astratta efficacia impeditiva, risultano certi ed immediati, almeno tendenzialmente. Una miglior capacità di regolamentazione delle attività pericolose deve essere riposta in un necessario sforzo di definizione ed aggiornamento continuo della normativa positiva di natura cautelare, dal momento che questa rischia di rimanere nuovamente condizionata dalla riduttività di una ricostruzione-spiegazione di tipo meramente fisico-naturalistica, oppure di degenerare in una produzione inutile e dannosa.

Soggetti

In questa disciplina emergono due prospettive relative a due tipologie di soggetti coinvolti: il debitore e il creditore. Il debitore è ravvisabile tanto nel vettore contrattuale quanto nel c.d. vettore di fatto o actual carrier. Il vettore di fatto è il soggetto che esegue il trasporto, in virtù di un rapporto con il vettore contrattuale, pur non avendo stipulato direttamente il contratto di trasporto di persone o di cose con il passeggero.

Oltre a queste due figure in solido con esse rispondono i loro ausiliari, dipendenti e preposti quando il loro comportamento sia riferibile al danno. Tale principio nel nostro ordinamento è disciplinato in materia contrattuale dall’art. 1228 c.c. e in materia extracontrattuale dall’art. 2049 cod. civ. Oltre a questi soggetti altri soggetti possono dover rispondere del danno a titolo contrattuale o extracontrattuale: esempio è quello dei tour operator, i quali, nei cosiddetti viaggi “tutto compreso”, rispondono di ogni danno subito dal cliente, anche se imputabile al fornitore di uno dei servizi previsti dal pacchetto turistico.

Nessuna normativa prevede esplicitamente la canalizzazione del rischio su un soggetto specifico, anche se la responsabilità del vettore, dei suoi dipendenti e dei suoi preposti, non esclude quella di altri soggetti, sia essa a titolo contrattuale o a titolo extracontrattuale. Il creditore invece - soggetto danneggiato è, prima di tutto, il passeggero se sopravvissuto all’incidente; nel caso in cui il passeggero muoia il diritto al risarcimento dei danni, occorsi allo stesso, già entrato nel suo patrimonio, si trasferisce ai suoi eredi, iure hereditatis.

Altri soggetti danneggiati possono essere coloro che hanno subito un danno in conseguenza dell’incidente che ha colpito il passeggero nella loro sfera soggettiva patrimoniale e non. Essi sono soggetti cosiddetti danneggiati iure proprio che, in tale qualità, diversa da quella di eredi, sono titolari dell’obbligazione risarcitoria verso il vettore e altri soggetti responsabili. Talvolta i soggetti danneggiati iure proprio coincidono con gli eredi del passeggero.

Queste due qualità si cumulano nei prossimi congiunti del passeggero deceduto aventi la qualità di eredi. Tali due qualità non si cumulano, e restano distinte, nei soggetti che vantano un diritto risarcitorio iure proprio, ma non sono eredi del defunto, o negli eredi che non vantano diritti iure proprio. Mentre l’obbligazione risarcitoria nei confronti del passeggero e dei suoi eredi trova la propria fonte sia nella responsabilità contrattuale che in quella extracontrattuale, l’obbligazione risarcitoria nei confronti dei soggetti danneggiati iure proprio è solo di natura extracontrattuale, per la lesione di una situazione soggettiva tutelata dall’ordinamento.

Competenza territoriale

Nelle controversie internazionali, aventi per oggetto la responsabilità civile dei vettori aerei, i criteri funzionali all'individuazione della giurisdizione sono oggi sanciti dall'art. 33 ("Jurisdiction") della "Convenzione per l'unificazione di alcune regole relative al trasporto aereo internazionale", firmata a Montreal il 28 maggio 1999.

La Convenzione di Montreal individua, ponendo la scelta in capo all'attore, diversi fori tra loro alternativi, tra i quali in primis, come già la Convenzione di Varsavia, il luogo in cui è stato stipulato il contratto di trasporto (generalmente lo Stato di partenza del volo) ed il luogo in cui è da individuarsi la destinazione finale.

Rispetto alla Convenzione di Varsavia, tuttavia, per i casi di lesioni e di decessi l'art. 33, al comma 2, prevede altresì un aggancio diretto al luogo di residenza del passeggero, novità che in tutta evidenza si pone nella direzione di favorire il consumatore. Singolarmente, però, non è previsto, quale criterio di collegamento alternativo, il riferimento al luogo in cui si è verificato il sinistro.

