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Eccessiva durata del procedimento e liquidazione di indennizzo in fattispecie di giudizio di "equa su equa"

Il ricorrente del procedimento in analisi si doleva dell’eccessiva durata di un procedimento proposto ex lege Pinto e la Corte d’Appello di Caltanissetta, ritenendo eccessiva la durata complessiva di anni cinque e mesi nove del procedimento presupposto, condannava il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento senza dilazione in favore dell’istante della somma di euro 2.000,00 oltre interessi al tasso legale dalla domanda ed oltre alle spese del procedimento. Detto decreto, depositato il 24 aprile 2013, reso in procedimento promosso ex articolo 2 e articolo 3 della Legge n. 89/2001, così come di recente modificato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella Legge n. 134/2012, accoglieva la domanda di equo indennizzo per eccessiva durata della procedura esperita in precedenza per richiedere l’indennizzo dovuto per l’eccessiva durata di un processo amministrativo durato dieci anni.

Nonostante la lungaggine del processo amministrativo, la domanda ex lege Pinto era respinto ritenendola inammissibile per difetto di legittimazione passiva, tuttavia il ricorrente impugnava in sede di legittimità il decreto emesso dalla Corte territoriale e la Suprema Corte accoglieva il ricorso, cassando con rinvio alla medesima Corte d’Appello dinanzi alla quale procedimento veniva riassunto nei termini.

La citata Corte d’Appello, però, respingeva nuovamente il ricorso ritenendo non eccessiva la durata del giudizio amministrativo, sicché il ricorrente impugnava nuovamente per cassazione il secondo decreto emesso dalla medesima Corte territoriale.

Questa volta la Suprema Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso decideva nel merito, ai sensi dell’articolo 384 del Codice di Procedura Civile, liquidando all’ostinato ricorrente l’indennizzo dovutogli (cfr. Corte di Cassazione, Sentenza n. 23146, depositata il 14 dicembre 2012).

Poiché l’istanza volta ad ottenere l’indennizzo per eccessiva durata di giudizio amministrativo era stata esitata dopo un lunghissimo lasso temporale, essendo stata instaurata con ricorso introduttivo depositato il 6 marzo 2007, esitato favorevolmente dopo avere esperito due giudizi di merito ed altrettanti giudizi di legittimità solo in data 14 dicembre 2012, il ricorrente proponeva nuova domanda volta ad ottenere l’indennizzo per l’eccessiva durata del procedimento speciale di cui alla Legge Pinto, sostenendo che detto procedimento dovesse essere improntato a particolare celerità e che, nel caso di specie, detta esigenza era stata, in concreto, frustrata.

Con decreto del 22 aprile 2013, depositato il 24 aprile 2013, reso in procedimento ex articolo 2 e articolo 3 della Legge n. 89/2001, così come di recente modificato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella Legge n. 134/2012, la Corte d’Appello di Catania accoglieva la domanda di equo indennizzo per eccessiva durata della procedura esperita in precedenza ai sensi delle norme sopra citate.

Tale Decreto presenta profili di particolare interesse sotto tre aspetti.

1) Innanzitutto in ordine all’ammissibilità del ricorso cosiddetto di “equa su equa”, proposto dall’istante con ricorso depositato il 18 marzo 2013 (e quindi in applicazione del novellato articolo 2 della Legge 24 marzo 2001, n. 89) al fine di ottenere la riparazione del danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto a causa della non ragionevole durata del giudizio di equa, stante che la Corte d’Appello di Catania, in linea con l’orientamento espresso, di recente, dalla giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto ammissibile la relativa domanda. E, rilevato che il procedimento in oggetto – ex lege Pinto – aveva avuto una durata complessiva di anni 5 e mesi 9, che eccede di anni 3 e mesi 9 (arrotondati a quattro anni, ai sensi del primo comma dell’articolo 2-bis della predetta Legge) il termine ritenuto congruo di anni due con riferimento alla procedura di equa riparazione, ha accolto la domanda di indennizzo. Quest’ultimo termine di anni due, comprensivo dei due gradi di giudizio, ovvero, il primo dinanzi la Corte d’Appello e quello – eventuale – di legittimità dinanzi la Suprema Corte di Cassazione, è il limite massimo entro cui si deve poter definire il procedimento speciale di cui alla Legge sopra citata, non essendo consono allo spirito della norma consentire ulteriori dilatazioni temporali.

