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La qualifica di dirigente non è subordinata al gradimento aziendale

1. Premessa

La problematica ruotante intorno al cosiddetto “riconoscimento formale” aziendale (o atto di cosiddetta investitura per gradimento) considerato da taluni Ccnl imprescindibile per potersi fregiare della qualifica di dirigente  d'azienda − eminentemente di quelle del  credito e delle  assicurazioni − è stato oggetto di diverse trattazioni da parte nostra in tempi oramai datati[1].

Il nostro ritorno in argomento è stato occasionato dalla lettura della recente Cassazione 11 settembre 2013, n. 20839, confermativa (unitamente a precedenti sul tema) delle conclusioni da noi, a suo tempo, raggiunte nel senso della totale inidoneità della volontà unilaterale datoriale a precludere il conferimento della qualifica dirigenziale in presenza di un effettivo ruolo rivestito  nel disimpegno di oggettive e specifiche mansioni caratterizzate da autonomia, responsabilità e facoltà decisionali.

La precitata sentenza è stata emessa in un contenzioso tra un dipendente di banca rivendicante l'inquadramento a dirigente, negatogli dall'azienda sulla base dell'anacronistico disposto dell'articolo 77 del Ccnl  dei direttivi del credito del 1987, costantemente reiterato in tutti i rinnovi contrattuali fino al vigente del 29 febbraio 2012, che così recita: «Ai fini del presente contratto sono dirigenti i lavoratori/lavoratrici subordinati, ai sensi dell’articolo 2094 del codice civile, come tali qualificati dall’azienda in quanto ricoprano un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, di autonomia e potere decisionale ed esplichino le loro funzioni di promozione, coordinamento e gestione generale al fine di realizzare gli obiettivi dell’azienda».

2. Conferimento della qualifica su investitura aziendale

La clausola soprariferita è nota, alla dottrina e alla giurisprudenza di Cassazione che se n'è occupata, come “clausola di riconoscimento formale” o di “investitura” aziendale, finalizzata da parte datoriale a far sì che il conferimento della qualifica di dirigente, a prescindere dalla qualità e responsabilità immanenti alle mansioni disimpegnate dal lavoratore, sia sottoposto al gradimento aziendale, talché la qualifica non scatta se l'azienda non la riconosce all'aspirante alla categoria dirigenziale con un provvedimento formale (comunicazione, lettera o equipollente).

 

In fattispecie la Banca ricorrente lamentava la trascuratezza da parte della sentenza di appello  di un fatto da essa ritenuto decisivo per il giudizio, costituito dai requisiti previsti dal Ccnl credito per la “qualifica” dirigenziale, ove il Ccnl del 1987 la riconosceva solo a fronte della formale attribuzione della stessa ad opera dell'azienda.

Nel respingere come infondata la censura, la Cassazione afferma che l'addebito rivolto alla decisione della corte territoriale è insussistente in quanto «questa S.C., unitamente alla più attenta dottrina, ritiene, che le clausole come quella riportata, definite di mero riconoscimento formale, debbano considerarsi nulle poiché non ancorate alla necessaria natura obiettiva delle mansioni e dei compiti di fatto svolti (ex articolo 2094 Codice Civile), di cui la qualifica è definizione formale (Cass. sez. un. n. 5031 del 1985; Cass. n. 4314 del 1988, etc.), ma unicamente ad una unilaterale ed arbitraria scelta datoriale».

Con motivazione incisiva quanto scarna per autolimitazione all'essenziale, l'odierna decisione della  Cassazione  vanifica − in senso confermativo del proprio pensiero in precedenti sentenze espresso − la clausola di cosiddetto “riconoscimento formale” del settore bancario.

Detta clausola ripete quella vigente fino al 1975 nel settore industriale, dizione che, peraltro, venne poi abbandonata in tale settore nel rinnovo contrattuale del 4 aprile 1975, anche a seguito di sanzioni di nullità da parte della Cassazione  in ordine al presunto effetto condizionante il conferimento della qualifica ad opera del cd. «riconoscimento formale» aziendale.

Le aziende di credito, a differenza delle industriali, non si sono mai private di questa clausola, caparbiamente mantenuta nei Ccnl succedutisi nel tempo fino al vigente del 29.2.2012 (che la reitera all'articolo 2, comma 1), dimostrando concludentemente di essere rimaste indietro di quasi quarant'anni rispetto alla «svolta» operata – in tema classificatorio/inquadramentale – dal Ccnl dei dirigenti d’industria del 1975, ove l’inquadramento consegue esclusivamente per effetto del possesso dei requisiti oggettivi di responsabilità e professionalità contrattualmente codificati (e quindi indipendentemente dalla condizionante «investitura formale» aziendale).

Tanto basta ad evidenziare emblematicamente come nel settore bancario si sia persa, ad ogni rinnovo, l’occasione per disfarsi compiutamente di quella patina di vetustà che affligge da tempo il costrutto e l’assetto normativo dei contratti di settore, ispirati, dal lato imprenditoriale, ad una concezione sostanzialmente autoritaria, solo formalmente mascherata (ma nient’affatto scalfita nel concreto) da mere dichiarazioni di tenore «partecipativo» fra azienda, personale e strutture sindacali; dichiarazioni esemplificativamente reperibili nella definizione programmatica del ruolo delle rappresentanze sindacali (cfr. articolo 7 Ccnl 2000 – ora articolo 33, comma 3, Ccnl 29.2.2012 – secondo il quale: «Le parti ritengono che il rapporto con i dirigenti si deve ispirare ad un modello partecipativo e che gli interventi degli organismi sindacali […] dovranno essere effettuati coerentemente al ruolo e alla funzione in azienda del personale destinatario del presente contratto»).

La dizione contemplante il condizionante requisito del «riconoscimento formale» della qualifica di dirigente è una dizione d’epoca, dei primordi della contrattazione collettiva, tralatiziamente ripropostasi nel settore creditizio senza significative innovazioni di filosofia inquadramentale nei vari rinnovi contrattuali. Essa è ispirata al superato (oltreché illegittimo, se esclusivo o condizionante il diritto alla qualifica, secondo la migliore dottrina e la stessa Cassazione) criterio del «riconoscimento formale» aziendale ai fini dell’accesso alla categoria giuridica (o qualifica contrattuale) in questione.

Giustamente, quindi, in un datato articolo di dottrina[2], il consigliere di Cassazione R. Panzarani notava come «con riferimento agli istituti di credito ed alle clausole del contratto collettivo nazionale per il personale direttivo di dette aziende che del dirigente forniscono ancora (riferendo formule che risalgono al 1951) una nozione “nominalistica” (è dirigente chi riceva un’investitura formale) è chiara la diversa ed assai esauriente definizione che del dirigente stesso è offerta da altri contratti collettivi, in particolare da quello per i dirigenti delle aziende industriali [..]. È comprensibile pertanto che i dirigenti bancari siano animati dall’intento di acquisire un’identità più contenutistica, al che solo la contrattazione collettiva può adeguatamente provvedere».

3. L'esigenza di una identificazione, per requisiti obiettivi, del dirigente

Un esame comparativo con altri settori evidenzia come − mentre nel settore commerciale sin dal 1957 (Ccnl 2 maggio 1957, recepito in Decreto del Presidente della Repubblica 15 ottobre 1960, n. 1448, e quindi reso erga omnes) la qualifica di dirigente è stata ancorata evolutivamente a requisiti obiettivi (mandato in forza del quale poter disporre della direttiva da imprimere agli affari aziendali, ecc.) − una rilevanza al «riconoscimento formale», simile a quella a tutt’oggi reperibile nell’articolo 2 Ccnl 29.2.2012 per i dirigenti del credito, era conferita nei Ccnl dei dirigenti d’industria, a partire da quello del 5 dicembre 1966 (e fino al 1975), sebbene tale contratto non trascurasse affatto l’aspetto delle mansioni, attraverso esemplificazioni di disimpegno di funzioni.

