x

x

Illegittimo privare dei diritti il sindacato rappresentativo non firmatario di contratti

1.  Il titolo dell'articolo sintetizza il "nocciolo" delle motivazioni di Corte cost. 23 luglio 2013 n. 231 (est. Morelli), tramite cui i giudici della Consulta - accogliendo i ricorsi del più rappresentativo sindacato del settore  metalmeccanico (Fiom-Cgil ) cui la Fiat, in base all'art. 19, comma 1, lett. b) Stat. lav. quale innovato a seguito del referendum del 1995, aveva precluso la costituzione di proprie R.s.a. in quanto sigla sindacale non firmataria di contratti aziendali applicati nelle proprie unità produttive - hanno dichiarato incostituzionale il predetto articolo nella parte in cui  subordina  la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali di  OO.SS. notoriamente rappresentative  e partecipanti attive alle trattative, al requisito esclusivo della  sottoscrizione dei relativi contratti  collettivi, in tal modo sanzionando il legittimo dissenso espresso dalla mancata firma, per valutazione di insufficienza o inaccettabilità del loro contenuto.

La Consulta - adottando in conformità al petitum dei remittenti una sentenza non demolitiva ma additiva - ha giudicato incostituzionale l'art. 19, comma 1, lett. b) dello Statuto dei  lavoratori nella parte in cui «non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda».

Alla decisione in questione la Consulta  è pervenuta nell'esame delle questioni  di legittimità sollevate dai tribunali di Modena, Vercelli e Torino nelle cause che hanno visto contrapposte Fiat e Fiom-Cgil.

Gli addebiti di presunta incostituzionalità sollevati  dai precitati tribunali afferivano alla formulazione del  comma 1, lett. b) dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, che condiziona sin dal 1995 la costituzione delle Rsa, consentendole solo alle sigle firmatarie dei contratti collettivi applicati in azienda.

Nelle sue esaurienti ed articolate motivazioni la Consulta ha giudicato tale limite in contrasto con tre articoli della Carta Costituzionale (artt. 2, 3, e 39: il primo tutela i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali; il secondo l’uguaglianza dei cittadini; l’ultimo la libertà di organizzazione sindacale).

Chiarisce nelle motivazioni la Consulta che la dichiarazione di incostituzionalità del comma 1, lett. b) dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori si fonda sul riscontro di irragionevolezza giuridica di un assetto normativo regolante le relazioni sindacali - quale quello  in esame, opportunamente censurato - che, sorto per elevare la sottoscrizione di un contratto collettivo a ipotetico indice probante della forza e capacità del sindacato di imporsi alla controparte, si è prestato ad atteggiarsi, invece, a indice di debolezza, di dismissione di autonomia e di compiacenza verso la parte datoriale antagonista nel momento in cui, di fronte all'alternativa fra non firmare un contratto al ribasso offerto dal datore  e perdere le prerogative di agibilità sindacale in azienda, il sindacato ha scelto di acconsentire alla sottoscrizione, intuitivamente a detrimento degli interessi dei lavoratori rappresentati.

Un simile assetto va giudicato illegittimo, giacché persistere nel suo avallo equivarrebbe a legittimare nell'ordinamento la situazione fattuale protrattasi sino ad oggi  ed esposta a rischio di abusi, nella quale i sindacati finiscono per essere «privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa». Inoltre, poiché «il modello disegnato dall’art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all’art. 39, primo e quarto comma, della Costituzione, per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale».

L'assetto sottoposto all'esame del giudice delle leggi (e da esso censurato) risulta, pertanto, incompatibile con i principi costituzionali di libertà ed autodeterminazione sindacale, perché autorizza la negazione della costituzione dell'organismo sindacale di base introaziendale  (Rsa) a danno di sigle sindacali notoriamente rappresentative per consistenza di iscritti e partecipazione alla trattativa, per il solo fatto di  una loro indisponibilità a sottoscrivere con la controparte datoriale un contratto collettivo. Una simile  negazione va correttamente ritenuta «una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum».

Prosegue la Consulta asserendo che: «Nel momento in cui  (la sottoscrizione di un contratto, ndr) viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività e si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione».

2. Non sembra superflua una breve cronistoria dell'evoluzione (rectius, involuzione) subita dal predetto art. 19 dello Statuto, tramite cui il legislatore del 1970 aveva inteso fissare i requisiti della cd. rappresentatività delle  Organizzazioni sindacali, anche ai fini della legittimazione alla costituzione in seno alle aziende di proprie propaggini organizzative designate con l'acronimo RSA (rappresentanze sindacali aziendali).

Il testo originario aveva accordato il sorgere delle Rsa nell'ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva.

A partire dalla seconda metà degli anni ottanta si sviluppò un ampio dibattito volto a rimarcare l'esigenza di una revisione del meccanismo selettivo della "maggiore rappresentatività" previsto ai fini della costituzione delle rappresentanze nei luoghi di lavoro, che ha trovato sbocco nei referendum abrogativi del 1995 promossi da Cobas e Rifondazione comunista e appoggiati dalla sinistra della Cgil, che produssero una profonda alterazione di una parte centrale dello statuto dei lavoratori.  Il primo, "massimalista", era volto ad ottenere l'abrogazione di tutti i criteri di maggiore rappresentatività adottati dall'articolo 19, alle lettere a) e b), mentre il secondo, "minimalista", mirava all'abrogazione dell'indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lettera a) e all'abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentatività effettiva prevista dalla lettera b). Poiché solo il secondo referendum raggiunse il quorum, per effetto dell'abrogazione referendaria  ne consegui che le rappresentanze sindacali aziendali potevano essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, unicamente nell'ambito delle associazioni sindacali che fossero firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva. In altre parole, l'abrogazione referendaria determinò la soppressione di ogni riferimento alla maggior rappresentatività delle Confederazioni, con la conseguenza che le Rsa potevano essere costituite nell'ambito di qualunque organizzazione sindacale, purché firmataria di un contratto collettivo, di qualunque livello (e dunque anche aziendale), applicato nell'unità produttiva.

All'indomani della consultazione popolare, tuttavia, non si mancò di sottolineare come l'abrogazione referendaria (pur coerente con la ratio di allargare il più possibile le maglie dell'agire sindacale anche a soggetti nuovi che fossero realmente presenti ed attivi nel panorama sindacale) rischiasse, nella sua accezione letterale, di prestare il fianco ad una applicazione sbilanciata: per un verso, in eccesso, qualora l'espressione «associazioni firmatarie» fosse intesa nel senso della sufficienza di una sottoscrizione (anche meramente adesiva) del contratto, a fondare la titolarità dei diritti sindacali in azienda (con virtuale apertura a sindacati di comodo); e, per altro verso, in difetto, ove interpretata, (la medesima espressione), come ostativa al riconoscimento dei diritti in questione nei confronti delle associazioni che, pur connotate da una azione sindacale sorretta da ampio consenso dei lavoratori, avessero ritenuto di non sottoscrivere il contratto applicato in azienda.

Insoddisfazione per la nuova situazione mostrarono di lì a poco i Cobas che avevano contribuito a determinarla, i quali nelle aziende non potevano vantare la qualità di soggetti firmatari. Nel ricorso alla Consulta da essi provocato sostennero che la norma doveva considerarsi illegittima perché rimetteva nella mani del datore di lavoro il potere di accreditare la controparte sindacale e quindi di condizionare il diritto, con inevitabile lesione della libertà sindacale. La Corte non accolse il ricorso (sentenza 244/1996). E' stato correttamente sottolineato come «nel clima unitario di allora, di fronte ad una denuncia di illegittimità che veniva sollevata da un sindacato decisamente minoritario, era inevitabile che la Corte si orientasse a confermare la legittimità costituzionale della disposizione, evitando in questo modo che si potesse pervenire ad un risultato, quello dell’eliminazione di qualsiasi criterio selettivo di riconoscimento del diritto alla Rsa che lo stesso referendum aveva scartato» [1].

L'articolo 19 dello Statuto superò, pertanto, il vaglio di costituzionalità sulla base di una esegesi costituzionalmente orientata che portò la Corte costituzionale a sostenere  che «la rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro espresso in forma pattizia», bensì dalla «capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale»; a queste considerazioni  accompagnò  la pertinente precisazione di inidoneità, ai fini del requisito di rappresentatività, della firma per adesione di contratti raggiunti da  altri. Espressamente disse: «Non è perciò sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto», e che «nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale, di un contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva» (sentenza n. 244 del 1996).

3. La decisione sopraricordata era consequenziale all'orientamento dottrinale e giurisprudenziale maggioritario maturato all'epoca, caratterizzato dall'affermazione dell' inesistenza di un obbligo datoriale  a trattare, della piena (o quasi) libertà di scelta dell'interlocutore negoziale (cd. partner, in senso spregiativo) fra le varie sigle sindacali che avevano presentato al datore le proprie piattaforme rivendicative, della conseguente discrezionale ricusabilità di talune di esse, in termini tuttavia tali da non concretizzare irragionevoli esclusioni che facessero atteggiare, nel raffronto, le sigle invece ammesse alla trattativa quali sindacati di comodo ex art. 17 Stat. lav.

