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Giudizio amministrativo: azione di annullamento, interesse a ricorrere ed effetti delle sopravvenienze

Il Codice del processo amministrativo offre, tanto al civis che chiede giustizia quanto al Giudice chiamato ad esercitarla, un apparato di norme che disciplinano, in modo puntuale, i presupposti operativi e le modalità di somministrazione di detta tutela.

Una tutela che si distingue per la sua modulabilità. Essa può, infatti, assumere, in prima battuta, vesti demolitorie (articolo 29 c.p.a., già richiamato dall’art. 21-octies, Legge n. 241 del 1990) per poi, eventualmente, arricchirsi – anche in via autonoma – dei caratteri tipicamente di condanna (art. 30 c.p.a.); ferma restando, l’esperibilità dei diversi, ma ugualmente satisfattori, rimedi avverso il silenzio – inadempimento e dell’actio nullitatis (art. 31, c.p.a.).

In quest’ottica, l’azione di annullamento rappresenta il fulcro della giustiziabilità dei diritti ed interessi legittimi del cittadino. Questo perché permette al Giudice – e di rimando al civis ricorrente – di insinuarsi nelle pieghe dell’esercizio del potere pubblico e di sindacarne la legittimità.
Tuttavia, a tale malleabilità si accompagna la rigida osservanza di canoni che il Legislatore ha richiesto ai fini dell’ammissibilità dell’azione in discorso; canoni suscettibili di essere suddivisi in due micro-categorie. Quella, da un lato, delle condizioni operative dell’azione di annullamento, strettamente correlate alla “persona” del civis e mutuate dalla disciplina processual-civilistica (articoli 99 e 100 c.p.c.) e quella, dall’altro, dei presupposti integrativo – sostanziali di detta azione, intimamente connessi alla pre-esistenza di vizi di legittimità che afferiscano il provvedimento da demolire.

Comune denominatore di entrambe le micro-categorie – ed invero tipico delle dialettiche processuali tout court – è l’elemento cronologico: ovverosia, l’osservanza del termine, in questo caso decadenziale, di sessanta giorni dall’adozione del provvedimento lesivo, entro cui l’aspirante ricorrente dovrà promuovere l’impugnazione.

Con specifico riguardo ai presupposti integrativo – sostanziali dell’azione di cui all’art. 29, il Codice del processo li riconosce nella violazione di legge, nell’incompetenza relativa e nell’eccesso di potere.

La tassatività che connota, a livello redazionale, il dato normativo ben si spiega tenendo conto degli effetti che l’eventuale sentenza di accoglimento determina sulla realtà giuridico – fenomenica nella quale agisce. Detta sentenza, infatti, a differenza della pronuncia dichiarativa con cui il Giudice si “limita” a rilevare la sussistenza di quei presupposti che inficiano, ab origine, la validità del provvedimento oggetto del vaglio, s’insinua nella realtà su cui il provvedimento insiste, innovandola o apportandovi modifiche di rilievo. Da qui, la sua nomenclatura alla stregua di sentenza costitutiva.

Il carattere innovativo della pronuncia demolitoria può, invero, cogliersi più agevolmente guardando agli effetti spiegati dalla sentenza di annullamento. Infatti, la sua retroattività, ad avviso di recente giurisprudenza, non costituisce più un dogma, bensì un’eventualità, da valutarsi in base alla richiesta specificamente avanzata dal ricorrente.

Pertanto, alla tipicità e tassatività che, intrinsecamente, connotano l’azione ex art. 29 c.p.a., il Legislatore del Codice – in via implicita – ha affiancato la nozione di atipicità delle azioni esperibili nel processo amministrativo. Nozione che la giurisprudenza ha arricchito qualificando altresì come (tendenzialmente) atipici, o quantomeno svincolati dall’osservanza di canoni rigidi e predeterminati, i contenuti e gli effetti prodotti da talune tipologie di pronunce (cautelari e di annullamento, in prima battuta).

Una ricaduta normativa di quest’assunto, peraltro enfatizzata anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2011, è ravvisabile nel comma 3 dell’art. 34, c.p.a..

A ben vedere, infatti, la fattispecie tiene conto della incompletezza di un sistema processuale fondato sulla centralità del provvedimento amministrativo al punto che, allontanandosi dai previgenti modelli (Legge T.A.R., in primis, ove di “accertamento” era dato discorrere solo in materia istruttoria – cautelare e con riguardo al rito del silenzio – artt. 21, co. 10, 21-bis e 23-bis), si fa carico della eventualità per la quale “l’annullamento del provvedimento impugnato non risulti più utile al ricorrente”, inducendo pertanto il Giudice al solo accertamento della illegittimità dell’atto impugnato ove sussista l’interesse a fini risarcitori.

Dalla esegesi di questa norma discendono una serie di considerazioni.

Una prima riflessione, di natura preliminare, evidenzia come la cosiddetta caduta del dogma della “pregiudiziale amministrativa” non abbia riguardato solo il binomio provvedimento – domanda risarcitoria, ma abbia altresì influito sul nesso di presupposizione che legava l’accertamento della illegittimità dell’atto alla sua caducazione. La prova della frattura di detto legame è enucleata nel ricordato art. 34, co. 3, c.p.a..

Procedendo ad una più approfondita analisi, la disposizione pone l’accento, nella sua chiosa finale, all’interesse del ricorrente. Detto riferimento, se da un lato attesta il definitivo allinearsi del giudizio amministrativo ai parametri del giudizio sul rapporto, dall’altro ha comportato il (giustificato) sacrificio della centralità del provvedimento, siglando la chiusura dell’era del giudizio sull’atto.

In tal senso, è agevole registrare un mutamento di sostanza nella stessa concezione dell’interesse a ricorrere che, alla stregua della visionata ottica dell’art. 34, co. 3, c.p.a., si tramuta in interesse del ricorrente.

Dal punto di vista processuale, infatti, la legittimazione ad agire e l’interesse a ricorrere costituiscono condizioni operative la cui sussistenza è indefettibile ai fini di una corretta ed ammissibile incardinazione del ricorso giurisdizionale.

In particolare, la nozione di interesse a ricorrere può ricavarsi per relationem da quella di cui all’art. 100 c.p.c. . Dottrina e giurisprudenza, infatti, prendendo atto della mancanza, nell’ordinamento processuale amministrativo, di una fattispecie che ne formalizzi la nozione, ravvisano detta ancora normativa nelle disposizioni del codice di procedura civile, alla luce, altresì, del rinvio esterno che l’art. 39 c.p.a. compie nei confronti delle stesse.

Nel processo amministrativo, l’interesse che chi “propone l’azione è necessario abbia” gode di connotati che, invero, dovrebbero già caratterizzare la situazione giuridico – soggettiva, qualificata, di cui questi è titolare: uni-direzionalità, attualità e concretezza.
Tali connotati, più nello specifico, stabiliscono un ponte di collegamento tra il provvedimento (illegittimo) adottato dalla P.A. e la sfera giuridica sulla quale esso insiste, “avvalorano” la lesione patita (illegittimamente) dal civis e gli rendono così – quantomeno – accessibili i canali giudiziari per la tutela della sua posizione.

Sulla scorta di dette precisazioni, l’interesse a ricorrere è, pertanto, diretto (o unidirezionale) ove sia individualmente riferibile al soggetto che patisce la lesione.