La nostra Cassazione non ha ancora avuto occasione di occuparsi dell'interpretazione e dell'applicazione di questa disposizione. Tuttavia, stante le analogie correnti tra l'art. 33 della Convenzione di Montreal e l'art. 28 della Convenzione di Varsavia, possono venire in rilievo i precedenti che si sono interessati di quest'ultima disposizione.

Per quanto concerne l'individuazione della giurisdizione poi nel caso di sinistri verificatisi in Europa si prospetta un problema di coordinamento tra, da un lato, l'art. 33 della Convenzione di Montreal (recepito dal Regolamento CE n. 889/2002, oltre che ratificato dalla stessa Unione Europea e dagli Stati membri della comunità) e, dall'altro lato, il Regolamento CE n. 44/2001, soprattutto sul versante dell'art. 5, comma 3, di quest'ultimo provvedimento, che, nei casi di responsabilità civile, individua, quale criterio di collegamento alternativo, il luogo in cui si è verificato l'evento dannoso: in particolare, la questione è se si possa fare riferimento all'art. 5, comma 3, del Regolamento CE n. 889/2002, oppure il ricorso a quest'ultima disposizione sia preclusa dall'art. 33 della Convenzione.

In punto competenza territoriale occorre domandarsi se i criteri di collegamento previsti dall'art. 33 della Convenzione di Montreal possano in qualche modo rilevare anche ai fini della determinazione del giudice territorialmente competente in seno allo Stato dotato di giurisdizione. In realtà la Cassazione ha avuto occasione di occuparsi di una problematica simile, se non analoga, con riferimento all'art. 28 della Convenzione di Varsavia, concludendo che i fori alternativi richiamati da questo articolo, ai fini dell'esercizio dell'azione di responsabilità in materia di trasporto aereo internazionale, integrano soltanto criteri di collegamento giurisdizionale, ma non attengono all'individuazione della competenza territoriale interna, assoggettata al regime previsto dall'ordinamento giuridico in cui l'attore decide di intraprendere il giudizio.

Tale impostazione ad oggi non è ancora sicura e pacifica, seppur autorevolmente affermata. Va infine ricordato che l'art. 1040 cod. nav. ("Spostamento di competenza per ragione di connessione") prevede quanto segue: "Se sono proposte contro il vettore, l'esercente o l'assicuratore avanti giudici diversi più cause dipendenti dallo stesso contratto di trasporto, ovvero dallo stesso fatto di assistenza o, infine, dallo stesso urto di aeromobili ovvero dallo stesso evento produttivo di danni a terzi sulla superficie, il giudice fissa con sentenza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa avanti il giudice adito, nella circoscrizione del quale è il foro generale del convenuto, o, in difetto, avanti quello per primo adito.

Si applica il secondo comma dell'articolo 40 del codice di procedura civile ". Ciò significa che lo spostamento, infatti, può essere disposto solo laddove non sia pregiudicato il diritto alla difesa e ad un equo processo ravvisabile in capo agli attori od ai convenuti, parti del giudizio da spostare in altro foro.

Premessa

Per quel che riguarda la tematica dei disastri, in particolare nei trasporti aerei e marittimi, essendo il diritto della navigazione e dei trasporti materia specialistica, si ritiene che la stessa andrebbe affrontata - dal punto di vista strettamente giuridico c- on le giuste competenze e nelle sedi più opportune. Tuttavia, i recenti fatti del Giglio e quelli recentissimi del porto di Genova, nonché le memorie legate ai disastri di Linate ed Ustica, hanno lasciato nella comunità e nel cittadini dubbi e questioni irrisolte.

È a questi interrogativi che questo saggio tenterà di rispondere, in una chiave semplicistica e schematica, senza voler ricostruire i fatti o tornare su argomenti ormai ampiamente e correttamente trattati. La Convenzione di Varsavia del 1929 regola il trasporto aereo internazionale e per prima pone una responsabilità per colpa presunta in capo al vettore, con la previsione di relative obbligazioni risarcitorie, per quanto minime. A livello di diritto interno, che si ispira in ogni modo alla Convenzione di Varsavia del 1929, in Italia nel 1933 viene emanato il r.d.l. n. 1733 e nel 1942 il codice della navigazione, novellato nel 2005 con D.lgs. n. 96 e nel 2006 con D. lgs. n. 151.