In particolare la giurisprudenza di merito dell'epoca — in armonia con la maggioranza della dottrina — era giunta ad enfatizzare  la teoria della piena libertà di scelta del soggetto sindacale contraente sia in base a semplice preferenza datoriale (per maggiore affidabilità soggettiva o credibilità in un'organizzazione sindacale piuttosto che in un'altra e senza che naturalmente fosse riscontrabile un ruolo di "comodo" nel sindacato prescelto) sia per la capacità dello stesso di imporsi alla controparte aziendale attraverso un rapporto di forza. La più ricorrente giustificazione addotta per legittimare esclusioni dai negoziati venne giustappunto fondata sul rilievo conferito al rapporto di forza e alla capacità di coercizione delle OO.SS. ammesse alla trattativa, tanto che divenne  luogo comune, vero e proprio slogan, l'affermazione per cui: «non esiste nel nostro ordinamento un principio di parità di trattamento dei sindacati tra loro, in quanto il legislatore... ha individuato nel sindacato... non soltanto una manifestazione della generale libertà di associazione, ma anche, e soprattutto, lo strumento effettivo di autotutela collettiva dei lavoratori nel rapporto conflittuale tra capitale e lavoro, rapporto che, sia nell'ambito aziendale sia nell'ambito sociale, si svolge in termini di rapporto di forza»[2] .

E ancor con più chiarezza si disse: «Le trattative e le questioni dei soggetti sindacali legittimati alle trattative sono in sostanza rinviate dal legislatore a rapporti di forza sul luogo di lavoro, alla capacità delle associazioni sindacali di imporre il loro punto di vista, il che appare la logica conseguenza del costituzionale principio di libertà e di autonomia sindacale e di diritto di sciopero»[3]. Cosicché, con accorato calore, vennero  così apostrofati sindacati —  peraltro in possesso dei requisiti di cui all'art. 19 Stat. lav. (vecchio testo) per la maggiore rappresentatività — che avevano adito il giudice per lamentare l'antisindacalità della loro esclusione dalle trattative: «La propria immagine ogni sindacato se la deve costruire da sé e non è consentito ricorrere al giudice invocando il rimedio speciale di cui all'art. 28 legge  300/1970 per sopperire con la forza legale dei provvedimenti giudiziali al proprio difetto di forza per scarsa presenza tra i lavoratori o per debole combattività dei propri aderenti o per crisi di credibilità presso la base »[4].

Anche sotto il vecchio testo dell'art. 19 Stat. lav. (antecedente al referendum del 1995) non erano mancate, tuttavia, in giurisprudenza e dottrina prese di posizione meno inclini all'esclusiva valorizzazione dei rapporti di forza quale modello comportamentale per le relazioni sindacali, sfociate nella mitigazione della tesi della piena discrezionalità datoriale nell'ammissione (o meno) delle sigle sindacali alle trattative.

Militarono in questo più moderato orientamento, Cass., sez. lav., n. 1336 del 16 aprile 1976, Cass., sez. un., n. 3836 del 15 luglio 1976 e infine  Cass., sez. lav., n. 4850 del 15 luglio 1983; orientamento così sintetizzabile: «Il datore di lavoro che, di fronte ad istanze presentate da più sindacati, accetti l'incontro con alcuni e lo rifiuti ad altri, dei quali non dimostri il difetto dei requisiti indicati nell'art. 19 della l. n. 300, attua un comportamento che ... si risolve in contestazione del diritto degli esclusi a rappresentare quegli interessi dei dipendenti..., cui si accompagna una patente discriminazione, capace obiettivamente, ossia a prescindere dalle concrete sue motivazioni, di vanificare la presenza del sindacato escluso nell'ambiente di lavoro».... «Pertanto ... egli è tenuto a discutere con tutti quelli tra di essi che posseggono i requisiti di cui all'art. 19 del suddetto Statuto».

Principio che venne, nella sostanza, ripreso dalla sezione lavoro, nella decisione n. 4850 del 1983, e così espresso: «Il fatto che la legge 20 maggio 1970 n. 300 sancisca il principio della parità di trattamento (occupazionale) soltanto per i lavoratori, singolarmente considerati (art. 15), mentre per i sindacati fa proprio il criterio della maggiore rappresentatività sul piano nazionale, quale parametro indicante l'attitudine del sindacato ad esprimere in modo adeguato l'interesse del sottostante gruppo di lavoratori, non esclude che il principio generale di eguaglianza operi anche per i sindacati, nei confini del detto articolo 19».

Oltreché in Cassazione, anche in sede di merito si registrarono  impostazioni volte a sostenere una parità di accesso alle trattative da parte di OO.SS. dotate degli stessi requisiti di rappresentatività  di cui al vecchio testo dell'art. 19 Stat. lav., giacché una differenziazione - in carenza di oggettive diversificazioni - avrebbe assunto le caratteristiche della discriminazione antisindacale. Si disse infatti in talune sentenze che: «Quantunque non sussista, nel nostro ordinamento, un principio di piena e perfetta parità di trattamento tra sindacati in ordine alle loro varie prerogative, esso deve essere affermato (e quindi non può legittimamente farsi luogo a trattamento difforme) in ordine all'ammissione alle trattative per i sindacati in possesso dei comuni requisiti di rappresentatività di cui all'art. 19; l'eventuale differenziazione non attiene infatti ad aspetti marginali e accessori ma alla funzione primaria e caratterizzante di ogni sindacato, la cui negazione determina l'impossibilità radicale di esercitare l'attività di rappresentanza, rivendicazione e tutela degli interessi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti dei datore di lavoro»[5].

Ciò  ricordato, è  pacifico che nell'odierna sentenza n. 231/2013  la Consulta  non avrebbe potuto  affermare il diritto  alle  negate prerogative del Tit. III dello Statuto (Rsa e agibilità sindacali) per il sindacato Fiom/Cgil  - rappresentativo  alla pari e più di Fim/Cisl, Uilm/Uil  e Fismic/Confsal -   giacché il criterio  della rappresentatività sindacale, dopo la modifica referendaria del 1995, era stato ancorato in esclusiva alla sottoscrizione di un contratto collettivo (anche aziendale) con la controparte datoriale, sottoscrizione legittimamente rifiutata dalla sigla sindacale metalmeccanica, preferendo non acconsentire ad un contratto giudicato in perdita piuttosto che apporvi la propria firma al solo fine di fruire delle garanzie di agibilità in azienda.

Quindi la Consulta doveva valutare - e censurare, come ben ha fatto -  la giuridica compatibilità e la ragionevolezza (o meno) di quel criterio a suo tempo (nel 1995) scelto in esclusiva per l'individuazione del requisito della rappresentatività del sindacato, criterio imprudentemente disancorato dal rapporto fiduciario con la base dei lavoratori e, invece, tributario dell'ammiccante consenso dell'antagonista  controparte datoriale.

4. Il criterio fondante dell' attuale asserita incostituzionalità dell'art. 19, comma 1, lett. b)  Stat. lav.  riposa, pertanto, sulla negata costituzione di Rsa e  attribuzione di agibilità sindacali ad un sindacato maggiormente o significativamente rappresentativo, per il suo solo dissenso alla sottoscrizione del contratto collettivo alla cui trattativa ha preso parte attiva assieme ad altre sigle sindacali rappresentative.

Peraltro la Consulta non ha  soppresso o fatto tabula rasa di quel requisito esposto potenzialmente a rischio collusivo ma, con la sua sentenza additiva, ne ha neutralizzato l'esclusività, affiancandovi l'affermazione di una pari idoneità alla costituzione di Rsa da parte di sigle sindacali (quelle stesse o altre) che abbiano partecipato attivamente alle trattative pur essendosi sottratte alla firma dell'accordo, per proprie insindacabili valutazioni.

La partecipazione alle trattative costituisce, quindi - nel pensiero della Consulta - requisito imprescindibile a monte per le OO.SS. (e non poteva essere altrimenti).

Nell'assetto di asserita libertà negoziale e di inesistenza normativa nel settore privato di un diritto del sindacato all'ammissione al tavolo delle trattative, la discriminazione verso sigle sindacali sgradite per la loro irriducibilità, una volta fatta uscire (dalla sentenza n. 231/2013) dalla porta, potrebbe maliziosamente rientrare dalla finestra, tramite il rifiuto datoriale ad ammettere tali sigle al tavolo della trattativa, nonostante la loro richiesta di accesso accompagnata dalla presentazione di proprie piattaforme rivendicative.

E', invero, quello che adombra P.Ichino [6] quando afferma che «... il criterio della “partecipazione al negoziato” è un criterio destinato, dopo questa sentenza, a risultare di fatto inapplicabile.I casi sono, infatti, due. Se si intende il criterio enunciato dalla Corte nel senso che a un qualsiasi sindacato, per essere qualificato come “partecipante al negoziato”, basti presentare una piattaforma rivendicativa, allora il risultato è che quel criterio perde qualsiasi valore selettivo: anche il più insignificante dei sindacati, infatti, potrà accedere ai diritti di cui al titolo III dello Statuto col semplice presentare una propria proposta/richiesta all’imprenditore. Se invece si intende il criterio enunciato dalla Corte nel senso che non basti la presentazione di una piattaforma rivendicativa, ma occorra anche un’effettiva partecipazione al tavolo del negoziato, allora la sentenza perde ogni effetto pratico apprezzabile, lasciando sostanzialmente le cose come stanno: all’imprenditore basterà, infatti, respingere in limine la rivendicazione, rifiutando anche solo l’inizio di una discussione in proposito, per escludere quel sindacato – per quanto numerosi siano i suoi aderenti o sostenitori in seno all’azienda – dai diritti di cui al titolo III dello Statuto».