Disponeva appunto l’articolo 1 del Ccnl 5 dicembre 1966 per i dirigenti di aziende industriali, che erano tali «gli institori, i direttori e condirettori tecnici e amministrativi, i capi di importanti servizi e uffici che esercitano ampi poteri direttivi, i procuratori ai quali la procura conferisca in modo continuativo detti poteri o la rappresentanza di tutta o di una notevole parte dell’azienda […] sempreché […] concorra il riconoscimento formale della qualifica di dirigente da parte delle aziende associate […]».

Come anticipato,tale formulazione, ad ogni buon conto, venne pattiziamente abbandonata – anche a seguito delle reiterate dichiarazioni di illegittimità della Suprema Corte[3] – nella stesura del Ccnl 4 aprile 1975 per i dirigenti industriali, ove il «riconoscimento formale» venne incisivamente sostituito dalla dizione assertrice che «l’esistenza di fatto delle condizioni (cioè dei requisiti di cui al comma 1 dell’articolo 1, pattiziamente delineanti i tratti caratterizzanti del dirigente, n.d.r.) comporta l’attribuzione della qualifica e quindi l’applicabilità del presente contratto».

La Suprema Corte giunse a dichiarare la nullità, ex articolo 1419 del Codice Civile, per contrarietà a norme imperative, della clausola di «riconoscimento formale» del vecchio Ccnl dei dirigenti d’industria, per un evidente contrasto con gli articoli 2095 e 2103 del Codice Civile.

In effetti, la ratio, oltreché la lettera, dell’articolo 2103 del Codice Civile è tesa a strutturare, in via generale la soluzione di acquisizione delle categorie (o qualifiche) per esercizio di mansioni verificabili e sindacabili nella loro scala di valore (da inferiori a superiori). E l’articolo 2095, comma 2, del Codice Civile in congiunzione con l’articolo 96 delle disposizioni attuative del Codice Civile, esplicitamente conferisce in esclusiva al legislatore o all’autonomia collettiva il compito di definire i requisiti per l’appartenenza alle categorie legali ed alle loro specificazioni contrattuali, estrinsecantesi nelle qualifiche tramite cui esse si articolano in concreto, a seconda delle realtà settoriali o di singola impresa.

Quanto sopra nell’intento, da un lato, di sottrarre alla discrezionalità unilaterale aziendale la fissazione dei presupposti per l’inquadramento dei lavoratori, in quanto, secondo Cassazione n. 1497/1975, «va escluso che la contrattazione collettiva possa rimettere alla volontà del datore di lavoro […] la determinazione di un elemento rilevante agli effetti dell’inquadramento nella categoria […] che la legge demanda invece all’autonomia collettiva», atteso che il comma 2 dell’articolo 2095 del Codice Civile dispone che «le leggi speciali e le norme corporative (ora collettive, n.d.r.), in relazione a ciascun ramo di produzione ed alla particolare struttura dell’impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie». Dall’altro, per evitare che il «potere−dovere» del giudice di determinare (a richiesta, in caso di contenzioso) la qualifica spettante al lavoratore sulla base dell’accertamento delle mansioni disimpegnate, «venga sostituito da un sistema classificatorio fondato su un atto unilaterale ed, eventualmente, arbitrario del datore di lavoro»[4].

4. Pregresse e attuali critiche alla valorizzazione contrattuale del «riconoscimento formale» aziendale

L’articolo 2, comma 1,  del Ccnl 29 febbraio 2012  per i dirigenti del credito – conformemente agli omologhi articoli dei Ccnl precedenti – conferisce ancora all’investitura formale carattere di sacralità.

La scarsa dottrina che – in vigenza del vecchio testo del Ccnl dirigenti del credito – si è occupata della questione nell’ambito di trattazioni più generali [5], non ha potuto non sottolineare quanto in precedenza da noi rilevato. E cioè che, mentre nel settore commerciale la definizione del dirigente si viene a modellare quasi istantaneamente sulle formule giurisprudenziali (tese a dare rilevanza all’effettività e qualità delle funzioni o mansioni), mentre anche nel settore industriale il processo si compie, quantunque più tardi e su sollecitazione giurisprudenziale, il Ccnl dei dirigenti del credito «contiene la formula più elastica»[6], cioè a dire, eufemismi a parte, la più oscurantista.

La clausola di «riconoscimento formale», giudicata dalla dottrina – invero peccando nel sottovalutare il ruolo e la responsabilità delle resistenze ed ostruzionismi all’innovazione da parte delle associazioni imprenditoriali – come «l’aspetto più appariscente, esemplare, di un generale quadro di riferimento caratterizzato dall’abdicazione, da parte dei sindacati dirigenziali, della loro stessa funzione di autodisciplina e di autorganizzazione che le attuali strutture dell’ordinamento sindacale assegnano loro […]»[7], non solo è stata abbandonata su basi di forza contrattuale nel settore industriale ma altresì dichiarata illegittima dall’oramai consolidata giurisprudenza della Cassazione, se intesa come attributiva di un’esclusiva e condizionante rilevanza alla volontà unilaterale del datore di lavoro agli effetti di far rivestire al lavoratore la qualifica dirigenziale, a prescindere dall’effettività, consistenza, adeguatezza e autonomia delle mansioni.

Oltre alle decisioni in precedenza citate in nota per il settore industriale, in senso conforme – nel settore assicurativo contenente analoga clausola di «riconoscimento formale» – si sono pronunciate Cassazione n. 5806/1985 [8] e Cassazione n. 3773/1985 [9], secondo cui «è nulla per violazione dell’articolo 2103 Codice Civile la norma del contratto collettivo che subordini il diritto del lavoratore ad ottenere la qualifica superiore […] ad un espresso riconoscimento – e quindi ad un discrezionale apprezzamento – da parte del datore di lavoro, della sussistenza del presupposto per l’avanzamento stesso, rappresentato dall’espletamento, ad opera del dipendente, di mansioni superiori».

5. L’orientamento assunto dalla Cassazione nel corso del tempo e gli equivoci nel giudicare la pregressa clausola del settore creditizio

La decisioni della Cassazione (antecedenti alla recentissima sentenza 11 settembre 2013, n. 20839), nel dichiarare nulle ex articolo 1419 del Codice Civile – per contrasto con le prescrizioni di cui agli articoli 2095 e 2103 del Codice Civile – le clausole contrattuali di «riconoscimento formale» della qualifica nel senso sopraindicato, ebbero a rilevare come l’articolo 2095 del Codice Civile rinvii alla contrattazione collettiva la fissazione dei requisiti costitutivi della qualifica (cioè a dire ad un atto di volontà negoziale, non già unilaterale del datore di lavoro) e come tali requisiti debbano essere di natura sostanziale (in tal senso, specificatamente, Cassazione n. 47/1983), atteso che il comma 2 del predetto articolo specifica che essi vanno fissati «in relazione a ciascun ramo di produzione ed alla particolare natura dell’impresa».

Queste caratteristiche non erano affatto presenti sia nella precedente definizione pattizia del «funzionario» del credito – quale risultante dal comma 4 dell’articolo 4 del Ccnl 22 giugno 1995 – sia in quella del «dirigente» bancario, quale risultante dalla formulazione dell’articolo 83 dello stesso Ccnl, ma tale carenza non impedì ad alcune decisioni[10] della Suprema corte di non ritenere nulla la clausola di «riconoscimento formale»  del settore sull’erroneo convincimento che l’allegato 4 (in precedenza 7) al Ccnl 22 giugno 1995 (cui l’articolo 83 rinvia per l’individuazione dei gradi in cui autonomamente e non già pattiziamente, ciascuna azienda ha articolato la qualifica dirigenziale) costituisse «atto di autonomia collettiva» e, come tale, non contrastante con la prescrizione contenuta nell’articolo 2095, comma 2, del Codice Civile

La Corte di Cassazione cadde all’epoca nell’equivoco di attribuire valore «negoziale» ad un allegato (n. 4) che invero costituiva una mera presa d’atto – sindacalmente improvvida – di autonome iniziative o determinazioni aziendali, la cui natura non negoziale risultava pacificamente confermata dal comma 3 dello stesso articolo 83 (già articolo 79) che riconosceva alle aziende di credito la facoltà di apportare (unilaterali) variazioni ai gradi di dirigente ivi elencati in relazione ad esigenze organizzative che abbiano implicato mutamenti nell’inquadramento e struttura delle filiali o stabilimenti, senza accordare alcun ruolo di intervento negoziale alle Delegazioni sindacali aziendali al riguardo.

