x

x

I limiti al potere di controllo a distanza dell’attività lavorativa

1. L’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori

La trattazione del tema implica – per necessaria comprensione – la riproduzione del testo dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970) che ha disciplinato le modalità attuative alle quali è stato subordinato, in omaggio ad esigenze superiori di rispetto della dignità e privacy dei lavoratori, il potere di controllo datoriale.

La norma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (rubricata Impianti audiovisivi) si articola essenzialmente in due tipi di disposizioni: quella del comma 1 e quella del comma 2 che, rispettivamente, dispongono: “È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” (comma 1). “Gli impianti e le apparecchiatura di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali […]. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti” (comma 2).

Il comma 1, in omaggio ai valori di cui è portatrice la persona del prestatore di lavoro, dispone per le aziende il divieto assoluto di installazione, per effettivo uso, di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature (similari quanto agli effetti indesiderati), destinate allo scopo precipuo e diretto del controllo “a distanza” dell’attività dei lavoratori (controllo odioso e riprovevole in quanto a distanza, cioè al di fuori della percezione o cognizione diretta del controllato e, quindi, a sua insaputa).

L’attività, oggetto del controllo vessatorio, va intesa in termini più ampi della vera e propria “attività lavorativa” (di cui al precedente articolo 3, Legge n. 300/1970) ed è, quindi, riferibile al complessivo comportamento tenuto dal lavoratore in azienda, nel tempo in cui è impegnato ad adempiere all’obbligazione lavorativa come durante le pause di lavoro idonee a favorire i contatti con i colleghi sia per iniziative di proselitismo sindacale sia per iniziative di libera manifestazione del pensiero ex articolo 1, dello Statuto dei lavoratori, ecc.

Alla luce delle surriferite precisazioni sono stati (e debbono essere) considerati estranei alla fattispecie del divieto assoluto – in quanto non finalizzati (eminentemente) al controllo vessatorio sul lavoratore – gli orologi marcatempo o i più moderni lettori di badges posti agli ingressi delle unità produttive allo scopo di registrare i dati temporali necessari per la gestione aziendale e la remunerazione della prestazione [1] (orari di accesso e uscita, rilevazione degli straordinari, evidenziazione della presenza a mensa in correlazione con gli intervalli contrattuali e nel rispetto dei turni aziendalmente stabiliti, rilevazione della presenza in assemblea, ex articolo 20 dello Statuto dei lavoratori, ai soli fini del computo delle ore di fatto utilizzate nell’ambito e fino alla concorrenza del tetto massimo individuale delle 10 ore annue retribuite pro–capite). Pari liceità è stata riconosciuta alle telecamere a circuito chiuso, installate all’interno delle unità produttive con accesso di clientela, onde controllare la loro affluenza ed individuare i responsabili esterni di eventuali furti o rapine.

Tuttavia tali impianti audiovisivi o apparecchiature di registrazione, quantunque non riconducibili – per assenza della diretta finalità di controllo sul lavoratore e per oggettiva rispondenza ad esigenze organizzativo/produttive e di sicurezza – al novero di quelle vietate in assoluto, beneficiano della legittimazione alla messa in opera ed all’uso (ai sensi del comma 2 dell’articolo 4), soltanto nel caso in cui le RSA (o, sussidiariamente, l’Ispettorato del lavoro, ora D.P.L.) diano atto all’azienda che tali strumentazioni sono carenti in assoluto dei requisiti per un potenziale, indiretto ed accidentale controllo a distanza dell’attività e del comportamento, in generale, dei lavoratori.

A conferma, va segnalato come la Cassazione, 17 luglio 2007, n. 15892 (est. Stile),  abbia negato legittimità all’installazione, in quanto “unilaterale”, di un sistema di registrazione della matricola e degli orari per l’accesso e l’uscita dal garage aziendale tramite badge, stabilendo i seguenti condivisibili principi: “L’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.

Tale esigenza non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei cd. controlli difensivi ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti riguardino, come nel caso, l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro – e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso –, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro.

Consegue a tale rilievo la necessità  – ex articolo 4, comma 2, dello Stat. lav. – che l’istallazione della contestata apparecchiatura sia oggetto di accordo con le RSA o consentita dall’intervento dell’ufficio pubblico, affinché i dipendenti ne possano avere piena conoscenza e possano eventualmente essere stabilite, in maniera trasparente, misure di tutela della loro dignità e riservatezza”.

Va poi precisato, in tema,  che per controllo a distanza deve pacificamente intendersi sia quello effettuato in ambito topografico lontano dal lavoratore sia quello conseguibile in tempi non sincronici (e cioè differiti) con quelli dell’adempimento della prestazione.

La dizione è comprensiva, quindi, di una nozione spaziale e di un’alternativa o concorrente nozione temporale. Talché, a quest’ultima stregua, risulta oggettivamente riconducibile alla fattispecie vietata (o condizionata all’accordo preclusivo delle RSA) l’installazione di apparecchiature che, tramite la registrazione e memorizzazione di dati suscettibili di analisi o assemblaggio in tempi successivi, consentano al datore di lavoro un controllo a posteriori in ordine all’attività ed al comportamento dei lavoratori.

2. Controlli potenziali, conseguenti ad apparecchiature installate per esigenze organizzativo–produttive o di sicurezza

Il comma 2 dell’articolo in esame attiene – come abbiamo succintamente anticipato – all’ipotesi in cui le apparecchiature e gli impianti siano resi oggettivamente indispensabili da esigenze organizzativo-produttive o di sicurezza del lavoro. Esigenze che, seppur meritevoli di salvaguardia, comportano l’onere datoriale di contrattare, con le istanze rappresentative dei lavoratori dell’unità produttiva interessata, la loro installazione in quanto la specifica strumentazione fornisce, al tempo stesso e come sottoprodotto, la possibilità astratta (cioè la potenzialità) di conseguire un indiretto controllo sull’attività dei prestatori di lavoro.

È pacifico che l’onere datoriale di ricercare – previamente alla loro installazione – l’accordo con le RSA costituite nell’unità produttiva, sorge non solo per quegli impianti di cui il datore si riproponga l’uso suscettibile di permettergli, indirettamente ed accidentalmente, il controllo, ma anche per quelle strumentazioni che siano intrinsecamente strutturate e provviste delle caratteristiche di “idoneità al controllo” (o potenzialità allo scopo) anche se di fatto inattuato (ma attuabile).

In tal senso depone sia la locuzione legislativa usata (“impianti […] dai quali derivi anche la possibilità del controllo a distanza”) sia l’autorevole interpretazione fornita alla norma dalla Cassazione, secondo cui: “L’articolo 4 della l. 20 maggio 1970 n. 300 […] vieta il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, anche come mera possibilità di controllo ad insaputa ovviamente del prestatore d’opera […] prescindendo peraltro dalla finalità propostasi dall’impresa”.

A questo riguardo va detto che l’installazione di telecamere e microcamere a circuito chiuso per indiretto o potenziale controllo dell’attività dei lavoratori è vietata (e attualizza reato) anche quando l’installazione non concordata con le RSA (cioè effettuata unilateralmente) si attualizzi mantenendo la telecamera spenta, in attesa della successiva, eventuale, autorizzazione  della Direzione Provinciale del lavoro.

A confermarlo è intervenuta la recentissima Cassazione 30 gennaio 2014, n. 4331, tramite cui la Suprema Corte ha precisato nuovamente che l’installazione della telecamera puntata sui dipendenti al lavoro, effettuata senza attendere l’autorizzazione dell’ispettorato (ora D.P.L.) o l’accordo con le rappresentanze sindacali, comporta la responsabilità penale del datore di lavoro.