La pessimistica considerazione - utilizzabile da datori di lavoro spregiudicati anche quale escamotage - non ci trova peraltro consenzienti.

A parte il fatto che - come  evidenziato dalla giurisprudenza formatasi in vigenza del vecchio testo dell'art. 19  Stat. lav. (ante modifica referendaria), non a caso da noi riferita - sussistono indubbi limiti (sebbene normativamente inespressi) alla  facoltà datoriale di ricusare l' ammissione alle trattative, riposanti sulla "ragionevolezza" della motivazione legittimante,  sindacabile giudizialmente alla luce del disposto dell'art. 28 Stat. lav. inibitorio del comportamento antisindacale, va detto che l'aspetto discriminatorio  antisindacale viene concludentemente in emersione quando la sigla sindacale ricusata possiede notori requisiti di rappresentatività, non inferiori o diversi da quelli vantati dalle sigle sindacali ammesse al tavolo negoziale.

Se da parte nostra  si conviene pacificamente sulla attuale  carenza di individuazione a livello legislativo di inequivoci e ben identificati  indici o parametri di validazione della rappresentatività sindacale ai fini specifici della partecipazione alle trattative, talché in astratto le aziende potrebbero discrezionalmente scegliere e discrezionalmente ricusare le controparti da ammettere al tavolo negoziale,  merita segnalare come l'escamotage della non ammissione alle trattative  su basi discrezionali, sia stato dalla Consulta stessa non solo "fiutato" ma anche direttamente scoraggiato al punto 7 delle motivazioni della sentenza, laddove ricorda (anche ai "furbi") che ricorre nell'ordinamento lavoristico la sussistente  «... tutela dell’art. 28 dello Stat. Lav. nell’ipotesi di un eventuale non giustificato, negato accesso al tavolo delle trattative». Messaggio che evidenzia la presa di distanza, da parte della Consulta, dal pregresso prevalente orientamento assertore di una incondizionata libertà negoziale, legittimante una discrezionale ricusazione imprenditoriale dell'interlocutore sindacale, per l'opzione (da essa ritenuta preferenziale) verso una sindacabile giustificazione dell'eventuale atto datoriale preclusivo delle prerogative e dei diritti sindacali accordati dal legislatore alle OO.SS.

Non è infatti concepibile né ragionevole pensare che diritti prefigurati dal legislatore a favore del sindacato per la tutela degli interessi dei rappresentati possano essere vanificati e posti nel nulla da un insindacabile, ipotetico, atto emulativo della controparte, con la conseguenza che la mancata ammissione al negoziato di talune sigle sindacali (in presenza dell'accesso al tavolo negoziale di altre) dovrà necessariamente trovare giustificazione in dati obiettivi (tra cui, in primis, la verificata, attestabile, carenza di rappresentatività della sigla ricusata). Giacché  la presenza nell'ordinamento del divieto, ex art. 28 Stat. lav., di porre in essere comportamenti antisindacali impone che  il diniego datoriale di consentire l'accesso alle trattative superi il sospetto dell'essere unicamente ispirato dall'intento di nuocere e pregiudicare  deliberatamente la sigla sindacale ricusata.

Poiché, come evidenziato, l'espediente della non ammissione al tavolo negoziale sarebbe strumentalmente teso a precludere la concretizzazione  in capo alle sigle sindacali sgradite (seppur rappresentative)   del requisito della "attiva partecipazione" al negoziato - sufficiente (anche senza sbocco in sottoscrizione) a legittimare per esse la fruizione delle prerogative sindacali del Tit. III della l. n. 300/70 - esso non può assolutamente sottrarsi ad un riscontro di giustificatezza e di rispondenza quantomeno ai principi generali di correttezza e buona fede ex art. 1175-1375 c.c.

5. Infine la Consulta ha chiarito - sebbene con non perspicua chiarezza - come non rientrasse nei suoi compiti sostituirsi al legislatore  nella fissazione, a livello generale  o di sistema, di un indice selettivo della rappresentatività sindacale ai fini del riconoscimento della tutela privilegiata di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori  (costituzione di Rsa e fruizione di agibilità in azienda); l'individuazione dell'indice selettivo  ha asserito competere in esclusiva al legislatore, poiché l'attribuzione di prerogative di fonte legale (ex lege n. 300/70), dovendo essere uniforme e generalizzata per tutti i sindacati di esse potenzialmente destinatari, deve necessariamente  discendere da analoga fonte legale specificativa delle condizioni o indici di rappresentatività.

Peraltro va rilevato che - allo stato e salvo che non venga raccolta la diffusa esigenza di innovazione al riguardo - tale indice di rappresentatività  la Consulta lo ha ravvisato già sussistente  nell'ordinamento lavoristico (art. 19 Stat. lav.) e lo ha individuato nella capacità del sindacato di rivestire un ruolo di "attiva partecipazione al negoziato"; partecipazione ritenuta requisito probante di rappresentatività, valutato ancora idoneo e sufficiente, dopo che l'art. 19 è stato oggetto della propria correzione costituzionalmente orientata che l' ha portata non già a procedere ad  una espunzione del disposto censurato ma solo ad addizionarvi la  precisazione che il requisito della "attiva partecipazione alle trattative" si attualizza anche indipendentemente dalla firma degli esiti del negoziato concluso. A prescindere, pertanto, dalla loro condivisione da parte degli attivi negoziatori, che non può  risultare né condizionante né essere pretesa con l'effetto di sanzionare il dissenso dei dissenzienti tramite la privazione delle prerogative statutarie sindacali, giacché, altrimenti, ne uscirebbe infranta la incomprimibile libertà di autodeterminazione del sindacato, autonomo nella valutazione della congruità delle risultanze negoziali all'interesse dei propri rappresentati.

Affermata la sua estraneità ad una ipotetica rinnovazione del parametro della rappresentatività sindacale per la titolarità dei diritti statutari, la Consulta non cede, peraltro, alla tentazione di suggerire, per la scelta del legislatore, indici di rappresentatività, stavolta  funzionali  all'ammissione alle trattative, fase che intuitivamente riveste la caratteristica di presupposto per  la concretizzazione da parte del sindacato di quel del ruolo di partecipante attivo alle stesse, cui l'art. 19 correla la fruizione delle prerogative statutarie. Suggerisce e delinea, quindi,  una gamma di soluzioni opzionali per il legislatore, ravvisabili nella «valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti, o ancora nella introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento, o nell’attribuzione al requisito previsto dall’art. 19 dello Statuto dei lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva vigente, oppure al riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro».

L'indicazione  va interpretata come sollecitazione o messa in mora del legislatore affinché colmi con urgenza quello che alla stessa Consulta è apparso un persistente vuoto in ordine ai requisiti di rappresentatività dei sindacati per accedere alle trattative per il rinnovo dei contratti collettivi, ai vari livelli, lasciati alla fattuale capacità delle varie sigle sindacali di imporsi alla controparte tramite  iniziative basate sullo spiegamento di rapporti  di forza.

Gli indici selettivi di rappresentatività, esemplificativamente suggeriti,  attengono (si noti bene!) all'antecedente fase dell'accesso alle trattative che - a differenza di quello per la titolarità dei diritti sindacali - non sono stati oggetto di legislativa fissazione né nello Statuto né in altro disposto legislativo.

Nel vuoto normativo risultano, pertanto, legittime le discipline regolamentari  su base contrattuale privatistica volte a definire tali indici selettivi. Con la precisazione che le regole o i requisiti di rappresentatività per l'ammissione alle trattative ivi fissate (es. tramite una determinata soglia percentuale degli iscritti) sono vincolanti solo all'interno della cerchia dei soggetti (associazioni imprenditoriali e sindacali) che le hanno sottoscritte e condivise e non sono opponibili alle associazioni sindacali non firmatarie o dissenzienti. Quelle regole e quegli indici di rappresentatività non sono dotati di efficacia generale come lo sarebbero stati se provvisti della cogenza  istituzionale del legislatore, tramite fissazione in un testo legislativo.

Negare l'accesso alle trattative ad un'associazione sindacale non firmataria dell'Accordo intersindacale convenuto con altre sigle sindacali  nel quale sia stato  definito un indice di rappresentatività (esemplificativamente parametrato  ad una determinata soglia percentuale di iscritti,  cd. di sbarramento), non costituirebbe affatto giustificazione di quella ricusazione e, l'eventuale insistenza datoriale di assoggettare la sigla alla soglia di natura contrattuale privatistica  vincolante i soli contraenti, si infrangerebbe nella dichiarazione di inapplicabilità in sede giudiziaria.

