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Il declassamento dell'ente intermedio siciliano non sarà indolore

Sommario: 1. La provincia regionale quale ente territoriale di governo 2. La legittimazione ad agire in giudizio per la difesa degli interessi generali 3. La collaborazione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica 4. Le attività di promozione dello sviluppo della comunità 5. Considerazioni finali

Il legislatore siciliano si è spesso caratterizzato per avere utilizzato veri e propri giochi di parole nel tentativo, a volte riuscito, di aggirare il controllo di costituzionalità affidato ancora oggi all’Ufficio del Commissario dello Stato (!?). Emblematico caso di siffatta “tecnica legislativa” è la normativa che nel tempo ha disciplinato l’ente intermedio in Sicilia. Con la famosa Legge n. 9/86, il legislatore regionale, non potendo istituire, al pari delle altre regioni, le province perché non previste dall’articolo 15 dello Statuto, introduce nell’ordinamento locale i liberi consorzi di comuni denominandoli però “province regionali”.

Attraverso tale tecnica, che in altra occasione non abbiamo esitato a definire di mechanè[1], il legislatore intende formalmente conformarsi allo Statuto introducendo nel sistema delle autonomie locali i consorzi di comuni quali enti pubblici intermedi, ma sostanzialmente mantiene quelle province che avrebbero dovuto essere soppresse secondo la previsione statutaria.

Con la Legge regionale n. 9/86 il legislatore osa fare ancora di più. Ai liberi consorzi di comuni, denominati province regionali, viene riconosciuto espressamente lo status di “enti territoriali di governo”.

Con la novella riforma n. 8/2014 lo stesso legislatore gioca al contrario. Nel ri-disciplinare i liberi consorzi di comuni statuisce che i medesimi, in sede di prima applicazione della legge, coincidono con le nove province regionali e assumono la denominazione di “liberi consorzi di comuni”.

Ora, la questione della semantica (rectius, nomen juris) di volta in volta utilizzata dal legislatore, in disparte i registrati casi di diffusa inconsapevolezza tra i componenti dell’Assemblea Regionale Siciliana, sottende almeno due aspetti che richiedono inevitabilmente approfondimenti di tipo giuridico-istituzionale.

Il primo, a cui si rimanda per una specifica riflessione, va inquadrato nel contesto della successione tra enti pubblici, anche nella considerazione che nel testo di legge “non vi è traccia né dal punto di vista testuale, né da quello logico sistematico, di disposizioni soppressive del precedente ente provincia, ma la riqualificazione, o meglio, ridefinizione dello stesso come Libero consorzio”[2].

Il secondo aspetto, che rappresenta l’ubi consistam della presente riflessione, riguarda l’implicito declassamento dell’ente intermedio operato con la novella riforma. Il legislatore ha infatti voluto, ancorché tacitamente, abbandonare la strada tracciata dalla Legge regionale n. 9/86, non solo privando gli organi di governo dell’ente intermedio dell’elezione diretta, ma spogliandolo dello status di ente territoriale di governo.

Per comprendere meglio ciò che il legislatore siciliano non dice espressamente, bisogna definire i contorni istituzionali del libero consorzio di comuni come concepito dalla Legge regionale n. 8/2014, così come quelli tracciati dalla Legge regionale n. 9/86 per la provincia regionale.

Tutto ruota attorno alla qualificazione di ente territoriale. Infatti, mentre il libero consorzio di comuni ha tradizionalmente (articolo 31 del TUEL), ma anche secondo le previsioni di cui all’articolo 20 della Legge regionale 18 marzo 1955 n. 17 ed all’articolo 13 del Decreto Legge del Presidente della regione del 29 ottobre 1955 n. 6, “…natura di ente pubblico non territoriale, dotato di autonomia amministrativa e finanziaria” ed avente natura associativa e strumentale rispetto agli enti che vi partecipano, la provincia regionale è, anche per espressa volontà del legislatore (articolo 4, comma 3, Legge regionale n. 9/86) un ente pubblico territoriale che realizza l’autogoverno della comunità consortile e sovrintende, nel quadro della programmazione regionale, all’ordinato sviluppo economico e sociale della comunità medesima.

