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“Il diritto senza norme”: prospettive ed evoluzioni della rappresentanza sindacale

La libertà sindacale e la sua organizzazione rappresentano, all’interno del panorama italiano, un elemento di forte democraticità, nonostante il persistere dell’assenza di una sistematica disciplina in merito.

In tal senso, infatti, le disposizioni costituzionali in materia sindacale e di lavoro sono rimaste pressoché inapplicate, sia a causa delle circostanze storiche che si sono avvicendate nel corso dei decenni, sia della forza decisoria dei sindacati che tendevano a voler mantenere una situazione, di fatto, versatile con riferimento alle esigenze e alle necessità lavoristiche, evitando restrittive cristallizzazioni normative.

Per poter comprendere nella sua pienezza il sistema di organizzazione sindacale, in particolar modo a livello aziendale, è necessario evidenziare quale sia la situazione attuale in cui versano gli odierni sindacati.

In primo luogo, per quanto concerne la qualificazione giuridica, manca, a causa dell’assenza di una legislazione ordinaria in merito, l’obbligo di iscrizione in pubblici registri per i sindacati (così come previsto dall’articolo 39 della Costituzione), i quali, di conseguenza, possono essere classificati, al livello civilistico, solamente come associazioni non riconosciute, ancorché privi di personalità giuridica.

Ciò comporta lo scaturire di una ulteriore problematica che incide sulla stipula dei contratti collettivi nazionali, poiché essi hanno nella pratica (anche se non formalmente) un’applicabilità erga omnes, interessando tanto i lavoratori iscritti quanto quelli non associati alle sigle sindacali.

La realtà sostanziale, quindi, distaccandosi molto dalla realtà giuridica, che invece riconosce un’efficacia di diritto comune alla contrattazione collettiva, ha costretto la giurisprudenza ad elaborare il nuovo principio che informa lo svolgimento dell’attività sindacale. Quest’ultima sarebbe mossa, non già dal concetto di rappresentanza basato sul mandato attribuito dai lavoratori al sindacato, bensì dal principio di rappresentatività, poiché l’ente sindacale si pone nell’ordinamento come portatore di interessi collettivi.

Questa forte valenza del movimento sindacale e degli atti che da esso scaturiscono è ravvisabile, altresì, nei numerosi riferimenti giurisprudenziali ai contratti collettivi nazionali, per l’individuazione e la quantificazione della retribuzione proporzionata e sufficiente garantita costituzionalmente dall’articolo 36 (Cassazione n. 163/84; Cassazione n. 9954/91 ed anche Cassazione n. 4813/96).

Questi riconoscimenti, posti in essere dalla giurisprudenza con riferimento al diritto vivente, hanno trovato espressione, anche se in maniera parziale, nel cosiddetto Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970), che accorda, tra l’altro, una maggiore tutela ai prestatori di lavoro nell’ambito aziendale.

L’articolo 19 di suddetto Statuto, nell’originaria formulazione, prevedeva che i lavoratori avessero diritto di costituire rappresentanze sindacali aziendali (RSA) in due differenti ambiti.

Il primo era quello delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative al livello nazionale – lettera a) – ed il secondo considerava, invece, le associazioni sindacali non affiliate alle predette Confederazioni, ma firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali applicati all’unità produttiva in questione – lettera b) –. Il primo dei due requisiti, però, presentò diverse problematiche dal momento che il legislatore non aveva definito cosa si intendesse per “Confederazione maggiormente rappresentativa”, portando, nel 1995, ad una sua abrogazione attraverso lo strumento referendario.

Nonostante l’iniziativa costitutiva delle RSA venisse riconosciuta alla totalità dei lavoratori, senza alcuna distinzione, permaneva la corrispettività tra l’organismo aziendale rappresentativo e le entità sindacali, proprio perché queste ultime erano chiamate a designare il rappresentante in azienda. Inoltre questo tipo di assetto non permetteva di rappresentare al meglio le evoluzioni che si stavano affacciando nel panorama della rappresentanza sindacale, individuabili sia nel riconoscimento di fatto dell’effettività erga omnes dei contratti collettivi nazionali e aziendali, sia nella considerazione dei sindacati come enti portatori di interessi collettivi, in base al principio della rappresentatività.