Tenendo conto di queste conseguenze si può, in senso lato, ritenere che si sia espressa correttamente la Corte costituzionale quando ha fatto rientrare anche la  stessa fissazione dell'indice di rappresentatività sindacale per l'accesso alle trattative nella competenza del legislatore ("Compete al legislatore l’opzione tra queste od altre soluzioni"). Non già perché tale individuazione sia oggetto di riserva esclusiva del legislatore -  tale da rendere illegittime le eventuali pattuizioni adottate o assumende in sede contrattuale (tramite Accordi interconfederali e simili) - quanto perché solo la fissazione in un testo legislativo dota l'indice di rappresentatività per l'ammissione alle trattative di efficacia generale e lo rende estensibile a tutte le OO.SS., mentre quello definito in convenzioni intersindacali risulta vincolante solo all'interno della cerchia dei sottoscrittori.

Si pone, a questo punto, il problema - di non agevole soluzione - di quale destino sia riservato a quelle associazioni sindacali ricusate dall'ammissione alle trattative in conseguenza di una arbitraria estensione datoriale di un indice di rappresentatività che è inidoneo a vincolarle in quanto non facenti parte del novero dei firmatari di quell'accordo intersindacale in cui l'indice è stato convenuto.

Riteniamo ragionevolmente che le sigle escluse potrebbero ricorrere con successo al giudice per ottenere - se già considerate rappresentative in base a precedenti, più favorevoli, parametri (peggiorati dalla più elevata soglia di sbarramento introdotta) che hanno consentito loro di rivestire il ruolo di partecipanti alle antecedenti trattative -  la dichiarazione del loro diritto all'ammissione secondo le regole o le consuetudini precedenti, quindi per la disapplicazione ad esse del deteriore indice selettivo introdotto.

Più arduo, invece, il reperimento di una soluzione per quelle sigle ricusate che abbiano avanzato per la prima volta richiesta d'ammissione al tavolo negoziale, senza quindi aver beneficiato dell'applicazione di precedenti, meno penalizzanti, indici di rappresentatività, espressi in percentuale di iscritti.

La molteplicità delle problematiche suscettibili di insorgere in concreto, è tale che  non sembra più dilazionabile un intervento in materia del legislatore, che si faccia interprete di ragionevoli soluzioni.

Alla stregua delle precedenti considerazioni presenta, pertanto, i segnalati limiti di applicabilità circoscritta ai soli firmatari, il recente Accordo Interconfederale del 31 maggio 2013 (raggiunto in applicazione del precedente analogo del 28 giugno 2011), intercorso tra Cgil, Cisl, Uil e Ugl con Confindustria, nel settore industriale (senza recepimento da parte delle contrapposte associazioni del settore dei servizi, credito, assicurazioni, ecc.). Alla stipula si è giunti, da un lato per evitare che l'accesso alle trattative dipenda solo dalla insostenibilità datoriale delle iniziative conflittual-coercitive sindacali (peraltro onerose per i lavoratori), dall'altro per sottrarsi da parte aziendale al rischio che le ricusazioni di talune sigle siano esposte ad una sanzione giudiziale di antisindacalità per  ingiustificatezza delle proprie determinazioni.

A titolo meramente informativo segnaliamo che nel precitato Accordo Interconfederale del settore industriale, sono state pattuite regole per l'identificazione dei sindacati da ammettere alle trattative, per l'efficacia generalizzata (cd. erga omnes) dei contratti ai lavoratori della categoria, per il raffreddamento delle vertenze e di cd. pace sindacale.

In sintesi e senza entrare in tecnicismi in questa sede, è stato convenuto che:

a) per accedere alle trattative l'organizzazione sindacale aderente dovrà rappresentare (per consistenza di iscritti) almeno il 5% degli iscritti ai sindacati della categoria. Tale rappresentatività sarà determinata come media semplice fra il dato associativo e il dato elettorale, ossia tra la percentuale degli iscritti (sulla totalità degli iscritti) e la percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu (sul totale dei votanti). Quindi, il numero degli iscritti e il voto per le Rsu peseranno ognuno per il 50%;

b) i contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza avranno efficacia generalizzata per tutti i lavoratori della categoria ("saranno efficaci ed esigibili"), previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice;

c) la sottoscrizione formale dell'accordo costituisce atto vincolante per entrambe le parti, le quali si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti. I contratti collettivi nazionali di categoria, approvati alle condizioni descritte, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l'esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa.

Giustappunto per superare gli intrinseci limiti di circoscritta applicabilità, da più parti si è invocata la recezione dei criteri in un provvedimento legislativo dotato di efficacia generalizzata.

Peraltro occorre prudenza prima di caldeggiare la recezione in legge - con i già indicati effetti di generalizzata estensione a tutte le categorie merceologico-professionali - degli indici per l'individuazione della rappresentatività dei sindacati ai fini dell'ammissione alle trattative, fissati pattiziamente nel citato Accordo Interconfederale, a misura del settore industriale.

Qualora tra le varie opzioni suggerite dalla Consulta al legislatore nella sentenza n. 231/2013, venisse, infatti,  prescelto il criterio della consistenza numerica degli iscritti, la soglia di sbarramento del 5% per l'accesso alle trattative appare eccessiva e penalizzante  per le sigle sindacali dei comparti non industriali e dei servizi, nei quali la recezione eventuale della citata percentuale - valutata dai contraenti idonea per il settore industriale - implicherebbe traumatici sconvolgimenti dei criteri ivi vigenti e risultati nel tempo soddisfacenti, tanto da farne preferire la conservazione e non la sostituzione ex lege.

Restando in tema di individuazione di alternativi indici di rappresentatività sindacale, degno di considerazione da parte del legislatore si presenta altresì - in questa fase di accordi separati e di cd. "aziendalizzazione del diritto del lavoro" - il suggerimento della Consulta di eventualmente mantenere, nell'ambito delle soluzioni opzionali, quale indice di rappresentatività delle OO.SS. la loro idoneità alla negoziazione (disancorata dall'obbligo di sottoscrizione) di contratti collettivi di carattere generale (nazionali e teritoriali), in luogo e al posto di quelli aziendali che più si prestano a prefigurare riconoscimenti delle prerogative sindacali a "macchia di leopardo".

Invero è stata fin troppo privilegiata - a nostro avviso - la cd. "contrattazione di prossimità" (leziosa designazione, come argutamente notato da U. Romagnoli, coniata da un ex ministro del lavoro di centro destra), anche tramite il trattamento promozionale accordatogli  dall'art. 8 della l. n. 148/2011, a contenuto scardinante dell'assetto contrattuale vigente e delle stesse relazioni di lavoro e i cui guasti si sono evidenziati nella stessa vicenda che ha originato l'odierno intervento della Consulta, tanto che il citato disposto avrebbe già meritato una soluzione abrogativa, che, peraltro, tarda a giungere.

Ad ogni modo il criterio di rappresentatività sindacale adottabile dal legislatore dovrebbe essere - a nostro avviso - aperto e funzionale ad un'ampia agibilità per le sigle sindacali (anche tramite una modulazione al ribasso della soglia percentuale  di sbarramento degli iscritti, nel caso si volesse adottare l'indice della consistenza numerica degli aderenti), tale comunque da consentire alle OO.SS. una diffusa operatività, giacché lo spauracchio paralizzante del rischio della cd. "proliferazione incontrollata" di sigle sindacali nuove, inaffidabili e asseritamente inconsistenti, ha aleggiato, con effetti frenanti, per troppo tempo  sopra l'assetto normativo delle relazioni industriali.

Infatti, pur non auspicando affatto la frammentazione delle relazioni sindacali, riteniamo che vada decisamente  evitato il rischio di soffocare il sorgere di organismi sindacali nuovi ed emergenti - con l'esiziale effetto di favorire  solo la sclerotizzazione dell'assetto statico preesistente - giacché non risponde al vero che il "nuovo" sia meno idoneo a rappresentare gli interessi dei lavoratori del "vecchio", perché in un contesto economico innovativo  potrebbe essere realisticamente vero l'opposto, in ragione della capacità potenziale, tipica di sigle minoritarie o emergenti più snelle, di cogliere con maggiore intuito e prontezza le istanze meno tradizionali, più nuove e pressanti dell'attuale, più giovane, compagine lavorativa.

 

[1] Così F. Liso, nell'articolo antecedente alla pubblicazione delle motivazioni della Consulta, La decisione della Corte costituzionale sull’articolo 19 della legge n. 300/1970, in http://www.federalismi.it.

[2]  Così Pret. Roma  16 marzo 1985, in Lav. prev. oggi  1985,1520.

[3] Così Pret. Roma 25 ottobre 1985.

[4] Così Pret. Lodi 18 febbraio 1985, in Not. giurisp. lav.  1985, 2.

[5] Così Pret Roma (decreto) 17 dicembre 1985, confermato con sentenza nel giudizio di merito del 30 luglio 1986, Sanga-Cisal c. Aeroporti di Roma S.p.A., in Dir. prat. lav., 1986, 2545.