L’interesse è attuale qualora miri, attraverso il mezzo impugnatorio, alla rimozione di un vulnus esistente e persistente nella sfera giuridica di afferenza del cittadino.

Infine, è concreto ove, all’attualità cronologica della lesione, si affianchi la sua effettiva percepibilità. Quest’ultima si manifesta con la perpetrazione di un danno che, da un lato, rimarca la non conformità dell’atto rispetto agli schemi legali di riferimento e, dall’altro, costituisce il presupposto perché l’atto pregiudizievole venga cancellato dalla realtà giuridica, in uno con la riparazione risarcitoria spettante al ricorrente (e con la percezione, dunque, di un’utilità a suo vantaggio che “compensi” il danno subito).

È evidente, pertanto, come la nozione di interesse a ricorrere, proprio alla luce della rimeditata visione rapportuale del giudizio amministrativo e in virtù del collegamento che spiega nei confronti della sottostante situazione giuridico – soggettiva, più che incarnare una condizione dell’azione, s’insinua nella fisiologia della stessa.

L’interesse a ricorrere, cioè, si modella sulle specifiche istanze di tutela del ricorrente, le personalizza e contribuisce, così, a creare un apparato giurisdizionale tout court soggettivo.

Del resto, se la “personalizzazione” dell’interesse a ricorrere è, in nuce, formalizzata nella lettera dell’art. 34, co. III, c.p.a., per saggiarne le ricadute applicative è necessario svolgere una indagine “a monte”: tesa, cioè, ad individuare le cause che siano in grado di attivare il citato disposto normativo e le conseguenze che la sua operatività può determinare sul ricorso pendente.

Il tema delle sopravvenienze è quello più idoneo a fornire le giuste risposte a questa ricerca.

È doveroso, tuttavia, procedere ad una distinzione qualitativa tra sopravvenienze, potendosi queste suddividere in sopravvenienze interne ed esterne.

Le prime, sebbene causate da fatti esteriori – e, cioè, non verificatisi per mano del ricorrente – incidono comunque sul suo interesse così da poter rendere improcedibile l’azione intentata a mezzo del ricorso.

Le seconde, invece, possono essere provocate dal Legislatore (è il cosiddetto jus superveniens) ovvero possono anche nascere a seguito del profilarsi di un “nuovo” – e, dunque, sopravvenuto – interesse pubblico che la P.A. è tenuta a soddisfare.
Con riguardo proprio a quest’ultima tipologia di sopravvenienze, si pensi al caso di cui all’art. 21-quinquies, Legge n. 241 del 1990. L’istituto della revoca del provvedimento amministrativo costituisce, infatti, una formalizzazione espressa delle conseguenze che “fatti” – in un’accezione estensiva – sopravvenuti possono causare sul procedimento in itinere.

Più nello specifico, le sopravvenienze dell’art. 21-quinquies ineriscono all’interesse pubblico sotteso all’avvio del procedimento (“per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato”, statuisce il dato normativo); interesse che rappresenta il punto di partenza e quello di approdo per l’esercizio del potere pubblico di cui la P.A. è investita per legge.

Ciò significa che ove sopraggiunga un (nuovo) interesse pubblico da curare, nonché preponderante rispetto a quello in precedenza soddisfatto col provvedimento emanato, la P.A., sulla scorta della propria investitura legislativa, si vedrà costretta ad avviare un nuovo procedimento di secondo grado teso alla rimozione, con efficacia ex nunc, dell’atto amministrativo già adottato.
Sul punto, la casistica più eloquente è quella relativa alle procedure ad evidenza pubblica per l’affidamento di appalti, servizi, concessioni, lavori e forniture (di cui al Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163 del 2006), fermo restando che le medesime considerazioni possono spendersi con riguardo altresì alla materia dei concorsi pubblici.

Si pensi, in particolare, all’eventualità in cui il concorrente non aggiudicatario impugni, ex art. 29 c.p.a., il provvedimento di aggiudicazione perché ritenuto illegittimo e, pertanto, lesivo della sua posizione giuridico – soggettiva (sub specie di interesse legittimo pretensivo).
E’ ivi evidente come l’azione demolitoria spiccata dal civis miri alla rimozione dell’atto pregiudizievole e al riesercizio, ove possibile, del potere pubblico attraverso l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo non viziato.

Laddove la P.A., pertanto, pendente il ricorso, revochi il provvedimento (già) impugnato dal non aggiudicatario, viene a configurarsi un quadro peculiare, caratterizzato dalla eliminazione in autotutela dell’atto di cui il ricorrente si doleva in sede giurisdizionale e il cui annullamento sarebbe conseguito all’eventuale accoglimento del ricorso.

In un caso del genere, dunque, l’intervento in autotutela della P.A. apre ad un duplice scenario.

Da un lato, esso è giustificato dalla ricorrenza delle situazioni di cui all’art. 21-quinquies (il sopravvenuto interesse pubblico). Tuttavia, il perseguimento del nuovo interesse obbliga l’Amministrazione – ferme restando le residuali ipotesi di responsabilità pre-contrattuale – alla corresponsione di un indennizzo nei confronti di chi, destinatario diretto dell’atto revocato (tendenzialmente: l’aggiudicatario), abbia riposto ragionevole affidamento sulla sua stabilità temporale ed abbia, quindi, a seguito della sua rimozione, subito un danno. Nel caso delle procedure ad evidenza pubblica, poi, l’indennizzo sarà parametrato attorno ai valori di cui al co. 1-bis dell’art. 21-quinquies, alla luce dell’incidenza che la revoca spiega sui futuri rapporti negoziali tra P.A. ed (ex) aggiudicatario.

Da altro lato, l’intervento in autotutela della P.A. determina, per il ricorrente non aggiudicatario, un mutamento sostanziale delle condizioni operative sottese al proprio ricorso.

La revoca dell’aggiudicazione, infatti, incide ab externo sull’interesse a ricorrere che deve animare il civis al momento del deposito del ricorso. Interesse che si traduce, finché l’atto insiste sulla realtà giuridica di riferimento, nella rimozione dello stesso poiché provoca una lesione, attuale e concreta, al ricorrente.

È evidente, pertanto, come la revoca del provvedimento possa contribuire, se non ad eliminarla, quantomeno ad alleviare quella lesione, impedendone la perduranza e, dunque, l’ulteriore produzione (com’è dato evincere dalla lettura dell’art. 21-quinquies) di effetti pregiudizievoli.
Dal punto di vista squisitamente processuale, ciò può comportare due diverse conseguenze.

In prima battuta, il ritiro in autotutela del provvedimento di aggiudicazione determina, l’improcedibilità dell’azione di annullamento per (sopravvenuto) difetto di interesse.

Del resto, a venir meno, a seguito della revoca, è l’oggetto dell’azione ex art. 29 c.p.a. Pertanto, venuto meno quest’ultimo, viene conseguentemente meno anche la fonte della lesione che il ricorrente aveva interesse a rimuovere.

In seconda battuta, l’autonomia che ormai caratterizza l’azione risarcitoria rispetto all’azione di annullamento ha fatto sì che, ferma restando l’osservanza del termine di decadenza di centoventi giorni di cui all’art. 30, co. II, c.p.a., a prescindere dalla (previa) impugnazione dell’atto lesivo, il ricorrente possa comunque avanzare, dinnanzi al g.a., domanda di risarcimento per lesione della sua posizione giuridica.