La sentenza ha, peraltro, ritenuto non  meritevole di accoglimento l’argomentazione difensiva datoriale secondo cui le videoriprese sul posto di lavoro erano iniziate soltanto dopo il benestare della Direzione provinciale del lavoro.  In particolare ha tenuto a precisare la Cassazione  che, in virtù dell’articolo 4, comma 2, Legge n. 300/1970, a priori va tutelato il bene giuridico della riservatezza del lavoratore e, di conseguenza, il reato di pericolo a carico del datore può configurarsi con la mera installazione non autorizzata dell’impianto di videoripresa, anche se la telecamera rimane spenta.

Affermazione nient’affatto nuova, poiché già nel lontano 1983, Cassazione, 18 febbraio 1983, n. 1236   seguita poi  da Cassazione, 6 marzo 1986, n. 1490 e da Cassazione 16 settembre 1997, n. 9211, ebbero a stabilire che il divieto di cui all’articolo 4 opera anche nel caso in cui le apparecchiature per il controllo siano state installate ma non ancora funzionanti [2] (ed anche qualora il controllo sarebbe stato solo discontinuo in quanto destinate ad operare in locali in cui i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente).

In ragione del diritto delle RSA all’accordo, sussiste – in maniera propedeutica e strumentale – in capo ad esse un analogo diritto a pretendere dall’azienda di ispezionare le apparecchiature sospette, già in atto, specificatamente nel corso del loro funzionamento (e cioè eminentemente, se non esclusivamente, nel corso dell’orario di lavoro), con la conseguenza che l’eventuale rifiuto (o ostruzionismo) frapposto alla richiesta in questione, concreta una limitazione dell’attività sindacale, indubbiamente suscettibile di integrare gli estremi per il ricorso alla tutela approntata dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.

Va inoltre evidenziato come il fatto che determinate strumentazioni o apparecchiature siano in atto da tempo in azienda, con l’acquiescenza dei lavoratori e delle RSA sin dall’epoca della loro installazione, non è idoneo a porre l’azienda nella condizione giuridica di “trovarsi in regola”. Infatti la persistente potenzialità o effettività di un ambivalente utilizzo (a fini tecnici e, in forma preterintenzionale, a fini di controllo) obbliga l’azienda, in modo permanente, a ricercare un’intesa con le RSA che ne legittimi inequivocabilmente il comportamento, poiché tale accordo, come ha correttamente ritenuto il Tribunale di Milano [3], non può ritenersi scontato e sussistente (per l’avvenuta installazione delle  strumentazioni) a causa “dell’uso pacifico e non contestato […] per un certo periodo di tempo” sia dalle RSA sia dai lavoratori.

3. L’accordo con le RSA per l’installazione delle apparecchiature di controllo indiretto

Il comma 2 dell’articolo 4 individua nelle RSA (e, in subordine, nelle tramontate Commissioni interne) i titolari del diritto a riscontrare nelle strumentazioni le caratteristiche (o meno) di idoneità lesiva della dignità dei lavoratori, per  potenzialità di controllo a distanza, conseguibile dal datore di lavoro che delle suddette tecnologie o impianti audiovisivi intende avvalersi.

Convenendosi tra le parti, da un lato, sull’effettiva rispondenza delle apparecchiature ad esigenze tecnico–produttive o di sicurezza e, dall’altro, disciplinandone concordemente modalità e condizioni d’uso, l’imprenditore viene liberato dall’aprioristico impedimento alla loro installazione.

L’accordo, per poter consentire al datore di lavoro l’installazione delle apparecchiature, deve essere raggiunto – secondo prevalente e pressoché unanime dottrina – con tutte le RSA esistenti nella specifica unità produttiva [4]. Le RSA in questione sono, pertanto, tutte quante quelle esistenti nell’unità produttiva (in rappresentanza, quindi, del personale ausiliario, impiegatizio, dei quadri nonché dei dirigenti), senza esclusioni di sorta.

Va detto che – data la possibilità che anche una sola delle RSA boicotti l’intesa e finisca per esercitare un vero e proprio potere di veto con il proprio diniego strumentale – il Ministero del lavoro, facendo proprio anche un indirizzo della giurisprudenza di merito, ha ritenuto sufficiente l’accordo della maggioranza delle RSA, esplicitandolo nella nota del 5 dicembre 2005, protocollo 2975.

La facoltà di rimuovere la preclusione per l’azienda all’installazione delle predette apparecchiature viene conferita, dal legislatore, all’istanza sindacale introaziendale di base, rappresentativa dei lavoratori suscettibili di essere pregiudicati nella loro dignità o privacy. Cioè a dire alla RSA che – sebbene debba essere ritenuta un’appendice organica del sindacato, a livello aziendale – sorge «imprescindibilmente dall’iniziativa volontaria dei lavoratori»[5] per essere poi omologata e ratificata, a fini di effettiva operatività, dall’Organizzazione sindacale nel cui ambito aspira a collocarsi.

Pertanto tale facoltà non può essere deferita ad altri organismi, quali strutture sindacali di secondo grado (sindacati provinciali, ecc.) o al sindacato nazionale[6], con la sola deroga alla tassativa disposizione legislativa, introdotta da Cassazione Penale 11 giugno 2012, n. 22611, che ha considerato equipollente al consenso delle RSA all’installazione, quello espresso da tutti i lavoratori dell’unità produttiva tramite documento nominativamente sottoscritto.

La mancanza di unanimità tra le RSA in ordine all’opportunità (o al concreto contenuto) dell’accordo, determina di fatto una situazione di impedimento per l’azienda, rimuovibile tramite richiesta d’intervento dell’Ispettorato del lavoro (ora D.P.L.), cui – in qualità di organo pubblicistico e con presunzione di comportamento imparziale – spetterà di valutare la tipologia delle attrezzature da installare, la loro eventualità ad implicare forme di controllo a distanza nonché di prescrivere condizioni e modalità di utilizzo, attraverso una disattivazione di tale potenzialità lesiva della privacy dei lavoratori.

Per completezza va precisato che la facoltà di azionare l’intervento dell’Organo amministrativo è attribuita dalla legge al solo datore di lavoro poiché trovandosi, in carenza di accordo, nella pratica impossibilità di dar corso alle proprie iniziative di installazione, è il solo (o il maggior) interessato alla messa in opera delle apparecchiature sospette di ambivalente uso.

È pacifico, peraltro, che le RSA e/o i lavoratori singoli possono richiedere l’intervento dell’Ispettorato del lavoro (ora D.P.L.) per la loro rimozione e perché lo stesso disponga a carico dell’azienda le sanzioni di legge [7], unitamente all’obbligo di dar corso alle propedeutiche intese negoziali, in carenza delle quali sarà altresì abilitato ad intervenire con poteri e compiti autoritativi.

4. Casistica delle possibili apparecchiature suscettibili di incorrere nel divieto legale

Conclusivamente riteniamo – prima di addentrarci in un sommario esame di talune fattispecie di strumentazioni ed apparecchiature di ambivalente utilizzo – che l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, quantunque concepito in epoca carente delle attuali sofisticate innovazioni informatiche o audiovisive, si sottragga alla necessità di una sua revisione legislativa.

Esso, infatti, possiede una ratio suscettibile di implicarne il rispetto sostanziale da parte di qualsiasi innovazione, tramite operazioni, non eccessivamente difficili, di adattamento a monte delle strumentazioni ovvero soluzioni contrattuali a valle, delimitatrici e neutralizzanti l’ingerenza datoriale nella privacy del prestatore di lavoro.

