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Danno tanatologico: la Cassazione si schiera a favore della risarcibilità del danno da perdita della vita

La sentenza in commento assume importanza fondamentale nell’attuale panorama giurisprudenziale, in quanto, per la prima volta, la Suprema Corte si schiera apertamente a favore della risarcibilità del danno da perdita della vita, argomentando in maniera corposa ed approfondita le ragioni per cui ritiene di non dover aderire al granitico orientamento giurisprudenziale in materia (sino a questo momento nettamente contrario).

Prima di esaminare il contenuto della pronuncia, sono tuttavia opportune alcune premesse.

L’effettiva perimetrazione del concetto di danno tanatologico, passa attraverso la definizione del danno biologico terminale e del danno catastrofico, figure spesso adoperate dalla giurisprudenza, al fine di assicurare adeguato ristoro alla vittima di un illecito da cui sia poi conseguita la morte, pur negando la risarcibilità del danno da morte.

Il danno biologico terminale

Con la locuzione danno biologico terminale si fa riferimento al danno alla salute patito dalla vittima di un illecito nel periodo intercorrente tra la lesione e la morte. Detto pregiudizio, in altre parole, si identifica nel danno biologico patito da colui che, sopravvissuto per un considerevole lasso di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale, abbia, in tale periodo, sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente considerabile come danno biologico, quindi accertabile (ed accertata) con valutazione medico-legale e liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio (in tal senso Cassazione, Sezione Terza, 13 dicembre 2012 n. 22896).

In tal caso, peraltro, il diritto al risarcimento acquistato dal defunto è trasmissibile agli eredi, che potranno, pertanto, agire in giudizio iure hereditatis: il diritto al ristoro del pregiudizio alla salute patito dalla vittima è, infatti, entrato a far parte del patrimonio della stessa, con la conseguente possibilità di trasmissione in capo agli eredi a seguito della morte.

La risarcibilità di tale pregiudizio è ormai pacificamente ammessa, pur se permangono contrasti circa il lasso temporale idoneo a determinarne l’insorgenza nonché al quantum del risarcimento.

Con riferimento al primo punto problematico, è dato riscontrare una vasta e curiosa casistica giurisprudenziale che ritiene sufficiente a tale scopo il decorso di “qualche giorno” (Cassazione n. 3549/2004); diversamente il trascorrere di pochi minuti, di mezz’ora (Cassazione n. 13585/2004) o di quarantacinque minuti (Tribunale di Piacenza n. 458/2010) non è idoneo a radicare in capo alla vittima il diritto al risarcimento.

Il discrimen, a ben vedere, non risiede tanto in una mera differenza cronologica, ma è piuttosto rinvenibile nella effettiva sussistenza del danno: in altri termini, pochi minuti, mezz’ora, tre ore o mezza giornata non consentono di rintracciare l’effettivo patimento di un pregiudizio da parte della vittima, al contrario di quanto accade nel caso in cui quest’ultima trascorra qualche giorno in uno stato psico-fisico a tal punto compromesso da cagionare, poi, la morte.

Quanto, invece, all’entità del pregiudizio risarcibile è bene precisare che esso non si identifica con la perdita totale della salute o della vita, ma solo con l’inabilità temporanea per il tempo di permanenza in vita.

Ai fini della liquidazione, tuttavia, bisogna tener conto che seppur temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero (Cassazione n. 18163/2007).

Il danno catastrofico

Il danno catastrofico è il pregiudizio patito da colui che, a seguito di un illecito, sia deceduto dopo un lasso di tempo non idoneo a determinare la risarcibilità del danno biologico terminale. Esso è, alla stregua della ricostruzione maggioritaria, un danno morale, che si concreta in una sofferenza psichica di massima intensità, anche se di durata contenuta.

Le Sezioni Unite San Martino, in particolare, aderendo a tale ricostruzione, hanno affermato che “il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine.

Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi).

Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione”.

Una ricostruzione minoritaria, invero, riconosce al danno in questione il carattere di danno biologico, argomentando che la notevole intensità della sofferenza subita è di per sé idonea a dar luogo ad un pregiudizio per la salute psichica.

L’orientamento sposato dalle Sezioni Unite è stato tuttavia di recente confermato dalla Corte di Cassazione che con sentenza 13 dicembre 2012 n. 22896. Detta pronuncia ha chiarito, nuovamente, che “il danno catastrofale è il danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona che, a causa delle lesioni sofferte nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, assiste alla perdita della propria vita” (cfr. Cassazione, Sezione Terza, 13 dicembre 2012 n. 22896).