Come visto, infatti, nel caso della revoca dell’aggiudicazione, il ritiro in autotutela del provvedimento, stante la tipica irretroattività del medesimo, impedisce all’atto lesivo di produrre effetti pregiudizievoli pro futuro senza travolgere, tuttavia, quelli già prodotti a seguito dell’adozione dell’atto.

È a corollario di tale irretroattività che si pone il rimedio dell’indennizzo (caratteristico, perciò, della revoca e sconosciuto all’ipotesi dell’annullamento d’ufficio), nonché quello residuale della responsabilità risarcitoria della P.A. ex art. 1337 c.c. ovvero ex art. 2043 c.c., a seconda di chi sia il soggetto che richiede tutela: rispettivamente, aggiudicatario o concorrente non aggiudicatario.

È chiaro, pertanto, che il non aggiudicatario, nel rispetto dei termini decadenziali suindicati e nella persistenza dell’interesse a vedersi riparata, extracontrattualmente, la lesione subita a seguito dell’adozione dell’atto poi revocato, non dovrà subire gli effetti della dichiarazione di improcedibilità dell’azione promossa, ma potrà godere della prosecuzione del giudizio ex art. 34, co. III, c.p.a. .
Altro tipo di sopravvenienze, idonee ad alterare ab externo l’interesse del ricorrente e a comportare l’improcedibilità dell’azione intentata, è quella nota come jus superveniens.

Le c.d. sopravvenienze di tipo normativo, infatti, consistono in innovazioni o modificazioni legislative che afferiscono alla base giuridica di riferimento del potere pubblico, così causando la (sopravvenuta) nullità o illegittimità del provvedimento amministrativo adottato.
Naturalmente, le sopravvenute alterazioni normative, qualora il provvedimento sul quale insistono sia già oggetto di ricorso, non influiranno sull’andamento del relativo processo, operando in questi casi la regola del tempus regit actum di cui all’art. 11, co. I, delle Preleggi. Ciò comporta, pertanto, che, fatta eccezione per il caso in cui una norma eccezionale imponga l’applicazione della nuova disciplina legislativa anche ai procedimenti in corso, nei confronti di questi ultimi continuerà ad operare la normativa previgente.

Sia il Consiglio di Stato che l’Adunanza Plenaria (nella pronuncia n. 9 del 2011) hanno avuto modo, in un recente passato, di pronunciarsi su questioni affini.

L’Adunanza, in particolare, ha valutato le ripercussioni che le sopravvenienze normative spiegano sul giudicato amministrativo e sul ricorso in ottemperanza eventualmente promosso dalla parte vittoriosa nel pregresso processo amministrativo.

Ai sensi del combinato disposto degli articoli 112 c.p.a., 21-septies, lg. n. 241/1990 e 114, co. IV, lett. b) c.p.a., l’azione di ottemperanza è volta a “conseguire l’attuazione (anche) delle sentenze amministrative passate in giudicato” – e, dunque, inoppugnabili -, con la conseguenza che i provvedimenti che la P.A. soccombente abbia adottato in contrasto con le statuizioni del g.a. debbano essere dichiarati nulli.
Nel rito dell’ottemperanza, infatti, il Giudice, si inserisce nelle sacche del potere riservato alla P.A., riconducendo il suo operato nei binari della legalità. E’ proprio sulla scorta di questa doppia natura, di legittimità e di merito, che il ruolo del Giudice può rivestire, che il rito dell’ottemperanza rientra, ai sensi dell’art. 134 c.p.a., tra i circoscritti casi in cui l’Autorità giudiziaria esercita una giurisdizione estesa al merito delle controversie sottoposte alla propria cognizione.

Laddove, tuttavia, nelle more del giudizio di ottemperanza intervenga una modifica normativa (si pensi alle c.d. leggi – provvedimento: tipico è il caso dei finanziamenti una tantum a favore delle zone colpite da disastri naturali) che riporti essa stessa l’atto oggetto del ricorso nei canali della legalità, l’azione del ricorrente dovrà dichiararsi improcedibile per (sopravvenuta) carenza d’interesse.

Infatti, ad avviso dell’Adunanza Plenaria e, invero, anche della Consulta, le leggi – provvedimento si caratterizzano per il proprio contenuto particolare e concreto e per l’incidenza, eccezionale, che spiegano su un numero limitato e determinato di destinatari. Esse, dunque, consentono di stabilizzare gli effetti di un certo atto depurando, in via normativa, il vizio di legittimità riscontrato nell’ambito del processo ormai definito.
Da ciò consegue che l’intervento correttivo del Giudice in sede di ottemperanza si rivela superfluo: la legge sopravvenuta ha, infatti, il pregio e l’effetto di ri-disciplinare il provvedimento e l’attività amministrativa già oggetto di sindacato giurisdizionale, con l’ulteriore conseguenza di scollegarlo dalla vicenda giudiziario – esecutiva di cui è oggetto.

Le conseguenze processuali sono le medesime – improcedibilità dell’azione da un lato ed improcedibilità, se non sussiste l’interesse ai fini risarcitori, dall’altro -, ma a differenza del caso della revoca dell’aggiudicazione, lo jus superveniens influisce su tutt’altra fase processuale. Castrando non solo – e pur sempre ab externo – l’interesse del ricorrente che si vede dichiarata improcedibile la propria azione, ma anche l’operato del Giudice.

Se, infatti, suo compito è quello di vagliare la legittimità dell’atto adottato (nel ricorso ex art. 29 c.p.a.), eventualmente caducandolo, e di sanzionare la P.A. che ponga in essere atti in contrasto con quel pregresso giudicato, nel caso delle sopravvenienze normative, egli vedrà prosciugata quest’ultima sacca di potere, non potendosi spingere sino al vaglio del merito dell’attività pubblica elusiva o violativa, in quanto attività ormai conforme alla legge.

Per dovere di completezza, è bene porre l’attenzione, poi, su un caso del tutto speculare rispetto a quelli finora richiamati: quello delle sopravvenienze qualificabili come “interne”.

A titolo esemplificativo, può ricordarsi la vicenda giudiziaria che ha coinvolto il piano faunistico – venatorio della Regione Puglia.
L’associazione ambientalista WWF si doleva, davanti al g.a., della illegittimità del piano in quanto carente di un adempimento istruttorio, la Valutazione ambientale strategica (V.A.S.), necessario in base a disposizioni comunitarie ed interne. Il suo espletamento avrebbe, infatti, permesso a particolari specie animali (gli uccelli ungulati) di godere di una più appropriata tutela.

Sebbene le conclusioni cui pervenne il Consiglio di Stato nella definizione della controversia, diano la stura per altro tipo di considerazioni – inerenti all’ammissibilità di un annullamento a geometrie variabili -, le stesse si rivelano altresì utili per comprendere appieno la portata dell’art. 34, co. III (e, conseguentemente, del co. V), c.p.a. ed il suo stretto legame con la condizione operativa dell’interesse a ricorrere.
Il Consiglio di Stato, infatti, all’esito del giudizio, statuì che la Regione Puglia, entro un dato termine dalla pubblicazione della sentenza, dovesse avviare un nuovo procedimento amministrativo volto all’adozione di un piano stavolta completo di V.A.S..