Nell’arco di alcuni decenni la Convenzione di Varsavia viene poi emendata da protocolli ed accordi aggiuntivi, che hanno concorso a costituire il c.d. sistema di Varsavia, primo blocco di norme fino alla stesura della Convenzione di Montreal del 1999, tramite la quale si è assistiti ad un’evoluzione del concetto di colpa del vettore e della prova che si deve fornire per superare il limite di responsabilità. Rilevano infine la disciplina penalistica (di cui all’art. 434 cod. pen.), quella civilistica in tema di responsabilità, quella di settore (di cui al Codice della Navigazione).

Nozione di disastro

La possibilità di una definizione unitaria di disastro appare fortemente condizionata dalla ricerca di un difficile equilibrio tra contenuti naturalistici e fenomenici, criteri normativi e forme positive: lo stesso percorso giurisprudenziale in materia si è sviluppato: - nell'elaborazione di una nozione di disastro funzionale agli obiettivi propri dell'ordinamento penale; - nell'attribuzione causale di un macroevento; - nella costruzione di un efficace sistema di regole cautelari; - ed, infine, nel giudizio di prevedibilità del disastro.

All'interno del Titolo VI del cod. pen. la maggior parte delle ipotesi delittuose è strutturata nelle forme delle c.d. fattispecie causalmente orientate e ciò sembra dimostrare che il legislatore abbia ritenuto che l'obiettivo ultimo di protezione integrale di un bene giuridico complesso come la pubblica incolumità, possa realizzarsi meglio attraverso una tecnica redazionale concentrata più sulla descrizione dell'evento lesivo, che non sulla selezione delle singole condotte causative. Lo stesso art. 434 cod. pen. prevede ipotesi di reato sussidiarie che si applicano al di fuori dei casi previsti dagli artt. che lo precedono.

Tale genericità circa il c.d. disastro innominato consente di colmare le lacune della stessa norma (si parla anche di consunzione non solo di sussidiarietà infatti). L'interpretazione del concetto di disastro, tuttavia, non è facile sebbene intuitiva. Sia in dottrina che in giurisprudenza viene recepita l'alternativa (in funzione meramente descrittiva) tra disastri nominati e disastri innominati. Mentre i primi sarebbero adeguatamente qualificati dal legislatore attraverso il riferimento alla fonte od al mezzo del pericolo comune (es. fuoco - incendio, acqua - inondazione), ovvero al contesto fenomenico in cui questo si origina (es. disastro ferroviario o aviatorio), i secondi si distinguerebbero solamente per una necessaria diversità ed alterità rispetto alle ipotesi tipiche, risultando sicché ricondotti all'interno di fattispecie inevitabilmente segnate da una maggior residualità ed indeterminatezza.

Tuttavia, non avendo il legislatore compiutamente determinato né l'evento intermedio, né gli ulteriori eventi di pericolo o di danno che, rispettivamente, perfezionano il delitto ovvero lo aggravano, la configurazione del reato sembrerebbe completamente rimessa all'arbitrio ed alla discrezionalità del destinatario stesso del precetto penale. Ma la Corte Costituzionale ha ritenuto infondati i suddetti dubbi: sulla base di "un criterio interpretativo la cui validità appare di immediata evidenza, allorché il legislatore - nel descrivere una certa fattispecie criminosa - fa seguire alla elencazione di una serie di casi specifici una formula di chiusura recante un concetto di genere qualificato dall'aggettivo "altro", deve presumersi che il senso di detto concetto (…) sia destinato a ricevere luce dalle species preliminarmente enumerate, le cui connotazioni di fondo debbono potersi rinvenire anche come tratti distintivi del genus".

I secondi costituiscono un accadimento, sicuramente diverso, ma comunque omogeneo rispetto agli eventi tipizzati all'interno del Capo I. Attraverso un procedimento logico di tipo induttivo sarebbe infatti possibile "delineare una nozione unitaria di "disastro", i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo.

Da un alto, sul piano dimensionale, deve trattarsi un evento distruttivo di proporzioni straordinarie (macroevento) atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi in un arco di tempo breve o prolungato.

Dall'altro lato, sul piano dell’offensività, l'evento deve provocare, in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (bene tutelato ricordiamo essere la pubblica incolumità), un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti".