Il danno tanatologico

Disegnati i confini delle figure contigue del danno catastrofico e del danno biologico terminale è possibile comprendere con maggiore chiarezza l’ubi consistam del danno tanatologico, che si identifica con il danno connesso alla perdita della vita. Circa la risarcibilità di tale pregiudizio è necessario dare atto dell’esistenza di un vivo dibattito giurisprudenziale e dottrinale, da ultimo reso ancor più attuale dalla pronuncia della Suprema Corte intervenuta il 23 gennaio 2014.

Due sono le ricostruzioni intorno alle quali si sono arroccate dottrina e giurisprudenza.

La teoria maggioritaria predica l’irrisarcibilità di tale tipologia di danno rimarcando come considerazioni di ordine logico oltre che giuridico depongano in tal senso: “il soggetto che perde la vita non è in grado di acquistare un diritto risarcitorio, perché finché è in vita non vi è perdita e quando è morto da una parte non è titolare di alcun diritto e dall'altra non è in grado di acquistarne” (cfr. Cassazione, Sezione Terza, 23 febbraio 2004, n. 3549).

Tale convincimento ha radici assai risalenti nella giurisprudenza di legittimità, sol che si pensi che è stato inaugurato dalla Suprema Corte con una pronuncia a Sezioni unite nel 1925 (Cassazione, Sezioni Unite, n. 3475/1925): il diritto al risarcimento del danno era negato in caso di morte immediata.

Le basi su cui poggia l’orientamento in questione, peraltro, sono assai solide e fedeli all’insegnamento avallato da granitica giurisprudenza che ascrive all’articolo 2043 del Codice Civile funzione meramente riparatoria.

In tal senso depone, peraltro, anche la circostanza che, allo stato attuale il danno non patrimoniale è considerato danno-conseguenza e non più danno-evento: “l'art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).”.

I suddetti rilievi si compenetrano nel fondare il risarcimento del danno come istituto volto a tenere indenne il soggetto danneggiato dalle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’illecito (o dall’inadempimento, in caso di responsabilità contrattuale) mediante la restituzione o il ristoro del patrimonio del creditore.

È per tale ragione che comunemente si definisce il risarcimento del danno come l’obbligazione volta a ristabilire nel patrimonio del danneggiato la situazione che si sarebbe registrata in assenza dell’illecito (o dell’inadempimento in caso di responsabilità contrattuale).

Sulla scorta di tali rilievi l’orientamento maggioritario in giurisprudenza ha sempre escluso la possibilità di risarcire il danno tanatologico sub specie di danno biologico nella sua più profonda gravità, inteso quale totale e massima lesione del bene giuridico salute.

Invero, vita e salute sono due beni giuridici distinti e, nel caso in cui l’illecito abbia inciso sul bene vita, la perdita di quest’ultima, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, come tale trasferibile agli eredi.

Si tratta, infatti, della lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, onde deve escludersi che il risarcimento del danno, per la sua funzione schiettamente riparatoria, possa operare quando la persona abbia cessato di esistere (in tal senso Cassazione n. 3549/2004; 2134/2000; 1704/1997; 491/1999; 8970/1998; Corte Costituzionale n. 372/1994 ).  Diversamente opinando si finirebbe per assegnare alla tutela dell'articolo 2043 del Codice Civile una funzione solo sanzionatoria.

L’opposto orientamento, tuttora minoritario e diffuso soprattutto in dottrina e in un discreto numero di sentenze di merito, si discosta dalle argomentazioni menzionate sostenendo, innanzitutto, come vita e salute siano due facce della stessa moneta, vale a dire l’incolumità personale.

Le argomentazioni fatte proprie dalla dottrina propensa a riconoscere la autonoma risarcibilità del danno da perdita della vita sono essenzialmente le seguenti:

- il diritto alla vita, in quanto fondamentale ed imprescindibile diritto dell’uomo, necessita di adeguata tutela: un sistema che riconosce rilevanza a lievi lesioni del diritto alla salute e nega tutela alla lesione del diritto alla vita dà vita ad irragionevoli storture ed iniquità;

- negare la risarcibilità del danno tanatologico porta a concludere che, dal punto di vista del danneggiante, è più conveniente uccidere che ferire;

- la tutela risarcitoria è la tutela minima riconosciuta a qualunque diritto; essa, pertanto, va a maggior ragione riconosciuta al supremo ed inviolabile diritto alla vita.