Al fine di evidenziare l’ammissibilità del ricorso per cosiddetta “equa su equa”, l’adita Corte d’Appello ha richiamato la giurisprudenza di legittimità che, dirimendo un contrasto interpretativo in ordine all’ammissibilità o meno di siffatta tipologia di ricorso, ha stabilito che “[…] il giudizio di equa riparazione, che si svolge presso le Corti d’appello ed eventualmente, in sede di impugnazione, dinnanzi a questa Corte, è un ordinario processo di cognizione, soggetto, in quanto tale, alla esigenza di una definizione in tempi ragionevoli; esigenza, questa, tanto più pressante per tale tipologia di giudizi, in quanto finalizzati all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sé una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe eccentrico non riconoscere anche per i procedimenti ex Lege n. 89 del 2001” (Cassazione n. 12/8283).

Inoltre, in ordine all’individuazione di quale sia la ragionevole durata di un giudizio di equa riparazione, la Corte Etnea ha aderito all’orientamento giurisprudenziale, ormai assolutamente prevalente, secondo il quale la durata complessiva della procedura ex lege Pinto, comprensiva sia del giudizio dinnanzi alla Corte di Appello e sia dell’impugnazione dinnanzi alla Corte di legittimità, debba essere ritenuta ragionevole laddove non ecceda il termine di due anni, stante la semplicità del procedimento de quo (che, solitamente, non richiede alcuna attività di tipo istruttorio).

Detto termine appare compatibile con le indicazioni desumibili dagli ultimi approdi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e rispondente alla snellezza del procedimento de quo, come recentemente riformato con la nuova formulazione dell’articolo 3, comma 4, della Legge n. 89/01 (Cassazione n. 12/8283; Cassazione n. 12/17685).

2) Per quanto riguarda il quantum liquidato, la Corte d’Appello ha fissato l’importo spettante al ricorrente nella complessiva somma di euro 2.000, ritenendo equo ai sensi dell’articolo 2056 del Codice Civile, corrispondere alla parte istante l’importo di euro 500 per ciascuno dei quattro anni di ritardo, attestandosi nella parte bassa dell’ammontare liquidabile secondo il potere discrezionale di cui il Giudicante deve fare uso per determinare, in concreto, l’importo liquidabile; tale “forbice”, come noto, prevede un limite minimo di € 500 ed un limite massimo di € 1.500 per ciascun anno di eccessiva durata di procedimento (cfr. articolo 2 bis, comma 1, Legge n. 89/2001).

3) Il Decreto in commento, oltre ad essere uno dei primi emessi in materia di riparazione da eccessiva durata di procedimenti di cosiddetta “equa su equa”, merita un’ulteriore riflessione per l’analisi del concreto iter processuale che ha portato alla sua concreta adozione.

La vicenda processuale de qua scaturisce da un previo ricorso ex Lege Pinto depositato il 6 marzo 2007, come esposto in premessa, con il quale il ricorrente chiedeva emettersi pronuncia di condanna nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze per l’eccessiva durata di un procedimento svoltosi dapprima dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione di Catania e successivamente dinnanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana, durato complessivamente dieci anni.

Con decreto del 18.10/7.11.2007, l’adita Corte d’Appello dichiarava inammissibile la domanda di equa riparazione da eccessiva durata del processo per difetto di legittimazione passiva, in quanto lo stesso era stato proposto nei confronti del Ministro dell’Economia e delle Finanze e non, come ritenuto dalla Corte di merito, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Riteneva la Corte di merito che qualora il danno per l’irragionevole durata del processo faccia riferimento a processi svoltisi dinnanzi al Giudice amministrativo (o dinnanzi alla Corte dei Conti), la legittimazione passiva spetterebbe alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Avverso tale decisione il ricorrente proponeva ricorso per cassazione, adducendo di avere correttamente individuato, con la propria domanda, l’amministrazione convenuta, ovvero il Ministro dell’Economia e delle Finanze, ai sensi del disposto di cui all’articolo 3, comma 3 della Legge n. 89/01, così come modificata dall’articolo 1, comma 1224 della Legge 27 dicembre 2006, n. 296, la quale, abrogando la previgente previsione secondo la quale: “Negli altri casi (il ricorso) è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri”, prevedeva che per i procedimenti iniziati dopo l’entrata in vigore della L. n. 296/06 il ricorso andasse proposto “[…] nei confronti del Ministro dell’Economia e delle Finanze”.