D’altra parte anche se andava riconosciuta all’organizzazione imprenditoriale un’indubbia abilità nel senso di far atteggiare a «graficamente» pattizio l’allegato in questione – sia per il tramite dell’inclusione nel corpo del vecchio Ccnl sia attraverso comunicazioni di aggiornamento dei gradi alle Oo.Ss. stipulanti – tanto da ingenerare nell’organo giurisdizionale l’equivoco in precedenza sottolineato, chi scrive giudicò, a suo tempo, non scusabile l’addizionale fatto che la Cassazione avesse potuto considerare correttamente adempiuta la sostanzialistica prescrizione del comma 2 dell’articolo 2095 del Codice Civile, afferente alla predeterminazione dei requisiti identificativi della categoria (o qualifica) in questione.

Invero l’allegato n. 4 conteneva pressoché esclusivamente la sequenza nominalistica dei gradi di «dirigente» in atto presso ogni azienda imprenditorialmente associata (similmente ad un organigramma inesplicitato); giungendo a rifluire nella concretizzazione di vere e proprie tautologie, laddove si perveniva a desumere – ex articolo 83 in congiunzione con le dizioni dell’allegato 4 – che «sono dirigenti presso la banca x, il direttore generale, i vice direttori generali, i direttori centrali, i condirettori centrali e cosi via».

Senza che fossero in alcun modo indicati i requisiti alla cui stregua i predetti gradi acquisivano contenuto effettivo e concreto (sia di per se, sia in termini differenzianti l’uno dall’altro), per (invero non delineata) autonomia, responsabilità, ampiezza di supervisione o di coordinamento ad es. di servizi o uffici di Direzione generale o centrale ovvero di Sedi periferiche o filiali di determinate piazze (o con giro di affari oltre tot. Mld.) e simili.

Queste carenti specificazioni risultavano, peraltro, assolutamente preclusive per la funzione giurisdizionale di esercizio di quel compito – qualificato dalla Suprema Corte come «potere-dovere» del magistrato – consistente nell’accertamento della qualifica e di definizione delle eventuali controversie al riguardo.

Comunque all’epoca sarebbe risultata risolutiva – in presenza di una verificata indisponibilità aziendale a conferire, alle Delegazioni sindacali aziendali dei direttivi, il ruolo di concorrere alla strutturazione dell’elenco dei gradi di dirigente, corredati opportunamente dalla specificazione dei distinti requisiti costitutivi, compendiati nel tautologico allegato n. 4 dei vecchi Ccnl – l’adozione di un corrispondente atteggiamento di indisponibilità delle Oo.Ss. del personale direttivo ad avallare (ricusandone la ricezione) l’allegato dei gradi di dirigente approntato dall’associazione imprenditoriale tramite la mera collazione delle unilaterali comunicazioni rappresentative delle situazioni o determinazioni autonome delle aziende associate. Ciò al fine di non perpetuare nella Cassazione l’equivoco sulla «natura contrattuale» e cioè pattizia dell’allegato in questione.

Addizionalmente esprimemmo, a suo tempo, l’avviso che sarebbe stata comunque auspicabile una più meditata valutazione e presa di coscienza, da parte dei magistrati, dell’insufficienza dell’allegato in questione a garantire il rispetto del disposto dell’articolo 2095, comma 2, del Codice Civile in considerazione del suo intrinseco contenuto nominalistico e tautologico.

6. La situazione più recente e quella attuale

Con il Ccnl dei direttivi del credito del 2000 (e successivi del 2005, 2008 e del vigente del 2012)  scompare, in quanto non più graficamente inserito nell'appendice contrattuale, il precitato allegato n. 4 (contenente i gradi e le articolazioni delle posizioni che danno titolo, in ciascuna azienda, alla dirigenza) e permane, nell'articolo 2 afferente all'inquadramento nella dirigenza, la sola specificazione contrattuale dei requisiti del dirigente in aderenza alle reiterate enunciazioni giurisprudenziali.

Nel salutare questa apprezzabile innovazione, va detto, tuttavia, che la nuova formulazione di detto articolo 2 sortì solo l’effetto pratico di circoscrivere l’ampiezza della discrezionalità aziendale nella scelta di designare il dirigente,  ma la qualifica, comunque, non avrebbe potuto essere rivestita dal dipendente – anche secondo i Ccnl posteriori al 2000 – se l’azienda non fosse  determinata, per le più varie motivazioni, a «qualificarlo come tale», attraverso una espressa comunicazione formale.

Insomma, mentre in precedenza (vigente il Ccnl del 1987 e successivi fino al 2000) era la sola volontà aziendale a determinare l’attribuzione della qualifica, con la nuova formulazione afferente l'inquadramento introdotta dal Ccnl  del 2000 e successivi, tale volontà (o discrezionalità) lungi dal subire scalfitture, si dota soltanto di parametri di orientamento – quelli di origine giurisprudenziale – per non fare, come Caligola, «senatore il proprio cavallo». E che risulti riaffermato, immutato e non scalfito il diritto aziendale all’investitura formale, consegue anche dalla considerazione per cui – anche in assenza della ricezione contrattuale dei requisiti caratterizzanti la figura del dirigente – la magistratura, in caso di contenzioso, sempre ad essi si sarebbe richiamata, costituendo gli stessi autonomo patrimonio del suo consolidato orientamento in materia [11].

Cosicché la ricezione di tali requisiti in sede contrattuale non è neppure di aiuto per colui il quale, pur svolgendo di fatto le funzioni, non sia stato, ciononostante, mai qualificato dirigente dall’azienda. Semmai la dizione contrattuale potrà essere di un qualche freno alla nutrita serie di arbitri o clientelismi usuali nel settore, in ragione della facoltà sindacale di pubblica denuncia in caso di promozioni a dirigente di soggetti che tali ruoli o compiti non si sono mai sognati di rivestire o disimpegnare ed ai quali l’azienda ha deciso di attribuire la qualifica − in via cosiddetta «convenzionale» dai dottrinari − per motivi poco confessabili (ma del tutto notori in ambito aziendale e tra i colleghi).

Valutando l’abbandono della riproduzione in appendice contrattuale di quell’allegato (riepilogativo delle posizioni dirigenziali nelle varie aziende associate) che aveva ingenerato nella Cassazione l’equivoco di essere espressione di un «atto pattizio, cioè frutto dell’autonomia collettiva» richiesta dall’articolo 2095 del Codice Civile, esprimemmo, a suo tempo, l'avviso che nello specifico settore del credito si erano aperti molti più spazi del passato per ottenere giudizialmente il riconoscimento della qualifica, in base ai requisiti oggettivi giurisprudenzialmente elaborati in termini di responsabilità gestionale, coordinamento, professionalità e simili. Aggiungendo, da parte nostra, che il diniego del «riconoscimento formale» della qualifica dirigenziale perdeva così il suo pregnante significato ed effetto preclusivo e che l'insistenza aziendale nel considerarlo preclusivo e condizionante l'accesso alla qualifica, qualora sottoposta alla valutazione giudiziaria, sarebbe andata incontro all'invalidazione – come già avvenuto nel settore industriale ed assicurativo – per effetto  della reiterazione della sanzione di nullità ex articolo 1419 del Codice Civile

Oggi possiamo dire che la nostra previsione non ha tardato ad avverarsi.

Infatti, in tempi meno remoti rispetto alle sentenze già citate nelle note, la vanificazione del cosiddetto “riconoscimento formale” − quale studiato espediente per ancorare alla discrezionalità e al gradimento aziendale il riconoscimento della qualifica di dirigente − è stata sancita dalla Cassazione 10 marzo 2010, n. 5809, che ha respinto il ricorso di un Consorzio agrario che aveva censurato il riconoscimento da parte della Corte d'appello della qualifica di dirigente conferito ad un dipendente in ragione delle elevate mansioni esercitate, lamentando che essa non aveva  tenuto conto che, ai fini del riconoscimento della qualifica di dirigente, occorreva che sussistesse una formale investitura del consiglio di amministrazione corredata da procura.