Ad esempio, in tema di cineprese e telecamere aziendalmente necessarie per tenere sotto controllo essenziali procedimenti produttivi o per disincentivare – tramite la pubblicità dell’installazione – il compimento di atti criminosi nelle aziende aperte al pubblico (supermarkets, agenzie bancarie e simili), il connaturato controllo delle operazioni lavorative può essere tutelato tramite soluzioni contrattuali attinenti alla successiva visione “bilaterale” delle riprese, ai tempi di conservazione ed alle modalità di distruzione delle bobine e simili.

Si versa nella fattispecie del controllo vietato in assoluto (giacché all’insaputa e vessatorio) di cui al comma 1° dell’articolo 4, nel caso delle pratiche datoriali (o dei capi diretti) consistenti nel “controllo in cuffia”, effettuato eminentemente nei confronti e a danno dei centralinisti ed addetti ai call center o a mansioni di operatore commerciale telefonico (teleseller) e simili.

Già nel lontano 1972 – prima ancora quindi dell’entrata in vigore della l. n. 675/1996 sulla tutela della riservatezza individuale – il Pretore di Milano [8] ebbe a stabilire che: «A norma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, deve ritenersi illegittimo il sistema dei “controlli in cuffia” effettuati nei confronti dei centralinisti telefonici, perché vessatori e contrari al diritto alla “privacy” che deve ritenersi uno degli interessi primari della collettività».

Circa l’installazione di centralini elettronici ad elaboratore (con memorizzazione della telefonata, del numero esterno chiamato, del giorno e ora delle telefonate, del relativo numero di scatti e del costo) appare indubbia, giuridicamente, l’esigenza di neutralizzare le funzioni di registrazione sia del contenuto della telefonata sia dei meccanismi di individuazione del soggetto chiamante e chiamato, in quanto se si consentisse  l’attivazione di tali funzioni si incorrerebbe, congiuntamente, anche nella violazione dell’articolo 8, Stat. lav., che vieta l’indagine sulle opinioni e su fatti del lavoratore non rilevanti professionalmente [9].

È noto come la «registrazione», a fini di cognizione del contenuto delle telefonate, è vietata – salvo i casi previsti dalla legge – concretizzando reato ai sensi dell’articolo 617 e 617–bis, c.p. Né si ritiene che costituisca esimente, al riguardo, la previsione secondo cui l’eventuale ascolto del contenuto delle telefonate avvenga in presenza del lavoratore interessato.

Gli eventuali inconvenienti per l’azienda (o per gli stessi lavoratori) derivanti da disposizioni od ordini impartiti a terzi per telefono – come la difficoltosa ricerca a posteriori di responsabilità circa la corretta esecuzione di determinati ordini verbali per operazioni finanziarie (emblematico il caso del black friday che vide protagonista attivo l’Eni e passivo il San Paolo di Torino) – possono essere ovviati con l’uso del fax o strumenti similari, non essendo, a nostro avviso, l’esigenza della prevenzione dei suddetti (eventuali) inconvenienti idonea a superare il valore etico del divieto di violazione della privacy del lavoratore.

Una volta infranto, sia pure per un’ipotesi razionalmente fondata, il ricorso all’analogia implicherebbe l’estensione della deroga ad un’indefinita serie di operazioni, attività, servizi e settori aziendali. Parimenti neutralizzabile riteniamo debba essere, nelle sedi di lavoro, il meccanismo che consente che sul display dei telefoni aziendali (normalmente degli alti manager e loro segretarie) risulti visualizzato il numero (interno, esterno urbano o interurbano) del chiamante. Il meccanismo consente all’azienda una surrettizia appropriazione di dati interdetti alla cognizione [10] ed, ad esempio, un conseguente controllo della sede o località dalla quale il lavoratore chiamante comunica lo stato di malattia, la richiesta improvvisa di un permesso o di un giorno di ferie, ecc.

Tra l’altro l’apparizione (e registrazione) del numero chiamante sul display, non risponde ad alcuna esigenza organizzativo–produttiva o di sicurezza, ma si rivela dettata dall’impulso di soddisfare aspirazioni di innovazione sfrenata o di luddismo dei costruttori e/o degli utenti. Talora poi l’evidenziazione automatica del numero chiamante viene, poco civilmente, utilizzata in azienda dall’alto manager chiamato per «selezionare» aprioristicamente (rispondendo o non rispondendo) quei subordinati con i quali intende colloquiare da coloro che, conoscendone il numero, preferisce ricusare.

Senz’altro collidente con l’articolo 2087 del Codice Civile (salvaguardante anche la «personalità morale» del lavoratore), e con l’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori (in congiunzione con il divieto di cui all’articolo 617–bis, c.p.) il dispositivo  a cd. “citofono parlante” o a “viva voce”, in dotazione di norma nei telefoni dei Capi, finalizzato all’amplificazione delle telefonate con i loro subordinati. Molto spesso, infatti, il sistema viene attivato “subdolamente” – o comunque è potenzialmente idoneo – per la divulgazione a terzi, presenti nella stanza del manager, del contenuto di una spontanea (o sollecitata) telefonata intercorrente con un dipendente ignaro di essere ascoltato anche da altri, sui quali può accadere gli venga naturale (o richiesto, a trappola) di esprimere opinioni e considerazioni (gravide di conseguenze insospettate).

Illegittima è stata ritenuta, a suo tempo,  in giurisprudenza [11] l’installazione al centro dell’officina di un locale rialzato con pareti di vetro (destinato ad ufficio del Capo officina), in quanto – anche se a ciò non adibito espressamente – acquisiva di fatto e nella pratica la funzione di “torre di controllo” dalla quale il Capo officina poteva agevolmente controllare a distanza l’attività dei lavoratori.

La stessa installazione di tachigrafi sugli automezzi in dotazione di autisti, viaggiatori o piazzisti è stata ritenuta, correttamente, ricadente nella fattispecie del comma 2 dell’articolo 4, necessitante perciò la neutralizzazione delle potenzialità per il controllo a distanza, nel caso “a posteriori”, anche dell’attività dei lavoratori; neutralizzazione da realizzare ad opera di preventivi accordi con le RSA o per effetto di specifiche prescrizioni dell’Ispettorato del lavoro (ora D.P.L.).

Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, con risoluzione del 15 dicembre 1971 [12] dispose che: “Ove la ditta abbia effettuato l’installazione dei tachigrafi sugli automezzi dei piazzisti, con possibilità di utilizzazione secondaria di tali apparecchiature, quali mezzi tecnici per il controllo della costanza dell’impegno lavorativo del personale dipendente, l’Ispettorato del lavoro è tenuto a provvedere, ai sensi dell’articolo 4, comma 3°, dello Statuto, alle appropriate eventuali prescrizioni per l’adeguamento e le modalità d’uso degli impianti suddetti, per evitare che essi possano essere utilizzati per controlli a distanza dell’attività dei lavoratori e che la ditta possa trarre dalle registrazioni relative indicazioni per eventuali provvedimenti a carico dei piazzisti”.

L’innovazione tecnologica ha consentito anche – tramite l’installazione di sistemi di geolocalizzazione (GPS) per la gestione delle flotte aziendali – un’ulteriore modalità di  potenziale controllo indebito sui lavoratori (da ricondurre sotto la disciplina definita nell’articolo 4 Stat. lav.), atteso che tali sistemi  hanno idoneità non solo a consentire la localizzazione delle auto affidate ai dipendenti, ma anche di fornire online report storici dei tragitti, chilometri percorsi, soste effettuate.

L’applicazione delle sofisticate tecnologie informatiche (videoterminali, computer, ecc.), la cui diffusione in azienda ha di recente suscitato interrogativi circa la presunta vetustà dell’articolo 4 e l’esigenza di una sua revisione –  verso la quale noi esprimiamo apertamente indisponibilità a causa del timore che venga accordata esclusiva preferenza, nell’operazione riformista, alle esigenze di innovazione tecnologica, quantunque potenzialmente idonee a comprimere i fondamentali diritti della personalità – induce a ulteriori riflessioni e cautele.

