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La Costituzione, le Pensioni e l’Equità

In quest’Italia che ha tanto bisogno di cambiamento, la Corte Costituzionale rischia di fare la parte della conservazione fine a se stessa. Suo malgrado, bisogna dirlo, visto che sovente Essa viene chiamata a esprimersi su un tessuto normativo che nel corso del tempo ha accumulato irrazionalità e incoerenze che adesso è difficile sciogliere una per una. Bisognava che la Corte si esprimesse di volta in volta non appena queste montavano. È accaduto per questioni riguardanti il mercato e la concorrenza: si pensi ai tanti ricorsi alla Corte in tema di regolamentazione delle libere professioni e alle controverse sentenze che ne sono scaturite (emblematico il caso delle farmacie). Sta accadendo adesso in materia pensionistica.

Il 5 Giugno 2013 la Sentenza n. 116/2013 ha dichiarato l’illegittimità del contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate. Destinato al generale obiettivo di consolidare le finanze pubbliche, per la Corte tale prelievo assume natura tributaria, e non può essere applicato ad una sola categoria, i pensionati, senza violare l’articolo 3 e l’articolo 53 della Costituzione, sull’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e sul carattere progressivo del nostro sistema tributario, che chiama a contribuire in base alla capacità e non per classificazioni categoriali.

Adesso che il prolungamento della crisi sta mettendo a dura prova la tenuta dell’economia e della società, si potrebbe esser tentati di criticare la Corte con argomenti di buonsenso politico. Anche la minore disponibilità di risorse per la sanità e per le non autosufficienze pesa su alcuni cittadini più che su altri, nonostante sia nella Costituzione il diritto a prestazioni omogenee su tutto il territorio nazionale. Anche il rarefarsi delle risorse per le casse integrazioni e per le indennità di disoccupazione rischia di pesare solo sui cittadini che perdono il lavoro e che pure sino al giorno prima hanno versato contributi a questi istituti. Persino il blocco degli aumenti contrattuali della PA, quando de facto richiesto dalle condizioni generali del bilancio pubblico, può vestirsi di luce discriminatoria (perché allora non bloccare gli scatti retributivi da contratto in tutti i settori, pubblici e privati, e avocarli al bilancio pubblico?). Gli esempi potrebbero continuare ma, è evidente, si muoverebbero su un piano profondamente diverso da quello del Diritto che è proprio della Corte, che deve giudicare sulla fattispecie su cui è adita e non può considerare aspetti esterni, come la congiuntura e gli equilibri sistemici sociali ed economici.

Nonostante siano state queste le reazioni immediate e comuni, ci sono altre ragioni per una valutazione critica della sentenza, riferibili direttamente e anzi interne alla fattispecie esaminata, e riguardanti gli stessi diritti soggettivi - all’uguaglianza di fronte alla legge e alla progressività nel trattamento tributario - che hanno ispirato il giudizio della Corte. Tali ragioni, valorizzate in modo opportuno sul piano giuridico, potrebbero cambiare i termini di legittimità del contributo richiesto alle pensioni, o quantomeno portare nuovi concreti elementi all’attenzione della Corte.

Le riforme del 1992 e del 1995, che più di tutte hanno modificato il volto del nostro sistema pensionistico, hanno salvaguardato i lavoratori che avevano già maturato anni di contribuzione, non coinvolti affatto o coinvolti solo in parte (a seconda dell’anzianità) dai cambiamenti. Per i neoassunti dopo il 1995 è entrato in vigore il criterio di calcolo contributivo neutrale in termini finanziari, con i contributi accumulati nel tempo al tasso di crescita del Pil e trasformati in rendita tenendo conto dell’età e della vita residua del percettore. Per tutti gli altri i trattamenti hanno mantenuto in toto o in parte il generoso calcolo retributivo, restituendo in pensioni più del valore accumulato dei contributi.