La precitata sentenza di Cassazione  motivò esemplarmente il rigetto del ricorso aziendale in questi termini: «ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale è necessario e sufficiente che sia dimostrato l'espletamento di fatto delle relative mansioni, caratterizzate nella specie dalla preposizione a più servizi con ampia autonomia decisionale. Affermare la necessità del rilascio di procura speciale significa subordinare il riconoscimento della qualifica ad un atto discrezionale del datore di lavoro, di per sé insindacabile, con conseguente violazione del principio della corrispondenza della qualifica alle mansioni svolte, norma questa inderogabile a danno del lavoratore. In altri termini, pur in presenza di tutti i requisiti per il riconoscimento della qualifica di dirigente, il riconoscimento stesso verrebbe subordinato al “buon volere” del datore di lavoro».

Il chiaro orientamento giurisprudenziale e dottrinale limitativo della insindacabile discrezionalità datoriale a favore di un ancoraggio del conferimento della qualifica dirigenziale a requisiti obiettivi di ruolo e responsabilità decisionale, riceve ora la sua conferma e il suo consolidamento da parte della sentenza 11 settembre 2013, n. 20839, citata in premessa.

Una volta recepiti dai Ccnl (come avvenuto nel settore del credito) i criteri di fonte giurisprudenziale (autonomia decisionale, responsabilità gestionale, coordinamento di risorse e simili) per la valutazione di idoneità a rivestire la qualifica dirigenziale e posto nel nulla il cosiddetto “riconoscimento formale” (cioè l'espressa investitura aziendale), gli stessi acquisiscono la veste di esclusivi parametri di valutazione “promotiva” alla qualifica, in ordine alla cui corretta applicazione da parte aziendale può essere attivato dal dipendente, fatto oggetto di disconoscimento, il sindacato giudiziale, sempreché i destinatari di tale categoria abbiano il coraggio di attivare una verifica in contenzioso.

La mancanza di grinta degli aspiranti a infoltire la categoria dirigenziale è, infatti, notoria, tanto da portarci a dire che forse non è del tutto ingiustificato che il destino e le condizioni dei dirigenti (del credito e non), siano rimesse alla discrezionalità ed al beneplacito dei loro «proprietari» d’azienda.

Testimonia l'arrendevolezza della categoria dirigenziale bancaria (e non solo), il ricordo di una vecchia quanto emblematica iniziativa della più grintosa (ed è tutto dire) consorella dirigenza sindacale delle aziende industriali di pubblicare, nel marzo/aprile 1997, a pagamento sui principali quotidiani una lettera d’appello – e «con il cappello in mano», come si suol dire – agli imprenditori indisponibili, tramite Confindustria, a rinnovare eminentemente la parte economica dello scaduto Ccnl dell’epoca. Nella pubblica lettera si ricordava “piagnucolosamente” il loro ruolo di partners degli imprenditori, la condivisione degli stessi valori congiunta allo scusarsi dell’essere stati indotti – attraverso un’eventuale radicalizzazione delle posizioni conseguente allo «schiaffo» confindustriale di non accettazione delle loro richieste economiche – a «perdere la serenità necessaria per concentrarsi meglio nell’espletamento delle proprie funzioni: collaborare con l’imprenditore per il successo dell’azienda».

Nessun accenno di ricorso al primario strumento di contrapposizione costituzionalmente garantito a tutti i lavoratori subordinati (ex articolo 2094 del Codice Civile, richiamato espressamente nel loro Ccnl) per la difesa dei propri interessi, qual' è il (proletario, evidentemente) diritto di sciopero, al quale invero in un’intervista del giorno dopo (16 aprile 1997) la dirigenza sindacale industriale ammetteva di aver fatto un pensierino, in quanto «incoraggiata» dalla contingente discesa «in piazza telematica» degli industriali stessi a difesa dei loro interessi presuntivamente colpiti dalla manovrina dell’allora Governo Prodi. Protesta imprenditoriale verso il Governo che avrebbe così allineato le due iniziative di contrapposizione e avrebbe pertanto privato quella dei dirigenti d’azienda del sospetto di «sgarbo» e della carica di conflittualità «offensiva» verso i (loro) padroni.

 

[1] Da ultimo nel Cap. XX del nostro volume Il rapporto di lavoro in azienda, Ediesse, Roma 2008.

[2] R. Panzarani, Il dirigente d’azienda: crisi d’identità, con particolare riferimento al settore bancario, in Dir. lav. 1982, I, 298.

[3] Cass., Ss.Uu., 15.10.1985, n. 5031, in Giust. civ. Mass. 1985, 1532; Cass., 21.1.1984, n. 530, in Foro it. 1984, I, 2564; Cass., 5.1.1983, n. 47, in Dir. lav. 1983, II, 187 con nota di A. Vallebona, Sui criteri per la identificazione del dirigente; Cass., 14.7.1976, n. 2738, in Not. giurisp. lav. 1976, 241; Cass., 18.4.1975, n. 1497, in Foro it. 1976, I, 435; Cass., n. 2125/1973; Cass., n. 1006/1973; Cass., n. 2454/1972, ecc.

[4] Così, ancora, Cass., n. 1497/1975, cit.

[5] P. Tosi, Il dirigente d’azienda, Milano 1974.

[6] Così P. Tosi, op. cit., 59.

[7] Così, P. Tosi, op. cit., 64.

[8] Cass., 22.11.1985, n. 5806 è insolitamente (ma spiegabilmente) inedita, Veneta assicurazioni c. Avanzini, in Mass. Foro. it. 1985.

[9] Anche Cass., 22.6.1985, n. 3773 è insolitamente (ma spiegabilmente) inedita, Cagnazzo c. Assicurarazioni generali, in Mass. Foro it. 1985, la cui massima dispone: «È nulla per violazione dell’art. 2103 c.c. (come novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori) la norma del contratto collettivo che subordini il diritto del lavoratore ad ottenere la qualifica superiore, con il corrispondente trattamento economico, ad un espresso riconoscimento, e quindi ad un discrezionale apprezzamento, da parte del datore di lavoro, della sussistenza del presupposto per l’avanzamento stesso, rappresentato dall’espletamento ad opera del dipendente di mansioni di livello superiore alla qualifica rivestita (nella specie la suprema corte ha cassato la pronuncia del giudice del merito che, facendo applicazione dell’art. 2 Ccnl 29.10.1975 per i funzionari delle aziende di credito e finanziarie, norma che stabiliva che funzionario è colui al quale l’impresa, per la importanza e l’autonomia delle funzioni e delle conseguenti responsabilità, attribuisca con apposita lettera tale qualifica, aveva respinto la domanda del lavoratore rilevando, tra l’altro, la mancanza dell’espresso riconoscimento della qualifica di funzionario da parte del datore di lavoro)».

[10] V. in particolare Cass., 15.10.1988, n. 5620, in Not. giurisp. lav. 1989, 17; Cass., 25.6.1988, n. 4314, ivi 1988, 676; Cass., 8.8.1983, n. 5295, ivi 1983, 351 e Cass., 14.7.1976, n. 2738, ivi 1976, 241.

[11] Come testimonia Cass., 21.1.1984, n. 530, in Foro it. 1984, I, 2564, che  nel riconoscere, in ragione di accertato svolgimento di mansioni qualificate (non accompagnate dall'investitura aziendale), il diritto alla  dirigenza per il capo Ufficio Studi del Monte dei Paschi di Siena,  si fece assertrice - in vigenza del vecchio assetto inquadramentale dei dirigenti bancari - dell'affermazione per cui: «L’appartenenza alla categoria dei dirigenti – nella specie è stato riconosciuto tale il capo dell’Ufficio studi, mantenuto dalla banca nella qualifica di funzionario – può derivare tanto dall’investitura formale operata dalla banca in virtù del potere discrezionale ad essa attribuito dalla contrattazione collettiva, quanto dalla natura e modalità di espletamento delle funzioni attribuite al dipendente, allorché esse implicano un particolare tipo di collaborazione con il vertice dell’azienda».