Spesso il software è strutturato (dall’uomo) in modo tale da consentire non solo la ricostruzione di tutti i passaggi, fasi e transazioni compiute per realizzare un certo programma o prodotto, ma anche per risalire all’identità di colui che ha compiuto le varie operazioni, il momento esatto del loro compimento, i tempi spesi per la realizzazione del lavoro nel suo complesso e nelle singole fasi intermedie e strutturalmente costitutive.

Non è un segreto che – a seguito della potenzialità di accesso ad Internet da parte dei lavoratori dotati dei computer aziendali –  le aziende si siano dotate  di uno specifico software da installare nei pc dei dipendenti o nel calcolatore centrale, tramite il quale monitorare gli accessi (indirizzi, url, siti visionati, ecc.) effettuati dal singolo lavoratore e quindi verificare se ciò sia avvenuto per esigenze di lavoro ovvero per uso privato, aziendalmente non consentito e sanzionabile disciplinarmente.

Si versa, a fronte di tale potenzialità – se non ricorrono le esigenze produttive – nella ipotesi vietata dal comma 1 dell’articolo 4 e – qualora esse ricorrano – indubitabilmente nell’ipotesi del comma 2 dello stesso articolo. Trovandosi in quest’ultima ipotesi è necessario che, a livello aziendale, si raggiungano quantomeno accordi tra RSA e datore, tramite cui si stabilisca che il software, i tabulati ed i programmi attivati dai lettori di badges (tesserine magnetiche) o da password, debbano – in linea di principio – escludere la facoltà aziendale di «occhiuta» individuazione dell’operatore che effettua le transazioni routinarie (o gli accessi ad Internet) e limitarsi a rilevare, ad es., soltanto la di lui appartenenza al «gruppo» abilitato alle transazioni o agli accessi alla rete.

Per tale via realizzando un necessario stemperamento dell’altrimenti personalizzato controllo dell’attività del singolo operatore. Ciò normalmente avviene attraverso la sostituzione del codice individuale (nei badges abilitanti alle transazioni) con il codice di «gruppo» o di reparto (e per l’accesso ad Internet, consentendolo con la password «collettiva» o, meglio, senza password).

Per la cronaca, la soluzione del “codice di gruppo” – poi diffusasi – è stata convenuta originariamente  nell’Accordo Ibm Spa–Rsa  (risalente al 23 febbraio 1983), ove venne accordata esclusiva deroga a programmi e transazioni «concordemente» ritenute attinenti a dati particolarmente riservati o critici “per la tutela delle informazioni relative al personale o al patrimonio aziendale” (così, il citato Accordo Ibm–Rsa).

A conclusione  va precisato che secondo la Suprema corte – espressasi tramite Cassazione, 17 giugno 2000, n. 8250 e Cassazione, 23 febbraio 2010  n. 4375 – i dati registrati, i riscontri o fotogrammi acquisiti tramite installazioni illegittime sono inutilizzabili  processualmente ai fini di giustificare le sanzioni disciplinari irrogate da parte datoriale.

***

[1] Cfr. per la legittimità della rilevazione delle presenze e dei dati gestionali a mezzo tesserina magnetica o badge, Pret. Napoli, 15.3.1990, in Not. giurisp. lav. 1990, 226; in precedenza, nello stesso senso, Pret. Milano, 12.7.1988, in Or. giur. lav. 1988, 936.

[2]Cass., sez. lav., 6 marzo 1986, n. 1490, espressamente affermò che: «Il divieto posto dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori per il datore di lavoro di far uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza della attività dei lavoratori non è escluso né dalla circostanza che tali apparecchiature siano state solo installate ma non siano ancora funzionanti, né dall’eventuale preavviso dato ai lavoratori, i quali quindi siano avvertiti del controllo suddetto, né infine dal fatto che tale controllo sia destinato ad essere discontinuo perché esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente».

[3] Trib. Milano, 7.7.1977, in Or. giur. lav. 1977, 718.

[4] Cfr. App. Firenze, 14.2.1973, in Foro it. 1973, 1, 1565.

[5] Così, ex plurimis, Cass., 13.1.1984, n. 306, in Not. giurisp. lav. 1984, 127.

[6]Conf. Cass., sez. lav., 16 settembre 1997, n. 9211 secondo la quale: «L’installazione in azienda, da parte del datore di lavoro, di impianti audiovisivi – che è assoggettata ai limiti previsti dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori anche se da essi derivi solo una mera potenzialità di controllo a distanza sull’attività lavorativa e anche se i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di tali impianti – deve essere preceduta dall’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, non essendo sufficiente, in ragione della tassatività dei soggetti indicati dal secondo comma dell’articolo 4 cit., a legittimare tale installazione un’intesa raggiunta dal datore di lavoro con gli organi di coordinamento delle R.S.A. di varie unità produttive...».

[7] Ora le sanzioni – in precedenza contemplate nell’articolo 38 Stat. lav. – sono state ricondotte dall’articolo 171 del codice privacy (d.lgs. n. 196/2003) in questo ambito e quindi espunte dall’articolo 38 per effetto dell’articolo 179 di detto codice.

[8] Pret. Milano, 12.5.1972, Cgil e Uil c. Azienda di Stato per i servizi telefonici, in Or. giur. lav. 1972, 260 e in Foro it. 1972, I, 2710.

[9] Conforme: Pret. pen. Milano 9.11.1984, in Riv. giur. lav., 1984, II, 255, a proposito del centralino a calcolatore Ibm 1750 della Soc. Foster Wheeler. Per la necessità di subordinarne l’installazione all’accordo con le RSA (o, in mancanza di intesa, alle prescrizioni dell’Ispettorato del lavoro) si è espressa, in un caso analogo, Pret. Roma, 13.1.1988, in Riv. it. dir. lav. 1988, I, 682. Conforme: Pret. Milano, 4.10.1988, in Not. giurisp. lav. 1989, 436. Per un caso recente di provvedimenti disciplinari adottati dall’Aci Global nei confronti di addetti al centralino telefonico (che all’insaputa dei lavoratori registrava numeri chiamanti e chiamati, contenuto delle conversazioni anche private, ecc.) annullati dal Trib. di Milano, con decisione del 12.4.2005, perché raccolti in violazione dell’articolo 4 Stat. lav., si rinvia alla lettura del caso specifico nel link http://www.rassegna it/2005/dirittolavoro/articoli/05.htm.

[10] In senso conforme si è espressa Pret. Roma, 22.12.1988 (in Foro it. 1988, I, 1309) a proposito di un marchingegno con effetti analoghi – l’apparecchio elettronico Imi (inviatore messaggi d’identità) – che consente all’utente, telefonando, di conoscere la sigla dell’operatore che gli risponderà. Il magistrato ha, pertanto, ricondotto la fattispecie sotto l’ipotesi del comma 2 dell’articolo 4 ed ha preteso l’accordo con le RSA per legittimarne l’uso e, in mancanza, le prescrizioni disattivanti e garantistiche dell’Ispettorato del lavoro.

[11] Pret. Pen. Roma, 3.10.1973, in Or. giur. lav. 1973, 753, confermata da Trib. pen. Roma, 10.7.1974, ivi 1975, 289.

[12] La risoluzione trovasi in Or. giur. lav. 1972, 28, adesiva all’orientamento già in precedenza espresso – nei confronti della ditta Sitia-Yomo Srl – dall’Ispettorato del lavoro di Milano in data 26.7.1971, ivi 1971, 623. Cfr. per i cd. «congegni Kienzle», Pret. Milano, 4.10.198, in Not. giurisp. lav. 1989, 436.