Si concretizzò sempre più, oltretutto, una crisi dell’unità sindacale, sia perché il forte pluralismo aveva condotto ad una frammentazione della rappresentatività, sia poiché, in particolar modo nel settore metalmeccanico, la scissione tra le varie Federazioni condusse ad accordi separati, affinché potessero essere soddisfatte tutte le esigenze e le necessità delle singole organizzazioni sindacali. D’altro canto, i conflitti tra quest’ultime in merito a quale fosse il metro di giudizio per valutare la maggiore rappresentatività comportavano attriti e la conseguente impossibilità di fornire una efficace tutela ai prestatori di lavoro.

In base a questi mutamenti si avvertì, quindi, la necessità di studiare e realizzare un diverso meccanismo di rappresentanza della figura del lavoratore nell’ambito delle imprese.

Questo spinse alcune delle principali Confederazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro (CGIL, CISL, UIL e Confindustria) ad addivenire ad un Accordo Interconfederale il 20 dicembre 1993, con cui si intendeva sostituire le RSA con le rappresentanze sindacali unitarie (RSU).

L’assetto della RSU avrebbe permesso, infatti, di esprimere, per mezzo di elezioni a suffragio universale, la volontà complessiva ed unitaria dei lavoratori, chiamati a votare candidati delle liste presentate in base a due differenti criteri. Da un lato quelle formulate dalle Confederazioni rientranti nella norma dell’articolo 19, dall’altro quelle realizzate da Confederazioni non sussumibili sotto suddetta disposizione, ma comunque firmatarie dell’Accordo Interconfederale ed aventi un numero minimo di consensi in quella data unità produttiva pari al 5%.

Le RSU venivano quindi formate per 2/3 dai membri individuati per mezzo delle elezioni e per 1/3 (cd. terzo riservato) dalle designazioni del sindacato firmatario del contratto collettivo nazionale in proporzione ai voti ottenuti.

Questo modello, che nelle intenzioni Interconfederali doveva andare a sostituire in toto il sistema delle RSA (punti 5 e 8, Parte Prima, Accordo Interconfederale 1993), rappresentava una forte innovazione nell’ambito della libertà sindacale e nella rappresentatività effettiva dei lavoratori in azienda.

Innanzitutto, infatti, la possibilità accordata ad associazioni non firmatarie del contratto collettivo di formare liste per le elezioni delle RSU consentiva un ingresso nella sfera decisoria e valutativa delle opportunità anche ad associazioni con una minima rappresentatività, prive di una forza tale per poter essere ammesse al tavolo delle trattative del contratto collettivo nazionale. In secondo luogo, proprio attraverso una partecipazione diretta e collettiva dei prestatori di lavoro, si tendeva ad assicurare una migliore risposta alle esigenze ed alle criticità che si concretizzavano nel corso dell’attività lavorativa.

Nonostante ciò, le RSU non sono mai riuscite a sostituirsi totalmente alle RSA, comportando una compresenza delle due nell’ambito dell’ordinamento e, in alcuni casi, anche nell’ambito di una medesima azienda.

L’apice della crisi del suddetto modello intervenne tra il 2011 ed il 2012 quando, per due tornate consecutive, la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) non sottoscrisse il contratto collettivo dei metalmeccanici e la società FIAT, in quel momento associata a Confindustria, rifiutando di applicare l’Accordo Interconfederale del 1993 che avrebbe permesso alla FIOM di partecipare alle elezioni per la RSU, decise di uscire dalla Confederazione cui apparteneva. Questa scelta comportò, di conseguenza, che l’unico regime al quale la FIAT era assoggettata fosse quello dell’articolo 19, quindi quello delle RSA, escludendo completamente, in tal modo, la Federazione appartenente alla CGIL.

Questo avvenimento condusse, nel 2013, alla Sentenza n. 231 della Corte Costituzionale che, sostanzialmente, ha operato una rilettura dell’articolo 19 dello Statuto basandosi sulla valutazione della realtà e del “mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali” (punto 6.5).

La decisione alla quale è approdata la Consulta sovverte in un certo senso il dettato della lettera b) del suddetto articolo, in quanto la sottoscrizione del contratto collettivo nazionale o provinciale non viene più considerata come requisito essenziale alla rappresentanza in azienda, sostituita invece dalla partecipazione alle trattative quale condizione necessaria e sufficiente capace di dimostrare l’effettivo consenso e di soddisfare il concetto di rappresentatività (punto 6.6.).