All'interno della giurisprudenza sui cd. disastri tipici si e' formata una precisa distinzione tra due diverse "forme" di causalità:

1) "immediata", la quale, scaturendo direttamente dall'impiego delle leggi scientifiche in funzione di copertura, si caratterizza per una capacità esplicativa di tale "istantaneità" e facilità di comprensione da far pensare che nemmeno esista un effettivo problema causale;

2) "mediata", quasi come se della sua esistenza ci si potesse accorgere soltanto dopo un'attenta riflessione sulle insufficienze eventualmente mostrate della prima. La disponibilità di leggi scientifiche di copertura, nonché di modelli esplicativi di tipo matematico, consente così alle Corti di assumere il decorso reale di ciascun evento storicamente verificatosi - o, quanto meno, la sua parte più consistente, relativa alla c.d. causalità materiale.

Il risultato di tale approccio e' che l'interprete dovrà fare a meno di un paradigma esplicativo unitario cui ricondurre gli accertamenti causali delle varie species disastrose di volta in volta considerate. Tutto questo comporta che ciascun filone giurisprudenziale sia costretto ad elaborare un proprio ed esclusivo modus agendi, attraverso il quale tentare di ovviare agli inevitabili limiti conoscitivi dell'interprete e di creare comunque un collegamento tra la spiegazione astratta (certa, perché fisica) del disastro e l'immane concretezza della singola vicenda storica.

In passato le Corti erano ricorse allo schema "altro disastro" per inquadrare episodi particolarmente gravi di incidenti automobilistici . Attualmente, invece, si può notare come all'interno dell'art. 434 cod. pen. vengano sempre più spesso ricondotte anche le ipotesi di c.d. disastro ambientale (soprattutto casi di smaltimento illecito di rifiuti e fenomeni di inquinamento atmosferico).

Si tratta di una tendenza che può trovare una compiuta spiegazione, non solo nella moltiplicazione dei fattori di rischio cui inevitabilmente il progresso scientifico-tecnologico si accompagna, ma anche nel fatto che "la critica in merito alla genericità che contraddistingue la connotazione di disastro innominato (…) si è trasformata oggi in constatazione di opportunità, in relazione alla necessità di punire fatti criminosi che si manifestano nella quotidiana esperienza industriale (…)".

La giurisprudenza si dimostra pertanto omogenea ed univoca nel riconoscere i tratti del disastro ambientale in qualsiasi "evento che colpisca collettivamente - con effetti eccezionalmente gravi, o complessi ed estesi - cose o persone, ingenerando pubblica apprensione".

Al contempo, risulta costante anche l'affermazione per cui tale evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità non dovrebbe essere inteso nel senso "di eccezionalmente immane, essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone e che l'eccezionalità della dimensione dell'evento abbia destato un senso di allarme".

Responsabilità

Per quanto concerne la responsabilità del vettore essa è configurabile come una responsabilità contrattuale nascente dall’inadempimento delle obbligazioni che derivano dal contratto di trasporto. Le obbligazioni del vettore sono di doppia natura: la prima è di operare il trasferimento concordato, la seconda di vigilare sulla sicurezza del passeggero – c.d. obbligo di protezione.

Tali obblighi si concentrano nell’obbligazione di trasferire incolume il passeggero dal luogo di partenza a quello di destinazione. A questa responsabilità la dottrina e la giurisprudenza affiancano quella di natura extracontrattuale “da atto illecito” prevista dall’art. 2043 cod. civ.: essendo il trasporto aereo ritenuto un’attività pericolosa, l’azione extracontrattuale per danni potrebbe essere intentata anche sulla base dell’art. 2050 cod. civ., a norma del quale “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi operati, è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.

Secondo questa disposizione, in presenza di un’attività pericolosa, per sua natura o per i mezzi adoperati, dei danni da questa cagionati risponde colui che svolge tale attività, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Al di là della formulazione non proprio felice della disposizione, l’art. 2050 cod. civ. vede all’opera un criterio di imputazione diverso da quello fondato sulla colpa, nel caso di specie da quello fondato sulla violazione addirittura del più altro grado di diligenza ed aggravato dall’inversione dell’onere della prova.

Infatti, per i danni cagionati nello svolgimento di attività qualificata come pericolosa, la responsabilità non si evita semplicemente provando di aver tenuto una condotta conforme ad un parametro seppur molto rigoroso di diligenza. E’ indispensabile fornire la prova di aver organizzato tale attività ponendo in campo mezzi ed energie i più avanzati tecnologicamente ed oggettivamente idonei ad evitare il prodursi dei danni, senza che rilevi la loro diseconomicità, dovuta ai relativi costi, rispetto all’attività pericolosa in concreto esercitata.