1. L’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori

La trattazione del tema implica – per necessaria comprensione – la riproduzione del testo dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970) che ha disciplinato le modalità attuative alle quali è stato subordinato, in omaggio ad esigenze superiori di rispetto della dignità e privacy dei lavoratori, il potere di controllo datoriale.

La norma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (rubricata Impianti audiovisivi) si articola essenzialmente in due tipi di disposizioni: quella del comma 1 e quella del comma 2 che, rispettivamente, dispongono: “È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” (comma 1). “Gli impianti e le apparecchiatura di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali […]. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti” (comma 2).

Il comma 1, in omaggio ai valori di cui è portatrice la persona del prestatore di lavoro, dispone per le aziende il divieto assoluto di installazione, per effettivo uso, di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature (similari quanto agli effetti indesiderati), destinate allo scopo precipuo e diretto del controllo “a distanza” dell’attività dei lavoratori (controllo odioso e riprovevole in quanto a distanza, cioè al di fuori della percezione o cognizione diretta del controllato e, quindi, a sua insaputa).

L’attività, oggetto del controllo vessatorio, va intesa in termini più ampi della vera e propria “attività lavorativa” (di cui al precedente articolo 3, Legge n. 300/1970) ed è, quindi, riferibile al complessivo comportamento tenuto dal lavoratore in azienda, nel tempo in cui è impegnato ad adempiere all’obbligazione lavorativa come durante le pause di lavoro idonee a favorire i contatti con i colleghi sia per iniziative di proselitismo sindacale sia per iniziative di libera manifestazione del pensiero ex articolo 1, dello Statuto dei lavoratori, ecc.

Alla luce delle surriferite precisazioni sono stati (e debbono essere) considerati estranei alla fattispecie del divieto assoluto – in quanto non finalizzati (eminentemente) al controllo vessatorio sul lavoratore – gli orologi marcatempo o i più moderni lettori di badges posti agli ingressi delle unità produttive allo scopo di registrare i dati temporali necessari per la gestione aziendale e la remunerazione della prestazione [1] (orari di accesso e uscita, rilevazione degli straordinari, evidenziazione della presenza a mensa in correlazione con gli intervalli contrattuali e nel rispetto dei turni aziendalmente stabiliti, rilevazione della presenza in assemblea, ex articolo 20 dello Statuto dei lavoratori, ai soli fini del computo delle ore di fatto utilizzate nell’ambito e fino alla concorrenza del tetto massimo individuale delle 10 ore annue retribuite pro–capite). Pari liceità è stata riconosciuta alle telecamere a circuito chiuso, installate all’interno delle unità produttive con accesso di clientela, onde controllare la loro affluenza ed individuare i responsabili esterni di eventuali furti o rapine.

Tuttavia tali impianti audiovisivi o apparecchiature di registrazione, quantunque non riconducibili – per assenza della diretta finalità di controllo sul lavoratore e per oggettiva rispondenza ad esigenze organizzativo/produttive e di sicurezza – al novero di quelle vietate in assoluto, beneficiano della legittimazione alla messa in opera ed all’uso (ai sensi del comma 2 dell’articolo 4), soltanto nel caso in cui le RSA (o, sussidiariamente, l’Ispettorato del lavoro, ora D.P.L.) diano atto all’azienda che tali strumentazioni sono carenti in assoluto dei requisiti per un potenziale, indiretto ed accidentale controllo a distanza dell’attività e del comportamento, in generale, dei lavoratori.

A conferma, va segnalato come la Cassazione, 17 luglio 2007, n. 15892 (est. Stile),  abbia negato legittimità all’installazione, in quanto “unilaterale”, di un sistema di registrazione della matricola e degli orari per l’accesso e l’uscita dal garage aziendale tramite badge, stabilendo i seguenti condivisibili principi: “L’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.

Tale esigenza non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei cd. controlli difensivi ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti riguardino, come nel caso, l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro – e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso –, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro.

Consegue a tale rilievo la necessità  – ex articolo 4, comma 2, dello Stat. lav. – che l’istallazione della contestata apparecchiatura sia oggetto di accordo con le RSA o consentita dall’intervento dell’ufficio pubblico, affinché i dipendenti ne possano avere piena conoscenza e possano eventualmente essere stabilite, in maniera trasparente, misure di tutela della loro dignità e riservatezza”.

Va poi precisato, in tema,  che per controllo a distanza deve pacificamente intendersi sia quello effettuato in ambito topografico lontano dal lavoratore sia quello conseguibile in tempi non sincronici (e cioè differiti) con quelli dell’adempimento della prestazione.

La dizione è comprensiva, quindi, di una nozione spaziale e di un’alternativa o concorrente nozione temporale. Talché, a quest’ultima stregua, risulta oggettivamente riconducibile alla fattispecie vietata (o condizionata all’accordo preclusivo delle RSA) l’installazione di apparecchiature che, tramite la registrazione e memorizzazione di dati suscettibili di analisi o assemblaggio in tempi successivi, consentano al datore di lavoro un controllo a posteriori in ordine all’attività ed al comportamento dei lavoratori.

2. Controlli potenziali, conseguenti ad apparecchiature installate per esigenze organizzativo–produttive o di sicurezza

Il comma 2 dell’articolo in esame attiene – come abbiamo succintamente anticipato – all’ipotesi in cui le apparecchiature e gli impianti siano resi oggettivamente indispensabili da esigenze organizzativo-produttive o di sicurezza del lavoro. Esigenze che, seppur meritevoli di salvaguardia, comportano l’onere datoriale di contrattare, con le istanze rappresentative dei lavoratori dell’unità produttiva interessata, la loro installazione in quanto la specifica strumentazione fornisce, al tempo stesso e come sottoprodotto, la possibilità astratta (cioè la potenzialità) di conseguire un indiretto controllo sull’attività dei prestatori di lavoro.

È pacifico che l’onere datoriale di ricercare – previamente alla loro installazione – l’accordo con le RSA costituite nell’unità produttiva, sorge non solo per quegli impianti di cui il datore si riproponga l’uso suscettibile di permettergli, indirettamente ed accidentalmente, il controllo, ma anche per quelle strumentazioni che siano intrinsecamente strutturate e provviste delle caratteristiche di “idoneità al controllo” (o potenzialità allo scopo) anche se di fatto inattuato (ma attuabile).

In tal senso depone sia la locuzione legislativa usata (“impianti […] dai quali derivi anche la possibilità del controllo a distanza”) sia l’autorevole interpretazione fornita alla norma dalla Cassazione, secondo cui: “L’articolo 4 della l. 20 maggio 1970 n. 300 […] vieta il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, anche come mera possibilità di controllo ad insaputa ovviamente del prestatore d’opera […] prescindendo peraltro dalla finalità propostasi dall’impresa”.

A questo riguardo va detto che l’installazione di telecamere e microcamere a circuito chiuso per indiretto o potenziale controllo dell’attività dei lavoratori è vietata (e attualizza reato) anche quando l’installazione non concordata con le RSA (cioè effettuata unilateralmente) si attualizzi mantenendo la telecamera spenta, in attesa della successiva, eventuale, autorizzazione  della Direzione Provinciale del lavoro.

A confermarlo è intervenuta la recentissima Cassazione 30 gennaio 2014, n. 4331, tramite cui la Suprema Corte ha precisato nuovamente che l’installazione della telecamera puntata sui dipendenti al lavoro, effettuata senza attendere l’autorizzazione dell’ispettorato (ora D.P.L.) o l’accordo con le rappresentanze sindacali, comporta la responsabilità penale del datore di lavoro.