 

1. Premessa

La problematica ruotante intorno al cosiddetto “riconoscimento formale” aziendale (o atto di cosiddetta investitura per gradimento) considerato da taluni Ccnl imprescindibile per potersi fregiare della qualifica di dirigente  d'azienda − eminentemente di quelle del  credito e delle  assicurazioni − è stato oggetto di diverse trattazioni da parte nostra in tempi oramai datati[1].

Il nostro ritorno in argomento è stato occasionato dalla lettura della recente Cassazione 11 settembre 2013, n. 20839, confermativa (unitamente a precedenti sul tema) delle conclusioni da noi, a suo tempo, raggiunte nel senso della totale inidoneità della volontà unilaterale datoriale a precludere il conferimento della qualifica dirigenziale in presenza di un effettivo ruolo rivestito  nel disimpegno di oggettive e specifiche mansioni caratterizzate da autonomia, responsabilità e facoltà decisionali.

La precitata sentenza è stata emessa in un contenzioso tra un dipendente di banca rivendicante l'inquadramento a dirigente, negatogli dall'azienda sulla base dell'anacronistico disposto dell'articolo 77 del Ccnl  dei direttivi del credito del 1987, costantemente reiterato in tutti i rinnovi contrattuali fino al vigente del 29 febbraio 2012, che così recita: «Ai fini del presente contratto sono dirigenti i lavoratori/lavoratrici subordinati, ai sensi dell’articolo 2094 del codice civile, come tali qualificati dall’azienda in quanto ricoprano un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, di autonomia e potere decisionale ed esplichino le loro funzioni di promozione, coordinamento e gestione generale al fine di realizzare gli obiettivi dell’azienda».

2. Conferimento della qualifica su investitura aziendale

La clausola soprariferita è nota, alla dottrina e alla giurisprudenza di Cassazione che se n'è occupata, come “clausola di riconoscimento formale” o di “investitura” aziendale, finalizzata da parte datoriale a far sì che il conferimento della qualifica di dirigente, a prescindere dalla qualità e responsabilità immanenti alle mansioni disimpegnate dal lavoratore, sia sottoposto al gradimento aziendale, talché la qualifica non scatta se l'azienda non la riconosce all'aspirante alla categoria dirigenziale con un provvedimento formale (comunicazione, lettera o equipollente).

 

In fattispecie la Banca ricorrente lamentava la trascuratezza da parte della sentenza di appello  di un fatto da essa ritenuto decisivo per il giudizio, costituito dai requisiti previsti dal Ccnl credito per la “qualifica” dirigenziale, ove il Ccnl del 1987 la riconosceva solo a fronte della formale attribuzione della stessa ad opera dell'azienda.

Nel respingere come infondata la censura, la Cassazione afferma che l'addebito rivolto alla decisione della corte territoriale è insussistente in quanto «questa S.C., unitamente alla più attenta dottrina, ritiene, che le clausole come quella riportata, definite di mero riconoscimento formale, debbano considerarsi nulle poiché non ancorate alla necessaria natura obiettiva delle mansioni e dei compiti di fatto svolti (ex articolo 2094 Codice Civile), di cui la qualifica è definizione formale (Cass. sez. un. n. 5031 del 1985; Cass. n. 4314 del 1988, etc.), ma unicamente ad una unilaterale ed arbitraria scelta datoriale».

Con motivazione incisiva quanto scarna per autolimitazione all'essenziale, l'odierna decisione della  Cassazione  vanifica − in senso confermativo del proprio pensiero in precedenti sentenze espresso − la clausola di cosiddetto “riconoscimento formale” del settore bancario.

Detta clausola ripete quella vigente fino al 1975 nel settore industriale, dizione che, peraltro, venne poi abbandonata in tale settore nel rinnovo contrattuale del 4 aprile 1975, anche a seguito di sanzioni di nullità da parte della Cassazione  in ordine al presunto effetto condizionante il conferimento della qualifica ad opera del cd. «riconoscimento formale» aziendale.

Le aziende di credito, a differenza delle industriali, non si sono mai private di questa clausola, caparbiamente mantenuta nei Ccnl succedutisi nel tempo fino al vigente del 29.2.2012 (che la reitera all'articolo 2, comma 1), dimostrando concludentemente di essere rimaste indietro di quasi quarant'anni rispetto alla «svolta» operata – in tema classificatorio/inquadramentale – dal Ccnl dei dirigenti d’industria del 1975, ove l’inquadramento consegue esclusivamente per effetto del possesso dei requisiti oggettivi di responsabilità e professionalità contrattualmente codificati (e quindi indipendentemente dalla condizionante «investitura formale» aziendale).

Tanto basta ad evidenziare emblematicamente come nel settore bancario si sia persa, ad ogni rinnovo, l’occasione per disfarsi compiutamente di quella patina di vetustà che affligge da tempo il costrutto e l’assetto normativo dei contratti di settore, ispirati, dal lato imprenditoriale, ad una concezione sostanzialmente autoritaria, solo formalmente mascherata (ma nient’affatto scalfita nel concreto) da mere dichiarazioni di tenore «partecipativo» fra azienda, personale e strutture sindacali; dichiarazioni esemplificativamente reperibili nella definizione programmatica del ruolo delle rappresentanze sindacali (cfr. articolo 7 Ccnl 2000 – ora articolo 33, comma 3, Ccnl 29.2.2012 – secondo il quale: «Le parti ritengono che il rapporto con i dirigenti si deve ispirare ad un modello partecipativo e che gli interventi degli organismi sindacali […] dovranno essere effettuati coerentemente al ruolo e alla funzione in azienda del personale destinatario del presente contratto»).

La dizione contemplante il condizionante requisito del «riconoscimento formale» della qualifica di dirigente è una dizione d’epoca, dei primordi della contrattazione collettiva, tralatiziamente ripropostasi nel settore creditizio senza significative innovazioni di filosofia inquadramentale nei vari rinnovi contrattuali. Essa è ispirata al superato (oltreché illegittimo, se esclusivo o condizionante il diritto alla qualifica, secondo la migliore dottrina e la stessa Cassazione) criterio del «riconoscimento formale» aziendale ai fini dell’accesso alla categoria giuridica (o qualifica contrattuale) in questione.

Giustamente, quindi, in un datato articolo di dottrina[2], il consigliere di Cassazione R. Panzarani notava come «con riferimento agli istituti di credito ed alle clausole del contratto collettivo nazionale per il personale direttivo di dette aziende che del dirigente forniscono ancora (riferendo formule che risalgono al 1951) una nozione “nominalistica” (è dirigente chi riceva un’investitura formale) è chiara la diversa ed assai esauriente definizione che del dirigente stesso è offerta da altri contratti collettivi, in particolare da quello per i dirigenti delle aziende industriali [..]. È comprensibile pertanto che i dirigenti bancari siano animati dall’intento di acquisire un’identità più contenutistica, al che solo la contrattazione collettiva può adeguatamente provvedere».

3. L'esigenza di una identificazione, per requisiti obiettivi, del dirigente

Un esame comparativo con altri settori evidenzia come − mentre nel settore commerciale sin dal 1957 (Ccnl 2 maggio 1957, recepito in Decreto del Presidente della Repubblica 15 ottobre 1960, n. 1448, e quindi reso erga omnes) la qualifica di dirigente è stata ancorata evolutivamente a requisiti obiettivi (mandato in forza del quale poter disporre della direttiva da imprimere agli affari aziendali, ecc.) − una rilevanza al «riconoscimento formale», simile a quella a tutt’oggi reperibile nell’articolo 2 Ccnl 29.2.2012 per i dirigenti del credito, era conferita nei Ccnl dei dirigenti d’industria, a partire da quello del 5 dicembre 1966 (e fino al 1975), sebbene tale contratto non trascurasse affatto l’aspetto delle mansioni, attraverso esemplificazioni di disimpegno di funzioni.