A ben vedere, quindi, la disciplina voluta dal legislatore del 1942 ha il peculiare significato di sottrarre alla regola generale dell’art. 2043 cod. civ. il fenomeno delle attività pericolose. La norma dell’art. 2050 cod. civ. riguarda attività che sono destinate a generare danni con un grado di probabilità particolarmente alto, o come accade nel caso dei sinistri aeronautici con una magnitudo di dannosità elevata, o in quelli marittimi dove il controllo delle operazioni nello spazio marittimo presenta comunque dei limiti tecnici ed umani, ma che non possono che venire considerate lecite, in virtù della loro utilità sociale.

La Cassazione ha dato risposta positiva al quesito circa la sussistenza del la responsabilità dello Stato italiano per il disastro, ad esempio, di Ustica , per non aver garantito la sicurezza dei voli da eventi come il lancio di un missile che ha colpito un aereo di linea che viaggiava sulla rotta prescritta. Per le riflessioni sul processo si rimanda ai lavori dei colleghi pubblicati in questo stesso numero.

La stessa Cassazione precisa che in tema di responsabilità civile, l'omissione di una condotta rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l'esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell'evento. Una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell'obbligo di osservare la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l'evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, non rileva, ai fini dell'esonero dalla responsabilità; che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo.

Pertanto, e' sufficiente a giustificare l'imputazione di responsabilità il fatto che il disastro di Ustica rientrasse negli eventi che la norma cautelare mirava ad evitare. Le stesse Corti si trovano in realtà a doversi confrontare con contestazioni di c.d. colpa generica, in ordine alle quali non possono che limitarsi ad esprimere (ex post) un giudizio sulla ragionevolezza delle scelte di un pilota, come di uno sciatore, come di un comandante di nave, di qualsiasi soggetto qualificato al quale è affidata in prima persona la responsabilità del rispetto delle procedure.

All'interno della giurisprudenza, si rinvengono anche alcune ipotesi di rimprovero a titolo di c.d. colpa specifica, (sub specie es. mancata e/o inadeguata redazione del documento di valutazione del rischio-incendio ); di violazione dei doveri di protezione civile in occasione di calamità naturali ed infine di violazione delle disposizioni attuative delle direttive comunitarie (es. sulla gestione dei c.d. rifiuti pericolosi). E’ tuttavia evidente come in questo campo un approccio meramente fisico-naturalistico risulti insufficiente. Per questo è opportuno spendere qualche considerazione a seguire sulla causalità.

Causalità

I moderni sistemi di produzione industriale ed i vari settori in cui si articola il trasporto per terra, aria e mare, si caratterizzano infatti per una notevole complessità, intrinseca tanto alle attività medesime (pericolose, ma autorizzate dall'ordinamento perché socialmente utili), quanto ai contesti in cui queste si svolgono.

Una complessità che non può essere compresa a pieno, se non attraverso il ricorso allo schema esplicativo della interazione tra fattori antecedenti (antropici e non): dunque, come la stessa giurisprudenza giustamente riconosce, nessun disastro c.d. tecnologico può essere ragionevolmente riferito ad un unico fattore condizionante.

In particolare, i profili che sembrano essere maggiormente problematici per il penalista sono: la divisione del lavoro, la decentralizzazione dei processi di azione e di decisione e l'inevitabile ricorso a strutture esterne all'impresa per lo svolgimento in sicurezza di attività intrinsecamente pericolose.

Un'impostazione meramente fisico-naturalistica, si è visto come si riveli limitata, in quanto finisce per restituire una spiegazione dell'accaduto quanto meno parziale, focalizzando le attenzioni soltanto sugli ultimi "fotogrammi" della sequenza causale, e quindi esasperando le responsabilità dei soggetti già di per sé più esposti allo stigma della condotta criminale: operatori, macchinisti, comandanti e piloti. Occorre uno sforzo di approfondimento che faccia emergere quella causalità che è "mediata" proprio perché frutto di una rimeditazione delle spiegazioni eziologiche offerte dalla causalità "immediatamente scientifica".

Elemento psicologico

Il dolo nei disastri è generico, ma c’è chi ritiene che il verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità sia condizione obiettiva di punibilità e quindi non vi rientra il dolo. Altri ritengono il pericolo per la pubblica incolumità un evento essenziale qal fatto, causalmente legato alla condotta e quidi come tale rientrante nel dolo (Fiandaca-Musco).