Secondo il Giudice delle leggi, “La provincia è, per sua natura ente territoriale e tale è anche la provincia siciliana, la quale, sia pure con l’attuale regime di amministrazione straordinaria, sopravvive fino a quando verranno creati i liberi consorzi tra comuni (articolo 266 dell’ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione Siciliana”[3].

L’ente consortile costituisce certamente un’entità soggettiva autonoma e distinta dai singoli comuni che ne fanno parte, sicché ogni attività svolta dai propri organi va imputata esclusivamente all’ente che essi rappresentano e non ai vari soggetti che di questo fanno parte e che hanno contribuito a costituire, pertanto “l’ente consorziale gode di propria soggettività”[4]. Tuttavia, l’ente consortile non può contare sulla rete di protezione costituzionale, invece prevista per gli enti locali, in quanto sprovvisto del requisito dell’autonomia politica sotteso allo status di ente di governo territoriale. Infatti, “Il Consorzio d’ambito (quantunque composto dai Comuni rientranti nell’A.T.O.) non può essere annoverato tra gli enti dotati di «autonomia» costituzionalmente protetta”[5].

Il libero consorzio di comuni programmato dall’articolo 15 dello Statuto, ed in corso di attuazione mediante la Legge regionale n. 8/2014, è quindi un ente che presenta solo due tipi di autonomia, quella amministrativa e quella finanziaria, risultando sprovvisto della terza autonomia, quella politica, di cui è invece dotato l’ente territoriale sia comunale che provinciale. Dello stesso avviso è la giurisprudenza del Tar Palermo[6], secondo cui “l’articolo 15 dello Statuto attribuisce, evidentemente, una diversa configurazione all’assetto istituzionale sovra comunale rispetto a quello attualmente esistente e scaturito dalla Legge regionale 6/5/1986, n. 9 e s.m.i. che ha attuato la norma costituzionale solo apparentemente secundum legem nel momento in cui ha determinato l’organizzazione delle province nella Regione Siciliana, come nel resto dell’Italia, quali enti locali territoriali dotati di autonomia anche politica e non solo amministrativa e finanziaria”.

1. La provincia regionale quale ente territoriale di governo

La provincia regionale, come già detto, è anche per espressa volontà del legislatore (articolo 4, comma 3, Legge regionale n. 9/86) un ente pubblico territoriale, cioè un ente “per antica dottrina sede propria di policentrismo autonomistico o, come si dice oggi, di federalismo”[7], che realizza l’autogoverno della comunità consortile e sovrintende, nel quadro della programmazione regionale, all’ordinato sviluppo economico e sociale della comunità medesima.

Nella medesima disposizione normativa viene altresì espressamente sancito il principio che la provincia regionale è titolare di funzioni proprie ed esercita le funzioni delegate dallo Stato o dalla regione. Il profilo che emerge da queste argomentazioni riguarda la configurazione della provincia regionale come comunità territoriale sia sotto l’aspetto formale che sostanziale, ossia legato ad un substrato socio-politico di appartenenza collettiva unitaria, con una precisa identità, come del resto dimostrano le ricerche estese dal Censis, dall’Istat e dal Formez a tutte le province d’Italia. Quindi un ente territoriale esponenziale di una determinata collettività di cittadini, stanziata su un territorio d’ambito provinciale, della quale cura istituzionalmente gli interessi a promuovere lo sviluppo.

La provincia regionale costituisce, quindi, un ente territoriale con competenze potenzialmente rappresentative della generalità[8] degli interessi sociali, economici e culturali delle comunità amministrate[9], cioè legati alla pluralità degli interessi propri della collettività rappresentata. Secondo alcuni attenti osservatori del sistema delle autonomie locali in Sicilia, “Questo ente rappresenta il risultato dello sforzo di conciliare l’esigenza di semplificazione, unificazione ed articolazione dei poteri locali sulla base del principio: un territorio, un governo”[10].