Queste numerose evoluzioni hanno permesso la stesura e la stipulazione di molteplici accordi, partendo da quello Interconfederale del 28 giugno 2011, che tentava di fornire i requisiti per definire il concetto della “maggiore rappresentatività”. Successivamente venne concluso l’Accordo del novembre 2012 per l’individuazione delle “linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, al quale succedette il Protocollo d’Intesa del maggio 2013, con cui si intendeva dare applicazione all’accordo del 2011, fissando i principi ispiratori per l’attuazione della materia di rappresentanza e rappresentatività.

L’iter giurisprudenziale e d’intese ha condotto, infine, il 10 gennaio 2014, alla conclusione di un Testo Unico sulla Rappresentanza che, già con la sua denominazione, vuole ricondurre il pensiero ad una compilazione, anche se non definitiva, delle disposizioni e delle norme che disciplinano la materia della rappresentanza sindacale tra CGIL, CISL, UIL e Confindustria.

Con riferimento specifico alla rappresentanza in azienda, la Parte Seconda di suddetto accordo fornisce una rilevante normazione.

La prima sezione stabilisce che, nelle unità produttive che contino più di quindici dipendenti, dovrà essere adottata un’unica forma di rappresentanza, la quale potrà esprimersi nelle RSA qualora ricorrano due condizioni: non si opti per le RSU e sia garantita la stabilità dei costi aziendali che si sarebbero avuti nel caso in cui la rappresentanza fosse stata di tipo unitario. Un eventuale passaggio dalla RSA alla RSU potrebbe verificarsi solo successivamente alla scadenza della prima e solamente se tale decisione pervenisse dalle organizzazioni sindacali che, al livello nazionale, costituiscano la maggioranza del 50% + 1.

La vera novità, però, si individua nella seconda sezione con riferimento alle RSU le quali, fermi restando gli adeguamenti proposti dal 1993 ad oggi, continuano ad essere proposte come forme di rappresentanza preferite.

Innanzitutto, permangono chiaramente i due requisiti fondamentali per la costituzione delle RSU: la presenza di un minimo di quindici dipendenti nella singola unità produttiva e la legittimità d’iniziativa per le sole Confederazioni firmatarie, in seguito alle trattative o per mera adesione, dell’Accordo del 2011, del Protocollo d’Intesa del 2013 e del Testo Unico.

Così come avvenuto nel 1993, uno degli obiettivi fondamentali è riscontrabile nella volontà di armonizzazione delle rappresentanze sindacali attraverso la sostituzione delle RSU alle RSA, con il subentro dei dirigenti delle prime nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni spettanti a quelli delle seconde.

A tal fine è stata introdotta, infatti, una clausola di salvaguardia (punto 8, Sezione seconda, Parte seconda) ancor più incisiva di quella che aveva caratterizzato l’Accordo del 1993, in cui esplicitamente si impone, a coloro che si impegnino nella costituzione delle RSU, il divieto di creazione delle rappresentanze aziendali, allontanando il rischio di una compresenza di rappresentanze che, dotate dei medesimi poteri, potrebbero entrare in conflitto perdendo di vista il fine ultimo: la tutela della parte più svantaggiata nel rapporto lavorativo e contrattuale.

Novità rilevante nella rappresentanza unitaria è quella riguardante i soggetti considerati legittimati a proporre le liste per le elezioni nelle singole unità produttive.

A differenza di quanto sancito nell’Accordo del 1993, attualmente è previsto che possano concorrere alla proposizione delle liste sia le organizzazioni sindacali che abbiano sottoscritto il Testo Unico o, comunque, firmatarie del contratto collettivo nazionale applicato in quella data unità produttiva, sia gli enti sindacali autonomi che accettino quanto previsto dall’Accordo del 2014 e che raccolgano almeno il 5% dei consensi dei lavoratori aventi diritto al voto, in aziende che abbiano almeno 60 dipendenti.

La differenza tra le due rappresentanze si riflette, altresì, nelle modalità di approvazione della contrattazione aziendale, ferma restando in ogni caso l’efficacia delle parti economiche e normative di questa per tutto il personale in forza, quindi senza distinzione tra associati o meno, e per tutte le associazioni sindacali firmatarie o aderenti all’Accordo.