Per offrire un’idea di quanto ampia possa essere la sproporzione, si consideri il caso di lavoratori andati in pensione nel 1990 all’età di 55 anni compiuti e con 30 anni di contributi (allora si poteva). Si tratta di pensioni retributive calcolate con le irresponsabili regole precedenti le riforme del ’92 e ’95. Nel 1990 la vita attesa a 55 anni era pari a circa 22,5 anni, e alcuni di questi pensionati sono ancora in vita. Se si parte da una soglia anagrafica di pensionamento pari a 65 anni oggi, e si procede all’indietro riducendola allo steso ritmo con cui in futuro essa seguirà l’allungamento della vita attesa per effetto delle riforme del 2011 e del 2012 (3 mesi ogni 3 anni), nel 1990 il pensionamento sarebbe dovuto avvenire a 62,7 anni, con una vita residua di poco meno di 17 anni. La pensione avrebbe dovuto esser erogata per meno di 17 anni e non per 22,5. Oppure, per ripristinare l’equità tra le due rendite, la pensione avrebbe dovuto (dovrebbe) essere inferiore di circa il 24% (usando come tasso di sconto l’1,5% con cui il montante è trasformato nelle regole contributive introdotte nel 1995). Il dettaglio dei calcoli è disponibile su www.ilsole24ore.com [1].

Il criterio appena descritto può esser applicato per misurare la generosità anche delle pensioni retributive con decorrenza successiva al 1992 e delle pensioni miste (con una quota retributiva e una contributiva) di coloro che al 1995 avevano maturato meno di 18 anni di anzianità. A seconda della precocità con cui ci si è pensionati e delle regole di computo, la percentuale di correzione ovviamente cambia. Solo le pensioni calcolate interamente con le regole contributive, quelle dei neoassunti dopo il 1995, quelle dei giovani, non possono contenere “regali” rispetto ai contributi versati.

Applicare un contributo di solidarietà alle pensioni più alte significa tentare di riassorbire i vantaggi ingiustificati che sono stati concessi, al di fuori di qualunque logica equitativa e redistributiva, a causa della lentezza del Legislatore ordinario nel capire le criticità (demografia, nuovi bisogni, mercato del lavoro, bassa crescita, etc.) e nel riformare il sistema di welfare.

Se il problema principale ravvisato dalla Corte è nell’obiettivo di riassesto delle finanze pubbliche, di portata generale e per ciò stesso non addossabile su una sola categoria di cittadini/redditi, non si può ignorare che l’intervento mirava a sanare una condizione di squilibrio tutta interna al sistema pensionistico e poi trasferitasi, nel tempo, sui saldi di finanza pubblica. Se, come si legge nella sentenza, la Corte vuole scongiurare che i pensionati siano discriminati rispetto ai lavoratori nell’assolvimento del dovere tributario, non si può non sottolineare come la generosità dei trattamenti pensionistici si traduca in maggiore sforzo (con imposte o con contributi non fa differenza, è tax labelling) che i lavoratori delle generazioni successive devono compiere per finanziare quelle pensioni generose. In una prospettiva intergenerazionale, stiamo già vivendo una situazione di discriminazione ma opposta a quella paventata dalla Corte, come testimoniato dall’alto cuneo fiscale-contributivo sui redditi da lavoro che deprime la produttività e ostacola la nuova occupazione, a discapito soprattutto dei giovani. L’intervento mirava a rimuovere o quantomeno ad attenuare tale discriminazione. La nostra Costituzione fonda la Repubblica sul lavoro, e questo principio non può valere per una sola generazione e mancare di continuità nel tempo attraverso le generazioni. Se, infine, la terza preoccupazione della Corte è la salvaguardia della progressività tributaria, restringere l’intervento alle pensioni elevate, e soprattutto ancorarlo a delle quantificazioni come quella qui proposta, offrirebbe garanzie di rispetto dell’equità sia orizzontale che verticale. La Corte, invece di un rigetto assoluto, avrebbe potuto chiedere tali garanzie e subordinare il giudizio di legittimità ad un miglior disegno dell’intervento.

Se il tema fosse stato presentato in questi termini, il giudizio della Corte avrebbe potuto esser diverso. Non è tardi per spiegarsi, mantenendo pieno rispetto della separazione dei poteri e della Corte. Anche perché di sentenze della Corte Costituzionale che colgano a fondo forma e sostanza dei problemi e del Diritto ci sarà tanto bisogno nei prossimi mesi e nei prossimi anni.