La provincia in quanto ente portatore in via continuativa di un interesse a rilevanza generale, costituisce un ente locale con competenze potenzialmente rappresentative della generalità degli interessi sociali, economici e culturali delle comunità amministrate[11].

L’ente territoriale di governo provincia, al pari del comune, può infatti definirsi un “portatore sano di autonomia locale” nel “senso della portata del principio di autonomia, che viene inteso sempre più come un riconoscimento di effettive responsabilità, come uno spazio di autogoverno riconosciuto alle istituzioni rappresentative delle collettività locali di diverso livello: e questo senso dell’autonomia ha sempre più un contenuto complessivo che comprende anzitutto l’autonomia normativa, ossia la capacità di darsi regole proprie sia statutarie che regolamentari, e poi comprende la dimensione organizzativa, la dimensione amministrativa e la dimensione finanziaria”[12].

Orbene, la perdita dello status di ente territoriale di governo oltre a privare l’ente di una specifica copertura costituzionale comporta una serie di problemi i cui effetti indesiderati si presenteranno alle rispettive comunità amministrate nel medio e lungo periodo. Alcuni di questi effetti li abbiamo già evidenziati (rispetto dei vincoli di finanza pubblica e del patto di stabilità, esercizio di funzioni impositive, assoggettamento passivo all’IRES[13]) altri ancora proviamo qui ad argomentarli.

2. La legittimazione ad agire in giudizio per la difesa degli interessi generali

Oltre ai singoli interessi legittimi di cui è portatore ogni cittadino, il nostro ordinamento riconosce gli interessi diffusi o collettivi, cioè quel tipo di interessi di cui sono portatori contestualmente tutti i cittadini stanziati in una comunità. Trattasi, sostanzialmente, del riconoscimento di nuove posizioni giuridiche differenziate rispetto a quelle del singolo, che derivano dai mutamenti sia della società che della Pubblica Amministrazione e, soprattutto, dalla conquista di nuove frontiere del diritto.

Il Giudice Amministrativo ha nel tempo riconosciuto all’ente locale territoriale, ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della propria comunità nelle materie di competenza istituzionale, una più ampia legittimazione per “altre materie non direttamente conferitegli dalla legge”[14].

In tal senso è stato riconosciuto all’ente pubblico territoriale, in quanto già individuato ex lege quale ente esponenziale degli interessi dei propri amministrati, la potestà di impugnare, ad esempio, il provvedimento avente ad oggetto gli aumenti dei pedaggi autostradali “giacché i diritti dei cittadini in tema di tutela di interessi diffusi, possono trovare modi di esercizio paralleli e ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dall’attribuzione della loro cura a un soggetto pubblico predeterminato, sia esso già esistente o costituito ad hoc”.

Appare evidente che la trasformazione dell’ente intermedio provincia regionale da ente territoriale di governo (ente locale) ad ente pubblico associativo o consortile rileva anche sul piano della legittimazione ad agire in nome e per conto della comunità provinciale amministrata.

Applicando un siffatto paradigma in diversa direzione e con riferimento ai futuri Liberi consorzi di comuni, ai quali lo Statuto siciliano, al contrario, nega la rappresentatività degli interessi collettivi degli aderenti e degli interessi diffusi della comunità amministrata, si può comprendere come sia stata programmata, più o meno consapevolmente, la riduzione della capacità di agire in sede giudiziaria di questi nuovi soggetti istituzionali a tutela di una molteplicità di interessi in attuazione dell’articolo 45 della Costituzione, afferenti all’economia, al mercato, alle regole della concorrenza e per l’efficienza della Pubblica Amministrazione.