Disponeva appunto l’articolo 1 del Ccnl 5 dicembre 1966 per i dirigenti di aziende industriali, che erano tali «gli institori, i direttori e condirettori tecnici e amministrativi, i capi di importanti servizi e uffici che esercitano ampi poteri direttivi, i procuratori ai quali la procura conferisca in modo continuativo detti poteri o la rappresentanza di tutta o di una notevole parte dell’azienda […] sempreché […] concorra il riconoscimento formale della qualifica di dirigente da parte delle aziende associate […]».

Come anticipato,tale formulazione, ad ogni buon conto, venne pattiziamente abbandonata – anche a seguito delle reiterate dichiarazioni di illegittimità della Suprema Corte[3] – nella stesura del Ccnl 4 aprile 1975 per i dirigenti industriali, ove il «riconoscimento formale» venne incisivamente sostituito dalla dizione assertrice che «l’esistenza di fatto delle condizioni (cioè dei requisiti di cui al comma 1 dell’articolo 1, pattiziamente delineanti i tratti caratterizzanti del dirigente, n.d.r.) comporta l’attribuzione della qualifica e quindi l’applicabilità del presente contratto».

La Suprema Corte giunse a dichiarare la nullità, ex articolo 1419 del Codice Civile, per contrarietà a norme imperative, della clausola di «riconoscimento formale» del vecchio Ccnl dei dirigenti d’industria, per un evidente contrasto con gli articoli 2095 e 2103 del Codice Civile.

In effetti, la ratio, oltreché la lettera, dell’articolo 2103 del Codice Civile è tesa a strutturare, in via generale la soluzione di acquisizione delle categorie (o qualifiche) per esercizio di mansioni verificabili e sindacabili nella loro scala di valore (da inferiori a superiori). E l’articolo 2095, comma 2, del Codice Civile in congiunzione con l’articolo 96 delle disposizioni attuative del Codice Civile, esplicitamente conferisce in esclusiva al legislatore o all’autonomia collettiva il compito di definire i requisiti per l’appartenenza alle categorie legali ed alle loro specificazioni contrattuali, estrinsecantesi nelle qualifiche tramite cui esse si articolano in concreto, a seconda delle realtà settoriali o di singola impresa.

Quanto sopra nell’intento, da un lato, di sottrarre alla discrezionalità unilaterale aziendale la fissazione dei presupposti per l’inquadramento dei lavoratori, in quanto, secondo Cassazione n. 1497/1975, «va escluso che la contrattazione collettiva possa rimettere alla volontà del datore di lavoro […] la determinazione di un elemento rilevante agli effetti dell’inquadramento nella categoria […] che la legge demanda invece all’autonomia collettiva», atteso che il comma 2 dell’articolo 2095 del Codice Civile dispone che «le leggi speciali e le norme corporative (ora collettive, n.d.r.), in relazione a ciascun ramo di produzione ed alla particolare struttura dell’impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie». Dall’altro, per evitare che il «potere−dovere» del giudice di determinare (a richiesta, in caso di contenzioso) la qualifica spettante al lavoratore sulla base dell’accertamento delle mansioni disimpegnate, «venga sostituito da un sistema classificatorio fondato su un atto unilaterale ed, eventualmente, arbitrario del datore di lavoro»[4].

4. Pregresse e attuali critiche alla valorizzazione contrattuale del «riconoscimento formale» aziendale

L’articolo 2, comma 1,  del Ccnl 29 febbraio 2012  per i dirigenti del credito – conformemente agli omologhi articoli dei Ccnl precedenti – conferisce ancora all’investitura formale carattere di sacralità.

La scarsa dottrina che – in vigenza del vecchio testo del Ccnl dirigenti del credito – si è occupata della questione nell’ambito di trattazioni più generali [5], non ha potuto non sottolineare quanto in precedenza da noi rilevato. E cioè che, mentre nel settore commerciale la definizione del dirigente si viene a modellare quasi istantaneamente sulle formule giurisprudenziali (tese a dare rilevanza all’effettività e qualità delle funzioni o mansioni), mentre anche nel settore industriale il processo si compie, quantunque più tardi e su sollecitazione giurisprudenziale, il Ccnl dei dirigenti del credito «contiene la formula più elastica»[6], cioè a dire, eufemismi a parte, la più oscurantista.

La clausola di «riconoscimento formale», giudicata dalla dottrina – invero peccando nel sottovalutare il ruolo e la responsabilità delle resistenze ed ostruzionismi all’innovazione da parte delle associazioni imprenditoriali – come «l’aspetto più appariscente, esemplare, di un generale quadro di riferimento caratterizzato dall’abdicazione, da parte dei sindacati dirigenziali, della loro stessa funzione di autodisciplina e di autorganizzazione che le attuali strutture dell’ordinamento sindacale assegnano loro […]»[7], non solo è stata abbandonata su basi di forza contrattuale nel settore industriale ma altresì dichiarata illegittima dall’oramai consolidata giurisprudenza della Cassazione, se intesa come attributiva di un’esclusiva e condizionante rilevanza alla volontà unilaterale del datore di lavoro agli effetti di far rivestire al lavoratore la qualifica dirigenziale, a prescindere dall’effettività, consistenza, adeguatezza e autonomia delle mansioni.

Oltre alle decisioni in precedenza citate in nota per il settore industriale, in senso conforme – nel settore assicurativo contenente analoga clausola di «riconoscimento formale» – si sono pronunciate Cassazione n. 5806/1985 [8] e Cassazione n. 3773/1985 [9], secondo cui «è nulla per violazione dell’articolo 2103 Codice Civile la norma del contratto collettivo che subordini il diritto del lavoratore ad ottenere la qualifica superiore […] ad un espresso riconoscimento – e quindi ad un discrezionale apprezzamento – da parte del datore di lavoro, della sussistenza del presupposto per l’avanzamento stesso, rappresentato dall’espletamento, ad opera del dipendente, di mansioni superiori».

5. L’orientamento assunto dalla Cassazione nel corso del tempo e gli equivoci nel giudicare la pregressa clausola del settore creditizio

La decisioni della Cassazione (antecedenti alla recentissima sentenza 11 settembre 2013, n. 20839), nel dichiarare nulle ex articolo 1419 del Codice Civile – per contrasto con le prescrizioni di cui agli articoli 2095 e 2103 del Codice Civile – le clausole contrattuali di «riconoscimento formale» della qualifica nel senso sopraindicato, ebbero a rilevare come l’articolo 2095 del Codice Civile rinvii alla contrattazione collettiva la fissazione dei requisiti costitutivi della qualifica (cioè a dire ad un atto di volontà negoziale, non già unilaterale del datore di lavoro) e come tali requisiti debbano essere di natura sostanziale (in tal senso, specificatamente, Cassazione n. 47/1983), atteso che il comma 2 del predetto articolo specifica che essi vanno fissati «in relazione a ciascun ramo di produzione ed alla particolare natura dell’impresa».

Queste caratteristiche non erano affatto presenti sia nella precedente definizione pattizia del «funzionario» del credito – quale risultante dal comma 4 dell’articolo 4 del Ccnl 22 giugno 1995 – sia in quella del «dirigente» bancario, quale risultante dalla formulazione dell’articolo 83 dello stesso Ccnl, ma tale carenza non impedì ad alcune decisioni[10] della Suprema corte di non ritenere nulla la clausola di «riconoscimento formale»  del settore sull’erroneo convincimento che l’allegato 4 (in precedenza 7) al Ccnl 22 giugno 1995 (cui l’articolo 83 rinvia per l’individuazione dei gradi in cui autonomamente e non già pattiziamente, ciascuna azienda ha articolato la qualifica dirigenziale) costituisse «atto di autonomia collettiva» e, come tale, non contrastante con la prescrizione contenuta nell’articolo 2095, comma 2, del Codice Civile

La Corte di Cassazione cadde all’epoca nell’equivoco di attribuire valore «negoziale» ad un allegato (n. 4) che invero costituiva una mera presa d’atto – sindacalmente improvvida – di autonome iniziative o determinazioni aziendali, la cui natura non negoziale risultava pacificamente confermata dal comma 3 dello stesso articolo 83 (già articolo 79) che riconosceva alle aziende di credito la facoltà di apportare (unilaterali) variazioni ai gradi di dirigente ivi elencati in relazione ad esigenze organizzative che abbiano implicato mutamenti nell’inquadramento e struttura delle filiali o stabilimenti, senza accordare alcun ruolo di intervento negoziale alle Delegazioni sindacali aziendali al riguardo.

