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La sindacabilità in giudizio delle promozioni dei dipendenti

 1. L’orientamento giurisprudenziale consolidato

Va preliminarmente espresso il convincimento che le promozioni ˗ sia degli impiegati alle superiori qualifiche sia dei quadri, fino alla qualifica di dirigente ˗ concretizzano, in ogni caso, la fattispecie giuridica delle promozioni aziendali per «merito comparativo» tra più candidati provvisti di idoneità di base.

D’altra parte qualsiasi promozione, a nostro avviso, postula di per sé ˗ per sottrarsi a fondati addebiti di parzialità o di clientelismo ˗ il raffronto (cioè la comparazione) dei rispettivi meriti di più candidati, parimenti interessati all’avanzamento di carriera. Resta insindacabile invece, in capo all’azienda, la determinazione inerente al fatto di effettuare (o meno) le promozioni nonché la consistenza delle stesse, in ragione delle proprie specifiche esigenze organizzativo-funzionali.

Una volta che, tuttavia, l’azienda abbia autonomamente deliberato sull’an e sul quantum dei promuovendi, resta indiscutibilmente vincolata a sviluppare l’iter promotivo nel rispetto della metodologia del raffronto ˗ in capo ai vari candidati ˗ dei requisiti meritocratici che  siano stati pattuiti nei contratti nazionali di lavoro, nei regolamenti o in accordi aziendali e sempreché i criteri valutativi  (ad esempio competenza professionale specifica, capacità  di gestione o coordinamento risorse umane, responsabilità,  precedenti di lavoro, e simili) siano stati individuati dagli agenti contrattuali con una formulazione tale da risultare inequivoca ed insuscettibile di divergenti interpretazioni.

Pertanto, condizione imprescindibile per poter contestare l’esclusione dall’avanzamento di carriera, è che il  dipendente possa prospettare al giudice del lavoro la violazione, da parte dell’azienda, di prefissati requisiti di valutazione promotiva reperibili nei ccnl, nei contratti aziendali o nei regolamenti interni.

Solo se gli agenti contrattuali hanno disciplinato pattiziamente le promozioni ˗ cioè a dire le hanno, come scrive la Cassazione, "procedimentalizzate" ˗ le stesse sono giudizialmente sindacabili in quanto  riconducibili alla specie delle «promozioni per merito comparativo» postulanti intrinsecamente il raffronto dei requisiti tra più controinteressati.

Laddove questa "procedimentalizzazione" manchi (il caso ricorre per tutti ˗ o quasi ˗ i contratti di lavoro del settore industriale), le promozioni si atteggiano e scadono al rango delle "promozioni a scelta discrezionale datoriale", risultando quindi insindacabili (se non invocando la violazione dei generali principi di correttezza e buona fede ex articolo 1175 e 1375 del Codice Civile, che non hanno quasi mai portato ad esiti positivi per i ricorrenti).

La fattispecie delle «promozioni per merito comparativo» ricorre storicamente nei settori del credito, delle assicurazioni e, in senso lato, dei servizi, peraltro riguardanti le sole qualifiche di personale fino alla soglia della dirigenza.  Ne sono esclusi, infatti, i dirigenti  per i quali ˗ in tali settori ˗ viene confermata  la spettanza (della) o l'avanzamento alla qualifica solo dietro cosiddetta «investitura formale» da parte aziendale, attraverso l'oscurantista formulazione secondo cui «sono dirigenti coloro […] che siano dalle rispettive imprese cui appartengono come tali qualificati». Per quest’ultimi la professionalità, l’autonomia decisionale, il ruolo e la responsabilità rivestita non sono – per clausola contrattuale, invero invalidata dalla Cassazione a più riprese ˗ requisiti di per se stessi sufficienti per l’inquadramento nella categoria dirigenziale, richiedendosi in ogni caso il «riconoscimento o conferimento aziendale».

Sulla tematica delle promozioni in linea generale, una volta che gli agenti contrattuali settoriali abbiano circoscritto la discrezionalità aziendale vincolandola tramite una "procedimentalizzazione" degli avanzamenti di carriera, la Cassazione ˗ con una nutrita serie di decisioni che oramai concretizzano un orientamento consolidato [1] ˗ è giunta (sin dalla metà degli anni '80 del secolo scorso) a stabilire i seguenti principi.

In primo luogo è delineato l’obbligo aziendale di motivare la scelta promotiva, mediante una esternazione ai non promossi ˗ che ne abbiano fatto richiesta ˗ delle ragioni della loro esclusione, congiunta alla facoltà di cognizione degli atti formativi del procedimento promotivo che li ha interessati (purtroppo con esito negativo). Atti che, del tutto condivisibilmente, la Cassazione si premura di precisare «non possono rimanere interna corporis dell’azienda» (Cassazione n. 1603/1985). Il tutto affinché sia consentito agli esclusi di valutare come e perché il datore di lavoro ˗ investito del compito neutrale della scelta meritocratica ˗ ha operato ed eventualmente convenire con le conclusioni aziendalmente raggiunte ovvero dissentire da esse, senza che il non promosso (cosiddetto pretermesso), per rendersi conto delle motivazioni datoriali, debba acriticamente investire la magistratura, in un’ottica di esasperazione dei rapporti tra impresa e dipendente, suscettibile di risolversi a favore di quest’ultima a causa delle intuitive remore psicologiche del prestatore di lavoro ad intraprendere un’azione giudiziaria che ˗ anche qualora fosse di mero accertamento ˗ viene interpretata dall’azienda come frattura inemarginabile all’interno del rapporto di lavoro subordinato.