[6] Commento alla sentenza della Corte costituzionale 23 luglio 2013 n. 231, pubblicato su Linkiesta

1.  Il titolo dell'articolo sintetizza il "nocciolo" delle motivazioni di Corte cost. 23 luglio 2013 n. 231 (est. Morelli), tramite cui i giudici della Consulta - accogliendo i ricorsi del più rappresentativo sindacato del settore  metalmeccanico (Fiom-Cgil ) cui la Fiat, in base all'art. 19, comma 1, lett. b) Stat. lav. quale innovato a seguito del referendum del 1995, aveva precluso la costituzione di proprie R.s.a. in quanto sigla sindacale non firmataria di contratti aziendali applicati nelle proprie unità produttive - hanno dichiarato incostituzionale il predetto articolo nella parte in cui  subordina  la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali di  OO.SS. notoriamente rappresentative  e partecipanti attive alle trattative, al requisito esclusivo della  sottoscrizione dei relativi contratti  collettivi, in tal modo sanzionando il legittimo dissenso espresso dalla mancata firma, per valutazione di insufficienza o inaccettabilità del loro contenuto.

La Consulta - adottando in conformità al petitum dei remittenti una sentenza non demolitiva ma additiva - ha giudicato incostituzionale l'art. 19, comma 1, lett. b) dello Statuto dei  lavoratori nella parte in cui «non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda».

Alla decisione in questione la Consulta  è pervenuta nell'esame delle questioni  di legittimità sollevate dai tribunali di Modena, Vercelli e Torino nelle cause che hanno visto contrapposte Fiat e Fiom-Cgil.

Gli addebiti di presunta incostituzionalità sollevati  dai precitati tribunali afferivano alla formulazione del  comma 1, lett. b) dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, che condiziona sin dal 1995 la costituzione delle Rsa, consentendole solo alle sigle firmatarie dei contratti collettivi applicati in azienda.

Nelle sue esaurienti ed articolate motivazioni la Consulta ha giudicato tale limite in contrasto con tre articoli della Carta Costituzionale (artt. 2, 3, e 39: il primo tutela i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali; il secondo l’uguaglianza dei cittadini; l’ultimo la libertà di organizzazione sindacale).

Chiarisce nelle motivazioni la Consulta che la dichiarazione di incostituzionalità del comma 1, lett. b) dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori si fonda sul riscontro di irragionevolezza giuridica di un assetto normativo regolante le relazioni sindacali - quale quello  in esame, opportunamente censurato - che, sorto per elevare la sottoscrizione di un contratto collettivo a ipotetico indice probante della forza e capacità del sindacato di imporsi alla controparte, si è prestato ad atteggiarsi, invece, a indice di debolezza, di dismissione di autonomia e di compiacenza verso la parte datoriale antagonista nel momento in cui, di fronte all'alternativa fra non firmare un contratto al ribasso offerto dal datore  e perdere le prerogative di agibilità sindacale in azienda, il sindacato ha scelto di acconsentire alla sottoscrizione, intuitivamente a detrimento degli interessi dei lavoratori rappresentati.

Un simile assetto va giudicato illegittimo, giacché persistere nel suo avallo equivarrebbe a legittimare nell'ordinamento la situazione fattuale protrattasi sino ad oggi  ed esposta a rischio di abusi, nella quale i sindacati finiscono per essere «privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa». Inoltre, poiché «il modello disegnato dall’art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all’art. 39, primo e quarto comma, della Costituzione, per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale».

L'assetto sottoposto all'esame del giudice delle leggi (e da esso censurato) risulta, pertanto, incompatibile con i principi costituzionali di libertà ed autodeterminazione sindacale, perché autorizza la negazione della costituzione dell'organismo sindacale di base introaziendale  (Rsa) a danno di sigle sindacali notoriamente rappresentative per consistenza di iscritti e partecipazione alla trattativa, per il solo fatto di  una loro indisponibilità a sottoscrivere con la controparte datoriale un contratto collettivo. Una simile  negazione va correttamente ritenuta «una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum».

Prosegue la Consulta asserendo che: «Nel momento in cui  (la sottoscrizione di un contratto, ndr) viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività e si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione».

2. Non sembra superflua una breve cronistoria dell'evoluzione (rectius, involuzione) subita dal predetto art. 19 dello Statuto, tramite cui il legislatore del 1970 aveva inteso fissare i requisiti della cd. rappresentatività delle  Organizzazioni sindacali, anche ai fini della legittimazione alla costituzione in seno alle aziende di proprie propaggini organizzative designate con l'acronimo RSA (rappresentanze sindacali aziendali).

Il testo originario aveva accordato il sorgere delle Rsa nell'ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva.

A partire dalla seconda metà degli anni ottanta si sviluppò un ampio dibattito volto a rimarcare l'esigenza di una revisione del meccanismo selettivo della "maggiore rappresentatività" previsto ai fini della costituzione delle rappresentanze nei luoghi di lavoro, che ha trovato sbocco nei referendum abrogativi del 1995 promossi da Cobas e Rifondazione comunista e appoggiati dalla sinistra della Cgil, che produssero una profonda alterazione di una parte centrale dello statuto dei lavoratori.  Il primo, "massimalista", era volto ad ottenere l'abrogazione di tutti i criteri di maggiore rappresentatività adottati dall'articolo 19, alle lettere a) e b), mentre il secondo, "minimalista", mirava all'abrogazione dell'indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lettera a) e all'abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentatività effettiva prevista dalla lettera b). Poiché solo il secondo referendum raggiunse il quorum, per effetto dell'abrogazione referendaria  ne consegui che le rappresentanze sindacali aziendali potevano essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, unicamente nell'ambito delle associazioni sindacali che fossero firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva. In altre parole, l'abrogazione referendaria determinò la soppressione di ogni riferimento alla maggior rappresentatività delle Confederazioni, con la conseguenza che le Rsa potevano essere costituite nell'ambito di qualunque organizzazione sindacale, purché firmataria di un contratto collettivo, di qualunque livello (e dunque anche aziendale), applicato nell'unità produttiva.

All'indomani della consultazione popolare, tuttavia, non si mancò di sottolineare come l'abrogazione referendaria (pur coerente con la ratio di allargare il più possibile le maglie dell'agire sindacale anche a soggetti nuovi che fossero realmente presenti ed attivi nel panorama sindacale) rischiasse, nella sua accezione letterale, di prestare il fianco ad una applicazione sbilanciata: per un verso, in eccesso, qualora l'espressione «associazioni firmatarie» fosse intesa nel senso della sufficienza di una sottoscrizione (anche meramente adesiva) del contratto, a fondare la titolarità dei diritti sindacali in azienda (con virtuale apertura a sindacati di comodo); e, per altro verso, in difetto, ove interpretata, (la medesima espressione), come ostativa al riconoscimento dei diritti in questione nei confronti delle associazioni che, pur connotate da una azione sindacale sorretta da ampio consenso dei lavoratori, avessero ritenuto di non sottoscrivere il contratto applicato in azienda.

Insoddisfazione per la nuova situazione mostrarono di lì a poco i Cobas che avevano contribuito a determinarla, i quali nelle aziende non potevano vantare la qualità di soggetti firmatari. Nel ricorso alla Consulta da essi provocato sostennero che la norma doveva considerarsi illegittima perché rimetteva nella mani del datore di lavoro il potere di accreditare la controparte sindacale e quindi di condizionare il diritto, con inevitabile lesione della libertà sindacale. La Corte non accolse il ricorso (sentenza 244/1996). E' stato correttamente sottolineato come «nel clima unitario di allora, di fronte ad una denuncia di illegittimità che veniva sollevata da un sindacato decisamente minoritario, era inevitabile che la Corte si orientasse a confermare la legittimità costituzionale della disposizione, evitando in questo modo che si potesse pervenire ad un risultato, quello dell’eliminazione di qualsiasi criterio selettivo di riconoscimento del diritto alla Rsa che lo stesso referendum aveva scartato» [1].

L'articolo 19 dello Statuto superò, pertanto, il vaglio di costituzionalità sulla base di una esegesi costituzionalmente orientata che portò la Corte costituzionale a sostenere  che «la rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro espresso in forma pattizia», bensì dalla «capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale»; a queste considerazioni  accompagnò  la pertinente precisazione di inidoneità, ai fini del requisito di rappresentatività, della firma per adesione di contratti raggiunti da  altri. Espressamente disse: «Non è perciò sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto», e che «nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale, di un contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva» (sentenza n. 244 del 1996).

3. La decisione sopraricordata era consequenziale all'orientamento dottrinale e giurisprudenziale maggioritario maturato all'epoca, caratterizzato dall'affermazione dell' inesistenza di un obbligo datoriale  a trattare, della piena (o quasi) libertà di scelta dell'interlocutore negoziale (cd. partner, in senso spregiativo) fra le varie sigle sindacali che avevano presentato al datore le proprie piattaforme rivendicative, della conseguente discrezionale ricusabilità di talune di esse, in termini tuttavia tali da non concretizzare irragionevoli esclusioni che facessero atteggiare, nel raffronto, le sigle invece ammesse alla trattativa quali sindacati di comodo ex art. 17 Stat. lav.