Nel caso in cui l’unità produttiva sia rappresentata unitariamente, sarà sufficiente che la maggioranza dei componenti della RSU accetti i contratti aziendali affinché questi espletino la propria efficacia. Nel caso in cui, invece, la rappresentanza sia quella prevista a norma dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, l’approvazione da parte delle RSA condurrà ad un esito positivo qualora queste, congiuntamente o disgiuntamente, risultino essere destinatarie della maggioranza delle deleghe, relative ai contributi sindacali, conferite dai lavoratori dell’azienda dall’anno precedente a quello in cui avviene la conclusione dei contratti aziendali. Inoltre in tal caso, qualora un’organizzazione sindacale firmataria dell’Accordo lo richieda, il contratto aziendale dovrà essere sottoposto al voto dei lavoratori che, solo partecipando in una percentuale del 50% + 1, potranno approvare definitivamente la conclusa contrattazione.

I continui accordi e le intese che si sono avvicendati negli ultimi decenni mostrano diversi aspetti che caratterizzano la libertà sindacale ed i rapporti intercorrenti tra le organizzazioni datoriali e quelle dei lavoratori. In particolar modo, in quest’ultimo senso, è evidente come la forza sindacale stia subendo un progressivo indebolimento che, forzatamente, costringe le organizzazioni preposte alla tutela dei lavoratori a creare un assetto normativo e di principi che permetta di gestire la rappresentanza che deve essere garantita tanto in senso generale, quanto in senso particolare nell’ambito della singola unità produttiva dell’azienda.

Purtroppo, però, l’assenza di una disciplina ordinaria fissata dal legislatore ed il continuo rinvio alla contrattazione collettiva e agli accordi che autonomamente le sigle sindacali realizzano, non permettono di arrivare a dare una composizione sistematica a tale materia. D’altro canto è evidente come tale mancanza legislativa debba essere supplita dall’attività giurisprudenziale, in particolar modo costituzionale, rischiando, però, di oltrepassare i limiti funzionali ed interpretativi che alle Corti sono riconosciuti.

Nonostante il diritto sindacale sia sempre stato concepito come un “diritto senza norme” è evidente come, ad oggi, per le contingenze sociali e finanziarie che si sono instaurate nel panorama italiano, sarebbe necessario dare compiutezza e sistematicità ad uno strumento che, se ben gestito ed inquadrato, potrebbe fornire una sicurezza di tutela per i soggetti che nel mercato della concorrenza lavorativa si trovano costantemente in una posizione svantaggiata e di soggezione.

La libertà sindacale e la sua organizzazione rappresentano, all’interno del panorama italiano, un elemento di forte democraticità, nonostante il persistere dell’assenza di una sistematica disciplina in merito.

In tal senso, infatti, le disposizioni costituzionali in materia sindacale e di lavoro sono rimaste pressoché inapplicate, sia a causa delle circostanze storiche che si sono avvicendate nel corso dei decenni, sia della forza decisoria dei sindacati che tendevano a voler mantenere una situazione, di fatto, versatile con riferimento alle esigenze e alle necessità lavoristiche, evitando restrittive cristallizzazioni normative.

Per poter comprendere nella sua pienezza il sistema di organizzazione sindacale, in particolar modo a livello aziendale, è necessario evidenziare quale sia la situazione attuale in cui versano gli odierni sindacati.

In primo luogo, per quanto concerne la qualificazione giuridica, manca, a causa dell’assenza di una legislazione ordinaria in merito, l’obbligo di iscrizione in pubblici registri per i sindacati (così come previsto dall’articolo 39 della Costituzione), i quali, di conseguenza, possono essere classificati, al livello civilistico, solamente come associazioni non riconosciute, ancorché privi di personalità giuridica.

Ciò comporta lo scaturire di una ulteriore problematica che incide sulla stipula dei contratti collettivi nazionali, poiché essi hanno nella pratica (anche se non formalmente) un’applicabilità erga omnes, interessando tanto i lavoratori iscritti quanto quelli non associati alle sigle sindacali.

La realtà sostanziale, quindi, distaccandosi molto dalla realtà giuridica, che invece riconosce un’efficacia di diritto comune alla contrattazione collettiva, ha costretto la giurisprudenza ad elaborare il nuovo principio che informa lo svolgimento dell’attività sindacale. Quest’ultima sarebbe mossa, non già dal concetto di rappresentanza basato sul mandato attribuito dai lavoratori al sindacato, bensì dal principio di rappresentatività, poiché l’ente sindacale si pone nell’ordinamento come portatore di interessi collettivi.