Tale obbligo di motivazione dell’esclusione dal novero dei promossi ˗ esclusione non tanto isolatamente considerata quanto in rapporto alla preferenza accordata ad altri candidati suscettibili di comparazione con l’escluso ˗ costituisce, peraltro, uno stimolo verso la dismissione da parte aziendale di oscurantiste prassi (o certezze) di insindacabilità, perpetuatesi all’insegna dell’autoritario quanto desueto principio del fidati di me. Principio da tempo posto in crisi (piuttosto che in  semplice discussione) in tutte le comunità (da quella familiare a quella di lavoro a quella politica) sia per effetto del processo di scolarizzazione sia in conseguenza dell’acquisito senso critico e di dignità individuale, correlato alla complessiva crescita della società civile.

È quindi del tutto naturale che il cittadino-prestatore di lavoro esiga, civilmente e con maturità, di confrontare le proprie personali aspettative ed i propri individuali convincimenti (in ordine alla progressione di carriera) con quelli raggiunti, con una panoramica più vasta, dall’organo o ufficio di gestione aziendale delle risorse umane, tenuto ˗ in un’ottica di trasparenza e di rispetto dei principi di democrazia ˗ a fornire i richiesti chiarimenti.

La richiesta è tanto più pressante, motivata e comprensibile in quanto alla caduta verticale di disponibilità del cittadino ad accordare fiducia cieca ed incondizionata ad Enti od organismi (pubblici e privati) gestori delle proprie aspettative, interessi o diritti soggettivi, si coniuga ˗ nella fattispecie promotiva ˗ il sacrificio di tali interessi a beneficio diretto di soggetti in concorrenza professionale, talora bonaria, talora esasperata.

Addizionalmente, è stabilito l’obbligo aziendale di motivazione che, secondo la magistratura, si impone non solo per autoconsapevolezza dei singoli ma anche per consentire all’autorità giudiziaria ˗ eventualmente investita della controversia ˗ di poter esercitare il diritto/dovere di riscontro circa la conformità del comportamento gestionale aziendale ai principi generali di correttezza e buona fede ex articolo 1175 e articolo 1375 del Codice Civile (qualificati dalla Suprema Corte «clausole generali o cornice del sistema giuridico, strutturate da fondamenti e direttive etico-sociali che si traducono sostanzialmente nel dovere d’imparzialità») nonché ai criteri o requisiti contrattualmente proceduralizzati, in tema di promozioni per merito comparativo.

Al riguardo la Cassazione è giunta a precisare che il sindacato del giudice ordinario adito dal privato dipendente possiede le stesse caratteristiche di ampiezza e di penetrazione di quelle del giudice amministrativo adito dal pubblico dipendente, potendo anche il primo magistrato pervenire al riscontro in capo all’azienda dell’eventuale «eccesso di potere», figura «non incompatibile con l’esercizio di un potere privato, atteso che, per quanto ampia possa essere la discrezionalità, questa non può essere svincolata da regole certe che ne impediscano il mutamento in incontrollato arbitrio, pregiudizievole per i dipendenti» (così, Cassazione n. 1603/1985).

Ciò implica che l’azienda, in concreto, non si potrà esimere sia dal rispettare l’ordine di prevalenza interno agli eventuali prestabiliti fattori contrattuali ˗ desumibile, secondo la magistratura, dall’ordine di sequenza assegnato agli stessi nella formulazione contrattuale (talché nell’esempio di cui in precedenza, in primis avrà maggior peso la competenza professionale specifica, poi la capacità di gestione o coordinamento delle risorse umane, poi la responsabilità,  quindi  i precedenti di lavoro e così via) ˗ sia dal realizzare tale scala di valori tramite, di norma, una differenziata ponderazione aritmetica dei vari fattori in questione. Ponderazione che dovrà rispondere a criteri di razionalità ed essere azionata, in maniera uniforme e generalizzata, per tutti i vari candidati oggetto dello scrutinio nella tornata promotiva.

2. Sanzioni e misure riparatorie di promozioni illegittime

Irrazionalità o disarmonie valutative sono state ritenute dalla magistratura elementi concludentemente indiziari di un procedimento promotivo non correttamente dispiegato o realizzato, cosicché la sola evidenziazione al magistrato, da parte dell’escluso, di una differenziata valorizzazione ˗ in capo al soggetto promosso ˗ degli eguali o minori «precedenti di lavoro» (e fattori similari), ha portato la Suprema Corte a ritenere soddisfatto l’onere minimale della prova in capo al ricorrente (ex articolo 2697 del Codice Civile). Nonché a pretendere, conseguentemente, dall’azienda una circostanziata dimostrazione dell’integrale correttezza del proprio neutrale operato gestionale, atta a dissolvere il fondato rilievo o sospetto di scorrettezza rinvenibile in una accreditata prevalenza ponderale di un singolo fattore valutativo su tutto il resto dei fattori contrattuali che hanno concorso, nell’ordine, alla valutazione comparativa del merito.