In particolare la giurisprudenza di merito dell'epoca — in armonia con la maggioranza della dottrina — era giunta ad enfatizzare  la teoria della piena libertà di scelta del soggetto sindacale contraente sia in base a semplice preferenza datoriale (per maggiore affidabilità soggettiva o credibilità in un'organizzazione sindacale piuttosto che in un'altra e senza che naturalmente fosse riscontrabile un ruolo di "comodo" nel sindacato prescelto) sia per la capacità dello stesso di imporsi alla controparte aziendale attraverso un rapporto di forza. La più ricorrente giustificazione addotta per legittimare esclusioni dai negoziati venne giustappunto fondata sul rilievo conferito al rapporto di forza e alla capacità di coercizione delle OO.SS. ammesse alla trattativa, tanto che divenne  luogo comune, vero e proprio slogan, l'affermazione per cui: «non esiste nel nostro ordinamento un principio di parità di trattamento dei sindacati tra loro, in quanto il legislatore... ha individuato nel sindacato... non soltanto una manifestazione della generale libertà di associazione, ma anche, e soprattutto, lo strumento effettivo di autotutela collettiva dei lavoratori nel rapporto conflittuale tra capitale e lavoro, rapporto che, sia nell'ambito aziendale sia nell'ambito sociale, si svolge in termini di rapporto di forza»[2] .

E ancor con più chiarezza si disse: «Le trattative e le questioni dei soggetti sindacali legittimati alle trattative sono in sostanza rinviate dal legislatore a rapporti di forza sul luogo di lavoro, alla capacità delle associazioni sindacali di imporre il loro punto di vista, il che appare la logica conseguenza del costituzionale principio di libertà e di autonomia sindacale e di diritto di sciopero»[3]. Cosicché, con accorato calore, vennero  così apostrofati sindacati —  peraltro in possesso dei requisiti di cui all'art. 19 Stat. lav. (vecchio testo) per la maggiore rappresentatività — che avevano adito il giudice per lamentare l'antisindacalità della loro esclusione dalle trattative: «La propria immagine ogni sindacato se la deve costruire da sé e non è consentito ricorrere al giudice invocando il rimedio speciale di cui all'art. 28 legge  300/1970 per sopperire con la forza legale dei provvedimenti giudiziali al proprio difetto di forza per scarsa presenza tra i lavoratori o per debole combattività dei propri aderenti o per crisi di credibilità presso la base »[4].

Anche sotto il vecchio testo dell'art. 19 Stat. lav. (antecedente al referendum del 1995) non erano mancate, tuttavia, in giurisprudenza e dottrina prese di posizione meno inclini all'esclusiva valorizzazione dei rapporti di forza quale modello comportamentale per le relazioni sindacali, sfociate nella mitigazione della tesi della piena discrezionalità datoriale nell'ammissione (o meno) delle sigle sindacali alle trattative.

Militarono in questo più moderato orientamento, Cass., sez. lav., n. 1336 del 16 aprile 1976, Cass., sez. un., n. 3836 del 15 luglio 1976 e infine  Cass., sez. lav., n. 4850 del 15 luglio 1983; orientamento così sintetizzabile: «Il datore di lavoro che, di fronte ad istanze presentate da più sindacati, accetti l'incontro con alcuni e lo rifiuti ad altri, dei quali non dimostri il difetto dei requisiti indicati nell'art. 19 della l. n. 300, attua un comportamento che ... si risolve in contestazione del diritto degli esclusi a rappresentare quegli interessi dei dipendenti..., cui si accompagna una patente discriminazione, capace obiettivamente, ossia a prescindere dalle concrete sue motivazioni, di vanificare la presenza del sindacato escluso nell'ambiente di lavoro».... «Pertanto ... egli è tenuto a discutere con tutti quelli tra di essi che posseggono i requisiti di cui all'art. 19 del suddetto Statuto».

Principio che venne, nella sostanza, ripreso dalla sezione lavoro, nella decisione n. 4850 del 1983, e così espresso: «Il fatto che la legge 20 maggio 1970 n. 300 sancisca il principio della parità di trattamento (occupazionale) soltanto per i lavoratori, singolarmente considerati (art. 15), mentre per i sindacati fa proprio il criterio della maggiore rappresentatività sul piano nazionale, quale parametro indicante l'attitudine del sindacato ad esprimere in modo adeguato l'interesse del sottostante gruppo di lavoratori, non esclude che il principio generale di eguaglianza operi anche per i sindacati, nei confini del detto articolo 19».

Oltreché in Cassazione, anche in sede di merito si registrarono  impostazioni volte a sostenere una parità di accesso alle trattative da parte di OO.SS. dotate degli stessi requisiti di rappresentatività  di cui al vecchio testo dell'art. 19 Stat. lav., giacché una differenziazione - in carenza di oggettive diversificazioni - avrebbe assunto le caratteristiche della discriminazione antisindacale. Si disse infatti in talune sentenze che: «Quantunque non sussista, nel nostro ordinamento, un principio di piena e perfetta parità di trattamento tra sindacati in ordine alle loro varie prerogative, esso deve essere affermato (e quindi non può legittimamente farsi luogo a trattamento difforme) in ordine all'ammissione alle trattative per i sindacati in possesso dei comuni requisiti di rappresentatività di cui all'art. 19; l'eventuale differenziazione non attiene infatti ad aspetti marginali e accessori ma alla funzione primaria e caratterizzante di ogni sindacato, la cui negazione determina l'impossibilità radicale di esercitare l'attività di rappresentanza, rivendicazione e tutela degli interessi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti dei datore di lavoro»[5].

Ciò  ricordato, è  pacifico che nell'odierna sentenza n. 231/2013  la Consulta  non avrebbe potuto  affermare il diritto  alle  negate prerogative del Tit. III dello Statuto (Rsa e agibilità sindacali) per il sindacato Fiom/Cgil  - rappresentativo  alla pari e più di Fim/Cisl, Uilm/Uil  e Fismic/Confsal -   giacché il criterio  della rappresentatività sindacale, dopo la modifica referendaria del 1995, era stato ancorato in esclusiva alla sottoscrizione di un contratto collettivo (anche aziendale) con la controparte datoriale, sottoscrizione legittimamente rifiutata dalla sigla sindacale metalmeccanica, preferendo non acconsentire ad un contratto giudicato in perdita piuttosto che apporvi la propria firma al solo fine di fruire delle garanzie di agibilità in azienda.

Quindi la Consulta doveva valutare - e censurare, come ben ha fatto -  la giuridica compatibilità e la ragionevolezza (o meno) di quel criterio a suo tempo (nel 1995) scelto in esclusiva per l'individuazione del requisito della rappresentatività del sindacato, criterio imprudentemente disancorato dal rapporto fiduciario con la base dei lavoratori e, invece, tributario dell'ammiccante consenso dell'antagonista  controparte datoriale.

4. Il criterio fondante dell' attuale asserita incostituzionalità dell'art. 19, comma 1, lett. b)  Stat. lav.  riposa, pertanto, sulla negata costituzione di Rsa e  attribuzione di agibilità sindacali ad un sindacato maggiormente o significativamente rappresentativo, per il suo solo dissenso alla sottoscrizione del contratto collettivo alla cui trattativa ha preso parte attiva assieme ad altre sigle sindacali rappresentative.

Peraltro la Consulta non ha  soppresso o fatto tabula rasa di quel requisito esposto potenzialmente a rischio collusivo ma, con la sua sentenza additiva, ne ha neutralizzato l'esclusività, affiancandovi l'affermazione di una pari idoneità alla costituzione di Rsa da parte di sigle sindacali (quelle stesse o altre) che abbiano partecipato attivamente alle trattative pur essendosi sottratte alla firma dell'accordo, per proprie insindacabili valutazioni.

La partecipazione alle trattative costituisce, quindi - nel pensiero della Consulta - requisito imprescindibile a monte per le OO.SS. (e non poteva essere altrimenti).

Nell'assetto di asserita libertà negoziale e di inesistenza normativa nel settore privato di un diritto del sindacato all'ammissione al tavolo delle trattative, la discriminazione verso sigle sindacali sgradite per la loro irriducibilità, una volta fatta uscire (dalla sentenza n. 231/2013) dalla porta, potrebbe maliziosamente rientrare dalla finestra, tramite il rifiuto datoriale ad ammettere tali sigle al tavolo della trattativa, nonostante la loro richiesta di accesso accompagnata dalla presentazione di proprie piattaforme rivendicative.

E', invero, quello che adombra P.Ichino [6] quando afferma che «... il criterio della “partecipazione al negoziato” è un criterio destinato, dopo questa sentenza, a risultare di fatto inapplicabile.I casi sono, infatti, due. Se si intende il criterio enunciato dalla Corte nel senso che a un qualsiasi sindacato, per essere qualificato come “partecipante al negoziato”, basti presentare una piattaforma rivendicativa, allora il risultato è che quel criterio perde qualsiasi valore selettivo: anche il più insignificante dei sindacati, infatti, potrà accedere ai diritti di cui al titolo III dello Statuto col semplice presentare una propria proposta/richiesta all’imprenditore. Se invece si intende il criterio enunciato dalla Corte nel senso che non basti la presentazione di una piattaforma rivendicativa, ma occorra anche un’effettiva partecipazione al tavolo del negoziato, allora la sentenza perde ogni effetto pratico apprezzabile, lasciando sostanzialmente le cose come stanno: all’imprenditore basterà, infatti, respingere in limine la rivendicazione, rifiutando anche solo l’inizio di una discussione in proposito, per escludere quel sindacato – per quanto numerosi siano i suoi aderenti o sostenitori in seno all’azienda – dai diritti di cui al titolo III dello Statuto».