Nelle more della riedizione del potere, il “vecchio” piano faunistico avrebbe continuato ugualmente a produrre i suoi effetti, per poi essere sostituito dal nuovo. Il tutto, affinché si evitasse di lasciare completamente sprovviste di salvaguardia le aree territoriali ricomprese nel piano.
Per quanto il WWF, soprattutto con riferimento al giudizio di primo grado, tendesse alla caducazione del piano faunistico, dacché illegittimo per violazione di legge, la valutazione che, in secondo grado, il Consiglio di Stato ha compiuto sulla richiesta della ricorrente è modellata sull’effettivo interesse che questa nutriva nei confronti della demolizione del piano.

In base agli assunti del Consiglio di Stato, infatti, l’eventuale accoglimento della domanda demolitoria, passa a fortiori dall’accertamento della legittimità del provvedimento oggetto del ricorso. Questo significa, allora, che la sentenza costitutiva che annulli l’atto consta di per sé, necessariamente, di un momento “accertativo”, logicamente presupposto rispetto a quello caducatorio, ed altresì svincolato da quest’ultimo.
Inoltre, a ben guardare, l’indagine del Giudice può addirittura arrestarsi alla valutazione di quel momento accertativo qualora egli riscontri che il prosieguo sino all’annullamento dell’atto non porti effettive utilità al ricorrente, ma possa, anzi, tradursi nella perpetrazione di ulteriori pregiudizi al civis.
Il che vuol dire, allora, che il g.a. non sposta mai la propria attenzione dall’interesse che ha mosso il ricorrente ad intentare il giudizio. Egli somministra la tutela che è chiamato a rendere sulla scorta di quell’interesse variando, se del caso, il tipo di pronuncia che emanerà (meramente dichiarativa o effettivamente costitutiva), senza tuttavia violare il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 99 c.p.c.); principio incompleto se non letto in combinato col successivo articolo 100 c.p.c. (art. 99 c.p.c.: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda”, ma – art. 100 c.p.c. – : “Per proporre domanda è necessario avervi interesse”).

Il Giudice, pertanto, come è vincolato alla delibazione di sopravvenienze normative che possano interferire sull’avviato giudizio di ottemperanza, allo stesso modo è vincolato alla delibazione (della persistenza) dell’interesse a ricorrere.

La valutazione di quest’ultimo, inoltre, è più strenua (ma non più castrante) rispetto alla valutazione delle sopravvenienze normative. L’interesse a ricorrere rappresenta, infatti, una sorta di costante di cui l’Autorità giudiziaria deve sempre tenere conto nell’espletamento del proprio ruolo istituzionale e nell’esercizio del correlato potere, con la conseguenza che quest’ultimo dovrà conformarsi a quell’interesse.

Per tali ragioni, tanto le sopravvenienze normative quanto l’analisi dell’interesse a ricorrere, incidono direttamente sull’operato del Giudice. Tuttavia, la seconda lo limita solamente, per adeguarlo alle reali istanze di tutela del ricorrente, secondo quanto disposto dall’art. 1 c.p.a. e dall’art. 264 del Trattato UE.

Il Giudice, insomma, trasla dal rigore del tempus regit actum, che cristallizza l’azione giurisdizionale intentata (art. 5 c.p.c.) e la àncora, in via definitiva, alla legge vigente al momento della sua promozione, alla duttilità del tempus regit actionem, correlando la domanda all’interesse che il ricorrente nutriva al tempo del suo deposito.

Naturalmente, se il Giudice gode di una certa “discrezionalità” nella valutazione dell’interesse a ricorrere, essa dovrà comunque combinarsi con i paletti normativi imposti dall’art. 34, c.p.a., trasversalmente già analizzati con riguardo alle implicazioni processuali del ritiro in autotutela dell’aggiudicazione (comma III), ma che necessitano, qui, di ulteriori approfondimenti (comma V).

Nel corso del giudizio, infatti, può essere la stessa P.A. ad adottare un provvedimento integralmente satisfattivo della pretesa del ricorrente. Si pensi al (potenziale) non aggiudicatario di un appalto che impugni l’atto endoprocedimentale di aggiudicazione provvisoria.
Laddove la P.A., in sede di aggiudicazione definitiva, corrisponda al civis il bene della vita che l’aggiudicazione provvisoria, in via interinale, gli aveva negato, verrà meno in capo al ricorrente l’interesse a proseguire il giudizio.

La sostituzione dell’atto provvisorio con quello definitivo di aggiudicazione dell’appalto, delinea, infatti, lo scenario prescritto dall’art. 34, co. V, c.p.a. : la pretesa del ricorrente è, col provvedimento finale, integralmente soddisfatta. Il Giudice, pertanto, data l’assenza di altri e speculari interessi e preso atto, altresì, della mera facoltà che ha il ricorrente d’impugnare l’aggiudicazione provvisoria, è tenuto a dichiarare cessata la materia del contendere e a liquidare le spese processuali sino a quel momento patite.

Il tenore letterale delle disposizioni di cui ai commi III e V dell’art. 34 c.p.a. (rispettivamente: “il giudice accerta l’illegittimità” e “dichiara cessata la materia del contendere”) sottolineano l’automatismo con cui il g.a. debba procedere a dette dichiarazioni laddove ne ricorrano i presupposti operativi.

La loro officiosità, evidentemente calibrata sulla fondamentale – come visto – delibazione dell’interesse del ricorrente attesta, ancora una volta, come il giudizio sia un gioco di parti, e non di atti.

Invero, questa concezione era timidamente veicolata già nella novella del 2005 che ha riformato la legge sul procedimento amministrativo e che ha introdotto, nel corpo della 241, l’art. 21-octies ed il fenomeno para-procedimentale della dequotazione dei vizi formali.
La natura vincolata del provvedimento, in uno con il contenuto affatto diverso che il provvedimento avrebbe avuto ove epurato dei citati vizi, metteva al centro della dialettica processuale le utilità traibili dal ricorrente. Con la conseguenza della non annullabilità dell’atto qualora queste non potessero essere conseguite.

È evidente, pertanto, come l’interesse del ricorrente alla somministrazione di una tutela effettiva è stato, da sempre, elemento centrale nelle dinamiche procedimentali tra P.A. e civis ed in quelle processuali tra P.A., ricorrente e Giudice.

Il gravoso onere probatorio incombente sull’Amministrazione ai sensi dell’art. 21-octies, ultima parte, lg. 241 del 1990, insieme con il potere officioso/dovere del Giudice di dichiarare improcedibile l’azione o cessata la materia del contendere, si atteggiano a canoni volti a regolamentare l’andamento dell’iter processuale, conferendo la giusta esaltazione alla richiesta del ricorrente e al contenuto della sentenza, foggiato su quella richiesta.

In quest’ottica, il brocardo tempus regit actum si arricchisce di una ulteriore evoluzione, affiancando, alla regola del tempus regit actionem, quella del tempus regit processum. Secondo cui la richiesta del ricorrente, le eccezioni e domande riconvenzionali della parte resistente, nonché l’operato del Giudice devono tutti ispirarsi alla soddisfazione degli interessi (pubblici – privati) posti alla base, secondo una gerarchia dei medesimi che tenga altresì conto del momento storico (tempus) in cui essi si svolgono, delle dinamiche che la loro cura ha innescato (il legittimo affidamento) e delle regole processuali (processum) che la loro tutela giurisdizionale impone di osservare (improcedibilità, dichiarazione di cessata materia del contendere, eventuale accoglimento dell’azione demolitoria).