Al riguardo la Cassazione ha asserito che «il dovuto adempimento all’obbligo del datore di lavoro di effettuare corrette operazioni valutative e comparative deve ritenersi non provato, quando l’assegnazione dei punteggi discrezionali non risulti motivata né siano successivamente manifestate le ragioni delle diverse quantificazioni», con la consequenziale affermazione di principio per cui «la prova del nesso causale tra inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di corrette valutazioni comparative e mancata promozione si risolve nella prova della perdita di una probabilità di promozione pari ad una ragionevole certezza» [2].

Più recentemente, ed in senso nettamente confermativo delle precedenti statuizioni, la Cassazione ˗ con la decisione n. 3415 del 2012 ˗ ha stabilito il seguente principio di diritto: «Nel caso in cui il datore di lavoro sia tenuto a effettuare nel rispetto di determinati criteri, non escludenti apprezzamenti discrezionali; una selezione tra i lavoratori ai fini di una promozione o del conferimento di un altro beneficio, egli, al fine di dimostrare il rispetto dei criteri previsti per la selezione e dei principi di correttezza e buona fede, deve operare in maniera trasparente e in particolare motivare adeguatamente la scelta effettuata.

In difetto di una scelta motivata, il lavoratore ha in linea di principio diritto al risarcimento del danno per perdita di chance, non condizionato alla prova da parte sua che la scelta, ove correttamente eseguita, si sarebbe risolta in suo favore.

Il giudice deve procedere alla liquidazione del danno con una valutazione equitativa a norma dell'art. 1226 c.c., tenendo presente, ai fini di tale giudizio probabilistico e comparativo, ogni elemento di valutazione e di prova ritualmente introdotto nel processo da entrambe le parti.

In particolare: dovrà rigettare la domanda risarcitoria quando gli elementi di prova acquisiti consentano di escludere con adeguata sicurezza che il lavoratore in causa potesse avere concrete possibilità di un esito della selezione per lui positivo; in mancanza di specifiche risultanze circa il possibile esito della selezione se correttamente eseguita, il giudice potrà ricorrere al criterio residuale del rapporto tra il numero dei soggetti da selezionare e il numero di quelli che concretamente dovevano formare oggetto della selezione, ma, se del caso, potrà trarre argomenti di convincimento circa il grado di probabilità favorevoli al lavoratore anche dal comportamento processuale delle parti e in particolare dalle loro carenze nell'allegazione e prova degli elementi di fatto rilevanti ai fini della selezione rientranti nell'ambito delle loro rispettive conoscenze e possibilità di prova».

Infine, occupandosi delle misure riparatorie degli inadempimenti o scorrettezze datoriali riscontrate nell’iter delle valutazioni comparative degli aspiranti alla progressione di carriera, la giurisprudenza della Cassazione come quella di merito ha mostrato preferenza verso la soluzione del risarcimento del danno per l’ingiustificatamente escluso, asserendo che «poiché il danno consiste nella perdita di chance, cioè nella perdita della possibilità di essere promosso, ai fini della sua quantificazione occorre prendere come base la differenza di retribuzione risultante tra la categoria nella quale si è attualmente inquadrati e quella nella quale si sarebbe pervenuti in caso di promozione ed applicare ad essa una percentuale ragguagliata alla possibilità di promozione del dipendente, fino al 100% in caso di raggiunta certezza» [3].

È stata, invece, considerata difficilmente praticabile ˗ se non nel caso in cui il giudice poteva semplicemente correggere errati punteggi aritmetici ˗ la dichiarazione giudiziale di riconoscimento della promozione ingiustificatamente negata, in ragione del principio dell’incoercibilità delle prestazioni di fare (nemo ad factum cogi potest).

La tutela risarcitoria  è stata altresì prescelta dagli stessi legali degli esclusi, allo scopo di snellire l’iter della controversia, ridurre i tempi della decisione giudiziaria e sottrarsi alla laboriosità della chiamata in contraddittorio dei promossi, ex articolo 102 del Codice di Procedura Civile, in veste di controinteressati.

Cosicché la pur sovente invocata nullità o invalidazione degli atti è stata prospettata al magistrato quale modalità strumentale, diretta a far discendere dall’accertamento giudiziale dei vizi invalidanti il semplice risarcimento di danno per l’indebitamente escluso, ma con contemporanea salvezza delle situazioni positive per i promossi. Soluzione transattiva dal lato giuridico, di fatto spesso soddisfacente ma, moralmente e sul piano dei principi (che i più sono propensi a dismettere), del tutto inappagante.

Infine si segnala, per completezza sull’argomento, che due non perspicue decisioni della Cassazione[4] hanno negato il diritto, sia ai singoli sia alle OO.SS. firmatarie del ccnl, alla cognizione preventiva della differenziata ponderazione aritmetica autonomamente assegnata dall’azienda ai vari fattori pattuiti per le promozioni, argomentando dalla carenza formale ˗ in seno  alla formulazione contrattuale o regolamentare della procedura promotiva ˗ di una specifica previsione di informativa in tal senso, alimentando così la propensione (al) e l’ampiezza del contenzioso giudiziario individuale.