Ed invero, nel caso di specie, il ricorso ex lege Pinto, relativo ad un procedimento svoltosi dinnanzi al Giudice amministrativo, aveva preso le mosse in data 6 marzo 2007; quindi, successivamente all’entrata in vigore della suddetta modifica.

Pertanto, andava (come è stato) proposto avverso il Ministro dell’Economia e delle Finanze, contrariamente a quanto stabilito dalla Corte di Appello di Caltanissetta con il decreto di rigetto del ricorso.

La Suprema Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e cassava il decreto impugnato, rinviando nuovamente alla Corte d’Appello di Caltanissetta, in diversa composizione, per l’adozione della relativa decisione sul merito del ricorso, giusta Ordinanza della Sezione Prima Civile, recante n. 21510, depositato il 30 giugno 2009.

Con ricorso in riassunzione ex articolo 392 del Codice di Procedura Civile del 5 novembre 2009, il ricorrente riproponeva la domanda, dinnanzi la Corte di Appello di Caltanissetta, la quale con decreto del 3.6/4.8.2010, rigettava – questa volta decidendo il merito – la propria domanda, ritenendo non esservi stata eccessiva durata del processo presupposto ai sensi dell’articolo 2 della Legge Pinto.

Seguiva, pertanto, un ulteriore ricorso per Cassazione, proposto con atto del 20 settembre 2010 avverso il suindicato decreto. Finalmente, con Sentenza n. 23146/12, depositata il 14 dicembre 2012, la Suprema Corte di Cassazione, Sesta Sezione Civile, accoglieva la domanda di equa riparazione del procedimento presupposto proposta dal tenace ricorrente e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, decideva la causa nel merito, stabilendo il diritto del ricorrente ad ottenere il chiesto indennizzo.

Occorrevano, indi, ben cinque anni e nove mesi prima di addivenirsi ad una pronuncia risolutoria che accertasse definitivamente il diritto all’equo indennizzo da parte dell’istante.

A questo punto le cose, il ricorrente riproponeva domanda di equa riparazione, al fine di accertarsi l’effettiva durata del suddetto procedimento da Legge Pinto, ottenendo la favorevole pronuncia emessa dalla Corte d’Appello di Catania, che condannava, come detto, il Ministero della Giustizia a corrispondergli l’ulteriore indennizzo di Euro 2.000.

Il ricorrente del procedimento in analisi si doleva dell’eccessiva durata di un procedimento proposto ex lege Pinto e la Corte d’Appello di Caltanissetta, ritenendo eccessiva la durata complessiva di anni cinque e mesi nove del procedimento presupposto, condannava il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento senza dilazione in favore dell’istante della somma di euro 2.000,00 oltre interessi al tasso legale dalla domanda ed oltre alle spese del procedimento. Detto decreto, depositato il 24 aprile 2013, reso in procedimento promosso ex articolo 2 e articolo 3 della Legge n. 89/2001, così come di recente modificato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella Legge n. 134/2012, accoglieva la domanda di equo indennizzo per eccessiva durata della procedura esperita in precedenza per richiedere l’indennizzo dovuto per l’eccessiva durata di un processo amministrativo durato dieci anni.

Nonostante la lungaggine del processo amministrativo, la domanda ex lege Pinto era respinto ritenendola inammissibile per difetto di legittimazione passiva, tuttavia il ricorrente impugnava in sede di legittimità il decreto emesso dalla Corte territoriale e la Suprema Corte accoglieva il ricorso, cassando con rinvio alla medesima Corte d’Appello dinanzi alla quale procedimento veniva riassunto nei termini.

La citata Corte d’Appello, però, respingeva nuovamente il ricorso ritenendo non eccessiva la durata del giudizio amministrativo, sicché il ricorrente impugnava nuovamente per cassazione il secondo decreto emesso dalla medesima Corte territoriale.

Questa volta la Suprema Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso decideva nel merito, ai sensi dell’articolo 384 del Codice di Procedura Civile, liquidando all’ostinato ricorrente l’indennizzo dovutogli (cfr. Corte di Cassazione, Sentenza n. 23146, depositata il 14 dicembre 2012).

Poiché l’istanza volta ad ottenere l’indennizzo per eccessiva durata di giudizio amministrativo era stata esitata dopo un lunghissimo lasso temporale, essendo stata instaurata con ricorso introduttivo depositato il 6 marzo 2007, esitato favorevolmente dopo avere esperito due giudizi di merito ed altrettanti giudizi di legittimità solo in data 14 dicembre 2012, il ricorrente proponeva nuova domanda volta ad ottenere l’indennizzo per l’eccessiva durata del procedimento speciale di cui alla Legge Pinto, sostenendo che detto procedimento dovesse essere improntato a particolare celerità e che, nel caso di specie, detta esigenza era stata, in concreto, frustrata.