La pessimistica considerazione - utilizzabile da datori di lavoro spregiudicati anche quale escamotage - non ci trova peraltro consenzienti.

A parte il fatto che - come  evidenziato dalla giurisprudenza formatasi in vigenza del vecchio testo dell'art. 19  Stat. lav. (ante modifica referendaria), non a caso da noi riferita - sussistono indubbi limiti (sebbene normativamente inespressi) alla  facoltà datoriale di ricusare l' ammissione alle trattative, riposanti sulla "ragionevolezza" della motivazione legittimante,  sindacabile giudizialmente alla luce del disposto dell'art. 28 Stat. lav. inibitorio del comportamento antisindacale, va detto che l'aspetto discriminatorio  antisindacale viene concludentemente in emersione quando la sigla sindacale ricusata possiede notori requisiti di rappresentatività, non inferiori o diversi da quelli vantati dalle sigle sindacali ammesse al tavolo negoziale.

Se da parte nostra  si conviene pacificamente sulla attuale  carenza di individuazione a livello legislativo di inequivoci e ben identificati  indici o parametri di validazione della rappresentatività sindacale ai fini specifici della partecipazione alle trattative, talché in astratto le aziende potrebbero discrezionalmente scegliere e discrezionalmente ricusare le controparti da ammettere al tavolo negoziale,  merita segnalare come l'escamotage della non ammissione alle trattative  su basi discrezionali, sia stato dalla Consulta stessa non solo "fiutato" ma anche direttamente scoraggiato al punto 7 delle motivazioni della sentenza, laddove ricorda (anche ai "furbi") che ricorre nell'ordinamento lavoristico la sussistente  «... tutela dell’art. 28 dello Stat. Lav. nell’ipotesi di un eventuale non giustificato, negato accesso al tavolo delle trattative». Messaggio che evidenzia la presa di distanza, da parte della Consulta, dal pregresso prevalente orientamento assertore di una incondizionata libertà negoziale, legittimante una discrezionale ricusazione imprenditoriale dell'interlocutore sindacale, per l'opzione (da essa ritenuta preferenziale) verso una sindacabile giustificazione dell'eventuale atto datoriale preclusivo delle prerogative e dei diritti sindacali accordati dal legislatore alle OO.SS.

Non è infatti concepibile né ragionevole pensare che diritti prefigurati dal legislatore a favore del sindacato per la tutela degli interessi dei rappresentati possano essere vanificati e posti nel nulla da un insindacabile, ipotetico, atto emulativo della controparte, con la conseguenza che la mancata ammissione al negoziato di talune sigle sindacali (in presenza dell'accesso al tavolo negoziale di altre) dovrà necessariamente trovare giustificazione in dati obiettivi (tra cui, in primis, la verificata, attestabile, carenza di rappresentatività della sigla ricusata). Giacché  la presenza nell'ordinamento del divieto, ex art. 28 Stat. lav., di porre in essere comportamenti antisindacali impone che  il diniego datoriale di consentire l'accesso alle trattative superi il sospetto dell'essere unicamente ispirato dall'intento di nuocere e pregiudicare  deliberatamente la sigla sindacale ricusata.

Poiché, come evidenziato, l'espediente della non ammissione al tavolo negoziale sarebbe strumentalmente teso a precludere la concretizzazione  in capo alle sigle sindacali sgradite (seppur rappresentative)   del requisito della "attiva partecipazione" al negoziato - sufficiente (anche senza sbocco in sottoscrizione) a legittimare per esse la fruizione delle prerogative sindacali del Tit. III della l. n. 300/70 - esso non può assolutamente sottrarsi ad un riscontro di giustificatezza e di rispondenza quantomeno ai principi generali di correttezza e buona fede ex art. 1175-1375 c.c.

5. Infine la Consulta ha chiarito - sebbene con non perspicua chiarezza - come non rientrasse nei suoi compiti sostituirsi al legislatore  nella fissazione, a livello generale  o di sistema, di un indice selettivo della rappresentatività sindacale ai fini del riconoscimento della tutela privilegiata di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori  (costituzione di Rsa e fruizione di agibilità in azienda); l'individuazione dell'indice selettivo  ha asserito competere in esclusiva al legislatore, poiché l'attribuzione di prerogative di fonte legale (ex lege n. 300/70), dovendo essere uniforme e generalizzata per tutti i sindacati di esse potenzialmente destinatari, deve necessariamente  discendere da analoga fonte legale specificativa delle condizioni o indici di rappresentatività.

Peraltro va rilevato che - allo stato e salvo che non venga raccolta la diffusa esigenza di innovazione al riguardo - tale indice di rappresentatività  la Consulta lo ha ravvisato già sussistente  nell'ordinamento lavoristico (art. 19 Stat. lav.) e lo ha individuato nella capacità del sindacato di rivestire un ruolo di "attiva partecipazione al negoziato"; partecipazione ritenuta requisito probante di rappresentatività, valutato ancora idoneo e sufficiente, dopo che l'art. 19 è stato oggetto della propria correzione costituzionalmente orientata che l' ha portata non già a procedere ad  una espunzione del disposto censurato ma solo ad addizionarvi la  precisazione che il requisito della "attiva partecipazione alle trattative" si attualizza anche indipendentemente dalla firma degli esiti del negoziato concluso. A prescindere, pertanto, dalla loro condivisione da parte degli attivi negoziatori, che non può  risultare né condizionante né essere pretesa con l'effetto di sanzionare il dissenso dei dissenzienti tramite la privazione delle prerogative statutarie sindacali, giacché, altrimenti, ne uscirebbe infranta la incomprimibile libertà di autodeterminazione del sindacato, autonomo nella valutazione della congruità delle risultanze negoziali all'interesse dei propri rappresentati.

Affermata la sua estraneità ad una ipotetica rinnovazione del parametro della rappresentatività sindacale per la titolarità dei diritti statutari, la Consulta non cede, peraltro, alla tentazione di suggerire, per la scelta del legislatore, indici di rappresentatività, stavolta  funzionali  all'ammissione alle trattative, fase che intuitivamente riveste la caratteristica di presupposto per  la concretizzazione da parte del sindacato di quel del ruolo di partecipante attivo alle stesse, cui l'art. 19 correla la fruizione delle prerogative statutarie. Suggerisce e delinea, quindi,  una gamma di soluzioni opzionali per il legislatore, ravvisabili nella «valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti, o ancora nella introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento, o nell’attribuzione al requisito previsto dall’art. 19 dello Statuto dei lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva vigente, oppure al riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro».

L'indicazione  va interpretata come sollecitazione o messa in mora del legislatore affinché colmi con urgenza quello che alla stessa Consulta è apparso un persistente vuoto in ordine ai requisiti di rappresentatività dei sindacati per accedere alle trattative per il rinnovo dei contratti collettivi, ai vari livelli, lasciati alla fattuale capacità delle varie sigle sindacali di imporsi alla controparte tramite  iniziative basate sullo spiegamento di rapporti  di forza.

Gli indici selettivi di rappresentatività, esemplificativamente suggeriti,  attengono (si noti bene!) all'antecedente fase dell'accesso alle trattative che - a differenza di quello per la titolarità dei diritti sindacali - non sono stati oggetto di legislativa fissazione né nello Statuto né in altro disposto legislativo.

Nel vuoto normativo risultano, pertanto, legittime le discipline regolamentari  su base contrattuale privatistica volte a definire tali indici selettivi. Con la precisazione che le regole o i requisiti di rappresentatività per l'ammissione alle trattative ivi fissate (es. tramite una determinata soglia percentuale degli iscritti) sono vincolanti solo all'interno della cerchia dei soggetti (associazioni imprenditoriali e sindacali) che le hanno sottoscritte e condivise e non sono opponibili alle associazioni sindacali non firmatarie o dissenzienti. Quelle regole e quegli indici di rappresentatività non sono dotati di efficacia generale come lo sarebbero stati se provvisti della cogenza  istituzionale del legislatore, tramite fissazione in un testo legislativo.

Negare l'accesso alle trattative ad un'associazione sindacale non firmataria dell'Accordo intersindacale convenuto con altre sigle sindacali  nel quale sia stato  definito un indice di rappresentatività (esemplificativamente parametrato  ad una determinata soglia percentuale di iscritti,  cd. di sbarramento), non costituirebbe affatto giustificazione di quella ricusazione e, l'eventuale insistenza datoriale di assoggettare la sigla alla soglia di natura contrattuale privatistica  vincolante i soli contraenti, si infrangerebbe nella dichiarazione di inapplicabilità in sede giudiziaria.