[1] Cfr.: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-05-22/pensionamento-flessibile-equilibrio-generazioni-171845.shtml?uuid=AbvxUEyH&p=2. In quest’Italia che ha tanto bisogno di cambiamento, la Corte Costituzionale rischia di fare la parte della conservazione fine a se stessa. Suo malgrado, bisogna dirlo, visto che sovente Essa viene chiamata a esprimersi su un tessuto normativo che nel corso del tempo ha accumulato irrazionalità e incoerenze che adesso è difficile sciogliere una per una. Bisognava che la Corte si esprimesse di volta in volta non appena queste montavano. È accaduto per questioni riguardanti il mercato e la concorrenza: si pensi ai tanti ricorsi alla Corte in tema di regolamentazione delle libere professioni e alle controverse sentenze che ne sono scaturite (emblematico il caso delle farmacie). Sta accadendo adesso in materia pensionistica.

Il 5 Giugno 2013 la Sentenza n. 116/2013 ha dichiarato l’illegittimità del contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate. Destinato al generale obiettivo di consolidare le finanze pubbliche, per la Corte tale prelievo assume natura tributaria, e non può essere applicato ad una sola categoria, i pensionati, senza violare l’articolo 3 e l’articolo 53 della Costituzione, sull’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e sul carattere progressivo del nostro sistema tributario, che chiama a contribuire in base alla capacità e non per classificazioni categoriali.

Adesso che il prolungamento della crisi sta mettendo a dura prova la tenuta dell’economia e della società, si potrebbe esser tentati di criticare la Corte con argomenti di buonsenso politico. Anche la minore disponibilità di risorse per la sanità e per le non autosufficienze pesa su alcuni cittadini più che su altri, nonostante sia nella Costituzione il diritto a prestazioni omogenee su tutto il territorio nazionale. Anche il rarefarsi delle risorse per le casse integrazioni e per le indennità di disoccupazione rischia di pesare solo sui cittadini che perdono il lavoro e che pure sino al giorno prima hanno versato contributi a questi istituti. Persino il blocco degli aumenti contrattuali della PA, quando de facto richiesto dalle condizioni generali del bilancio pubblico, può vestirsi di luce discriminatoria (perché allora non bloccare gli scatti retributivi da contratto in tutti i settori, pubblici e privati, e avocarli al bilancio pubblico?). Gli esempi potrebbero continuare ma, è evidente, si muoverebbero su un piano profondamente diverso da quello del Diritto che è proprio della Corte, che deve giudicare sulla fattispecie su cui è adita e non può considerare aspetti esterni, come la congiuntura e gli equilibri sistemici sociali ed economici.

Nonostante siano state queste le reazioni immediate e comuni, ci sono altre ragioni per una valutazione critica della sentenza, riferibili direttamente e anzi interne alla fattispecie esaminata, e riguardanti gli stessi diritti soggettivi - all’uguaglianza di fronte alla legge e alla progressività nel trattamento tributario - che hanno ispirato il giudizio della Corte. Tali ragioni, valorizzate in modo opportuno sul piano giuridico, potrebbero cambiare i termini di legittimità del contributo richiesto alle pensioni, o quantomeno portare nuovi concreti elementi all’attenzione della Corte.

Le riforme del 1992 e del 1995, che più di tutte hanno modificato il volto del nostro sistema pensionistico, hanno salvaguardato i lavoratori che avevano già maturato anni di contribuzione, non coinvolti affatto o coinvolti solo in parte (a seconda dell’anzianità) dai cambiamenti. Per i neoassunti dopo il 1995 è entrato in vigore il criterio di calcolo contributivo neutrale in termini finanziari, con i contributi accumulati nel tempo al tasso di crescita del Pil e trasformati in rendita tenendo conto dell’età e della vita residua del percettore. Per tutti gli altri i trattamenti hanno mantenuto in toto o in parte il generoso calcolo retributivo, restituendo in pensioni più del valore accumulato dei contributi.