Il Codice del processo amministrativo offre, tanto al civis che chiede giustizia quanto al Giudice chiamato ad esercitarla, un apparato di norme che disciplinano, in modo puntuale, i presupposti operativi e le modalità di somministrazione di detta tutela.

Una tutela che si distingue per la sua modulabilità. Essa può, infatti, assumere, in prima battuta, vesti demolitorie (articolo 29 c.p.a., già richiamato dall’art. 21-octies, Legge n. 241 del 1990) per poi, eventualmente, arricchirsi – anche in via autonoma – dei caratteri tipicamente di condanna (art. 30 c.p.a.); ferma restando, l’esperibilità dei diversi, ma ugualmente satisfattori, rimedi avverso il silenzio – inadempimento e dell’actio nullitatis (art. 31, c.p.a.).

In quest’ottica, l’azione di annullamento rappresenta il fulcro della giustiziabilità dei diritti ed interessi legittimi del cittadino. Questo perché permette al Giudice – e di rimando al civis ricorrente – di insinuarsi nelle pieghe dell’esercizio del potere pubblico e di sindacarne la legittimità.
Tuttavia, a tale malleabilità si accompagna la rigida osservanza di canoni che il Legislatore ha richiesto ai fini dell’ammissibilità dell’azione in discorso; canoni suscettibili di essere suddivisi in due micro-categorie. Quella, da un lato, delle condizioni operative dell’azione di annullamento, strettamente correlate alla “persona” del civis e mutuate dalla disciplina processual-civilistica (articoli 99 e 100 c.p.c.) e quella, dall’altro, dei presupposti integrativo – sostanziali di detta azione, intimamente connessi alla pre-esistenza di vizi di legittimità che afferiscano il provvedimento da demolire.

Comune denominatore di entrambe le micro-categorie – ed invero tipico delle dialettiche processuali tout court – è l’elemento cronologico: ovverosia, l’osservanza del termine, in questo caso decadenziale, di sessanta giorni dall’adozione del provvedimento lesivo, entro cui l’aspirante ricorrente dovrà promuovere l’impugnazione.

Con specifico riguardo ai presupposti integrativo – sostanziali dell’azione di cui all’art. 29, il Codice del processo li riconosce nella violazione di legge, nell’incompetenza relativa e nell’eccesso di potere.

La tassatività che connota, a livello redazionale, il dato normativo ben si spiega tenendo conto degli effetti che l’eventuale sentenza di accoglimento determina sulla realtà giuridico – fenomenica nella quale agisce. Detta sentenza, infatti, a differenza della pronuncia dichiarativa con cui il Giudice si “limita” a rilevare la sussistenza di quei presupposti che inficiano, ab origine, la validità del provvedimento oggetto del vaglio, s’insinua nella realtà su cui il provvedimento insiste, innovandola o apportandovi modifiche di rilievo. Da qui, la sua nomenclatura alla stregua di sentenza costitutiva.

Il carattere innovativo della pronuncia demolitoria può, invero, cogliersi più agevolmente guardando agli effetti spiegati dalla sentenza di annullamento. Infatti, la sua retroattività, ad avviso di recente giurisprudenza, non costituisce più un dogma, bensì un’eventualità, da valutarsi in base alla richiesta specificamente avanzata dal ricorrente.

Pertanto, alla tipicità e tassatività che, intrinsecamente, connotano l’azione ex art. 29 c.p.a., il Legislatore del Codice – in via implicita – ha affiancato la nozione di atipicità delle azioni esperibili nel processo amministrativo. Nozione che la giurisprudenza ha arricchito qualificando altresì come (tendenzialmente) atipici, o quantomeno svincolati dall’osservanza di canoni rigidi e predeterminati, i contenuti e gli effetti prodotti da talune tipologie di pronunce (cautelari e di annullamento, in prima battuta).

Una ricaduta normativa di quest’assunto, peraltro enfatizzata anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2011, è ravvisabile nel comma 3 dell’art. 34, c.p.a..

A ben vedere, infatti, la fattispecie tiene conto della incompletezza di un sistema processuale fondato sulla centralità del provvedimento amministrativo al punto che, allontanandosi dai previgenti modelli (Legge T.A.R., in primis, ove di “accertamento” era dato discorrere solo in materia istruttoria – cautelare e con riguardo al rito del silenzio – artt. 21, co. 10, 21-bis e 23-bis), si fa carico della eventualità per la quale “l’annullamento del provvedimento impugnato non risulti più utile al ricorrente”, inducendo pertanto il Giudice al solo accertamento della illegittimità dell’atto impugnato ove sussista l’interesse a fini risarcitori.

Dalla esegesi di questa norma discendono una serie di considerazioni.

Una prima riflessione, di natura preliminare, evidenzia come la cosiddetta caduta del dogma della “pregiudiziale amministrativa” non abbia riguardato solo il binomio provvedimento – domanda risarcitoria, ma abbia altresì influito sul nesso di presupposizione che legava l’accertamento della illegittimità dell’atto alla sua caducazione. La prova della frattura di detto legame è enucleata nel ricordato art. 34, co. 3, c.p.a..

Procedendo ad una più approfondita analisi, la disposizione pone l’accento, nella sua chiosa finale, all’interesse del ricorrente. Detto riferimento, se da un lato attesta il definitivo allinearsi del giudizio amministrativo ai parametri del giudizio sul rapporto, dall’altro ha comportato il (giustificato) sacrificio della centralità del provvedimento, siglando la chiusura dell’era del giudizio sull’atto.

In tal senso, è agevole registrare un mutamento di sostanza nella stessa concezione dell’interesse a ricorrere che, alla stregua della visionata ottica dell’art. 34, co. 3, c.p.a., si tramuta in interesse del ricorrente.

Dal punto di vista processuale, infatti, la legittimazione ad agire e l’interesse a ricorrere costituiscono condizioni operative la cui sussistenza è indefettibile ai fini di una corretta ed ammissibile incardinazione del ricorso giurisdizionale.

In particolare, la nozione di interesse a ricorrere può ricavarsi per relationem da quella di cui all’art. 100 c.p.c. . Dottrina e giurisprudenza, infatti, prendendo atto della mancanza, nell’ordinamento processuale amministrativo, di una fattispecie che ne formalizzi la nozione, ravvisano detta ancora normativa nelle disposizioni del codice di procedura civile, alla luce, altresì, del rinvio esterno che l’art. 39 c.p.a. compie nei confronti delle stesse.

Nel processo amministrativo, l’interesse che chi “propone l’azione è necessario abbia” gode di connotati che, invero, dovrebbero già caratterizzare la situazione giuridico – soggettiva, qualificata, di cui questi è titolare: uni-direzionalità, attualità e concretezza.
Tali connotati, più nello specifico, stabiliscono un ponte di collegamento tra il provvedimento (illegittimo) adottato dalla P.A. e la sfera giuridica sulla quale esso insiste, “avvalorano” la lesione patita (illegittimamente) dal civis e gli rendono così – quantomeno – accessibili i canali giudiziari per la tutela della sua posizione.

Sulla scorta di dette precisazioni, l’interesse a ricorrere è, pertanto, diretto (o unidirezionale) ove sia individualmente riferibile al soggetto che patisce la lesione.