D’altra parte anche se andava riconosciuta all’organizzazione imprenditoriale un’indubbia abilità nel senso di far atteggiare a «graficamente» pattizio l’allegato in questione – sia per il tramite dell’inclusione nel corpo del vecchio Ccnl sia attraverso comunicazioni di aggiornamento dei gradi alle Oo.Ss. stipulanti – tanto da ingenerare nell’organo giurisdizionale l’equivoco in precedenza sottolineato, chi scrive giudicò, a suo tempo, non scusabile l’addizionale fatto che la Cassazione avesse potuto considerare correttamente adempiuta la sostanzialistica prescrizione del comma 2 dell’articolo 2095 del Codice Civile, afferente alla predeterminazione dei requisiti identificativi della categoria (o qualifica) in questione.

Invero l’allegato n. 4 conteneva pressoché esclusivamente la sequenza nominalistica dei gradi di «dirigente» in atto presso ogni azienda imprenditorialmente associata (similmente ad un organigramma inesplicitato); giungendo a rifluire nella concretizzazione di vere e proprie tautologie, laddove si perveniva a desumere – ex articolo 83 in congiunzione con le dizioni dell’allegato 4 – che «sono dirigenti presso la banca x, il direttore generale, i vice direttori generali, i direttori centrali, i condirettori centrali e cosi via».

Senza che fossero in alcun modo indicati i requisiti alla cui stregua i predetti gradi acquisivano contenuto effettivo e concreto (sia di per se, sia in termini differenzianti l’uno dall’altro), per (invero non delineata) autonomia, responsabilità, ampiezza di supervisione o di coordinamento ad es. di servizi o uffici di Direzione generale o centrale ovvero di Sedi periferiche o filiali di determinate piazze (o con giro di affari oltre tot. Mld.) e simili.

Queste carenti specificazioni risultavano, peraltro, assolutamente preclusive per la funzione giurisdizionale di esercizio di quel compito – qualificato dalla Suprema Corte come «potere-dovere» del magistrato – consistente nell’accertamento della qualifica e di definizione delle eventuali controversie al riguardo.

Comunque all’epoca sarebbe risultata risolutiva – in presenza di una verificata indisponibilità aziendale a conferire, alle Delegazioni sindacali aziendali dei direttivi, il ruolo di concorrere alla strutturazione dell’elenco dei gradi di dirigente, corredati opportunamente dalla specificazione dei distinti requisiti costitutivi, compendiati nel tautologico allegato n. 4 dei vecchi Ccnl – l’adozione di un corrispondente atteggiamento di indisponibilità delle Oo.Ss. del personale direttivo ad avallare (ricusandone la ricezione) l’allegato dei gradi di dirigente approntato dall’associazione imprenditoriale tramite la mera collazione delle unilaterali comunicazioni rappresentative delle situazioni o determinazioni autonome delle aziende associate. Ciò al fine di non perpetuare nella Cassazione l’equivoco sulla «natura contrattuale» e cioè pattizia dell’allegato in questione.

Addizionalmente esprimemmo, a suo tempo, l’avviso che sarebbe stata comunque auspicabile una più meditata valutazione e presa di coscienza, da parte dei magistrati, dell’insufficienza dell’allegato in questione a garantire il rispetto del disposto dell’articolo 2095, comma 2, del Codice Civile in considerazione del suo intrinseco contenuto nominalistico e tautologico.

6. La situazione più recente e quella attuale

Con il Ccnl dei direttivi del credito del 2000 (e successivi del 2005, 2008 e del vigente del 2012)  scompare, in quanto non più graficamente inserito nell'appendice contrattuale, il precitato allegato n. 4 (contenente i gradi e le articolazioni delle posizioni che danno titolo, in ciascuna azienda, alla dirigenza) e permane, nell'articolo 2 afferente all'inquadramento nella dirigenza, la sola specificazione contrattuale dei requisiti del dirigente in aderenza alle reiterate enunciazioni giurisprudenziali.

Nel salutare questa apprezzabile innovazione, va detto, tuttavia, che la nuova formulazione di detto articolo 2 sortì solo l’effetto pratico di circoscrivere l’ampiezza della discrezionalità aziendale nella scelta di designare il dirigente,  ma la qualifica, comunque, non avrebbe potuto essere rivestita dal dipendente – anche secondo i Ccnl posteriori al 2000 – se l’azienda non fosse  determinata, per le più varie motivazioni, a «qualificarlo come tale», attraverso una espressa comunicazione formale.

Insomma, mentre in precedenza (vigente il Ccnl del 1987 e successivi fino al 2000) era la sola volontà aziendale a determinare l’attribuzione della qualifica, con la nuova formulazione afferente l'inquadramento introdotta dal Ccnl  del 2000 e successivi, tale volontà (o discrezionalità) lungi dal subire scalfitture, si dota soltanto di parametri di orientamento – quelli di origine giurisprudenziale – per non fare, come Caligola, «senatore il proprio cavallo». E che risulti riaffermato, immutato e non scalfito il diritto aziendale all’investitura formale, consegue anche dalla considerazione per cui – anche in assenza della ricezione contrattuale dei requisiti caratterizzanti la figura del dirigente – la magistratura, in caso di contenzioso, sempre ad essi si sarebbe richiamata, costituendo gli stessi autonomo patrimonio del suo consolidato orientamento in materia [11].

Cosicché la ricezione di tali requisiti in sede contrattuale non è neppure di aiuto per colui il quale, pur svolgendo di fatto le funzioni, non sia stato, ciononostante, mai qualificato dirigente dall’azienda. Semmai la dizione contrattuale potrà essere di un qualche freno alla nutrita serie di arbitri o clientelismi usuali nel settore, in ragione della facoltà sindacale di pubblica denuncia in caso di promozioni a dirigente di soggetti che tali ruoli o compiti non si sono mai sognati di rivestire o disimpegnare ed ai quali l’azienda ha deciso di attribuire la qualifica − in via cosiddetta «convenzionale» dai dottrinari − per motivi poco confessabili (ma del tutto notori in ambito aziendale e tra i colleghi).

Valutando l’abbandono della riproduzione in appendice contrattuale di quell’allegato (riepilogativo delle posizioni dirigenziali nelle varie aziende associate) che aveva ingenerato nella Cassazione l’equivoco di essere espressione di un «atto pattizio, cioè frutto dell’autonomia collettiva» richiesta dall’articolo 2095 del Codice Civile, esprimemmo, a suo tempo, l'avviso che nello specifico settore del credito si erano aperti molti più spazi del passato per ottenere giudizialmente il riconoscimento della qualifica, in base ai requisiti oggettivi giurisprudenzialmente elaborati in termini di responsabilità gestionale, coordinamento, professionalità e simili. Aggiungendo, da parte nostra, che il diniego del «riconoscimento formale» della qualifica dirigenziale perdeva così il suo pregnante significato ed effetto preclusivo e che l'insistenza aziendale nel considerarlo preclusivo e condizionante l'accesso alla qualifica, qualora sottoposta alla valutazione giudiziaria, sarebbe andata incontro all'invalidazione – come già avvenuto nel settore industriale ed assicurativo – per effetto  della reiterazione della sanzione di nullità ex articolo 1419 del Codice Civile

Oggi possiamo dire che la nostra previsione non ha tardato ad avverarsi.

Infatti, in tempi meno remoti rispetto alle sentenze già citate nelle note, la vanificazione del cosiddetto “riconoscimento formale” − quale studiato espediente per ancorare alla discrezionalità e al gradimento aziendale il riconoscimento della qualifica di dirigente − è stata sancita dalla Cassazione 10 marzo 2010, n. 5809, che ha respinto il ricorso di un Consorzio agrario che aveva censurato il riconoscimento da parte della Corte d'appello della qualifica di dirigente conferito ad un dipendente in ragione delle elevate mansioni esercitate, lamentando che essa non aveva  tenuto conto che, ai fini del riconoscimento della qualifica di dirigente, occorreva che sussistesse una formale investitura del consiglio di amministrazione corredata da procura.