Corollario di questo ragionamento è che, mentre alla provincia regionale, quale ente esponenziale della comunità provinciale, spetta la legittimazione ad agire in giudizio a tutela degli interessi collettivi (purché si tratti di interessi differenziati e qualificati che ruotino attorno all’incidenza sul territorio provinciale dei provvedimenti amministrativi adottati da altri enti pubblici e potenzialmente lesivi), la medesima legittimazione non può essere riconosciuta ad un ente consortile o associativo qual è il libero consorzio di comuni, trattandosi di une ente privo della funzione esponenziale degli interessi della collettività stanziata.

3. La collaborazione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica

La perdita dello status di ente territoriale di governo rileva anche ai fini della facoltà riconosciuta a regioni, province e comuni, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della Legge 6 giugno 2003, n. 131, di richiedere pareri in materia di contabilità pubblica, nonché ulteriori forme di collaborazione ai fini della regolare gestione finanziaria e dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa.

La normativa in esame consente infatti alle amministrazioni regionali, provinciali e comunali, di rivolgere alle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti due diverse tipologie di richieste.

Da un lato, possono domandare l’intervento della magistratura contabile al fine di ottenere forme di “collaborazione”, non specificate dalla legge, dirette ad assicurare la regolare gestione finanziaria dell’ente ovvero l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa. Dall’altro possono richiedere pareri in materia di contabilità pubblica.

La funzione consultiva, che nei primi anni di applicazione della legge è stata la principale forma di collaborazione attivata dalle amministrazioni locali, “non esaurisce, quindi, la possibilità d’intervento delle Sezioni regionali della Corte dei conti, in seguito a specifiche richieste degli enti territoriali. Anzi, in base alla formulazione della norma non sembrerebbe neppure essere la principale forma di collaborazione, poiché nella prima parte del comma 8 dell’articolo 7 è chiaramente specificato che gli enti territoriali possono domandare alle Sezioni regionali della magistratura contabile “ulteriori forme di collaborazione”, con l’unico limite della finalizzazione alla regolare gestione finanziaria dell’ente ed allo svolgimento della azione amministrativa secondo i parametri dell’efficienza e dell’efficacia”[15].

In conseguenza dell’equi-ordinazione degli enti territoriali allo Stato (articolo 114 della Costituzione), e della necessaria abrogazione di ogni forma di controllo amministrativo esterno sulle regioni (articolo 125 della Costituzione), sulle province e sui comuni (articolo 130 della Costituzione), il legislatore ha inteso permettere agli enti territoriali di avvalersi della collaborazione della Corte dei conti, organo magistratuale che opera quale garante imparziale nell’interesse dello Stato-comunità[16], e, dopo la riforma costituzionale, di tutti gli enti che costituiscono la Repubblica[17].

Le nuove attribuzioni conferite alla Corte dei Conti appaiono così finalizzate ad individuare un organo neutrale che, in materia di coordinamento della finanza pubblica, interagisce tra i vari livelli di governo della Repubblica a tutela delle istanze e prerogative di ciascuno di essi in una materia, quale quella della finanza pubblica, che condiziona l’esercizio di tutte le funzioni pubbliche.

La funzione di cui al comma 8 dell’articolo 7 della Legge n. 131/2003 si connota così come facoltà conferita agli amministratori di regioni, comuni e province di avvalersi di un organo neutrale e professionalmente qualificato per acquisire elementi necessari ad assicurare la legalità della loro attività amministrativa. I pareri e le altre forme di collaborazione s’inseriscono nei procedimenti amministrativi degli enti territoriali consentendo, nell’ambito delle tematiche sulle quali la collaborazione viene esercitata, scelte adeguate e ponderate nello svolgimento dei poteri che pertengono agli amministratori pubblici, restando peraltro esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con l’organo di controllo esterno.

Essendo l’ambito di legittimazione soggettiva per l’attivazione delle citate forme di collaborazione rigorosamente circoscritto agli enti territoriali di governo, e/o alle sue rappresentanze istituzionali quali sono i consigli regionali per le autonomie locali, i futuri liberi consorzi di comuni non potranno usufruire della medesima facoltà.