L’interesse è attuale qualora miri, attraverso il mezzo impugnatorio, alla rimozione di un vulnus esistente e persistente nella sfera giuridica di afferenza del cittadino.

Infine, è concreto ove, all’attualità cronologica della lesione, si affianchi la sua effettiva percepibilità. Quest’ultima si manifesta con la perpetrazione di un danno che, da un lato, rimarca la non conformità dell’atto rispetto agli schemi legali di riferimento e, dall’altro, costituisce il presupposto perché l’atto pregiudizievole venga cancellato dalla realtà giuridica, in uno con la riparazione risarcitoria spettante al ricorrente (e con la percezione, dunque, di un’utilità a suo vantaggio che “compensi” il danno subito).

È evidente, pertanto, come la nozione di interesse a ricorrere, proprio alla luce della rimeditata visione rapportuale del giudizio amministrativo e in virtù del collegamento che spiega nei confronti della sottostante situazione giuridico – soggettiva, più che incarnare una condizione dell’azione, s’insinua nella fisiologia della stessa.

L’interesse a ricorrere, cioè, si modella sulle specifiche istanze di tutela del ricorrente, le personalizza e contribuisce, così, a creare un apparato giurisdizionale tout court soggettivo.

Del resto, se la “personalizzazione” dell’interesse a ricorrere è, in nuce, formalizzata nella lettera dell’art. 34, co. III, c.p.a., per saggiarne le ricadute applicative è necessario svolgere una indagine “a monte”: tesa, cioè, ad individuare le cause che siano in grado di attivare il citato disposto normativo e le conseguenze che la sua operatività può determinare sul ricorso pendente.

Il tema delle sopravvenienze è quello più idoneo a fornire le giuste risposte a questa ricerca.

È doveroso, tuttavia, procedere ad una distinzione qualitativa tra sopravvenienze, potendosi queste suddividere in sopravvenienze interne ed esterne.

Le prime, sebbene causate da fatti esteriori – e, cioè, non verificatisi per mano del ricorrente – incidono comunque sul suo interesse così da poter rendere improcedibile l’azione intentata a mezzo del ricorso.

Le seconde, invece, possono essere provocate dal Legislatore (è il cosiddetto jus superveniens) ovvero possono anche nascere a seguito del profilarsi di un “nuovo” – e, dunque, sopravvenuto – interesse pubblico che la P.A. è tenuta a soddisfare.
Con riguardo proprio a quest’ultima tipologia di sopravvenienze, si pensi al caso di cui all’art. 21-quinquies, Legge n. 241 del 1990. L’istituto della revoca del provvedimento amministrativo costituisce, infatti, una formalizzazione espressa delle conseguenze che “fatti” – in un’accezione estensiva – sopravvenuti possono causare sul procedimento in itinere.

Più nello specifico, le sopravvenienze dell’art. 21-quinquies ineriscono all’interesse pubblico sotteso all’avvio del procedimento (“per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato”, statuisce il dato normativo); interesse che rappresenta il punto di partenza e quello di approdo per l’esercizio del potere pubblico di cui la P.A. è investita per legge.

Ciò significa che ove sopraggiunga un (nuovo) interesse pubblico da curare, nonché preponderante rispetto a quello in precedenza soddisfatto col provvedimento emanato, la P.A., sulla scorta della propria investitura legislativa, si vedrà costretta ad avviare un nuovo procedimento di secondo grado teso alla rimozione, con efficacia ex nunc, dell’atto amministrativo già adottato.
Sul punto, la casistica più eloquente è quella relativa alle procedure ad evidenza pubblica per l’affidamento di appalti, servizi, concessioni, lavori e forniture (di cui al Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163 del 2006), fermo restando che le medesime considerazioni possono spendersi con riguardo altresì alla materia dei concorsi pubblici.

Si pensi, in particolare, all’eventualità in cui il concorrente non aggiudicatario impugni, ex art. 29 c.p.a., il provvedimento di aggiudicazione perché ritenuto illegittimo e, pertanto, lesivo della sua posizione giuridico – soggettiva (sub specie di interesse legittimo pretensivo).
E’ ivi evidente come l’azione demolitoria spiccata dal civis miri alla rimozione dell’atto pregiudizievole e al riesercizio, ove possibile, del potere pubblico attraverso l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo non viziato.

Laddove la P.A., pertanto, pendente il ricorso, revochi il provvedimento (già) impugnato dal non aggiudicatario, viene a configurarsi un quadro peculiare, caratterizzato dalla eliminazione in autotutela dell’atto di cui il ricorrente si doleva in sede giurisdizionale e il cui annullamento sarebbe conseguito all’eventuale accoglimento del ricorso.

In un caso del genere, dunque, l’intervento in autotutela della P.A. apre ad un duplice scenario.

Da un lato, esso è giustificato dalla ricorrenza delle situazioni di cui all’art. 21-quinquies (il sopravvenuto interesse pubblico). Tuttavia, il perseguimento del nuovo interesse obbliga l’Amministrazione – ferme restando le residuali ipotesi di responsabilità pre-contrattuale – alla corresponsione di un indennizzo nei confronti di chi, destinatario diretto dell’atto revocato (tendenzialmente: l’aggiudicatario), abbia riposto ragionevole affidamento sulla sua stabilità temporale ed abbia, quindi, a seguito della sua rimozione, subito un danno. Nel caso delle procedure ad evidenza pubblica, poi, l’indennizzo sarà parametrato attorno ai valori di cui al co. 1-bis dell’art. 21-quinquies, alla luce dell’incidenza che la revoca spiega sui futuri rapporti negoziali tra P.A. ed (ex) aggiudicatario.

Da altro lato, l’intervento in autotutela della P.A. determina, per il ricorrente non aggiudicatario, un mutamento sostanziale delle condizioni operative sottese al proprio ricorso.

La revoca dell’aggiudicazione, infatti, incide ab externo sull’interesse a ricorrere che deve animare il civis al momento del deposito del ricorso. Interesse che si traduce, finché l’atto insiste sulla realtà giuridica di riferimento, nella rimozione dello stesso poiché provoca una lesione, attuale e concreta, al ricorrente.

È evidente, pertanto, come la revoca del provvedimento possa contribuire, se non ad eliminarla, quantomeno ad alleviare quella lesione, impedendone la perduranza e, dunque, l’ulteriore produzione (com’è dato evincere dalla lettura dell’art. 21-quinquies) di effetti pregiudizievoli.
Dal punto di vista squisitamente processuale, ciò può comportare due diverse conseguenze.

In prima battuta, il ritiro in autotutela del provvedimento di aggiudicazione determina, l’improcedibilità dell’azione di annullamento per (sopravvenuto) difetto di interesse.

Del resto, a venir meno, a seguito della revoca, è l’oggetto dell’azione ex art. 29 c.p.a. Pertanto, venuto meno quest’ultimo, viene conseguentemente meno anche la fonte della lesione che il ricorrente aveva interesse a rimuovere.

In seconda battuta, l’autonomia che ormai caratterizza l’azione risarcitoria rispetto all’azione di annullamento ha fatto sì che, ferma restando l’osservanza del termine di decadenza di centoventi giorni di cui all’art. 30, co. II, c.p.a., a prescindere dalla (previa) impugnazione dell’atto lesivo, il ricorrente possa comunque avanzare, dinnanzi al g.a., domanda di risarcimento per lesione della sua posizione giuridica.