Concludendo l’esame della tematica delle «promozioni per merito comparativo» – nell'ipotesi in cui risulti essere stata definita e convenuta tra le parti nei ccnl, ovvero nei regolamenti o negli accordi aziendali (eminentemente rinvenibili nel settore del credito e delle assicurazioni) –  possiamo ritenere ancora attuale l'opinione di sintesi da noi espressa nel lontano 1996 tramite cui sostenevamo che: «Anche l’incisività delle misure riparatorie giudiziali ˗ oltre all'esigenza di prevenire o dissipare addebiti di parzialità o clientelismo valutativo ˗ dovrebbe imporre alle Direzioni aziendali di dotarsi imprescindibilmente di un sistema organico ed esaustivo di valutazione periodica del personale, registrante per sintesi ma al tempo stesso meticolosamente, fatti significativi e giudizi sulla prestazione e sul potenziale dei lavoratori, in modo da poter dimostrare al dipendente ritenutosi discriminato dall’esclusione da una promozione o dall’assegnazione ad  un incarico più elevato, le superiori capacità, attitudini, esperienze e potenzialità del prescelto in sua vece; cioè a dire ˗ in altri  termini ˗ che l’escluso è obiettivamente inferiore rispetto al prescelto in tutti o nei più salienti fattori meritocratico-professionali contrattualmente codificati.

E’ altresì necessario che le valutazioni  finalizzate alle promozioni vertano sui fattori (esclusivamente) pattuiti nei ccnl o nei regolamenti interni; che l’Azienda  rispetti la prevalenza assegnata ai vari fattori, al loro interno, da parte delle formule contrattuali normalmente attraverso l’ordine di sequenza dei fattori stessi (ad esempio, prima l’attitudine a ricoprire il grado, poi la capacità professionale, quindi i precedenti di carriera e di lavoro dell’interessato, ecc.); che il rispetto della prevalenza sia testimoniato (preferibilmente) tramite una ponderazione aritmetica scalare che porti all’emersione di una graduatoria da cui scaturisca automaticamente l'elenco dei promuovibili.

Ad ogni buon conto, i sistemi di valutazione comparativa del merito possono essere i più diversi (dai più elementari ai più sofisticati), purché idonei a dar convincentemente conto ai dipendenti, in caso di rimostranza, ed al magistrato ˗ in sede di sindacato giudiziario ˗ della correttezza dell’operato gestionale aziendale».

Una volta suggeriti alle aziende i comportamenti e le modalità tecniche più idonee ad assicurare trasparenza e imparzialità agli avanzamenti di carriera, va detto che quelle poche aziende che li hanno a suo tempo fatti propri e resi effettivi tramite computerizzati strumenti di valutazione (schede valutative con ponderazione dei prestabiliti requisiti contrattuali per ciascun dipendente candidato all'avanzamento di carriera), si sono più o meno celermente determinate ad accantonarli, man mano che i vertici aziendali si sono resi conto che la strumentazione approntata dagli uffici di gestione delle risorse umane per l'individuazione automatica della graduatoria dei promuovendi ne imbrigliava la discrezionalità e impediva la presa in considerazione delle segnalazioni clientelari esterno-interne volte a beneficiare gli sponsorizzati.

Cosicché si è preferito, da parte loro, correre il rischio della soccombenza  in caso di contenzioso giudiziale, rischio invero modesto specialmente in tempi di crisi, in cui l'interesse dei dipendenti è prioritariamente focalizzato sulla conservazione del posto di lavoro in luogo che sulla carriera.

La convenienza di tale scelta aziendale di comodo è stata statisticamente confermata dal riscontro in fatto che il contenzioso giudiziario sulle promozioni ha registrato, dalla fine degli anni '90 in poi, una caduta verticale. La minimizzazione (verso l'annullamento) del rischio della sindacabilità giudiziale  attivata dai ricorsi dei dipendenti ritenutisi discriminati, è stata infine traguardata dalle aziende tramite l'ammorbidimento (rectius, svirilizzazione) a livello contrattuale delle formulazioni promotive ritenute più astringenti e vincolanti la discrezionalità aziendale, nell'ottica di una totale riappropriazione com'è prerogativa  non incisa per  il "padrone delle ferriere" del settore industriale.

 

[1] Cass. sez. un. n. 5800/1980 e n. 1/1980; Cass. 27 maggio 1983 n. 3675, in Giust. civ. 1983, I, 2270 con nota di M. Meucci; Cass. 22 gennaio 1985 n. 1603, in Lav. prev. oggi 1985, 2402, ancora con nota di M. Meucci; Cass. 13 giugno 1987 n. 5226; Cass. 29 aprile 1993 n. 5026, in Giur. it. 1994, I, 1, 234; Cass. 10 gennaio 1994 n. 158, ivi 1994, I, 1, 1761

[2] Così, Cass. n.158/1994, cit.

[3] Così Cass. 23.1.2002 n.734, in Not. giurisp. lav. 2002, 319; Cass. 9.11.2001 n. 13922, cit.; Cass. 15.3.1996, n. 2167, cit.; Pret. Roma 16.3.1993, in Dir. lav. 1994, 36, con nota di C. Laudo; conf. Cass. n. 5026/1994, cit., con nota di A. M. Musy, Sicilcasse ed il danno da perdita di una “chance”.

[4] Cass. 8.7.1987 n. 5965, in Foro it. 1987, I, 2989 con nota di O. Mazzotta; Cass. n. 5238/1987 (inedita a quanto consta).