La sentenza ha, peraltro, ritenuto non  meritevole di accoglimento l’argomentazione difensiva datoriale secondo cui le videoriprese sul posto di lavoro erano iniziate soltanto dopo il benestare della Direzione provinciale del lavoro.  In particolare ha tenuto a precisare la Cassazione  che, in virtù dell’articolo 4, comma 2, Legge n. 300/1970, a priori va tutelato il bene giuridico della riservatezza del lavoratore e, di conseguenza, il reato di pericolo a carico del datore può configurarsi con la mera installazione non autorizzata dell’impianto di videoripresa, anche se la telecamera rimane spenta.

Affermazione nient’affatto nuova, poiché già nel lontano 1983, Cassazione, 18 febbraio 1983, n. 1236   seguita poi  da Cassazione, 6 marzo 1986, n. 1490 e da Cassazione 16 settembre 1997, n. 9211, ebbero a stabilire che il divieto di cui all’articolo 4 opera anche nel caso in cui le apparecchiature per il controllo siano state installate ma non ancora funzionanti [2] (ed anche qualora il controllo sarebbe stato solo discontinuo in quanto destinate ad operare in locali in cui i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente).

In ragione del diritto delle RSA all’accordo, sussiste – in maniera propedeutica e strumentale – in capo ad esse un analogo diritto a pretendere dall’azienda di ispezionare le apparecchiature sospette, già in atto, specificatamente nel corso del loro funzionamento (e cioè eminentemente, se non esclusivamente, nel corso dell’orario di lavoro), con la conseguenza che l’eventuale rifiuto (o ostruzionismo) frapposto alla richiesta in questione, concreta una limitazione dell’attività sindacale, indubbiamente suscettibile di integrare gli estremi per il ricorso alla tutela approntata dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.

Va inoltre evidenziato come il fatto che determinate strumentazioni o apparecchiature siano in atto da tempo in azienda, con l’acquiescenza dei lavoratori e delle RSA sin dall’epoca della loro installazione, non è idoneo a porre l’azienda nella condizione giuridica di “trovarsi in regola”. Infatti la persistente potenzialità o effettività di un ambivalente utilizzo (a fini tecnici e, in forma preterintenzionale, a fini di controllo) obbliga l’azienda, in modo permanente, a ricercare un’intesa con le RSA che ne legittimi inequivocabilmente il comportamento, poiché tale accordo, come ha correttamente ritenuto il Tribunale di Milano [3], non può ritenersi scontato e sussistente (per l’avvenuta installazione delle  strumentazioni) a causa “dell’uso pacifico e non contestato […] per un certo periodo di tempo” sia dalle RSA sia dai lavoratori.

3. L’accordo con le RSA per l’installazione delle apparecchiature di controllo indiretto

Il comma 2 dell’articolo 4 individua nelle RSA (e, in subordine, nelle tramontate Commissioni interne) i titolari del diritto a riscontrare nelle strumentazioni le caratteristiche (o meno) di idoneità lesiva della dignità dei lavoratori, per  potenzialità di controllo a distanza, conseguibile dal datore di lavoro che delle suddette tecnologie o impianti audiovisivi intende avvalersi.

Convenendosi tra le parti, da un lato, sull’effettiva rispondenza delle apparecchiature ad esigenze tecnico–produttive o di sicurezza e, dall’altro, disciplinandone concordemente modalità e condizioni d’uso, l’imprenditore viene liberato dall’aprioristico impedimento alla loro installazione.

L’accordo, per poter consentire al datore di lavoro l’installazione delle apparecchiature, deve essere raggiunto – secondo prevalente e pressoché unanime dottrina – con tutte le RSA esistenti nella specifica unità produttiva [4]. Le RSA in questione sono, pertanto, tutte quante quelle esistenti nell’unità produttiva (in rappresentanza, quindi, del personale ausiliario, impiegatizio, dei quadri nonché dei dirigenti), senza esclusioni di sorta.

Va detto che – data la possibilità che anche una sola delle RSA boicotti l’intesa e finisca per esercitare un vero e proprio potere di veto con il proprio diniego strumentale – il Ministero del lavoro, facendo proprio anche un indirizzo della giurisprudenza di merito, ha ritenuto sufficiente l’accordo della maggioranza delle RSA, esplicitandolo nella nota del 5 dicembre 2005, protocollo 2975.

La facoltà di rimuovere la preclusione per l’azienda all’installazione delle predette apparecchiature viene conferita, dal legislatore, all’istanza sindacale introaziendale di base, rappresentativa dei lavoratori suscettibili di essere pregiudicati nella loro dignità o privacy. Cioè a dire alla RSA che – sebbene debba essere ritenuta un’appendice organica del sindacato, a livello aziendale – sorge «imprescindibilmente dall’iniziativa volontaria dei lavoratori»[5] per essere poi omologata e ratificata, a fini di effettiva operatività, dall’Organizzazione sindacale nel cui ambito aspira a collocarsi.

Pertanto tale facoltà non può essere deferita ad altri organismi, quali strutture sindacali di secondo grado (sindacati provinciali, ecc.) o al sindacato nazionale[6], con la sola deroga alla tassativa disposizione legislativa, introdotta da Cassazione Penale 11 giugno 2012, n. 22611, che ha considerato equipollente al consenso delle RSA all’installazione, quello espresso da tutti i lavoratori dell’unità produttiva tramite documento nominativamente sottoscritto.

La mancanza di unanimità tra le RSA in ordine all’opportunità (o al concreto contenuto) dell’accordo, determina di fatto una situazione di impedimento per l’azienda, rimuovibile tramite richiesta d’intervento dell’Ispettorato del lavoro (ora D.P.L.), cui – in qualità di organo pubblicistico e con presunzione di comportamento imparziale – spetterà di valutare la tipologia delle attrezzature da installare, la loro eventualità ad implicare forme di controllo a distanza nonché di prescrivere condizioni e modalità di utilizzo, attraverso una disattivazione di tale potenzialità lesiva della privacy dei lavoratori.

Per completezza va precisato che la facoltà di azionare l’intervento dell’Organo amministrativo è attribuita dalla legge al solo datore di lavoro poiché trovandosi, in carenza di accordo, nella pratica impossibilità di dar corso alle proprie iniziative di installazione, è il solo (o il maggior) interessato alla messa in opera delle apparecchiature sospette di ambivalente uso.

È pacifico, peraltro, che le RSA e/o i lavoratori singoli possono richiedere l’intervento dell’Ispettorato del lavoro (ora D.P.L.) per la loro rimozione e perché lo stesso disponga a carico dell’azienda le sanzioni di legge [7], unitamente all’obbligo di dar corso alle propedeutiche intese negoziali, in carenza delle quali sarà altresì abilitato ad intervenire con poteri e compiti autoritativi.

4. Casistica delle possibili apparecchiature suscettibili di incorrere nel divieto legale

Conclusivamente riteniamo – prima di addentrarci in un sommario esame di talune fattispecie di strumentazioni ed apparecchiature di ambivalente utilizzo – che l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, quantunque concepito in epoca carente delle attuali sofisticate innovazioni informatiche o audiovisive, si sottragga alla necessità di una sua revisione legislativa.

Esso, infatti, possiede una ratio suscettibile di implicarne il rispetto sostanziale da parte di qualsiasi innovazione, tramite operazioni, non eccessivamente difficili, di adattamento a monte delle strumentazioni ovvero soluzioni contrattuali a valle, delimitatrici e neutralizzanti l’ingerenza datoriale nella privacy del prestatore di lavoro.