Questa forte valenza del movimento sindacale e degli atti che da esso scaturiscono è ravvisabile, altresì, nei numerosi riferimenti giurisprudenziali ai contratti collettivi nazionali, per l’individuazione e la quantificazione della retribuzione proporzionata e sufficiente garantita costituzionalmente dall’articolo 36 (Cassazione n. 163/84; Cassazione n. 9954/91 ed anche Cassazione n. 4813/96).

Questi riconoscimenti, posti in essere dalla giurisprudenza con riferimento al diritto vivente, hanno trovato espressione, anche se in maniera parziale, nel cosiddetto Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970), che accorda, tra l’altro, una maggiore tutela ai prestatori di lavoro nell’ambito aziendale.

L’articolo 19 di suddetto Statuto, nell’originaria formulazione, prevedeva che i lavoratori avessero diritto di costituire rappresentanze sindacali aziendali (RSA) in due differenti ambiti.

Il primo era quello delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative al livello nazionale – lettera a) – ed il secondo considerava, invece, le associazioni sindacali non affiliate alle predette Confederazioni, ma firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali applicati all’unità produttiva in questione – lettera b) –. Il primo dei due requisiti, però, presentò diverse problematiche dal momento che il legislatore non aveva definito cosa si intendesse per “Confederazione maggiormente rappresentativa”, portando, nel 1995, ad una sua abrogazione attraverso lo strumento referendario.

Nonostante l’iniziativa costitutiva delle RSA venisse riconosciuta alla totalità dei lavoratori, senza alcuna distinzione, permaneva la corrispettività tra l’organismo aziendale rappresentativo e le entità sindacali, proprio perché queste ultime erano chiamate a designare il rappresentante in azienda. Inoltre questo tipo di assetto non permetteva di rappresentare al meglio le evoluzioni che si stavano affacciando nel panorama della rappresentanza sindacale, individuabili sia nel riconoscimento di fatto dell’effettività erga omnes dei contratti collettivi nazionali e aziendali, sia nella considerazione dei sindacati come enti portatori di interessi collettivi, in base al principio della rappresentatività.

Si concretizzò sempre più, oltretutto, una crisi dell’unità sindacale, sia perché il forte pluralismo aveva condotto ad una frammentazione della rappresentatività, sia poiché, in particolar modo nel settore metalmeccanico, la scissione tra le varie Federazioni condusse ad accordi separati, affinché potessero essere soddisfatte tutte le esigenze e le necessità delle singole organizzazioni sindacali. D’altro canto, i conflitti tra quest’ultime in merito a quale fosse il metro di giudizio per valutare la maggiore rappresentatività comportavano attriti e la conseguente impossibilità di fornire una efficace tutela ai prestatori di lavoro.

In base a questi mutamenti si avvertì, quindi, la necessità di studiare e realizzare un diverso meccanismo di rappresentanza della figura del lavoratore nell’ambito delle imprese.

Questo spinse alcune delle principali Confederazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro (CGIL, CISL, UIL e Confindustria) ad addivenire ad un Accordo Interconfederale il 20 dicembre 1993, con cui si intendeva sostituire le RSA con le rappresentanze sindacali unitarie (RSU).

L’assetto della RSU avrebbe permesso, infatti, di esprimere, per mezzo di elezioni a suffragio universale, la volontà complessiva ed unitaria dei lavoratori, chiamati a votare candidati delle liste presentate in base a due differenti criteri. Da un lato quelle formulate dalle Confederazioni rientranti nella norma dell’articolo 19, dall’altro quelle realizzate da Confederazioni non sussumibili sotto suddetta disposizione, ma comunque firmatarie dell’Accordo Interconfederale ed aventi un numero minimo di consensi in quella data unità produttiva pari al 5%.

Le RSU venivano quindi formate per 2/3 dai membri individuati per mezzo delle elezioni e per 1/3 (cd. terzo riservato) dalle designazioni del sindacato firmatario del contratto collettivo nazionale in proporzione ai voti ottenuti.

Questo modello, che nelle intenzioni Interconfederali doveva andare a sostituire in toto il sistema delle RSA (punti 5 e 8, Parte Prima, Accordo Interconfederale 1993), rappresentava una forte innovazione nell’ambito della libertà sindacale e nella rappresentatività effettiva dei lavoratori in azienda.