 1. L’orientamento giurisprudenziale consolidato

Va preliminarmente espresso il convincimento che le promozioni ˗ sia degli impiegati alle superiori qualifiche sia dei quadri, fino alla qualifica di dirigente ˗ concretizzano, in ogni caso, la fattispecie giuridica delle promozioni aziendali per «merito comparativo» tra più candidati provvisti di idoneità di base.

D’altra parte qualsiasi promozione, a nostro avviso, postula di per sé ˗ per sottrarsi a fondati addebiti di parzialità o di clientelismo ˗ il raffronto (cioè la comparazione) dei rispettivi meriti di più candidati, parimenti interessati all’avanzamento di carriera. Resta insindacabile invece, in capo all’azienda, la determinazione inerente al fatto di effettuare (o meno) le promozioni nonché la consistenza delle stesse, in ragione delle proprie specifiche esigenze organizzativo-funzionali.

Una volta che, tuttavia, l’azienda abbia autonomamente deliberato sull’an e sul quantum dei promuovendi, resta indiscutibilmente vincolata a sviluppare l’iter promotivo nel rispetto della metodologia del raffronto ˗ in capo ai vari candidati ˗ dei requisiti meritocratici che  siano stati pattuiti nei contratti nazionali di lavoro, nei regolamenti o in accordi aziendali e sempreché i criteri valutativi  (ad esempio competenza professionale specifica, capacità  di gestione o coordinamento risorse umane, responsabilità,  precedenti di lavoro, e simili) siano stati individuati dagli agenti contrattuali con una formulazione tale da risultare inequivoca ed insuscettibile di divergenti interpretazioni.

Pertanto, condizione imprescindibile per poter contestare l’esclusione dall’avanzamento di carriera, è che il  dipendente possa prospettare al giudice del lavoro la violazione, da parte dell’azienda, di prefissati requisiti di valutazione promotiva reperibili nei ccnl, nei contratti aziendali o nei regolamenti interni.

Solo se gli agenti contrattuali hanno disciplinato pattiziamente le promozioni ˗ cioè a dire le hanno, come scrive la Cassazione, "procedimentalizzate" ˗ le stesse sono giudizialmente sindacabili in quanto  riconducibili alla specie delle «promozioni per merito comparativo» postulanti intrinsecamente il raffronto dei requisiti tra più controinteressati.

Laddove questa "procedimentalizzazione" manchi (il caso ricorre per tutti ˗ o quasi ˗ i contratti di lavoro del settore industriale), le promozioni si atteggiano e scadono al rango delle "promozioni a scelta discrezionale datoriale", risultando quindi insindacabili (se non invocando la violazione dei generali principi di correttezza e buona fede ex articolo 1175 e 1375 del Codice Civile, che non hanno quasi mai portato ad esiti positivi per i ricorrenti).

La fattispecie delle «promozioni per merito comparativo» ricorre storicamente nei settori del credito, delle assicurazioni e, in senso lato, dei servizi, peraltro riguardanti le sole qualifiche di personale fino alla soglia della dirigenza.  Ne sono esclusi, infatti, i dirigenti  per i quali ˗ in tali settori ˗ viene confermata  la spettanza (della) o l'avanzamento alla qualifica solo dietro cosiddetta «investitura formale» da parte aziendale, attraverso l'oscurantista formulazione secondo cui «sono dirigenti coloro […] che siano dalle rispettive imprese cui appartengono come tali qualificati». Per quest’ultimi la professionalità, l’autonomia decisionale, il ruolo e la responsabilità rivestita non sono – per clausola contrattuale, invero invalidata dalla Cassazione a più riprese ˗ requisiti di per se stessi sufficienti per l’inquadramento nella categoria dirigenziale, richiedendosi in ogni caso il «riconoscimento o conferimento aziendale».

Sulla tematica delle promozioni in linea generale, una volta che gli agenti contrattuali settoriali abbiano circoscritto la discrezionalità aziendale vincolandola tramite una "procedimentalizzazione" degli avanzamenti di carriera, la Cassazione ˗ con una nutrita serie di decisioni che oramai concretizzano un orientamento consolidato [1] ˗ è giunta (sin dalla metà degli anni '80 del secolo scorso) a stabilire i seguenti principi.

In primo luogo è delineato l’obbligo aziendale di motivare la scelta promotiva, mediante una esternazione ai non promossi ˗ che ne abbiano fatto richiesta ˗ delle ragioni della loro esclusione, congiunta alla facoltà di cognizione degli atti formativi del procedimento promotivo che li ha interessati (purtroppo con esito negativo). Atti che, del tutto condivisibilmente, la Cassazione si premura di precisare «non possono rimanere interna corporis dell’azienda» (Cassazione n. 1603/1985). Il tutto affinché sia consentito agli esclusi di valutare come e perché il datore di lavoro ˗ investito del compito neutrale della scelta meritocratica ˗ ha operato ed eventualmente convenire con le conclusioni aziendalmente raggiunte ovvero dissentire da esse, senza che il non promosso (cosiddetto pretermesso), per rendersi conto delle motivazioni datoriali, debba acriticamente investire la magistratura, in un’ottica di esasperazione dei rapporti tra impresa e dipendente, suscettibile di risolversi a favore di quest’ultima a causa delle intuitive remore psicologiche del prestatore di lavoro ad intraprendere un’azione giudiziaria che ˗ anche qualora fosse di mero accertamento ˗ viene interpretata dall’azienda come frattura inemarginabile all’interno del rapporto di lavoro subordinato.