La colpa non vive solo della sua dimensione normativa: l'oggettiva violazione della regola cautelare, infatti, di per sé non basta ad integrare l'elemento soggettivo del reato, essendo necessaria anche la prevedibilità (ex ante) dell'evento, profilo che, in generale, sembra trovare poco spazio all'interno della giurisprudenza in materia: si pensi al significativo filone giurisprudenziale relativo alle contestazioni di omicidio colposo per mancato impedimento dei decessi conseguenti al disastro naturale. Al riguardo possono distinguersi due orientamenti.

Da una parte quello secondo cui lo svolgimento del decorso reale del disastro - nei limiti in cui il giudice può ricostruirlo sulla base delle leggi scientifiche - costituisce esso stesso oggetto del giudizio di prevedibilità e rappresenta elemento necessario di individualizzazione dell'evento nuovamente descritto; dall'altra, invece, quello per il quale risulterebbe decisiva, ai fini del giudizio di colpa, soltanto una "generale, riconoscibile e riconosciuta situazione di pericolo incombente".

All'interno di un orizzonte in cui - come visto - le leggi di copertura disponibili sono universali, infatti, anche il contenuto delle regole preventive e la loro astratta efficacia impeditiva, risultano certi ed immediati, almeno tendenzialmente. Una miglior capacità di regolamentazione delle attività pericolose deve essere riposta in un necessario sforzo di definizione ed aggiornamento continuo della normativa positiva di natura cautelare, dal momento che questa rischia di rimanere nuovamente condizionata dalla riduttività di una ricostruzione-spiegazione di tipo meramente fisico-naturalistica, oppure di degenerare in una produzione inutile e dannosa.

Soggetti

In questa disciplina emergono due prospettive relative a due tipologie di soggetti coinvolti: il debitore e il creditore. Il debitore è ravvisabile tanto nel vettore contrattuale quanto nel c.d. vettore di fatto o actual carrier. Il vettore di fatto è il soggetto che esegue il trasporto, in virtù di un rapporto con il vettore contrattuale, pur non avendo stipulato direttamente il contratto di trasporto di persone o di cose con il passeggero.

Oltre a queste due figure in solido con esse rispondono i loro ausiliari, dipendenti e preposti quando il loro comportamento sia riferibile al danno. Tale principio nel nostro ordinamento è disciplinato in materia contrattuale dall’art. 1228 c.c. e in materia extracontrattuale dall’art. 2049 cod. civ. Oltre a questi soggetti altri soggetti possono dover rispondere del danno a titolo contrattuale o extracontrattuale: esempio è quello dei tour operator, i quali, nei cosiddetti viaggi “tutto compreso”, rispondono di ogni danno subito dal cliente, anche se imputabile al fornitore di uno dei servizi previsti dal pacchetto turistico.

Nessuna normativa prevede esplicitamente la canalizzazione del rischio su un soggetto specifico, anche se la responsabilità del vettore, dei suoi dipendenti e dei suoi preposti, non esclude quella di altri soggetti, sia essa a titolo contrattuale o a titolo extracontrattuale. Il creditore invece - soggetto danneggiato è, prima di tutto, il passeggero se sopravvissuto all’incidente; nel caso in cui il passeggero muoia il diritto al risarcimento dei danni, occorsi allo stesso, già entrato nel suo patrimonio, si trasferisce ai suoi eredi, iure hereditatis.

Altri soggetti danneggiati possono essere coloro che hanno subito un danno in conseguenza dell’incidente che ha colpito il passeggero nella loro sfera soggettiva patrimoniale e non. Essi sono soggetti cosiddetti danneggiati iure proprio che, in tale qualità, diversa da quella di eredi, sono titolari dell’obbligazione risarcitoria verso il vettore e altri soggetti responsabili. Talvolta i soggetti danneggiati iure proprio coincidono con gli eredi del passeggero.

Queste due qualità si cumulano nei prossimi congiunti del passeggero deceduto aventi la qualità di eredi. Tali due qualità non si cumulano, e restano distinte, nei soggetti che vantano un diritto risarcitorio iure proprio, ma non sono eredi del defunto, o negli eredi che non vantano diritti iure proprio. Mentre l’obbligazione risarcitoria nei confronti del passeggero e dei suoi eredi trova la propria fonte sia nella responsabilità contrattuale che in quella extracontrattuale, l’obbligazione risarcitoria nei confronti dei soggetti danneggiati iure proprio è solo di natura extracontrattuale, per la lesione di una situazione soggettiva tutelata dall’ordinamento.