4. Le attività di promozione dello sviluppo della comunità

Lo status di ente territoriale a fini generali consente alla provincia regionale (così come ai comuni) di esercitare funzioni amministrative e di erogare servizi d’interesse generale non solo in forza di una specifica previsione di legge, ma anche in conformità di quanto auto normato attraverso il proprio statuto. Ciò può avvenire in considerazione del nuovo ruolo che la riforma del titolo V della Costituzione ha assegnato agli statuti degli enti locali.

Gli statuti, dopo tale riforma, costituiscono una peculiare fonte di livello sub-primario, poiché, contrariamente ai vecchi regolamenti comunali e pro comunali e pro comunali e provinciali, previsti dalla legge ordinaria, sono espressamente contemplati dalla Costituzione. Peraltro, l’articolo 3, comma 3, del TUEL così recita: “La provincia, ente locale intermedio tra comune e Regione, rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo”. In tale contesto la provincia regionale può mettere a disposizione di tale mission istituzionale anche il proprio patrimonio (articolo 119, comma 7 della Costituzione).

Fermo restando le esigenze di redditività di detto patrimonio ed il rispetto del regime giuridico connesso alla natura dei beni (diverso se appartenenti al demanio, al patrimonio disponibile o indisponibile), la provincia regionale, quale ente locale a fini generali può certamente disporre dello stesso in funzione dell’individuato interesse pubblico più idoneo da curare.

Tanti e cristallizzati sono, ad esempio, i rapporti tra provincia e associazionismo locale nell’ottica di un sano e trasparente principio di sussidiarietà orizzontale. Così come diffusi sono i casi di messa a disposizione della comunità amministrata del patrimonio provinciale in regime di comodato d’uso gratuito o attraverso un canone di locazione ridotto. È infatti possibile valutare l’opportunità/necessità di optare per un canone di locazione ridotto rispetto al valore di mercato (ex articolo 32, comma 8, Legge n. 724/94) atteso che la provincia non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato economico in senso stretto nell’utilizzazione dei beni patrimoniali ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata.

Appare utile in questa fase evidenziare quanto affermato dalla Corte dei Conti secondo cui “il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni”[18].

In questo caso la mancata redditività piena del bene è comunque manifestamente compensata dall’avvenuta valorizzazione di un altro bene (lo sviluppo sociale, culturale ed economico del territorio amministrato) ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e fondamento negli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione nonché, come spessa accade, in specifiche disposizioni statutarie.

Ciò posto, come precisato altresì da altra sezione dalla Corte dei Conti, “se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo”[19].

Diffusi sono altresì i casi in cui la provincia regionale partecipa, con proprie quote associative, per la promozione di un determinato bene o servizio a favore della comunità amministrata. Società, consorzi e fondazioni, sono strumenti associativi di cui tutte e nove le province regionali hanno fatto uso per promuovere aeroporti, consorzi universitari, licei linguistici e musicali, distretti turistici, culturali, della pesca ecc.. Tutte attività non espressamente previste da norme positive, ed in alcuni casi non sempre coerenti con le finalità istituzionali delle province regionali, ma promosse in forza di specifiche previsioni statutarie.

Orbene, nell’azione di governo provinciale tale discrezionalità può essere riconosciuta solo ad un ente territoriale di governo e non anche ad un ente strumentale dei comuni qual è il libero consorzio di comuni. Pertanto sarà facile prevedere un periodo di turbolenze in capo agli attuali commissariamenti delle province regionali, costretti, loro malgrado, a chiudere tutti i rapporti precedentemente intrattenuti dalle province regionali in forza di una competenza generale di cui risultano sprovvisti i liberi consorzi di comuni[20].