Una delle poche pronunce della giurisprudenza di legittimità che finora aveva aderito al minoritario orientamento, valorizzando l’articolo 2 della Costituzione e l’articolo II-62 della Costituzione europea, sottolineava come “la dottrina italiana ed europea che riconoscono la tutela civile del diritto fondamentale della vita, premono per il riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente come corrispettivo del danno ingiusto al momento della lesione mortale, senza che rilevi la distinzione tra evento di morte mediata o immediata.

La certezza della morte, secondo le leggi, nazionali ed europee è a prova scientifica, ed attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule.

La morte cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni :la decapitazione o lo spappolamento del cervello. In questo quadro anche il danno da morte, come danno ingiusto da illecito è trasferibile mortis causa, facendo parte del credito del defunto verso il danneggiante ed i suoi solidali”.

Interessante ricostruzione affacciatasi in dottrina è, poi, quella che ha definito il danno da perdita della vita quale danno da perdita di chances di sopravvivenza. Considerata la chance quale entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, si afferma che l’illecito che cagiona la morte di un soggetto colpisce un bene che è già parte del patrimonio di costui e che altro non è se non l’aspettativa di vita media. La lesione di tale bene, in quanto posta attuale del patrimonio del defunto, deve essere risarcita da colui che l’ha cagionata.

Vale la pena, in ogni caso, di ricordare che la summenzionata ricostruzione maggioritaria, nel 2008, ha ricevuto anche l’autorevole avallo delle celeberrime Sezioni Unite San martino, che condividendo le argomentazioni fatte proprie dalla tesi in parola, avevano escluso che nel nostro ordinamento potesse avere cittadinanza il cosiddetto danno tanatologico.

In ogni caso i congiunti della vittima deceduti non restano privi di tutela poiché le figure del danno biologico terminale e del danno catastrofale, unitamente alle altre voci in cui si articola il danno non patrimoniale sono utili e sufficienti a ristorare costoro dei pregiudizi patiti a seguito delle conseguenze nefaste dell’illecito, senza con ciò tradire la coerenza dell’intero sistema della tutela aquiliana.

In tale contesto interviene la sentenza 1361 del 24 gennaio 2014 che segna un deciso punto di svolta nel dibattito esposto, affermando con vigore che “il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente orientamento giurisprudenziale appare non del tutto rispondente all’effettivo sentire sociale nell’attuale momento storico” e che le elaborazioni dottrinali in materia nonché gli escamotages giurisprudenziali architettati al fine di corrispondere un adeguato risarcimento ai superstiti testimoniano “la necessità di ammettersi senz’altro la diretta ristorabilità del bene vita in favore di chi l’ha perduta in conseguenza del fatto illecito altrui”.

La pronuncia in parola, prima di procedere ad esporre il proprio convincimento in ordine alle ragioni poste a sostegno del renvirement, ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in materia affermando come in ogni caso non possa prescindersi dalla necessità di restare saldamente ancorati al principio basilare cristallizzato dalle sentenze gemelle delle Sezioni Unite 2008, secondo cui nel nostro ordinamento sono risarcibili soltanto i danni-conseguenza. Ebbene, secondo la Corte, l’adesione a tale premessa non è in ogni caso idonea ad escludere la risarcibilità del danno tanatologico.

L’idea che sembra animare l’intera pronuncia è quella per cui senza dubitare che nel nostro ordinamento siano ristorabili i soli danni conseguenza, in considerazione della funzione riparatoria (e non sanzionatoria) cui è improntato il meccanismo risarcitorio, bisogna purtuttavia riconoscere che tutti i principi soffrono delle eccezioni che, in quanto tali, non valgono a sconfessarne la validità.

Il risarcimento del danno da morte costituisce, secondo l’iter argomentativo dei giudici di legittimità, “l’ontologica ed imprescindibile eccezione del principio di risarcibilità dei soli danni conseguenza” [1].

In tal caso non è possibile individuare e risarcire le conseguenze dell’illecito, poiché la morte ha come conseguenza la perdita di tutto, “non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze […] non si tratta, quindi, di verificare quali conseguenze conseguano al danno evento al fine di stabilire quali siano risarcibili e quali no. Nel più sta il meno.