Tale obbligo di motivazione dell’esclusione dal novero dei promossi ˗ esclusione non tanto isolatamente considerata quanto in rapporto alla preferenza accordata ad altri candidati suscettibili di comparazione con l’escluso ˗ costituisce, peraltro, uno stimolo verso la dismissione da parte aziendale di oscurantiste prassi (o certezze) di insindacabilità, perpetuatesi all’insegna dell’autoritario quanto desueto principio del fidati di me. Principio da tempo posto in crisi (piuttosto che in  semplice discussione) in tutte le comunità (da quella familiare a quella di lavoro a quella politica) sia per effetto del processo di scolarizzazione sia in conseguenza dell’acquisito senso critico e di dignità individuale, correlato alla complessiva crescita della società civile.

È quindi del tutto naturale che il cittadino-prestatore di lavoro esiga, civilmente e con maturità, di confrontare le proprie personali aspettative ed i propri individuali convincimenti (in ordine alla progressione di carriera) con quelli raggiunti, con una panoramica più vasta, dall’organo o ufficio di gestione aziendale delle risorse umane, tenuto ˗ in un’ottica di trasparenza e di rispetto dei principi di democrazia ˗ a fornire i richiesti chiarimenti.

La richiesta è tanto più pressante, motivata e comprensibile in quanto alla caduta verticale di disponibilità del cittadino ad accordare fiducia cieca ed incondizionata ad Enti od organismi (pubblici e privati) gestori delle proprie aspettative, interessi o diritti soggettivi, si coniuga ˗ nella fattispecie promotiva ˗ il sacrificio di tali interessi a beneficio diretto di soggetti in concorrenza professionale, talora bonaria, talora esasperata.

Addizionalmente, è stabilito l’obbligo aziendale di motivazione che, secondo la magistratura, si impone non solo per autoconsapevolezza dei singoli ma anche per consentire all’autorità giudiziaria ˗ eventualmente investita della controversia ˗ di poter esercitare il diritto/dovere di riscontro circa la conformità del comportamento gestionale aziendale ai principi generali di correttezza e buona fede ex articolo 1175 e articolo 1375 del Codice Civile (qualificati dalla Suprema Corte «clausole generali o cornice del sistema giuridico, strutturate da fondamenti e direttive etico-sociali che si traducono sostanzialmente nel dovere d’imparzialità») nonché ai criteri o requisiti contrattualmente proceduralizzati, in tema di promozioni per merito comparativo.

Al riguardo la Cassazione è giunta a precisare che il sindacato del giudice ordinario adito dal privato dipendente possiede le stesse caratteristiche di ampiezza e di penetrazione di quelle del giudice amministrativo adito dal pubblico dipendente, potendo anche il primo magistrato pervenire al riscontro in capo all’azienda dell’eventuale «eccesso di potere», figura «non incompatibile con l’esercizio di un potere privato, atteso che, per quanto ampia possa essere la discrezionalità, questa non può essere svincolata da regole certe che ne impediscano il mutamento in incontrollato arbitrio, pregiudizievole per i dipendenti» (così, Cassazione n. 1603/1985).

Ciò implica che l’azienda, in concreto, non si potrà esimere sia dal rispettare l’ordine di prevalenza interno agli eventuali prestabiliti fattori contrattuali ˗ desumibile, secondo la magistratura, dall’ordine di sequenza assegnato agli stessi nella formulazione contrattuale (talché nell’esempio di cui in precedenza, in primis avrà maggior peso la competenza professionale specifica, poi la capacità di gestione o coordinamento delle risorse umane, poi la responsabilità,  quindi  i precedenti di lavoro e così via) ˗ sia dal realizzare tale scala di valori tramite, di norma, una differenziata ponderazione aritmetica dei vari fattori in questione. Ponderazione che dovrà rispondere a criteri di razionalità ed essere azionata, in maniera uniforme e generalizzata, per tutti i vari candidati oggetto dello scrutinio nella tornata promotiva.

2. Sanzioni e misure riparatorie di promozioni illegittime

Irrazionalità o disarmonie valutative sono state ritenute dalla magistratura elementi concludentemente indiziari di un procedimento promotivo non correttamente dispiegato o realizzato, cosicché la sola evidenziazione al magistrato, da parte dell’escluso, di una differenziata valorizzazione ˗ in capo al soggetto promosso ˗ degli eguali o minori «precedenti di lavoro» (e fattori similari), ha portato la Suprema Corte a ritenere soddisfatto l’onere minimale della prova in capo al ricorrente (ex articolo 2697 del Codice Civile). Nonché a pretendere, conseguentemente, dall’azienda una circostanziata dimostrazione dell’integrale correttezza del proprio neutrale operato gestionale, atta a dissolvere il fondato rilievo o sospetto di scorrettezza rinvenibile in una accreditata prevalenza ponderale di un singolo fattore valutativo su tutto il resto dei fattori contrattuali che hanno concorso, nell’ordine, alla valutazione comparativa del merito.