Con decreto del 22 aprile 2013, depositato il 24 aprile 2013, reso in procedimento ex articolo 2 e articolo 3 della Legge n. 89/2001, così come di recente modificato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella Legge n. 134/2012, la Corte d’Appello di Catania accoglieva la domanda di equo indennizzo per eccessiva durata della procedura esperita in precedenza ai sensi delle norme sopra citate.

Tale Decreto presenta profili di particolare interesse sotto tre aspetti.

1) Innanzitutto in ordine all’ammissibilità del ricorso cosiddetto di “equa su equa”, proposto dall’istante con ricorso depositato il 18 marzo 2013 (e quindi in applicazione del novellato articolo 2 della Legge 24 marzo 2001, n. 89) al fine di ottenere la riparazione del danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto a causa della non ragionevole durata del giudizio di equa, stante che la Corte d’Appello di Catania, in linea con l’orientamento espresso, di recente, dalla giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto ammissibile la relativa domanda. E, rilevato che il procedimento in oggetto – ex lege Pinto – aveva avuto una durata complessiva di anni 5 e mesi 9, che eccede di anni 3 e mesi 9 (arrotondati a quattro anni, ai sensi del primo comma dell’articolo 2-bis della predetta Legge) il termine ritenuto congruo di anni due con riferimento alla procedura di equa riparazione, ha accolto la domanda di indennizzo. Quest’ultimo termine di anni due, comprensivo dei due gradi di giudizio, ovvero, il primo dinanzi la Corte d’Appello e quello – eventuale – di legittimità dinanzi la Suprema Corte di Cassazione, è il limite massimo entro cui si deve poter definire il procedimento speciale di cui alla Legge sopra citata, non essendo consono allo spirito della norma consentire ulteriori dilatazioni temporali.

Al fine di evidenziare l’ammissibilità del ricorso per cosiddetta “equa su equa”, l’adita Corte d’Appello ha richiamato la giurisprudenza di legittimità che, dirimendo un contrasto interpretativo in ordine all’ammissibilità o meno di siffatta tipologia di ricorso, ha stabilito che “[…] il giudizio di equa riparazione, che si svolge presso le Corti d’appello ed eventualmente, in sede di impugnazione, dinnanzi a questa Corte, è un ordinario processo di cognizione, soggetto, in quanto tale, alla esigenza di una definizione in tempi ragionevoli; esigenza, questa, tanto più pressante per tale tipologia di giudizi, in quanto finalizzati all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sé una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe eccentrico non riconoscere anche per i procedimenti ex Lege n. 89 del 2001” (Cassazione n. 12/8283).

Inoltre, in ordine all’individuazione di quale sia la ragionevole durata di un giudizio di equa riparazione, la Corte Etnea ha aderito all’orientamento giurisprudenziale, ormai assolutamente prevalente, secondo il quale la durata complessiva della procedura ex lege Pinto, comprensiva sia del giudizio dinnanzi alla Corte di Appello e sia dell’impugnazione dinnanzi alla Corte di legittimità, debba essere ritenuta ragionevole laddove non ecceda il termine di due anni, stante la semplicità del procedimento de quo (che, solitamente, non richiede alcuna attività di tipo istruttorio).

Detto termine appare compatibile con le indicazioni desumibili dagli ultimi approdi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e rispondente alla snellezza del procedimento de quo, come recentemente riformato con la nuova formulazione dell’articolo 3, comma 4, della Legge n. 89/01 (Cassazione n. 12/8283; Cassazione n. 12/17685).

2) Per quanto riguarda il quantum liquidato, la Corte d’Appello ha fissato l’importo spettante al ricorrente nella complessiva somma di euro 2.000, ritenendo equo ai sensi dell’articolo 2056 del Codice Civile, corrispondere alla parte istante l’importo di euro 500 per ciascuno dei quattro anni di ritardo, attestandosi nella parte bassa dell’ammontare liquidabile secondo il potere discrezionale di cui il Giudicante deve fare uso per determinare, in concreto, l’importo liquidabile; tale “forbice”, come noto, prevede un limite minimo di € 500 ed un limite massimo di € 1.500 per ciascun anno di eccessiva durata di procedimento (cfr. articolo 2 bis, comma 1, Legge n. 89/2001).