La morte determina la perdita di tutto ciò di cui consta(va) la vita della (di quella determinata) vittima, che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i suoi molteplici effetti suoi propri se l’illecito dell'autore non ne avesse determinato la soppressione. Come correttamente osservato in dottrina, la perdita della vita va in realtà propriamente valutata ex ante e non già ex post rispetto all’evento che la determina”.

Le conclusioni raggiunte dalla Corte, sono sorrette dal convincimento che “il danno non patrimoniale da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile, va garantito in via primaria anche in sede civile”.

Si tratta, altresì, di un danno diverso dal danno alla salute, dal danno biologico terminale e dal danno catastrofale poiché esso a differenza degli altri rileva ex se. Esso è risarcibile, pertanto, a prescindere dal decorso di un apprezzabile lasso di tempo o dalla consapevolezza della vittima.

A tale ultimo proposito, le più recenti conclusioni giurisprudenziali in tema di propagazione intersoggettiva dell’effetto dell’illecito confortano il convincimento che la consapevolezza del danneggiato non sia un elemento imprescindibile ai fini del diritto al risarcimento [2]. Peraltro, si sottolinea in sentenza, come il nostro ordinamento concepisca finanche forme di risarcimento del danno non patrimoniale in cui il danneggiato non subisca alcun effettivo patimento: è questo il caso del danno non patrimoniale corrisposto al neonato, al nascituro, o agli enti giuridici per violazione del diritto al nome, all’onore, alla reputazione, all’immagine.

La forte obiezione di ordine logico-giuridico fatta propria dal consolidato ed opposto orientamento, circa la difficoltà di riconoscere il diritto al risarcimento per la perdita della vita ad un soggetto che non esiste più nel momento in cui si verifica il danno, viene superata dalla pronuncia in questione con l’affermazione che il diritto al risarcimento del danno da perdita della vita, in quanto eccezionale ipotesi di danno evento, si acquista al momento in cui si verifica la lesione mortale, allorquando la vittima è ancora in vita.

A conclusione del percorso espositivo la Suprema Corte ribadisce come le proprie affermazioni non debbano indurre a ritenere che il danno tanatologico costituisca un’eccezionale ipotesi di danno punitivo, poiché si tratta in ogni caso di un danno con funzione schiettamente compensativa: il credito spettante alla vittima defunta per la perdita della vita, infatti, confluisce nel patrimonio ereditario della stessa, ristorandolo della perdita subita. È questa secondo la pronuncia in commento l’unica strada adeguata per offrire tutela riparatoria ai familiari del defunto, rivelandosi a tale scopo improprie le altre forme di risarcimento (danno biologico, danno morale e danno esistenziale).

Conclusioni

La sentenza in commento, si inserisce con prepotenza in quel filone giurisprudenziale particolarmente sensibile ed attento alle esigenze della vittima del fatto illecito.

Le conclusioni cui giunge non sono, tuttavia, pienamente condivisibili: il risarcimento del danno da perdita della vita non è riconoscibile se tradendo i principi ispiratori del sistema risarcitorio e sostenendo che esso integra una palese eccezione a detti principi.

Il medesimo risultato di riparazione delle conseguenze pregiudizievoli cagionate dall’illecito è stato sinora adeguatamente raggiunto mediante l’attenta e precisa liquidazione di tutte le poste di cui si compone il danno non patrimoniale. La questione della complessiva ragionevolezza al sistema, anche in punto di tutela al diritto alla vita, è stata ripetutamente affrontata e risolta dalla giurisprudenza nel senso di ritenere satisfattivo il meccanismo risarcitorio invalso presso la giurisprudenza di legittimità.

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[1] La fattispecie del danno da morte non sarebbe neppure, a ben guardare, l’unico caso di danno in re ipsa che il nostro ordinamento riconosce: anche il risarcimento derivante dal superamento della soglia di tollerabilità di cui all’articolo 844 del Codice Civile, prescindendo dalle eventuali ed effettive conseguenze del superamento della soglia stessa, costituisce un limpido esempio di danno evento della cui risarcibilità nessuno, allo stato attuale, dubita.

[2] Con sentenza n. 9700/2011 la Suprema Corte aveva riconosciuto sulla base di tale principio il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale al neonato per la morte del padre (a seguito del fatto illecito di un terzo) avvenuta prima della sua nascita. Anche in questo caso il diritto al risarcimento è riconosciuto in assenza di una sofferenza: sofferenza che, tuttavia, diviene attuale al momento della nascita (propagazione intersoggettiva dell’effetto diacronico dell’illecito).