Come visto, infatti, nel caso della revoca dell’aggiudicazione, il ritiro in autotutela del provvedimento, stante la tipica irretroattività del medesimo, impedisce all’atto lesivo di produrre effetti pregiudizievoli pro futuro senza travolgere, tuttavia, quelli già prodotti a seguito dell’adozione dell’atto.

È a corollario di tale irretroattività che si pone il rimedio dell’indennizzo (caratteristico, perciò, della revoca e sconosciuto all’ipotesi dell’annullamento d’ufficio), nonché quello residuale della responsabilità risarcitoria della P.A. ex art. 1337 c.c. ovvero ex art. 2043 c.c., a seconda di chi sia il soggetto che richiede tutela: rispettivamente, aggiudicatario o concorrente non aggiudicatario.

È chiaro, pertanto, che il non aggiudicatario, nel rispetto dei termini decadenziali suindicati e nella persistenza dell’interesse a vedersi riparata, extracontrattualmente, la lesione subita a seguito dell’adozione dell’atto poi revocato, non dovrà subire gli effetti della dichiarazione di improcedibilità dell’azione promossa, ma potrà godere della prosecuzione del giudizio ex art. 34, co. III, c.p.a. .
Altro tipo di sopravvenienze, idonee ad alterare ab externo l’interesse del ricorrente e a comportare l’improcedibilità dell’azione intentata, è quella nota come jus superveniens.

Le c.d. sopravvenienze di tipo normativo, infatti, consistono in innovazioni o modificazioni legislative che afferiscono alla base giuridica di riferimento del potere pubblico, così causando la (sopravvenuta) nullità o illegittimità del provvedimento amministrativo adottato.
Naturalmente, le sopravvenute alterazioni normative, qualora il provvedimento sul quale insistono sia già oggetto di ricorso, non influiranno sull’andamento del relativo processo, operando in questi casi la regola del tempus regit actum di cui all’art. 11, co. I, delle Preleggi. Ciò comporta, pertanto, che, fatta eccezione per il caso in cui una norma eccezionale imponga l’applicazione della nuova disciplina legislativa anche ai procedimenti in corso, nei confronti di questi ultimi continuerà ad operare la normativa previgente.

Sia il Consiglio di Stato che l’Adunanza Plenaria (nella pronuncia n. 9 del 2011) hanno avuto modo, in un recente passato, di pronunciarsi su questioni affini.

L’Adunanza, in particolare, ha valutato le ripercussioni che le sopravvenienze normative spiegano sul giudicato amministrativo e sul ricorso in ottemperanza eventualmente promosso dalla parte vittoriosa nel pregresso processo amministrativo.

Ai sensi del combinato disposto degli articoli 112 c.p.a., 21-septies, lg. n. 241/1990 e 114, co. IV, lett. b) c.p.a., l’azione di ottemperanza è volta a “conseguire l’attuazione (anche) delle sentenze amministrative passate in giudicato” – e, dunque, inoppugnabili -, con la conseguenza che i provvedimenti che la P.A. soccombente abbia adottato in contrasto con le statuizioni del g.a. debbano essere dichiarati nulli.
Nel rito dell’ottemperanza, infatti, il Giudice, si inserisce nelle sacche del potere riservato alla P.A., riconducendo il suo operato nei binari della legalità. E’ proprio sulla scorta di questa doppia natura, di legittimità e di merito, che il ruolo del Giudice può rivestire, che il rito dell’ottemperanza rientra, ai sensi dell’art. 134 c.p.a., tra i circoscritti casi in cui l’Autorità giudiziaria esercita una giurisdizione estesa al merito delle controversie sottoposte alla propria cognizione.

Laddove, tuttavia, nelle more del giudizio di ottemperanza intervenga una modifica normativa (si pensi alle c.d. leggi – provvedimento: tipico è il caso dei finanziamenti una tantum a favore delle zone colpite da disastri naturali) che riporti essa stessa l’atto oggetto del ricorso nei canali della legalità, l’azione del ricorrente dovrà dichiararsi improcedibile per (sopravvenuta) carenza d’interesse.

Infatti, ad avviso dell’Adunanza Plenaria e, invero, anche della Consulta, le leggi – provvedimento si caratterizzano per il proprio contenuto particolare e concreto e per l’incidenza, eccezionale, che spiegano su un numero limitato e determinato di destinatari. Esse, dunque, consentono di stabilizzare gli effetti di un certo atto depurando, in via normativa, il vizio di legittimità riscontrato nell’ambito del processo ormai definito.
Da ciò consegue che l’intervento correttivo del Giudice in sede di ottemperanza si rivela superfluo: la legge sopravvenuta ha, infatti, il pregio e l’effetto di ri-disciplinare il provvedimento e l’attività amministrativa già oggetto di sindacato giurisdizionale, con l’ulteriore conseguenza di scollegarlo dalla vicenda giudiziario – esecutiva di cui è oggetto.

Le conseguenze processuali sono le medesime – improcedibilità dell’azione da un lato ed improcedibilità, se non sussiste l’interesse ai fini risarcitori, dall’altro -, ma a differenza del caso della revoca dell’aggiudicazione, lo jus superveniens influisce su tutt’altra fase processuale. Castrando non solo – e pur sempre ab externo – l’interesse del ricorrente che si vede dichiarata improcedibile la propria azione, ma anche l’operato del Giudice.

Se, infatti, suo compito è quello di vagliare la legittimità dell’atto adottato (nel ricorso ex art. 29 c.p.a.), eventualmente caducandolo, e di sanzionare la P.A. che ponga in essere atti in contrasto con quel pregresso giudicato, nel caso delle sopravvenienze normative, egli vedrà prosciugata quest’ultima sacca di potere, non potendosi spingere sino al vaglio del merito dell’attività pubblica elusiva o violativa, in quanto attività ormai conforme alla legge.

Per dovere di completezza, è bene porre l’attenzione, poi, su un caso del tutto speculare rispetto a quelli finora richiamati: quello delle sopravvenienze qualificabili come “interne”.

A titolo esemplificativo, può ricordarsi la vicenda giudiziaria che ha coinvolto il piano faunistico – venatorio della Regione Puglia.
L’associazione ambientalista WWF si doleva, davanti al g.a., della illegittimità del piano in quanto carente di un adempimento istruttorio, la Valutazione ambientale strategica (V.A.S.), necessario in base a disposizioni comunitarie ed interne. Il suo espletamento avrebbe, infatti, permesso a particolari specie animali (gli uccelli ungulati) di godere di una più appropriata tutela.

Sebbene le conclusioni cui pervenne il Consiglio di Stato nella definizione della controversia, diano la stura per altro tipo di considerazioni – inerenti all’ammissibilità di un annullamento a geometrie variabili -, le stesse si rivelano altresì utili per comprendere appieno la portata dell’art. 34, co. III (e, conseguentemente, del co. V), c.p.a. ed il suo stretto legame con la condizione operativa dell’interesse a ricorrere.
Il Consiglio di Stato, infatti, all’esito del giudizio, statuì che la Regione Puglia, entro un dato termine dalla pubblicazione della sentenza, dovesse avviare un nuovo procedimento amministrativo volto all’adozione di un piano stavolta completo di V.A.S..