5. Considerazioni finali

La frettolosa riforma dell’ente intermedio siciliano, i cui limiti attuativi e costituzionali sono già stati evidenziati[21], nel tentativo di semplificare il sistema delle autonomie locali in coerenza con lo spirito dell’articolo 15 dello Statuto, ha finito per declassare un ente che, ancorché attraverso una forzatura della Legge regionale n. 9/86, era riuscito a collocarsi dignitosamente tra gli enti territoriali di governo dotati di copertura costituzionale.

Oggi la Sicilia, in forza di un’autonomia speciale recentemente messa in discussione dall’ipotesi di contro-riforma del Titolo V della Costituzione[22], avrà un nuovo ente intermedio che, a differenza di quanto invece mantenuto nella riforma statale n. 56/2014, perde, più o meno consapevolmente, lo status di ente locale. Ma a pensarci bene ed alla luce di quanto sopra argomentato, le ricadute di tale declassamento si avranno nelle comunità amministrate, che perderanno un autorevole alleato istituzionale.

Diversamente da quanto opinato dai più, la perdita più consistente non deriva quindi dalla mancata elezione diretta degli organi di governo del nuovo ente intermedio, ma dalla perdita del più volte citato status di ente territoriale di governo.

 

Sommario: 1. La provincia regionale quale ente territoriale di governo 2. La legittimazione ad agire in giudizio per la difesa degli interessi generali 3. La collaborazione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica 4. Le attività di promozione dello sviluppo della comunità 5. Considerazioni finali

Il legislatore siciliano si è spesso caratterizzato per avere utilizzato veri e propri giochi di parole nel tentativo, a volte riuscito, di aggirare il controllo di costituzionalità affidato ancora oggi all’Ufficio del Commissario dello Stato (!?). Emblematico caso di siffatta “tecnica legislativa” è la normativa che nel tempo ha disciplinato l’ente intermedio in Sicilia. Con la famosa Legge n. 9/86, il legislatore regionale, non potendo istituire, al pari delle altre regioni, le province perché non previste dall’articolo 15 dello Statuto, introduce nell’ordinamento locale i liberi consorzi di comuni denominandoli però “province regionali”.

Attraverso tale tecnica, che in altra occasione non abbiamo esitato a definire di mechanè[1], il legislatore intende formalmente conformarsi allo Statuto introducendo nel sistema delle autonomie locali i consorzi di comuni quali enti pubblici intermedi, ma sostanzialmente mantiene quelle province che avrebbero dovuto essere soppresse secondo la previsione statutaria.

Con la Legge regionale n. 9/86 il legislatore osa fare ancora di più. Ai liberi consorzi di comuni, denominati province regionali, viene riconosciuto espressamente lo status di “enti territoriali di governo”.

Con la novella riforma n. 8/2014 lo stesso legislatore gioca al contrario. Nel ri-disciplinare i liberi consorzi di comuni statuisce che i medesimi, in sede di prima applicazione della legge, coincidono con le nove province regionali e assumono la denominazione di “liberi consorzi di comuni”.

Ora, la questione della semantica (rectius, nomen juris) di volta in volta utilizzata dal legislatore, in disparte i registrati casi di diffusa inconsapevolezza tra i componenti dell’Assemblea Regionale Siciliana, sottende almeno due aspetti che richiedono inevitabilmente approfondimenti di tipo giuridico-istituzionale.

Il primo, a cui si rimanda per una specifica riflessione, va inquadrato nel contesto della successione tra enti pubblici, anche nella considerazione che nel testo di legge “non vi è traccia né dal punto di vista testuale, né da quello logico sistematico, di disposizioni soppressive del precedente ente provincia, ma la riqualificazione, o meglio, ridefinizione dello stesso come Libero consorzio”[2].

Il secondo aspetto, che rappresenta l’ubi consistam della presente riflessione, riguarda l’implicito declassamento dell’ente intermedio operato con la novella riforma. Il legislatore ha infatti voluto, ancorché tacitamente, abbandonare la strada tracciata dalla Legge regionale n. 9/86, non solo privando gli organi di governo dell’ente intermedio dell’elezione diretta, ma spogliandolo dello status di ente territoriale di governo.