Al riguardo la Cassazione ha asserito che «il dovuto adempimento all’obbligo del datore di lavoro di effettuare corrette operazioni valutative e comparative deve ritenersi non provato, quando l’assegnazione dei punteggi discrezionali non risulti motivata né siano successivamente manifestate le ragioni delle diverse quantificazioni», con la consequenziale affermazione di principio per cui «la prova del nesso causale tra inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di corrette valutazioni comparative e mancata promozione si risolve nella prova della perdita di una probabilità di promozione pari ad una ragionevole certezza» [2].

Più recentemente, ed in senso nettamente confermativo delle precedenti statuizioni, la Cassazione ˗ con la decisione n. 3415 del 2012 ˗ ha stabilito il seguente principio di diritto: «Nel caso in cui il datore di lavoro sia tenuto a effettuare nel rispetto di determinati criteri, non escludenti apprezzamenti discrezionali; una selezione tra i lavoratori ai fini di una promozione o del conferimento di un altro beneficio, egli, al fine di dimostrare il rispetto dei criteri previsti per la selezione e dei principi di correttezza e buona fede, deve operare in maniera trasparente e in particolare motivare adeguatamente la scelta effettuata.

In difetto di una scelta motivata, il lavoratore ha in linea di principio diritto al risarcimento del danno per perdita di chance, non condizionato alla prova da parte sua che la scelta, ove correttamente eseguita, si sarebbe risolta in suo favore.

Il giudice deve procedere alla liquidazione del danno con una valutazione equitativa a norma dell'art. 1226 c.c., tenendo presente, ai fini di tale giudizio probabilistico e comparativo, ogni elemento di valutazione e di prova ritualmente introdotto nel processo da entrambe le parti.

In particolare: dovrà rigettare la domanda risarcitoria quando gli elementi di prova acquisiti consentano di escludere con adeguata sicurezza che il lavoratore in causa potesse avere concrete possibilità di un esito della selezione per lui positivo; in mancanza di specifiche risultanze circa il possibile esito della selezione se correttamente eseguita, il giudice potrà ricorrere al criterio residuale del rapporto tra il numero dei soggetti da selezionare e il numero di quelli che concretamente dovevano formare oggetto della selezione, ma, se del caso, potrà trarre argomenti di convincimento circa il grado di probabilità favorevoli al lavoratore anche dal comportamento processuale delle parti e in particolare dalle loro carenze nell'allegazione e prova degli elementi di fatto rilevanti ai fini della selezione rientranti nell'ambito delle loro rispettive conoscenze e possibilità di prova».

Infine, occupandosi delle misure riparatorie degli inadempimenti o scorrettezze datoriali riscontrate nell’iter delle valutazioni comparative degli aspiranti alla progressione di carriera, la giurisprudenza della Cassazione come quella di merito ha mostrato preferenza verso la soluzione del risarcimento del danno per l’ingiustificatamente escluso, asserendo che «poiché il danno consiste nella perdita di chance, cioè nella perdita della possibilità di essere promosso, ai fini della sua quantificazione occorre prendere come base la differenza di retribuzione risultante tra la categoria nella quale si è attualmente inquadrati e quella nella quale si sarebbe pervenuti in caso di promozione ed applicare ad essa una percentuale ragguagliata alla possibilità di promozione del dipendente, fino al 100% in caso di raggiunta certezza» [3].

È stata, invece, considerata difficilmente praticabile ˗ se non nel caso in cui il giudice poteva semplicemente correggere errati punteggi aritmetici ˗ la dichiarazione giudiziale di riconoscimento della promozione ingiustificatamente negata, in ragione del principio dell’incoercibilità delle prestazioni di fare (nemo ad factum cogi potest).

La tutela risarcitoria  è stata altresì prescelta dagli stessi legali degli esclusi, allo scopo di snellire l’iter della controversia, ridurre i tempi della decisione giudiziaria e sottrarsi alla laboriosità della chiamata in contraddittorio dei promossi, ex articolo 102 del Codice di Procedura Civile, in veste di controinteressati.

Cosicché la pur sovente invocata nullità o invalidazione degli atti è stata prospettata al magistrato quale modalità strumentale, diretta a far discendere dall’accertamento giudiziale dei vizi invalidanti il semplice risarcimento di danno per l’indebitamente escluso, ma con contemporanea salvezza delle situazioni positive per i promossi. Soluzione transattiva dal lato giuridico, di fatto spesso soddisfacente ma, moralmente e sul piano dei principi (che i più sono propensi a dismettere), del tutto inappagante.

Infine si segnala, per completezza sull’argomento, che due non perspicue decisioni della Cassazione[4] hanno negato il diritto, sia ai singoli sia alle OO.SS. firmatarie del ccnl, alla cognizione preventiva della differenziata ponderazione aritmetica autonomamente assegnata dall’azienda ai vari fattori pattuiti per le promozioni, argomentando dalla carenza formale ˗ in seno  alla formulazione contrattuale o regolamentare della procedura promotiva ˗ di una specifica previsione di informativa in tal senso, alimentando così la propensione (al) e l’ampiezza del contenzioso giudiziario individuale.