Ad esempio, in tema di cineprese e telecamere aziendalmente necessarie per tenere sotto controllo essenziali procedimenti produttivi o per disincentivare – tramite la pubblicità dell’installazione – il compimento di atti criminosi nelle aziende aperte al pubblico (supermarkets, agenzie bancarie e simili), il connaturato controllo delle operazioni lavorative può essere tutelato tramite soluzioni contrattuali attinenti alla successiva visione “bilaterale” delle riprese, ai tempi di conservazione ed alle modalità di distruzione delle bobine e simili.

Si versa nella fattispecie del controllo vietato in assoluto (giacché all’insaputa e vessatorio) di cui al comma 1° dell’articolo 4, nel caso delle pratiche datoriali (o dei capi diretti) consistenti nel “controllo in cuffia”, effettuato eminentemente nei confronti e a danno dei centralinisti ed addetti ai call center o a mansioni di operatore commerciale telefonico (teleseller) e simili.

Già nel lontano 1972 – prima ancora quindi dell’entrata in vigore della l. n. 675/1996 sulla tutela della riservatezza individuale – il Pretore di Milano [8] ebbe a stabilire che: «A norma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, deve ritenersi illegittimo il sistema dei “controlli in cuffia” effettuati nei confronti dei centralinisti telefonici, perché vessatori e contrari al diritto alla “privacy” che deve ritenersi uno degli interessi primari della collettività».

Circa l’installazione di centralini elettronici ad elaboratore (con memorizzazione della telefonata, del numero esterno chiamato, del giorno e ora delle telefonate, del relativo numero di scatti e del costo) appare indubbia, giuridicamente, l’esigenza di neutralizzare le funzioni di registrazione sia del contenuto della telefonata sia dei meccanismi di individuazione del soggetto chiamante e chiamato, in quanto se si consentisse  l’attivazione di tali funzioni si incorrerebbe, congiuntamente, anche nella violazione dell’articolo 8, Stat. lav., che vieta l’indagine sulle opinioni e su fatti del lavoratore non rilevanti professionalmente [9].

È noto come la «registrazione», a fini di cognizione del contenuto delle telefonate, è vietata – salvo i casi previsti dalla legge – concretizzando reato ai sensi dell’articolo 617 e 617–bis, c.p. Né si ritiene che costituisca esimente, al riguardo, la previsione secondo cui l’eventuale ascolto del contenuto delle telefonate avvenga in presenza del lavoratore interessato.

Gli eventuali inconvenienti per l’azienda (o per gli stessi lavoratori) derivanti da disposizioni od ordini impartiti a terzi per telefono – come la difficoltosa ricerca a posteriori di responsabilità circa la corretta esecuzione di determinati ordini verbali per operazioni finanziarie (emblematico il caso del black friday che vide protagonista attivo l’Eni e passivo il San Paolo di Torino) – possono essere ovviati con l’uso del fax o strumenti similari, non essendo, a nostro avviso, l’esigenza della prevenzione dei suddetti (eventuali) inconvenienti idonea a superare il valore etico del divieto di violazione della privacy del lavoratore.

Una volta infranto, sia pure per un’ipotesi razionalmente fondata, il ricorso all’analogia implicherebbe l’estensione della deroga ad un’indefinita serie di operazioni, attività, servizi e settori aziendali. Parimenti neutralizzabile riteniamo debba essere, nelle sedi di lavoro, il meccanismo che consente che sul display dei telefoni aziendali (normalmente degli alti manager e loro segretarie) risulti visualizzato il numero (interno, esterno urbano o interurbano) del chiamante. Il meccanismo consente all’azienda una surrettizia appropriazione di dati interdetti alla cognizione [10] ed, ad esempio, un conseguente controllo della sede o località dalla quale il lavoratore chiamante comunica lo stato di malattia, la richiesta improvvisa di un permesso o di un giorno di ferie, ecc.

Tra l’altro l’apparizione (e registrazione) del numero chiamante sul display, non risponde ad alcuna esigenza organizzativo–produttiva o di sicurezza, ma si rivela dettata dall’impulso di soddisfare aspirazioni di innovazione sfrenata o di luddismo dei costruttori e/o degli utenti. Talora poi l’evidenziazione automatica del numero chiamante viene, poco civilmente, utilizzata in azienda dall’alto manager chiamato per «selezionare» aprioristicamente (rispondendo o non rispondendo) quei subordinati con i quali intende colloquiare da coloro che, conoscendone il numero, preferisce ricusare.

Senz’altro collidente con l’articolo 2087 del Codice Civile (salvaguardante anche la «personalità morale» del lavoratore), e con l’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori (in congiunzione con il divieto di cui all’articolo 617–bis, c.p.) il dispositivo  a cd. “citofono parlante” o a “viva voce”, in dotazione di norma nei telefoni dei Capi, finalizzato all’amplificazione delle telefonate con i loro subordinati. Molto spesso, infatti, il sistema viene attivato “subdolamente” – o comunque è potenzialmente idoneo – per la divulgazione a terzi, presenti nella stanza del manager, del contenuto di una spontanea (o sollecitata) telefonata intercorrente con un dipendente ignaro di essere ascoltato anche da altri, sui quali può accadere gli venga naturale (o richiesto, a trappola) di esprimere opinioni e considerazioni (gravide di conseguenze insospettate).

Illegittima è stata ritenuta, a suo tempo,  in giurisprudenza [11] l’installazione al centro dell’officina di un locale rialzato con pareti di vetro (destinato ad ufficio del Capo officina), in quanto – anche se a ciò non adibito espressamente – acquisiva di fatto e nella pratica la funzione di “torre di controllo” dalla quale il Capo officina poteva agevolmente controllare a distanza l’attività dei lavoratori.

La stessa installazione di tachigrafi sugli automezzi in dotazione di autisti, viaggiatori o piazzisti è stata ritenuta, correttamente, ricadente nella fattispecie del comma 2 dell’articolo 4, necessitante perciò la neutralizzazione delle potenzialità per il controllo a distanza, nel caso “a posteriori”, anche dell’attività dei lavoratori; neutralizzazione da realizzare ad opera di preventivi accordi con le RSA o per effetto di specifiche prescrizioni dell’Ispettorato del lavoro (ora D.P.L.).

Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, con risoluzione del 15 dicembre 1971 [12] dispose che: “Ove la ditta abbia effettuato l’installazione dei tachigrafi sugli automezzi dei piazzisti, con possibilità di utilizzazione secondaria di tali apparecchiature, quali mezzi tecnici per il controllo della costanza dell’impegno lavorativo del personale dipendente, l’Ispettorato del lavoro è tenuto a provvedere, ai sensi dell’articolo 4, comma 3°, dello Statuto, alle appropriate eventuali prescrizioni per l’adeguamento e le modalità d’uso degli impianti suddetti, per evitare che essi possano essere utilizzati per controlli a distanza dell’attività dei lavoratori e che la ditta possa trarre dalle registrazioni relative indicazioni per eventuali provvedimenti a carico dei piazzisti”.

L’innovazione tecnologica ha consentito anche – tramite l’installazione di sistemi di geolocalizzazione (GPS) per la gestione delle flotte aziendali – un’ulteriore modalità di  potenziale controllo indebito sui lavoratori (da ricondurre sotto la disciplina definita nell’articolo 4 Stat. lav.), atteso che tali sistemi  hanno idoneità non solo a consentire la localizzazione delle auto affidate ai dipendenti, ma anche di fornire online report storici dei tragitti, chilometri percorsi, soste effettuate.

L’applicazione delle sofisticate tecnologie informatiche (videoterminali, computer, ecc.), la cui diffusione in azienda ha di recente suscitato interrogativi circa la presunta vetustà dell’articolo 4 e l’esigenza di una sua revisione –  verso la quale noi esprimiamo apertamente indisponibilità a causa del timore che venga accordata esclusiva preferenza, nell’operazione riformista, alle esigenze di innovazione tecnologica, quantunque potenzialmente idonee a comprimere i fondamentali diritti della personalità – induce a ulteriori riflessioni e cautele.