Per comprendere meglio ciò che il legislatore siciliano non dice espressamente, bisogna definire i contorni istituzionali del libero consorzio di comuni come concepito dalla Legge regionale n. 8/2014, così come quelli tracciati dalla Legge regionale n. 9/86 per la provincia regionale.

Tutto ruota attorno alla qualificazione di ente territoriale. Infatti, mentre il libero consorzio di comuni ha tradizionalmente (articolo 31 del TUEL), ma anche secondo le previsioni di cui all’articolo 20 della Legge regionale 18 marzo 1955 n. 17 ed all’articolo 13 del Decreto Legge del Presidente della regione del 29 ottobre 1955 n. 6, “…natura di ente pubblico non territoriale, dotato di autonomia amministrativa e finanziaria” ed avente natura associativa e strumentale rispetto agli enti che vi partecipano, la provincia regionale è, anche per espressa volontà del legislatore (articolo 4, comma 3, Legge regionale n. 9/86) un ente pubblico territoriale che realizza l’autogoverno della comunità consortile e sovrintende, nel quadro della programmazione regionale, all’ordinato sviluppo economico e sociale della comunità medesima.

Secondo il Giudice delle leggi, “La provincia è, per sua natura ente territoriale e tale è anche la provincia siciliana, la quale, sia pure con l’attuale regime di amministrazione straordinaria, sopravvive fino a quando verranno creati i liberi consorzi tra comuni (articolo 266 dell’ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione Siciliana”[3].

L’ente consortile costituisce certamente un’entità soggettiva autonoma e distinta dai singoli comuni che ne fanno parte, sicché ogni attività svolta dai propri organi va imputata esclusivamente all’ente che essi rappresentano e non ai vari soggetti che di questo fanno parte e che hanno contribuito a costituire, pertanto “l’ente consorziale gode di propria soggettività”[4]. Tuttavia, l’ente consortile non può contare sulla rete di protezione costituzionale, invece prevista per gli enti locali, in quanto sprovvisto del requisito dell’autonomia politica sotteso allo status di ente di governo territoriale. Infatti, “Il Consorzio d’ambito (quantunque composto dai Comuni rientranti nell’A.T.O.) non può essere annoverato tra gli enti dotati di «autonomia» costituzionalmente protetta”[5].

Il libero consorzio di comuni programmato dall’articolo 15 dello Statuto, ed in corso di attuazione mediante la Legge regionale n. 8/2014, è quindi un ente che presenta solo due tipi di autonomia, quella amministrativa e quella finanziaria, risultando sprovvisto della terza autonomia, quella politica, di cui è invece dotato l’ente territoriale sia comunale che provinciale. Dello stesso avviso è la giurisprudenza del Tar Palermo[6], secondo cui “l’articolo 15 dello Statuto attribuisce, evidentemente, una diversa configurazione all’assetto istituzionale sovra comunale rispetto a quello attualmente esistente e scaturito dalla Legge regionale 6/5/1986, n. 9 e s.m.i. che ha attuato la norma costituzionale solo apparentemente secundum legem nel momento in cui ha determinato l’organizzazione delle province nella Regione Siciliana, come nel resto dell’Italia, quali enti locali territoriali dotati di autonomia anche politica e non solo amministrativa e finanziaria”.

1. La provincia regionale quale ente territoriale di governo

La provincia regionale, come già detto, è anche per espressa volontà del legislatore (articolo 4, comma 3, Legge regionale n. 9/86) un ente pubblico territoriale, cioè un ente “per antica dottrina sede propria di policentrismo autonomistico o, come si dice oggi, di federalismo”[7], che realizza l’autogoverno della comunità consortile e sovrintende, nel quadro della programmazione regionale, all’ordinato sviluppo economico e sociale della comunità medesima.