3) Il Decreto in commento, oltre ad essere uno dei primi emessi in materia di riparazione da eccessiva durata di procedimenti di cosiddetta “equa su equa”, merita un’ulteriore riflessione per l’analisi del concreto iter processuale che ha portato alla sua concreta adozione.

La vicenda processuale de qua scaturisce da un previo ricorso ex Lege Pinto depositato il 6 marzo 2007, come esposto in premessa, con il quale il ricorrente chiedeva emettersi pronuncia di condanna nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze per l’eccessiva durata di un procedimento svoltosi dapprima dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione di Catania e successivamente dinnanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana, durato complessivamente dieci anni.

Con decreto del 18.10/7.11.2007, l’adita Corte d’Appello dichiarava inammissibile la domanda di equa riparazione da eccessiva durata del processo per difetto di legittimazione passiva, in quanto lo stesso era stato proposto nei confronti del Ministro dell’Economia e delle Finanze e non, come ritenuto dalla Corte di merito, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Riteneva la Corte di merito che qualora il danno per l’irragionevole durata del processo faccia riferimento a processi svoltisi dinnanzi al Giudice amministrativo (o dinnanzi alla Corte dei Conti), la legittimazione passiva spetterebbe alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Avverso tale decisione il ricorrente proponeva ricorso per cassazione, adducendo di avere correttamente individuato, con la propria domanda, l’amministrazione convenuta, ovvero il Ministro dell’Economia e delle Finanze, ai sensi del disposto di cui all’articolo 3, comma 3 della Legge n. 89/01, così come modificata dall’articolo 1, comma 1224 della Legge 27 dicembre 2006, n. 296, la quale, abrogando la previgente previsione secondo la quale: “Negli altri casi (il ricorso) è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri”, prevedeva che per i procedimenti iniziati dopo l’entrata in vigore della L. n. 296/06 il ricorso andasse proposto “[…] nei confronti del Ministro dell’Economia e delle Finanze”.

Ed invero, nel caso di specie, il ricorso ex lege Pinto, relativo ad un procedimento svoltosi dinnanzi al Giudice amministrativo, aveva preso le mosse in data 6 marzo 2007; quindi, successivamente all’entrata in vigore della suddetta modifica.

Pertanto, andava (come è stato) proposto avverso il Ministro dell’Economia e delle Finanze, contrariamente a quanto stabilito dalla Corte di Appello di Caltanissetta con il decreto di rigetto del ricorso.

La Suprema Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e cassava il decreto impugnato, rinviando nuovamente alla Corte d’Appello di Caltanissetta, in diversa composizione, per l’adozione della relativa decisione sul merito del ricorso, giusta Ordinanza della Sezione Prima Civile, recante n. 21510, depositato il 30 giugno 2009.

Con ricorso in riassunzione ex articolo 392 del Codice di Procedura Civile del 5 novembre 2009, il ricorrente riproponeva la domanda, dinnanzi la Corte di Appello di Caltanissetta, la quale con decreto del 3.6/4.8.2010, rigettava – questa volta decidendo il merito – la propria domanda, ritenendo non esservi stata eccessiva durata del processo presupposto ai sensi dell’articolo 2 della Legge Pinto.

Seguiva, pertanto, un ulteriore ricorso per Cassazione, proposto con atto del 20 settembre 2010 avverso il suindicato decreto. Finalmente, con Sentenza n. 23146/12, depositata il 14 dicembre 2012, la Suprema Corte di Cassazione, Sesta Sezione Civile, accoglieva la domanda di equa riparazione del procedimento presupposto proposta dal tenace ricorrente e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, decideva la causa nel merito, stabilendo il diritto del ricorrente ad ottenere il chiesto indennizzo.

Occorrevano, indi, ben cinque anni e nove mesi prima di addivenirsi ad una pronuncia risolutoria che accertasse definitivamente il diritto all’equo indennizzo da parte dell’istante.

A questo punto le cose, il ricorrente riproponeva domanda di equa riparazione, al fine di accertarsi l’effettiva durata del suddetto procedimento da Legge Pinto, ottenendo la favorevole pronuncia emessa dalla Corte d’Appello di Catania, che condannava, come detto, il Ministero della Giustizia a corrispondergli l’ulteriore indennizzo di Euro 2.000.