La sentenza in commento assume importanza fondamentale nell’attuale panorama giurisprudenziale, in quanto, per la prima volta, la Suprema Corte si schiera apertamente a favore della risarcibilità del danno da perdita della vita, argomentando in maniera corposa ed approfondita le ragioni per cui ritiene di non dover aderire al granitico orientamento giurisprudenziale in materia (sino a questo momento nettamente contrario).

Prima di esaminare il contenuto della pronuncia, sono tuttavia opportune alcune premesse.

L’effettiva perimetrazione del concetto di danno tanatologico, passa attraverso la definizione del danno biologico terminale e del danno catastrofico, figure spesso adoperate dalla giurisprudenza, al fine di assicurare adeguato ristoro alla vittima di un illecito da cui sia poi conseguita la morte, pur negando la risarcibilità del danno da morte.

Il danno biologico terminale

Con la locuzione danno biologico terminale si fa riferimento al danno alla salute patito dalla vittima di un illecito nel periodo intercorrente tra la lesione e la morte. Detto pregiudizio, in altre parole, si identifica nel danno biologico patito da colui che, sopravvissuto per un considerevole lasso di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale, abbia, in tale periodo, sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente considerabile come danno biologico, quindi accertabile (ed accertata) con valutazione medico-legale e liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio (in tal senso Cassazione, Sezione Terza, 13 dicembre 2012 n. 22896).

In tal caso, peraltro, il diritto al risarcimento acquistato dal defunto è trasmissibile agli eredi, che potranno, pertanto, agire in giudizio iure hereditatis: il diritto al ristoro del pregiudizio alla salute patito dalla vittima è, infatti, entrato a far parte del patrimonio della stessa, con la conseguente possibilità di trasmissione in capo agli eredi a seguito della morte.

La risarcibilità di tale pregiudizio è ormai pacificamente ammessa, pur se permangono contrasti circa il lasso temporale idoneo a determinarne l’insorgenza nonché al quantum del risarcimento.

Con riferimento al primo punto problematico, è dato riscontrare una vasta e curiosa casistica giurisprudenziale che ritiene sufficiente a tale scopo il decorso di “qualche giorno” (Cassazione n. 3549/2004); diversamente il trascorrere di pochi minuti, di mezz’ora (Cassazione n. 13585/2004) o di quarantacinque minuti (Tribunale di Piacenza n. 458/2010) non è idoneo a radicare in capo alla vittima il diritto al risarcimento.

Il discrimen, a ben vedere, non risiede tanto in una mera differenza cronologica, ma è piuttosto rinvenibile nella effettiva sussistenza del danno: in altri termini, pochi minuti, mezz’ora, tre ore o mezza giornata non consentono di rintracciare l’effettivo patimento di un pregiudizio da parte della vittima, al contrario di quanto accade nel caso in cui quest’ultima trascorra qualche giorno in uno stato psico-fisico a tal punto compromesso da cagionare, poi, la morte.

Quanto, invece, all’entità del pregiudizio risarcibile è bene precisare che esso non si identifica con la perdita totale della salute o della vita, ma solo con l’inabilità temporanea per il tempo di permanenza in vita.

Ai fini della liquidazione, tuttavia, bisogna tener conto che seppur temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero (Cassazione n. 18163/2007).

Il danno catastrofico

Il danno catastrofico è il pregiudizio patito da colui che, a seguito di un illecito, sia deceduto dopo un lasso di tempo non idoneo a determinare la risarcibilità del danno biologico terminale. Esso è, alla stregua della ricostruzione maggioritaria, un danno morale, che si concreta in una sofferenza psichica di massima intensità, anche se di durata contenuta.

Le Sezioni Unite San Martino, in particolare, aderendo a tale ricostruzione, hanno affermato che “il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine.

Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi).

Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione”.

Una ricostruzione minoritaria, invero, riconosce al danno in questione il carattere di danno biologico, argomentando che la notevole intensità della sofferenza subita è di per sé idonea a dar luogo ad un pregiudizio per la salute psichica.

L’orientamento sposato dalle Sezioni Unite è stato tuttavia di recente confermato dalla Corte di Cassazione che con sentenza 13 dicembre 2012 n. 22896. Detta pronuncia ha chiarito, nuovamente, che “il danno catastrofale è il danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona che, a causa delle lesioni sofferte nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, assiste alla perdita della propria vita” (cfr. Cassazione, Sezione Terza, 13 dicembre 2012 n. 22896).