Innanzitutto, infatti, la possibilità accordata ad associazioni non firmatarie del contratto collettivo di formare liste per le elezioni delle RSU consentiva un ingresso nella sfera decisoria e valutativa delle opportunità anche ad associazioni con una minima rappresentatività, prive di una forza tale per poter essere ammesse al tavolo delle trattative del contratto collettivo nazionale. In secondo luogo, proprio attraverso una partecipazione diretta e collettiva dei prestatori di lavoro, si tendeva ad assicurare una migliore risposta alle esigenze ed alle criticità che si concretizzavano nel corso dell’attività lavorativa.

Nonostante ciò, le RSU non sono mai riuscite a sostituirsi totalmente alle RSA, comportando una compresenza delle due nell’ambito dell’ordinamento e, in alcuni casi, anche nell’ambito di una medesima azienda.

L’apice della crisi del suddetto modello intervenne tra il 2011 ed il 2012 quando, per due tornate consecutive, la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) non sottoscrisse il contratto collettivo dei metalmeccanici e la società FIAT, in quel momento associata a Confindustria, rifiutando di applicare l’Accordo Interconfederale del 1993 che avrebbe permesso alla FIOM di partecipare alle elezioni per la RSU, decise di uscire dalla Confederazione cui apparteneva. Questa scelta comportò, di conseguenza, che l’unico regime al quale la FIAT era assoggettata fosse quello dell’articolo 19, quindi quello delle RSA, escludendo completamente, in tal modo, la Federazione appartenente alla CGIL.

Questo avvenimento condusse, nel 2013, alla Sentenza n. 231 della Corte Costituzionale che, sostanzialmente, ha operato una rilettura dell’articolo 19 dello Statuto basandosi sulla valutazione della realtà e del “mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali” (punto 6.5).

La decisione alla quale è approdata la Consulta sovverte in un certo senso il dettato della lettera b) del suddetto articolo, in quanto la sottoscrizione del contratto collettivo nazionale o provinciale non viene più considerata come requisito essenziale alla rappresentanza in azienda, sostituita invece dalla partecipazione alle trattative quale condizione necessaria e sufficiente capace di dimostrare l’effettivo consenso e di soddisfare il concetto di rappresentatività (punto 6.6.).

Queste numerose evoluzioni hanno permesso la stesura e la stipulazione di molteplici accordi, partendo da quello Interconfederale del 28 giugno 2011, che tentava di fornire i requisiti per definire il concetto della “maggiore rappresentatività”. Successivamente venne concluso l’Accordo del novembre 2012 per l’individuazione delle “linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, al quale succedette il Protocollo d’Intesa del maggio 2013, con cui si intendeva dare applicazione all’accordo del 2011, fissando i principi ispiratori per l’attuazione della materia di rappresentanza e rappresentatività.

L’iter giurisprudenziale e d’intese ha condotto, infine, il 10 gennaio 2014, alla conclusione di un Testo Unico sulla Rappresentanza che, già con la sua denominazione, vuole ricondurre il pensiero ad una compilazione, anche se non definitiva, delle disposizioni e delle norme che disciplinano la materia della rappresentanza sindacale tra CGIL, CISL, UIL e Confindustria.

Con riferimento specifico alla rappresentanza in azienda, la Parte Seconda di suddetto accordo fornisce una rilevante normazione.

La prima sezione stabilisce che, nelle unità produttive che contino più di quindici dipendenti, dovrà essere adottata un’unica forma di rappresentanza, la quale potrà esprimersi nelle RSA qualora ricorrano due condizioni: non si opti per le RSU e sia garantita la stabilità dei costi aziendali che si sarebbero avuti nel caso in cui la rappresentanza fosse stata di tipo unitario. Un eventuale passaggio dalla RSA alla RSU potrebbe verificarsi solo successivamente alla scadenza della prima e solamente se tale decisione pervenisse dalle organizzazioni sindacali che, al livello nazionale, costituiscano la maggioranza del 50% + 1.

La vera novità, però, si individua nella seconda sezione con riferimento alle RSU le quali, fermi restando gli adeguamenti proposti dal 1993 ad oggi, continuano ad essere proposte come forme di rappresentanza preferite.

Innanzitutto, permangono chiaramente i due requisiti fondamentali per la costituzione delle RSU: la presenza di un minimo di quindici dipendenti nella singola unità produttiva e la legittimità d’iniziativa per le sole Confederazioni firmatarie, in seguito alle trattative o per mera adesione, dell’Accordo del 2011, del Protocollo d’Intesa del 2013 e del Testo Unico.