Nelle more della riedizione del potere, il “vecchio” piano faunistico avrebbe continuato ugualmente a produrre i suoi effetti, per poi essere sostituito dal nuovo. Il tutto, affinché si evitasse di lasciare completamente sprovviste di salvaguardia le aree territoriali ricomprese nel piano.
Per quanto il WWF, soprattutto con riferimento al giudizio di primo grado, tendesse alla caducazione del piano faunistico, dacché illegittimo per violazione di legge, la valutazione che, in secondo grado, il Consiglio di Stato ha compiuto sulla richiesta della ricorrente è modellata sull’effettivo interesse che questa nutriva nei confronti della demolizione del piano.

In base agli assunti del Consiglio di Stato, infatti, l’eventuale accoglimento della domanda demolitoria, passa a fortiori dall’accertamento della legittimità del provvedimento oggetto del ricorso. Questo significa, allora, che la sentenza costitutiva che annulli l’atto consta di per sé, necessariamente, di un momento “accertativo”, logicamente presupposto rispetto a quello caducatorio, ed altresì svincolato da quest’ultimo.
Inoltre, a ben guardare, l’indagine del Giudice può addirittura arrestarsi alla valutazione di quel momento accertativo qualora egli riscontri che il prosieguo sino all’annullamento dell’atto non porti effettive utilità al ricorrente, ma possa, anzi, tradursi nella perpetrazione di ulteriori pregiudizi al civis.
Il che vuol dire, allora, che il g.a. non sposta mai la propria attenzione dall’interesse che ha mosso il ricorrente ad intentare il giudizio. Egli somministra la tutela che è chiamato a rendere sulla scorta di quell’interesse variando, se del caso, il tipo di pronuncia che emanerà (meramente dichiarativa o effettivamente costitutiva), senza tuttavia violare il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 99 c.p.c.); principio incompleto se non letto in combinato col successivo articolo 100 c.p.c. (art. 99 c.p.c.: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda”, ma – art. 100 c.p.c. – : “Per proporre domanda è necessario avervi interesse”).

Il Giudice, pertanto, come è vincolato alla delibazione di sopravvenienze normative che possano interferire sull’avviato giudizio di ottemperanza, allo stesso modo è vincolato alla delibazione (della persistenza) dell’interesse a ricorrere.

La valutazione di quest’ultimo, inoltre, è più strenua (ma non più castrante) rispetto alla valutazione delle sopravvenienze normative. L’interesse a ricorrere rappresenta, infatti, una sorta di costante di cui l’Autorità giudiziaria deve sempre tenere conto nell’espletamento del proprio ruolo istituzionale e nell’esercizio del correlato potere, con la conseguenza che quest’ultimo dovrà conformarsi a quell’interesse.

Per tali ragioni, tanto le sopravvenienze normative quanto l’analisi dell’interesse a ricorrere, incidono direttamente sull’operato del Giudice. Tuttavia, la seconda lo limita solamente, per adeguarlo alle reali istanze di tutela del ricorrente, secondo quanto disposto dall’art. 1 c.p.a. e dall’art. 264 del Trattato UE.

Il Giudice, insomma, trasla dal rigore del tempus regit actum, che cristallizza l’azione giurisdizionale intentata (art. 5 c.p.c.) e la àncora, in via definitiva, alla legge vigente al momento della sua promozione, alla duttilità del tempus regit actionem, correlando la domanda all’interesse che il ricorrente nutriva al tempo del suo deposito.

Naturalmente, se il Giudice gode di una certa “discrezionalità” nella valutazione dell’interesse a ricorrere, essa dovrà comunque combinarsi con i paletti normativi imposti dall’art. 34, c.p.a., trasversalmente già analizzati con riguardo alle implicazioni processuali del ritiro in autotutela dell’aggiudicazione (comma III), ma che necessitano, qui, di ulteriori approfondimenti (comma V).

Nel corso del giudizio, infatti, può essere la stessa P.A. ad adottare un provvedimento integralmente satisfattivo della pretesa del ricorrente. Si pensi al (potenziale) non aggiudicatario di un appalto che impugni l’atto endoprocedimentale di aggiudicazione provvisoria.
Laddove la P.A., in sede di aggiudicazione definitiva, corrisponda al civis il bene della vita che l’aggiudicazione provvisoria, in via interinale, gli aveva negato, verrà meno in capo al ricorrente l’interesse a proseguire il giudizio.

La sostituzione dell’atto provvisorio con quello definitivo di aggiudicazione dell’appalto, delinea, infatti, lo scenario prescritto dall’art. 34, co. V, c.p.a. : la pretesa del ricorrente è, col provvedimento finale, integralmente soddisfatta. Il Giudice, pertanto, data l’assenza di altri e speculari interessi e preso atto, altresì, della mera facoltà che ha il ricorrente d’impugnare l’aggiudicazione provvisoria, è tenuto a dichiarare cessata la materia del contendere e a liquidare le spese processuali sino a quel momento patite.

Il tenore letterale delle disposizioni di cui ai commi III e V dell’art. 34 c.p.a. (rispettivamente: “il giudice accerta l’illegittimità” e “dichiara cessata la materia del contendere”) sottolineano l’automatismo con cui il g.a. debba procedere a dette dichiarazioni laddove ne ricorrano i presupposti operativi.

La loro officiosità, evidentemente calibrata sulla fondamentale – come visto – delibazione dell’interesse del ricorrente attesta, ancora una volta, come il giudizio sia un gioco di parti, e non di atti.

Invero, questa concezione era timidamente veicolata già nella novella del 2005 che ha riformato la legge sul procedimento amministrativo e che ha introdotto, nel corpo della 241, l’art. 21-octies ed il fenomeno para-procedimentale della dequotazione dei vizi formali.
La natura vincolata del provvedimento, in uno con il contenuto affatto diverso che il provvedimento avrebbe avuto ove epurato dei citati vizi, metteva al centro della dialettica processuale le utilità traibili dal ricorrente. Con la conseguenza della non annullabilità dell’atto qualora queste non potessero essere conseguite.

È evidente, pertanto, come l’interesse del ricorrente alla somministrazione di una tutela effettiva è stato, da sempre, elemento centrale nelle dinamiche procedimentali tra P.A. e civis ed in quelle processuali tra P.A., ricorrente e Giudice.

Il gravoso onere probatorio incombente sull’Amministrazione ai sensi dell’art. 21-octies, ultima parte, lg. 241 del 1990, insieme con il potere officioso/dovere del Giudice di dichiarare improcedibile l’azione o cessata la materia del contendere, si atteggiano a canoni volti a regolamentare l’andamento dell’iter processuale, conferendo la giusta esaltazione alla richiesta del ricorrente e al contenuto della sentenza, foggiato su quella richiesta.

In quest’ottica, il brocardo tempus regit actum si arricchisce di una ulteriore evoluzione, affiancando, alla regola del tempus regit actionem, quella del tempus regit processum. Secondo cui la richiesta del ricorrente, le eccezioni e domande riconvenzionali della parte resistente, nonché l’operato del Giudice devono tutti ispirarsi alla soddisfazione degli interessi (pubblici – privati) posti alla base, secondo una gerarchia dei medesimi che tenga altresì conto del momento storico (tempus) in cui essi si svolgono, delle dinamiche che la loro cura ha innescato (il legittimo affidamento) e delle regole processuali (processum) che la loro tutela giurisdizionale impone di osservare (improcedibilità, dichiarazione di cessata materia del contendere, eventuale accoglimento dell’azione demolitoria).