Il danno tanatologico

Disegnati i confini delle figure contigue del danno catastrofico e del danno biologico terminale è possibile comprendere con maggiore chiarezza l’ubi consistam del danno tanatologico, che si identifica con il danno connesso alla perdita della vita. Circa la risarcibilità di tale pregiudizio è necessario dare atto dell’esistenza di un vivo dibattito giurisprudenziale e dottrinale, da ultimo reso ancor più attuale dalla pronuncia della Suprema Corte intervenuta il 23 gennaio 2014.

Due sono le ricostruzioni intorno alle quali si sono arroccate dottrina e giurisprudenza.

La teoria maggioritaria predica l’irrisarcibilità di tale tipologia di danno rimarcando come considerazioni di ordine logico oltre che giuridico depongano in tal senso: “il soggetto che perde la vita non è in grado di acquistare un diritto risarcitorio, perché finché è in vita non vi è perdita e quando è morto da una parte non è titolare di alcun diritto e dall'altra non è in grado di acquistarne” (cfr. Cassazione, Sezione Terza, 23 febbraio 2004, n. 3549).

Tale convincimento ha radici assai risalenti nella giurisprudenza di legittimità, sol che si pensi che è stato inaugurato dalla Suprema Corte con una pronuncia a Sezioni unite nel 1925 (Cassazione, Sezioni Unite, n. 3475/1925): il diritto al risarcimento del danno era negato in caso di morte immediata.

Le basi su cui poggia l’orientamento in questione, peraltro, sono assai solide e fedeli all’insegnamento avallato da granitica giurisprudenza che ascrive all’articolo 2043 del Codice Civile funzione meramente riparatoria.

In tal senso depone, peraltro, anche la circostanza che, allo stato attuale il danno non patrimoniale è considerato danno-conseguenza e non più danno-evento: “l'art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).”.

I suddetti rilievi si compenetrano nel fondare il risarcimento del danno come istituto volto a tenere indenne il soggetto danneggiato dalle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’illecito (o dall’inadempimento, in caso di responsabilità contrattuale) mediante la restituzione o il ristoro del patrimonio del creditore.

È per tale ragione che comunemente si definisce il risarcimento del danno come l’obbligazione volta a ristabilire nel patrimonio del danneggiato la situazione che si sarebbe registrata in assenza dell’illecito (o dell’inadempimento in caso di responsabilità contrattuale).

Sulla scorta di tali rilievi l’orientamento maggioritario in giurisprudenza ha sempre escluso la possibilità di risarcire il danno tanatologico sub specie di danno biologico nella sua più profonda gravità, inteso quale totale e massima lesione del bene giuridico salute.

Invero, vita e salute sono due beni giuridici distinti e, nel caso in cui l’illecito abbia inciso sul bene vita, la perdita di quest’ultima, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, come tale trasferibile agli eredi.

Si tratta, infatti, della lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, onde deve escludersi che il risarcimento del danno, per la sua funzione schiettamente riparatoria, possa operare quando la persona abbia cessato di esistere (in tal senso Cassazione n. 3549/2004; 2134/2000; 1704/1997; 491/1999; 8970/1998; Corte Costituzionale n. 372/1994 ).  Diversamente opinando si finirebbe per assegnare alla tutela dell'articolo 2043 del Codice Civile una funzione solo sanzionatoria.

L’opposto orientamento, tuttora minoritario e diffuso soprattutto in dottrina e in un discreto numero di sentenze di merito, si discosta dalle argomentazioni menzionate sostenendo, innanzitutto, come vita e salute siano due facce della stessa moneta, vale a dire l’incolumità personale.

Le argomentazioni fatte proprie dalla dottrina propensa a riconoscere la autonoma risarcibilità del danno da perdita della vita sono essenzialmente le seguenti:

- il diritto alla vita, in quanto fondamentale ed imprescindibile diritto dell’uomo, necessita di adeguata tutela: un sistema che riconosce rilevanza a lievi lesioni del diritto alla salute e nega tutela alla lesione del diritto alla vita dà vita ad irragionevoli storture ed iniquità;

- negare la risarcibilità del danno tanatologico porta a concludere che, dal punto di vista del danneggiante, è più conveniente uccidere che ferire;

- la tutela risarcitoria è la tutela minima riconosciuta a qualunque diritto; essa, pertanto, va a maggior ragione riconosciuta al supremo ed inviolabile diritto alla vita.