Tenendo conto di queste conseguenze si può, in senso lato, ritenere che si sia espressa correttamente la Corte costituzionale quando ha fatto rientrare anche la  stessa fissazione dell'indice di rappresentatività sindacale per l'accesso alle trattative nella competenza del legislatore ("Compete al legislatore l’opzione tra queste od altre soluzioni"). Non già perché tale individuazione sia oggetto di riserva esclusiva del legislatore -  tale da rendere illegittime le eventuali pattuizioni adottate o assumende in sede contrattuale (tramite Accordi interconfederali e simili) - quanto perché solo la fissazione in un testo legislativo dota l'indice di rappresentatività per l'ammissione alle trattative di efficacia generale e lo rende estensibile a tutte le OO.SS., mentre quello definito in convenzioni intersindacali risulta vincolante solo all'interno della cerchia dei sottoscrittori.

Si pone, a questo punto, il problema - di non agevole soluzione - di quale destino sia riservato a quelle associazioni sindacali ricusate dall'ammissione alle trattative in conseguenza di una arbitraria estensione datoriale di un indice di rappresentatività che è inidoneo a vincolarle in quanto non facenti parte del novero dei firmatari di quell'accordo intersindacale in cui l'indice è stato convenuto.

Riteniamo ragionevolmente che le sigle escluse potrebbero ricorrere con successo al giudice per ottenere - se già considerate rappresentative in base a precedenti, più favorevoli, parametri (peggiorati dalla più elevata soglia di sbarramento introdotta) che hanno consentito loro di rivestire il ruolo di partecipanti alle antecedenti trattative -  la dichiarazione del loro diritto all'ammissione secondo le regole o le consuetudini precedenti, quindi per la disapplicazione ad esse del deteriore indice selettivo introdotto.

Più arduo, invece, il reperimento di una soluzione per quelle sigle ricusate che abbiano avanzato per la prima volta richiesta d'ammissione al tavolo negoziale, senza quindi aver beneficiato dell'applicazione di precedenti, meno penalizzanti, indici di rappresentatività, espressi in percentuale di iscritti.

La molteplicità delle problematiche suscettibili di insorgere in concreto, è tale che  non sembra più dilazionabile un intervento in materia del legislatore, che si faccia interprete di ragionevoli soluzioni.

Alla stregua delle precedenti considerazioni presenta, pertanto, i segnalati limiti di applicabilità circoscritta ai soli firmatari, il recente Accordo Interconfederale del 31 maggio 2013 (raggiunto in applicazione del precedente analogo del 28 giugno 2011), intercorso tra Cgil, Cisl, Uil e Ugl con Confindustria, nel settore industriale (senza recepimento da parte delle contrapposte associazioni del settore dei servizi, credito, assicurazioni, ecc.). Alla stipula si è giunti, da un lato per evitare che l'accesso alle trattative dipenda solo dalla insostenibilità datoriale delle iniziative conflittual-coercitive sindacali (peraltro onerose per i lavoratori), dall'altro per sottrarsi da parte aziendale al rischio che le ricusazioni di talune sigle siano esposte ad una sanzione giudiziale di antisindacalità per  ingiustificatezza delle proprie determinazioni.

A titolo meramente informativo segnaliamo che nel precitato Accordo Interconfederale del settore industriale, sono state pattuite regole per l'identificazione dei sindacati da ammettere alle trattative, per l'efficacia generalizzata (cd. erga omnes) dei contratti ai lavoratori della categoria, per il raffreddamento delle vertenze e di cd. pace sindacale.

In sintesi e senza entrare in tecnicismi in questa sede, è stato convenuto che:

a) per accedere alle trattative l'organizzazione sindacale aderente dovrà rappresentare (per consistenza di iscritti) almeno il 5% degli iscritti ai sindacati della categoria. Tale rappresentatività sarà determinata come media semplice fra il dato associativo e il dato elettorale, ossia tra la percentuale degli iscritti (sulla totalità degli iscritti) e la percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu (sul totale dei votanti). Quindi, il numero degli iscritti e il voto per le Rsu peseranno ognuno per il 50%;

b) i contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza avranno efficacia generalizzata per tutti i lavoratori della categoria ("saranno efficaci ed esigibili"), previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice;

c) la sottoscrizione formale dell'accordo costituisce atto vincolante per entrambe le parti, le quali si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti. I contratti collettivi nazionali di categoria, approvati alle condizioni descritte, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l'esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa.

Giustappunto per superare gli intrinseci limiti di circoscritta applicabilità, da più parti si è invocata la recezione dei criteri in un provvedimento legislativo dotato di efficacia generalizzata.

Peraltro occorre prudenza prima di caldeggiare la recezione in legge - con i già indicati effetti di generalizzata estensione a tutte le categorie merceologico-professionali - degli indici per l'individuazione della rappresentatività dei sindacati ai fini dell'ammissione alle trattative, fissati pattiziamente nel citato Accordo Interconfederale, a misura del settore industriale.

Qualora tra le varie opzioni suggerite dalla Consulta al legislatore nella sentenza n. 231/2013, venisse, infatti,  prescelto il criterio della consistenza numerica degli iscritti, la soglia di sbarramento del 5% per l'accesso alle trattative appare eccessiva e penalizzante  per le sigle sindacali dei comparti non industriali e dei servizi, nei quali la recezione eventuale della citata percentuale - valutata dai contraenti idonea per il settore industriale - implicherebbe traumatici sconvolgimenti dei criteri ivi vigenti e risultati nel tempo soddisfacenti, tanto da farne preferire la conservazione e non la sostituzione ex lege.

Restando in tema di individuazione di alternativi indici di rappresentatività sindacale, degno di considerazione da parte del legislatore si presenta altresì - in questa fase di accordi separati e di cd. "aziendalizzazione del diritto del lavoro" - il suggerimento della Consulta di eventualmente mantenere, nell'ambito delle soluzioni opzionali, quale indice di rappresentatività delle OO.SS. la loro idoneità alla negoziazione (disancorata dall'obbligo di sottoscrizione) di contratti collettivi di carattere generale (nazionali e teritoriali), in luogo e al posto di quelli aziendali che più si prestano a prefigurare riconoscimenti delle prerogative sindacali a "macchia di leopardo".

Invero è stata fin troppo privilegiata - a nostro avviso - la cd. "contrattazione di prossimità" (leziosa designazione, come argutamente notato da U. Romagnoli, coniata da un ex ministro del lavoro di centro destra), anche tramite il trattamento promozionale accordatogli  dall'art. 8 della l. n. 148/2011, a contenuto scardinante dell'assetto contrattuale vigente e delle stesse relazioni di lavoro e i cui guasti si sono evidenziati nella stessa vicenda che ha originato l'odierno intervento della Consulta, tanto che il citato disposto avrebbe già meritato una soluzione abrogativa, che, peraltro, tarda a giungere.

Ad ogni modo il criterio di rappresentatività sindacale adottabile dal legislatore dovrebbe essere - a nostro avviso - aperto e funzionale ad un'ampia agibilità per le sigle sindacali (anche tramite una modulazione al ribasso della soglia percentuale  di sbarramento degli iscritti, nel caso si volesse adottare l'indice della consistenza numerica degli aderenti), tale comunque da consentire alle OO.SS. una diffusa operatività, giacché lo spauracchio paralizzante del rischio della cd. "proliferazione incontrollata" di sigle sindacali nuove, inaffidabili e asseritamente inconsistenti, ha aleggiato, con effetti frenanti, per troppo tempo  sopra l'assetto normativo delle relazioni industriali.

Infatti, pur non auspicando affatto la frammentazione delle relazioni sindacali, riteniamo che vada decisamente  evitato il rischio di soffocare il sorgere di organismi sindacali nuovi ed emergenti - con l'esiziale effetto di favorire  solo la sclerotizzazione dell'assetto statico preesistente - giacché non risponde al vero che il "nuovo" sia meno idoneo a rappresentare gli interessi dei lavoratori del "vecchio", perché in un contesto economico innovativo  potrebbe essere realisticamente vero l'opposto, in ragione della capacità potenziale, tipica di sigle minoritarie o emergenti più snelle, di cogliere con maggiore intuito e prontezza le istanze meno tradizionali, più nuove e pressanti dell'attuale, più giovane, compagine lavorativa.

 

[1] Così F. Liso, nell'articolo antecedente alla pubblicazione delle motivazioni della Consulta, La decisione della Corte costituzionale sull’articolo 19 della legge n. 300/1970, in http://www.federalismi.it.

[2]  Così Pret. Roma  16 marzo 1985, in Lav. prev. oggi  1985,1520.

[3] Così Pret. Roma 25 ottobre 1985.

[4] Così Pret. Lodi 18 febbraio 1985, in Not. giurisp. lav.  1985, 2.

[5] Così Pret Roma (decreto) 17 dicembre 1985, confermato con sentenza nel giudizio di merito del 30 luglio 1986, Sanga-Cisal c. Aeroporti di Roma S.p.A., in Dir. prat. lav., 1986, 2545.

[6] Commento alla sentenza della Corte costituzionale 23 luglio 2013 n. 231, pubblicato su Linkiesta