Competenza territoriale

Nelle controversie internazionali, aventi per oggetto la responsabilità civile dei vettori aerei, i criteri funzionali all'individuazione della giurisdizione sono oggi sanciti dall'art. 33 ("Jurisdiction") della "Convenzione per l'unificazione di alcune regole relative al trasporto aereo internazionale", firmata a Montreal il 28 maggio 1999.

La Convenzione di Montreal individua, ponendo la scelta in capo all'attore, diversi fori tra loro alternativi, tra i quali in primis, come già la Convenzione di Varsavia, il luogo in cui è stato stipulato il contratto di trasporto (generalmente lo Stato di partenza del volo) ed il luogo in cui è da individuarsi la destinazione finale.

Rispetto alla Convenzione di Varsavia, tuttavia, per i casi di lesioni e di decessi l'art. 33, al comma 2, prevede altresì un aggancio diretto al luogo di residenza del passeggero, novità che in tutta evidenza si pone nella direzione di favorire il consumatore. Singolarmente, però, non è previsto, quale criterio di collegamento alternativo, il riferimento al luogo in cui si è verificato il sinistro.

La nostra Cassazione non ha ancora avuto occasione di occuparsi dell'interpretazione e dell'applicazione di questa disposizione. Tuttavia, stante le analogie correnti tra l'art. 33 della Convenzione di Montreal e l'art. 28 della Convenzione di Varsavia, possono venire in rilievo i precedenti che si sono interessati di quest'ultima disposizione.

Per quanto concerne l'individuazione della giurisdizione poi nel caso di sinistri verificatisi in Europa si prospetta un problema di coordinamento tra, da un lato, l'art. 33 della Convenzione di Montreal (recepito dal Regolamento CE n. 889/2002, oltre che ratificato dalla stessa Unione Europea e dagli Stati membri della comunità) e, dall'altro lato, il Regolamento CE n. 44/2001, soprattutto sul versante dell'art. 5, comma 3, di quest'ultimo provvedimento, che, nei casi di responsabilità civile, individua, quale criterio di collegamento alternativo, il luogo in cui si è verificato l'evento dannoso: in particolare, la questione è se si possa fare riferimento all'art. 5, comma 3, del Regolamento CE n. 889/2002, oppure il ricorso a quest'ultima disposizione sia preclusa dall'art. 33 della Convenzione.

In punto competenza territoriale occorre domandarsi se i criteri di collegamento previsti dall'art. 33 della Convenzione di Montreal possano in qualche modo rilevare anche ai fini della determinazione del giudice territorialmente competente in seno allo Stato dotato di giurisdizione. In realtà la Cassazione ha avuto occasione di occuparsi di una problematica simile, se non analoga, con riferimento all'art. 28 della Convenzione di Varsavia, concludendo che i fori alternativi richiamati da questo articolo, ai fini dell'esercizio dell'azione di responsabilità in materia di trasporto aereo internazionale, integrano soltanto criteri di collegamento giurisdizionale, ma non attengono all'individuazione della competenza territoriale interna, assoggettata al regime previsto dall'ordinamento giuridico in cui l'attore decide di intraprendere il giudizio.

Tale impostazione ad oggi non è ancora sicura e pacifica, seppur autorevolmente affermata. Va infine ricordato che l'art. 1040 cod. nav. ("Spostamento di competenza per ragione di connessione") prevede quanto segue: "Se sono proposte contro il vettore, l'esercente o l'assicuratore avanti giudici diversi più cause dipendenti dallo stesso contratto di trasporto, ovvero dallo stesso fatto di assistenza o, infine, dallo stesso urto di aeromobili ovvero dallo stesso evento produttivo di danni a terzi sulla superficie, il giudice fissa con sentenza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa avanti il giudice adito, nella circoscrizione del quale è il foro generale del convenuto, o, in difetto, avanti quello per primo adito.

Si applica il secondo comma dell'articolo 40 del codice di procedura civile ". Ciò significa che lo spostamento, infatti, può essere disposto solo laddove non sia pregiudicato il diritto alla difesa e ad un equo processo ravvisabile in capo agli attori od ai convenuti, parti del giudizio da spostare in altro foro.