Una delle poche pronunce della giurisprudenza di legittimità che finora aveva aderito al minoritario orientamento, valorizzando l’articolo 2 della Costituzione e l’articolo II-62 della Costituzione europea, sottolineava come “la dottrina italiana ed europea che riconoscono la tutela civile del diritto fondamentale della vita, premono per il riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente come corrispettivo del danno ingiusto al momento della lesione mortale, senza che rilevi la distinzione tra evento di morte mediata o immediata.

La certezza della morte, secondo le leggi, nazionali ed europee è a prova scientifica, ed attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule.

La morte cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni :la decapitazione o lo spappolamento del cervello. In questo quadro anche il danno da morte, come danno ingiusto da illecito è trasferibile mortis causa, facendo parte del credito del defunto verso il danneggiante ed i suoi solidali”.

Interessante ricostruzione affacciatasi in dottrina è, poi, quella che ha definito il danno da perdita della vita quale danno da perdita di chances di sopravvivenza. Considerata la chance quale entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, si afferma che l’illecito che cagiona la morte di un soggetto colpisce un bene che è già parte del patrimonio di costui e che altro non è se non l’aspettativa di vita media. La lesione di tale bene, in quanto posta attuale del patrimonio del defunto, deve essere risarcita da colui che l’ha cagionata.

Vale la pena, in ogni caso, di ricordare che la summenzionata ricostruzione maggioritaria, nel 2008, ha ricevuto anche l’autorevole avallo delle celeberrime Sezioni Unite San martino, che condividendo le argomentazioni fatte proprie dalla tesi in parola, avevano escluso che nel nostro ordinamento potesse avere cittadinanza il cosiddetto danno tanatologico.

In ogni caso i congiunti della vittima deceduti non restano privi di tutela poiché le figure del danno biologico terminale e del danno catastrofale, unitamente alle altre voci in cui si articola il danno non patrimoniale sono utili e sufficienti a ristorare costoro dei pregiudizi patiti a seguito delle conseguenze nefaste dell’illecito, senza con ciò tradire la coerenza dell’intero sistema della tutela aquiliana.

In tale contesto interviene la sentenza 1361 del 24 gennaio 2014 che segna un deciso punto di svolta nel dibattito esposto, affermando con vigore che “il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente orientamento giurisprudenziale appare non del tutto rispondente all’effettivo sentire sociale nell’attuale momento storico” e che le elaborazioni dottrinali in materia nonché gli escamotages giurisprudenziali architettati al fine di corrispondere un adeguato risarcimento ai superstiti testimoniano “la necessità di ammettersi senz’altro la diretta ristorabilità del bene vita in favore di chi l’ha perduta in conseguenza del fatto illecito altrui”.

La pronuncia in parola, prima di procedere ad esporre il proprio convincimento in ordine alle ragioni poste a sostegno del renvirement, ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in materia affermando come in ogni caso non possa prescindersi dalla necessità di restare saldamente ancorati al principio basilare cristallizzato dalle sentenze gemelle delle Sezioni Unite 2008, secondo cui nel nostro ordinamento sono risarcibili soltanto i danni-conseguenza. Ebbene, secondo la Corte, l’adesione a tale premessa non è in ogni caso idonea ad escludere la risarcibilità del danno tanatologico.

L’idea che sembra animare l’intera pronuncia è quella per cui senza dubitare che nel nostro ordinamento siano ristorabili i soli danni conseguenza, in considerazione della funzione riparatoria (e non sanzionatoria) cui è improntato il meccanismo risarcitorio, bisogna purtuttavia riconoscere che tutti i principi soffrono delle eccezioni che, in quanto tali, non valgono a sconfessarne la validità.

Il risarcimento del danno da morte costituisce, secondo l’iter argomentativo dei giudici di legittimità, “l’ontologica ed imprescindibile eccezione del principio di risarcibilità dei soli danni conseguenza” [1].

In tal caso non è possibile individuare e risarcire le conseguenze dell’illecito, poiché la morte ha come conseguenza la perdita di tutto, “non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze […] non si tratta, quindi, di verificare quali conseguenze conseguano al danno evento al fine di stabilire quali siano risarcibili e quali no. Nel più sta il meno.