La precitata sentenza di Cassazione  motivò esemplarmente il rigetto del ricorso aziendale in questi termini: «ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale è necessario e sufficiente che sia dimostrato l'espletamento di fatto delle relative mansioni, caratterizzate nella specie dalla preposizione a più servizi con ampia autonomia decisionale. Affermare la necessità del rilascio di procura speciale significa subordinare il riconoscimento della qualifica ad un atto discrezionale del datore di lavoro, di per sé insindacabile, con conseguente violazione del principio della corrispondenza della qualifica alle mansioni svolte, norma questa inderogabile a danno del lavoratore. In altri termini, pur in presenza di tutti i requisiti per il riconoscimento della qualifica di dirigente, il riconoscimento stesso verrebbe subordinato al “buon volere” del datore di lavoro».

Il chiaro orientamento giurisprudenziale e dottrinale limitativo della insindacabile discrezionalità datoriale a favore di un ancoraggio del conferimento della qualifica dirigenziale a requisiti obiettivi di ruolo e responsabilità decisionale, riceve ora la sua conferma e il suo consolidamento da parte della sentenza 11 settembre 2013, n. 20839, citata in premessa.

Una volta recepiti dai Ccnl (come avvenuto nel settore del credito) i criteri di fonte giurisprudenziale (autonomia decisionale, responsabilità gestionale, coordinamento di risorse e simili) per la valutazione di idoneità a rivestire la qualifica dirigenziale e posto nel nulla il cosiddetto “riconoscimento formale” (cioè l'espressa investitura aziendale), gli stessi acquisiscono la veste di esclusivi parametri di valutazione “promotiva” alla qualifica, in ordine alla cui corretta applicazione da parte aziendale può essere attivato dal dipendente, fatto oggetto di disconoscimento, il sindacato giudiziale, sempreché i destinatari di tale categoria abbiano il coraggio di attivare una verifica in contenzioso.

La mancanza di grinta degli aspiranti a infoltire la categoria dirigenziale è, infatti, notoria, tanto da portarci a dire che forse non è del tutto ingiustificato che il destino e le condizioni dei dirigenti (del credito e non), siano rimesse alla discrezionalità ed al beneplacito dei loro «proprietari» d’azienda.

Testimonia l'arrendevolezza della categoria dirigenziale bancaria (e non solo), il ricordo di una vecchia quanto emblematica iniziativa della più grintosa (ed è tutto dire) consorella dirigenza sindacale delle aziende industriali di pubblicare, nel marzo/aprile 1997, a pagamento sui principali quotidiani una lettera d’appello – e «con il cappello in mano», come si suol dire – agli imprenditori indisponibili, tramite Confindustria, a rinnovare eminentemente la parte economica dello scaduto Ccnl dell’epoca. Nella pubblica lettera si ricordava “piagnucolosamente” il loro ruolo di partners degli imprenditori, la condivisione degli stessi valori congiunta allo scusarsi dell’essere stati indotti – attraverso un’eventuale radicalizzazione delle posizioni conseguente allo «schiaffo» confindustriale di non accettazione delle loro richieste economiche – a «perdere la serenità necessaria per concentrarsi meglio nell’espletamento delle proprie funzioni: collaborare con l’imprenditore per il successo dell’azienda».

Nessun accenno di ricorso al primario strumento di contrapposizione costituzionalmente garantito a tutti i lavoratori subordinati (ex articolo 2094 del Codice Civile, richiamato espressamente nel loro Ccnl) per la difesa dei propri interessi, qual' è il (proletario, evidentemente) diritto di sciopero, al quale invero in un’intervista del giorno dopo (16 aprile 1997) la dirigenza sindacale industriale ammetteva di aver fatto un pensierino, in quanto «incoraggiata» dalla contingente discesa «in piazza telematica» degli industriali stessi a difesa dei loro interessi presuntivamente colpiti dalla manovrina dell’allora Governo Prodi. Protesta imprenditoriale verso il Governo che avrebbe così allineato le due iniziative di contrapposizione e avrebbe pertanto privato quella dei dirigenti d’azienda del sospetto di «sgarbo» e della carica di conflittualità «offensiva» verso i (loro) padroni.

 

[1] Da ultimo nel Cap. XX del nostro volume Il rapporto di lavoro in azienda, Ediesse, Roma 2008.

[2] R. Panzarani, Il dirigente d’azienda: crisi d’identità, con particolare riferimento al settore bancario, in Dir. lav. 1982, I, 298.

[3] Cass., Ss.Uu., 15.10.1985, n. 5031, in Giust. civ. Mass. 1985, 1532; Cass., 21.1.1984, n. 530, in Foro it. 1984, I, 2564; Cass., 5.1.1983, n. 47, in Dir. lav. 1983, II, 187 con nota di A. Vallebona, Sui criteri per la identificazione del dirigente; Cass., 14.7.1976, n. 2738, in Not. giurisp. lav. 1976, 241; Cass., 18.4.1975, n. 1497, in Foro it. 1976, I, 435; Cass., n. 2125/1973; Cass., n. 1006/1973; Cass., n. 2454/1972, ecc.

[4] Così, ancora, Cass., n. 1497/1975, cit.

[5] P. Tosi, Il dirigente d’azienda, Milano 1974.

[6] Così P. Tosi, op. cit., 59.

[7] Così, P. Tosi, op. cit., 64.

[8] Cass., 22.11.1985, n. 5806 è insolitamente (ma spiegabilmente) inedita, Veneta assicurazioni c. Avanzini, in Mass. Foro. it. 1985.

[9] Anche Cass., 22.6.1985, n. 3773 è insolitamente (ma spiegabilmente) inedita, Cagnazzo c. Assicurarazioni generali, in Mass. Foro it. 1985, la cui massima dispone: «È nulla per violazione dell’art. 2103 c.c. (come novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori) la norma del contratto collettivo che subordini il diritto del lavoratore ad ottenere la qualifica superiore, con il corrispondente trattamento economico, ad un espresso riconoscimento, e quindi ad un discrezionale apprezzamento, da parte del datore di lavoro, della sussistenza del presupposto per l’avanzamento stesso, rappresentato dall’espletamento ad opera del dipendente di mansioni di livello superiore alla qualifica rivestita (nella specie la suprema corte ha cassato la pronuncia del giudice del merito che, facendo applicazione dell’art. 2 Ccnl 29.10.1975 per i funzionari delle aziende di credito e finanziarie, norma che stabiliva che funzionario è colui al quale l’impresa, per la importanza e l’autonomia delle funzioni e delle conseguenti responsabilità, attribuisca con apposita lettera tale qualifica, aveva respinto la domanda del lavoratore rilevando, tra l’altro, la mancanza dell’espresso riconoscimento della qualifica di funzionario da parte del datore di lavoro)».

[10] V. in particolare Cass., 15.10.1988, n. 5620, in Not. giurisp. lav. 1989, 17; Cass., 25.6.1988, n. 4314, ivi 1988, 676; Cass., 8.8.1983, n. 5295, ivi 1983, 351 e Cass., 14.7.1976, n. 2738, ivi 1976, 241.

[11] Come testimonia Cass., 21.1.1984, n. 530, in Foro it. 1984, I, 2564, che  nel riconoscere, in ragione di accertato svolgimento di mansioni qualificate (non accompagnate dall'investitura aziendale), il diritto alla  dirigenza per il capo Ufficio Studi del Monte dei Paschi di Siena,  si fece assertrice - in vigenza del vecchio assetto inquadramentale dei dirigenti bancari - dell'affermazione per cui: «L’appartenenza alla categoria dei dirigenti – nella specie è stato riconosciuto tale il capo dell’Ufficio studi, mantenuto dalla banca nella qualifica di funzionario – può derivare tanto dall’investitura formale operata dalla banca in virtù del potere discrezionale ad essa attribuito dalla contrattazione collettiva, quanto dalla natura e modalità di espletamento delle funzioni attribuite al dipendente, allorché esse implicano un particolare tipo di collaborazione con il vertice dell’azienda».