Così come avvenuto nel 1993, uno degli obiettivi fondamentali è riscontrabile nella volontà di armonizzazione delle rappresentanze sindacali attraverso la sostituzione delle RSU alle RSA, con il subentro dei dirigenti delle prime nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni spettanti a quelli delle seconde.

A tal fine è stata introdotta, infatti, una clausola di salvaguardia (punto 8, Sezione seconda, Parte seconda) ancor più incisiva di quella che aveva caratterizzato l’Accordo del 1993, in cui esplicitamente si impone, a coloro che si impegnino nella costituzione delle RSU, il divieto di creazione delle rappresentanze aziendali, allontanando il rischio di una compresenza di rappresentanze che, dotate dei medesimi poteri, potrebbero entrare in conflitto perdendo di vista il fine ultimo: la tutela della parte più svantaggiata nel rapporto lavorativo e contrattuale.

Novità rilevante nella rappresentanza unitaria è quella riguardante i soggetti considerati legittimati a proporre le liste per le elezioni nelle singole unità produttive.

A differenza di quanto sancito nell’Accordo del 1993, attualmente è previsto che possano concorrere alla proposizione delle liste sia le organizzazioni sindacali che abbiano sottoscritto il Testo Unico o, comunque, firmatarie del contratto collettivo nazionale applicato in quella data unità produttiva, sia gli enti sindacali autonomi che accettino quanto previsto dall’Accordo del 2014 e che raccolgano almeno il 5% dei consensi dei lavoratori aventi diritto al voto, in aziende che abbiano almeno 60 dipendenti.

La differenza tra le due rappresentanze si riflette, altresì, nelle modalità di approvazione della contrattazione aziendale, ferma restando in ogni caso l’efficacia delle parti economiche e normative di questa per tutto il personale in forza, quindi senza distinzione tra associati o meno, e per tutte le associazioni sindacali firmatarie o aderenti all’Accordo.

Nel caso in cui l’unità produttiva sia rappresentata unitariamente, sarà sufficiente che la maggioranza dei componenti della RSU accetti i contratti aziendali affinché questi espletino la propria efficacia. Nel caso in cui, invece, la rappresentanza sia quella prevista a norma dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, l’approvazione da parte delle RSA condurrà ad un esito positivo qualora queste, congiuntamente o disgiuntamente, risultino essere destinatarie della maggioranza delle deleghe, relative ai contributi sindacali, conferite dai lavoratori dell’azienda dall’anno precedente a quello in cui avviene la conclusione dei contratti aziendali. Inoltre in tal caso, qualora un’organizzazione sindacale firmataria dell’Accordo lo richieda, il contratto aziendale dovrà essere sottoposto al voto dei lavoratori che, solo partecipando in una percentuale del 50% + 1, potranno approvare definitivamente la conclusa contrattazione.

I continui accordi e le intese che si sono avvicendati negli ultimi decenni mostrano diversi aspetti che caratterizzano la libertà sindacale ed i rapporti intercorrenti tra le organizzazioni datoriali e quelle dei lavoratori. In particolar modo, in quest’ultimo senso, è evidente come la forza sindacale stia subendo un progressivo indebolimento che, forzatamente, costringe le organizzazioni preposte alla tutela dei lavoratori a creare un assetto normativo e di principi che permetta di gestire la rappresentanza che deve essere garantita tanto in senso generale, quanto in senso particolare nell’ambito della singola unità produttiva dell’azienda.

Purtroppo, però, l’assenza di una disciplina ordinaria fissata dal legislatore ed il continuo rinvio alla contrattazione collettiva e agli accordi che autonomamente le sigle sindacali realizzano, non permettono di arrivare a dare una composizione sistematica a tale materia. D’altro canto è evidente come tale mancanza legislativa debba essere supplita dall’attività giurisprudenziale, in particolar modo costituzionale, rischiando, però, di oltrepassare i limiti funzionali ed interpretativi che alle Corti sono riconosciuti.

Nonostante il diritto sindacale sia sempre stato concepito come un “diritto senza norme” è evidente come, ad oggi, per le contingenze sociali e finanziarie che si sono instaurate nel panorama italiano, sarebbe necessario dare compiutezza e sistematicità ad uno strumento che, se ben gestito ed inquadrato, potrebbe fornire una sicurezza di tutela per i soggetti che nel mercato della concorrenza lavorativa si trovano costantemente in una posizione svantaggiata e di soggezione.