La morte determina la perdita di tutto ciò di cui consta(va) la vita della (di quella determinata) vittima, che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i suoi molteplici effetti suoi propri se l’illecito dell'autore non ne avesse determinato la soppressione. Come correttamente osservato in dottrina, la perdita della vita va in realtà propriamente valutata ex ante e non già ex post rispetto all’evento che la determina”.

Le conclusioni raggiunte dalla Corte, sono sorrette dal convincimento che “il danno non patrimoniale da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile, va garantito in via primaria anche in sede civile”.

Si tratta, altresì, di un danno diverso dal danno alla salute, dal danno biologico terminale e dal danno catastrofale poiché esso a differenza degli altri rileva ex se. Esso è risarcibile, pertanto, a prescindere dal decorso di un apprezzabile lasso di tempo o dalla consapevolezza della vittima.

A tale ultimo proposito, le più recenti conclusioni giurisprudenziali in tema di propagazione intersoggettiva dell’effetto dell’illecito confortano il convincimento che la consapevolezza del danneggiato non sia un elemento imprescindibile ai fini del diritto al risarcimento [2]. Peraltro, si sottolinea in sentenza, come il nostro ordinamento concepisca finanche forme di risarcimento del danno non patrimoniale in cui il danneggiato non subisca alcun effettivo patimento: è questo il caso del danno non patrimoniale corrisposto al neonato, al nascituro, o agli enti giuridici per violazione del diritto al nome, all’onore, alla reputazione, all’immagine.

La forte obiezione di ordine logico-giuridico fatta propria dal consolidato ed opposto orientamento, circa la difficoltà di riconoscere il diritto al risarcimento per la perdita della vita ad un soggetto che non esiste più nel momento in cui si verifica il danno, viene superata dalla pronuncia in questione con l’affermazione che il diritto al risarcimento del danno da perdita della vita, in quanto eccezionale ipotesi di danno evento, si acquista al momento in cui si verifica la lesione mortale, allorquando la vittima è ancora in vita.

A conclusione del percorso espositivo la Suprema Corte ribadisce come le proprie affermazioni non debbano indurre a ritenere che il danno tanatologico costituisca un’eccezionale ipotesi di danno punitivo, poiché si tratta in ogni caso di un danno con funzione schiettamente compensativa: il credito spettante alla vittima defunta per la perdita della vita, infatti, confluisce nel patrimonio ereditario della stessa, ristorandolo della perdita subita. È questa secondo la pronuncia in commento l’unica strada adeguata per offrire tutela riparatoria ai familiari del defunto, rivelandosi a tale scopo improprie le altre forme di risarcimento (danno biologico, danno morale e danno esistenziale).

Conclusioni

La sentenza in commento, si inserisce con prepotenza in quel filone giurisprudenziale particolarmente sensibile ed attento alle esigenze della vittima del fatto illecito.

Le conclusioni cui giunge non sono, tuttavia, pienamente condivisibili: il risarcimento del danno da perdita della vita non è riconoscibile se tradendo i principi ispiratori del sistema risarcitorio e sostenendo che esso integra una palese eccezione a detti principi.

Il medesimo risultato di riparazione delle conseguenze pregiudizievoli cagionate dall’illecito è stato sinora adeguatamente raggiunto mediante l’attenta e precisa liquidazione di tutte le poste di cui si compone il danno non patrimoniale. La questione della complessiva ragionevolezza al sistema, anche in punto di tutela al diritto alla vita, è stata ripetutamente affrontata e risolta dalla giurisprudenza nel senso di ritenere satisfattivo il meccanismo risarcitorio invalso presso la giurisprudenza di legittimità.

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[1] La fattispecie del danno da morte non sarebbe neppure, a ben guardare, l’unico caso di danno in re ipsa che il nostro ordinamento riconosce: anche il risarcimento derivante dal superamento della soglia di tollerabilità di cui all’articolo 844 del Codice Civile, prescindendo dalle eventuali ed effettive conseguenze del superamento della soglia stessa, costituisce un limpido esempio di danno evento della cui risarcibilità nessuno, allo stato attuale, dubita.

[2] Con sentenza n. 9700/2011 la Suprema Corte aveva riconosciuto sulla base di tale principio il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale al neonato per la morte del padre (a seguito del fatto illecito di un terzo) avvenuta prima della sua nascita. Anche in questo caso il diritto al risarcimento è riconosciuto in assenza di una sofferenza: sofferenza che, tuttavia, diviene attuale al momento della nascita (propagazione intersoggettiva dell’effetto diacronico dell’illecito).