Per offrire un’idea di quanto ampia possa essere la sproporzione, si consideri il caso di lavoratori andati in pensione nel 1990 all’età di 55 anni compiuti e con 30 anni di contributi (allora si poteva). Si tratta di pensioni retributive calcolate con le irresponsabili regole precedenti le riforme del ’92 e ’95. Nel 1990 la vita attesa a 55 anni era pari a circa 22,5 anni, e alcuni di questi pensionati sono ancora in vita. Se si parte da una soglia anagrafica di pensionamento pari a 65 anni oggi, e si procede all’indietro riducendola allo steso ritmo con cui in futuro essa seguirà l’allungamento della vita attesa per effetto delle riforme del 2011 e del 2012 (3 mesi ogni 3 anni), nel 1990 il pensionamento sarebbe dovuto avvenire a 62,7 anni, con una vita residua di poco meno di 17 anni. La pensione avrebbe dovuto esser erogata per meno di 17 anni e non per 22,5. Oppure, per ripristinare l’equità tra le due rendite, la pensione avrebbe dovuto (dovrebbe) essere inferiore di circa il 24% (usando come tasso di sconto l’1,5% con cui il montante è trasformato nelle regole contributive introdotte nel 1995). Il dettaglio dei calcoli è disponibile su www.ilsole24ore.com [1].

Il criterio appena descritto può esser applicato per misurare la generosità anche delle pensioni retributive con decorrenza successiva al 1992 e delle pensioni miste (con una quota retributiva e una contributiva) di coloro che al 1995 avevano maturato meno di 18 anni di anzianità. A seconda della precocità con cui ci si è pensionati e delle regole di computo, la percentuale di correzione ovviamente cambia. Solo le pensioni calcolate interamente con le regole contributive, quelle dei neoassunti dopo il 1995, quelle dei giovani, non possono contenere “regali” rispetto ai contributi versati.

Applicare un contributo di solidarietà alle pensioni più alte significa tentare di riassorbire i vantaggi ingiustificati che sono stati concessi, al di fuori di qualunque logica equitativa e redistributiva, a causa della lentezza del Legislatore ordinario nel capire le criticità (demografia, nuovi bisogni, mercato del lavoro, bassa crescita, etc.) e nel riformare il sistema di welfare.

Se il problema principale ravvisato dalla Corte è nell’obiettivo di riassesto delle finanze pubbliche, di portata generale e per ciò stesso non addossabile su una sola categoria di cittadini/redditi, non si può ignorare che l’intervento mirava a sanare una condizione di squilibrio tutta interna al sistema pensionistico e poi trasferitasi, nel tempo, sui saldi di finanza pubblica. Se, come si legge nella sentenza, la Corte vuole scongiurare che i pensionati siano discriminati rispetto ai lavoratori nell’assolvimento del dovere tributario, non si può non sottolineare come la generosità dei trattamenti pensionistici si traduca in maggiore sforzo (con imposte o con contributi non fa differenza, è tax labelling) che i lavoratori delle generazioni successive devono compiere per finanziare quelle pensioni generose. In una prospettiva intergenerazionale, stiamo già vivendo una situazione di discriminazione ma opposta a quella paventata dalla Corte, come testimoniato dall’alto cuneo fiscale-contributivo sui redditi da lavoro che deprime la produttività e ostacola la nuova occupazione, a discapito soprattutto dei giovani. L’intervento mirava a rimuovere o quantomeno ad attenuare tale discriminazione. La nostra Costituzione fonda la Repubblica sul lavoro, e questo principio non può valere per una sola generazione e mancare di continuità nel tempo attraverso le generazioni. Se, infine, la terza preoccupazione della Corte è la salvaguardia della progressività tributaria, restringere l’intervento alle pensioni elevate, e soprattutto ancorarlo a delle quantificazioni come quella qui proposta, offrirebbe garanzie di rispetto dell’equità sia orizzontale che verticale. La Corte, invece di un rigetto assoluto, avrebbe potuto chiedere tali garanzie e subordinare il giudizio di legittimità ad un miglior disegno dell’intervento.

Se il tema fosse stato presentato in questi termini, il giudizio della Corte avrebbe potuto esser diverso. Non è tardi per spiegarsi, mantenendo pieno rispetto della separazione dei poteri e della Corte. Anche perché di sentenze della Corte Costituzionale che colgano a fondo forma e sostanza dei problemi e del Diritto ci sarà tanto bisogno nei prossimi mesi e nei prossimi anni.

[1] Cfr.: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-05-22/pensionamento-flessibile-equilibrio-generazioni-171845.shtml?uuid=AbvxUEyH&p=2.