Concludendo l’esame della tematica delle «promozioni per merito comparativo» – nell'ipotesi in cui risulti essere stata definita e convenuta tra le parti nei ccnl, ovvero nei regolamenti o negli accordi aziendali (eminentemente rinvenibili nel settore del credito e delle assicurazioni) –  possiamo ritenere ancora attuale l'opinione di sintesi da noi espressa nel lontano 1996 tramite cui sostenevamo che: «Anche l’incisività delle misure riparatorie giudiziali ˗ oltre all'esigenza di prevenire o dissipare addebiti di parzialità o clientelismo valutativo ˗ dovrebbe imporre alle Direzioni aziendali di dotarsi imprescindibilmente di un sistema organico ed esaustivo di valutazione periodica del personale, registrante per sintesi ma al tempo stesso meticolosamente, fatti significativi e giudizi sulla prestazione e sul potenziale dei lavoratori, in modo da poter dimostrare al dipendente ritenutosi discriminato dall’esclusione da una promozione o dall’assegnazione ad  un incarico più elevato, le superiori capacità, attitudini, esperienze e potenzialità del prescelto in sua vece; cioè a dire ˗ in altri  termini ˗ che l’escluso è obiettivamente inferiore rispetto al prescelto in tutti o nei più salienti fattori meritocratico-professionali contrattualmente codificati.

E’ altresì necessario che le valutazioni  finalizzate alle promozioni vertano sui fattori (esclusivamente) pattuiti nei ccnl o nei regolamenti interni; che l’Azienda  rispetti la prevalenza assegnata ai vari fattori, al loro interno, da parte delle formule contrattuali normalmente attraverso l’ordine di sequenza dei fattori stessi (ad esempio, prima l’attitudine a ricoprire il grado, poi la capacità professionale, quindi i precedenti di carriera e di lavoro dell’interessato, ecc.); che il rispetto della prevalenza sia testimoniato (preferibilmente) tramite una ponderazione aritmetica scalare che porti all’emersione di una graduatoria da cui scaturisca automaticamente l'elenco dei promuovibili.

Ad ogni buon conto, i sistemi di valutazione comparativa del merito possono essere i più diversi (dai più elementari ai più sofisticati), purché idonei a dar convincentemente conto ai dipendenti, in caso di rimostranza, ed al magistrato ˗ in sede di sindacato giudiziario ˗ della correttezza dell’operato gestionale aziendale».

Una volta suggeriti alle aziende i comportamenti e le modalità tecniche più idonee ad assicurare trasparenza e imparzialità agli avanzamenti di carriera, va detto che quelle poche aziende che li hanno a suo tempo fatti propri e resi effettivi tramite computerizzati strumenti di valutazione (schede valutative con ponderazione dei prestabiliti requisiti contrattuali per ciascun dipendente candidato all'avanzamento di carriera), si sono più o meno celermente determinate ad accantonarli, man mano che i vertici aziendali si sono resi conto che la strumentazione approntata dagli uffici di gestione delle risorse umane per l'individuazione automatica della graduatoria dei promuovendi ne imbrigliava la discrezionalità e impediva la presa in considerazione delle segnalazioni clientelari esterno-interne volte a beneficiare gli sponsorizzati.

Cosicché si è preferito, da parte loro, correre il rischio della soccombenza  in caso di contenzioso giudiziale, rischio invero modesto specialmente in tempi di crisi, in cui l'interesse dei dipendenti è prioritariamente focalizzato sulla conservazione del posto di lavoro in luogo che sulla carriera.

La convenienza di tale scelta aziendale di comodo è stata statisticamente confermata dal riscontro in fatto che il contenzioso giudiziario sulle promozioni ha registrato, dalla fine degli anni '90 in poi, una caduta verticale. La minimizzazione (verso l'annullamento) del rischio della sindacabilità giudiziale  attivata dai ricorsi dei dipendenti ritenutisi discriminati, è stata infine traguardata dalle aziende tramite l'ammorbidimento (rectius, svirilizzazione) a livello contrattuale delle formulazioni promotive ritenute più astringenti e vincolanti la discrezionalità aziendale, nell'ottica di una totale riappropriazione com'è prerogativa  non incisa per  il "padrone delle ferriere" del settore industriale.

 

[1] Cass. sez. un. n. 5800/1980 e n. 1/1980; Cass. 27 maggio 1983 n. 3675, in Giust. civ. 1983, I, 2270 con nota di M. Meucci; Cass. 22 gennaio 1985 n. 1603, in Lav. prev. oggi 1985, 2402, ancora con nota di M. Meucci; Cass. 13 giugno 1987 n. 5226; Cass. 29 aprile 1993 n. 5026, in Giur. it. 1994, I, 1, 234; Cass. 10 gennaio 1994 n. 158, ivi 1994, I, 1, 1761

[2] Così, Cass. n.158/1994, cit.

[3] Così Cass. 23.1.2002 n.734, in Not. giurisp. lav. 2002, 319; Cass. 9.11.2001 n. 13922, cit.; Cass. 15.3.1996, n. 2167, cit.; Pret. Roma 16.3.1993, in Dir. lav. 1994, 36, con nota di C. Laudo; conf. Cass. n. 5026/1994, cit., con nota di A. M. Musy, Sicilcasse ed il danno da perdita di una “chance”.

[4] Cass. 8.7.1987 n. 5965, in Foro it. 1987, I, 2989 con nota di O. Mazzotta; Cass. n. 5238/1987 (inedita a quanto consta).