Spesso il software è strutturato (dall’uomo) in modo tale da consentire non solo la ricostruzione di tutti i passaggi, fasi e transazioni compiute per realizzare un certo programma o prodotto, ma anche per risalire all’identità di colui che ha compiuto le varie operazioni, il momento esatto del loro compimento, i tempi spesi per la realizzazione del lavoro nel suo complesso e nelle singole fasi intermedie e strutturalmente costitutive.

Non è un segreto che – a seguito della potenzialità di accesso ad Internet da parte dei lavoratori dotati dei computer aziendali –  le aziende si siano dotate  di uno specifico software da installare nei pc dei dipendenti o nel calcolatore centrale, tramite il quale monitorare gli accessi (indirizzi, url, siti visionati, ecc.) effettuati dal singolo lavoratore e quindi verificare se ciò sia avvenuto per esigenze di lavoro ovvero per uso privato, aziendalmente non consentito e sanzionabile disciplinarmente.

Si versa, a fronte di tale potenzialità – se non ricorrono le esigenze produttive – nella ipotesi vietata dal comma 1 dell’articolo 4 e – qualora esse ricorrano – indubitabilmente nell’ipotesi del comma 2 dello stesso articolo. Trovandosi in quest’ultima ipotesi è necessario che, a livello aziendale, si raggiungano quantomeno accordi tra RSA e datore, tramite cui si stabilisca che il software, i tabulati ed i programmi attivati dai lettori di badges (tesserine magnetiche) o da password, debbano – in linea di principio – escludere la facoltà aziendale di «occhiuta» individuazione dell’operatore che effettua le transazioni routinarie (o gli accessi ad Internet) e limitarsi a rilevare, ad es., soltanto la di lui appartenenza al «gruppo» abilitato alle transazioni o agli accessi alla rete.

Per tale via realizzando un necessario stemperamento dell’altrimenti personalizzato controllo dell’attività del singolo operatore. Ciò normalmente avviene attraverso la sostituzione del codice individuale (nei badges abilitanti alle transazioni) con il codice di «gruppo» o di reparto (e per l’accesso ad Internet, consentendolo con la password «collettiva» o, meglio, senza password).

Per la cronaca, la soluzione del “codice di gruppo” – poi diffusasi – è stata convenuta originariamente  nell’Accordo Ibm Spa–Rsa  (risalente al 23 febbraio 1983), ove venne accordata esclusiva deroga a programmi e transazioni «concordemente» ritenute attinenti a dati particolarmente riservati o critici “per la tutela delle informazioni relative al personale o al patrimonio aziendale” (così, il citato Accordo Ibm–Rsa).

A conclusione  va precisato che secondo la Suprema corte – espressasi tramite Cassazione, 17 giugno 2000, n. 8250 e Cassazione, 23 febbraio 2010  n. 4375 – i dati registrati, i riscontri o fotogrammi acquisiti tramite installazioni illegittime sono inutilizzabili  processualmente ai fini di giustificare le sanzioni disciplinari irrogate da parte datoriale.

***

[1] Cfr. per la legittimità della rilevazione delle presenze e dei dati gestionali a mezzo tesserina magnetica o badge, Pret. Napoli, 15.3.1990, in Not. giurisp. lav. 1990, 226; in precedenza, nello stesso senso, Pret. Milano, 12.7.1988, in Or. giur. lav. 1988, 936.

[2]Cass., sez. lav., 6 marzo 1986, n. 1490, espressamente affermò che: «Il divieto posto dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori per il datore di lavoro di far uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza della attività dei lavoratori non è escluso né dalla circostanza che tali apparecchiature siano state solo installate ma non siano ancora funzionanti, né dall’eventuale preavviso dato ai lavoratori, i quali quindi siano avvertiti del controllo suddetto, né infine dal fatto che tale controllo sia destinato ad essere discontinuo perché esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente».

[3] Trib. Milano, 7.7.1977, in Or. giur. lav. 1977, 718.

[4] Cfr. App. Firenze, 14.2.1973, in Foro it. 1973, 1, 1565.

[5] Così, ex plurimis, Cass., 13.1.1984, n. 306, in Not. giurisp. lav. 1984, 127.

[6]Conf. Cass., sez. lav., 16 settembre 1997, n. 9211 secondo la quale: «L’installazione in azienda, da parte del datore di lavoro, di impianti audiovisivi – che è assoggettata ai limiti previsti dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori anche se da essi derivi solo una mera potenzialità di controllo a distanza sull’attività lavorativa e anche se i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di tali impianti – deve essere preceduta dall’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, non essendo sufficiente, in ragione della tassatività dei soggetti indicati dal secondo comma dell’articolo 4 cit., a legittimare tale installazione un’intesa raggiunta dal datore di lavoro con gli organi di coordinamento delle R.S.A. di varie unità produttive...».

[7] Ora le sanzioni – in precedenza contemplate nell’articolo 38 Stat. lav. – sono state ricondotte dall’articolo 171 del codice privacy (d.lgs. n. 196/2003) in questo ambito e quindi espunte dall’articolo 38 per effetto dell’articolo 179 di detto codice.

[8] Pret. Milano, 12.5.1972, Cgil e Uil c. Azienda di Stato per i servizi telefonici, in Or. giur. lav. 1972, 260 e in Foro it. 1972, I, 2710.

[9] Conforme: Pret. pen. Milano 9.11.1984, in Riv. giur. lav., 1984, II, 255, a proposito del centralino a calcolatore Ibm 1750 della Soc. Foster Wheeler. Per la necessità di subordinarne l’installazione all’accordo con le RSA (o, in mancanza di intesa, alle prescrizioni dell’Ispettorato del lavoro) si è espressa, in un caso analogo, Pret. Roma, 13.1.1988, in Riv. it. dir. lav. 1988, I, 682. Conforme: Pret. Milano, 4.10.1988, in Not. giurisp. lav. 1989, 436. Per un caso recente di provvedimenti disciplinari adottati dall’Aci Global nei confronti di addetti al centralino telefonico (che all’insaputa dei lavoratori registrava numeri chiamanti e chiamati, contenuto delle conversazioni anche private, ecc.) annullati dal Trib. di Milano, con decisione del 12.4.2005, perché raccolti in violazione dell’articolo 4 Stat. lav., si rinvia alla lettura del caso specifico nel link http://www.rassegna it/2005/dirittolavoro/articoli/05.htm.

[10] In senso conforme si è espressa Pret. Roma, 22.12.1988 (in Foro it. 1988, I, 1309) a proposito di un marchingegno con effetti analoghi – l’apparecchio elettronico Imi (inviatore messaggi d’identità) – che consente all’utente, telefonando, di conoscere la sigla dell’operatore che gli risponderà. Il magistrato ha, pertanto, ricondotto la fattispecie sotto l’ipotesi del comma 2 dell’articolo 4 ed ha preteso l’accordo con le RSA per legittimarne l’uso e, in mancanza, le prescrizioni disattivanti e garantistiche dell’Ispettorato del lavoro.

[11] Pret. Pen. Roma, 3.10.1973, in Or. giur. lav. 1973, 753, confermata da Trib. pen. Roma, 10.7.1974, ivi 1975, 289.

[12] La risoluzione trovasi in Or. giur. lav. 1972, 28, adesiva all’orientamento già in precedenza espresso – nei confronti della ditta Sitia-Yomo Srl – dall’Ispettorato del lavoro di Milano in data 26.7.1971, ivi 1971, 623. Cfr. per i cd. «congegni Kienzle», Pret. Milano, 4.10.198, in Not. giurisp. lav. 1989, 436.