Nella medesima disposizione normativa viene altresì espressamente sancito il principio che la provincia regionale è titolare di funzioni proprie ed esercita le funzioni delegate dallo Stato o dalla regione. Il profilo che emerge da queste argomentazioni riguarda la configurazione della provincia regionale come comunità territoriale sia sotto l’aspetto formale che sostanziale, ossia legato ad un substrato socio-politico di appartenenza collettiva unitaria, con una precisa identità, come del resto dimostrano le ricerche estese dal Censis, dall’Istat e dal Formez a tutte le province d’Italia. Quindi un ente territoriale esponenziale di una determinata collettività di cittadini, stanziata su un territorio d’ambito provinciale, della quale cura istituzionalmente gli interessi a promuovere lo sviluppo.

La provincia regionale costituisce, quindi, un ente territoriale con competenze potenzialmente rappresentative della generalità[8] degli interessi sociali, economici e culturali delle comunità amministrate[9], cioè legati alla pluralità degli interessi propri della collettività rappresentata. Secondo alcuni attenti osservatori del sistema delle autonomie locali in Sicilia, “Questo ente rappresenta il risultato dello sforzo di conciliare l’esigenza di semplificazione, unificazione ed articolazione dei poteri locali sulla base del principio: un territorio, un governo”[10].

La provincia in quanto ente portatore in via continuativa di un interesse a rilevanza generale, costituisce un ente locale con competenze potenzialmente rappresentative della generalità degli interessi sociali, economici e culturali delle comunità amministrate[11].

L’ente territoriale di governo provincia, al pari del comune, può infatti definirsi un “portatore sano di autonomia locale” nel “senso della portata del principio di autonomia, che viene inteso sempre più come un riconoscimento di effettive responsabilità, come uno spazio di autogoverno riconosciuto alle istituzioni rappresentative delle collettività locali di diverso livello: e questo senso dell’autonomia ha sempre più un contenuto complessivo che comprende anzitutto l’autonomia normativa, ossia la capacità di darsi regole proprie sia statutarie che regolamentari, e poi comprende la dimensione organizzativa, la dimensione amministrativa e la dimensione finanziaria”[12].

Orbene, la perdita dello status di ente territoriale di governo oltre a privare l’ente di una specifica copertura costituzionale comporta una serie di problemi i cui effetti indesiderati si presenteranno alle rispettive comunità amministrate nel medio e lungo periodo. Alcuni di questi effetti li abbiamo già evidenziati (rispetto dei vincoli di finanza pubblica e del patto di stabilità, esercizio di funzioni impositive, assoggettamento passivo all’IRES[13]) altri ancora proviamo qui ad argomentarli.

2. La legittimazione ad agire in giudizio per la difesa degli interessi generali

Oltre ai singoli interessi legittimi di cui è portatore ogni cittadino, il nostro ordinamento riconosce gli interessi diffusi o collettivi, cioè quel tipo di interessi di cui sono portatori contestualmente tutti i cittadini stanziati in una comunità. Trattasi, sostanzialmente, del riconoscimento di nuove posizioni giuridiche differenziate rispetto a quelle del singolo, che derivano dai mutamenti sia della società che della Pubblica Amministrazione e, soprattutto, dalla conquista di nuove frontiere del diritto.

Il Giudice Amministrativo ha nel tempo riconosciuto all’ente locale territoriale, ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della propria comunità nelle materie di competenza istituzionale, una più ampia legittimazione per “altre materie non direttamente conferitegli dalla legge”[14].

In tal senso è stato riconosciuto all’ente pubblico territoriale, in quanto già individuato ex lege quale ente esponenziale degli interessi dei propri amministrati, la potestà di impugnare, ad esempio, il provvedimento avente ad oggetto gli aumenti dei pedaggi autostradali “giacché i diritti dei cittadini in tema di tutela di interessi diffusi, possono trovare modi di esercizio paralleli e ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dall’attribuzione della loro cura a un soggetto pubblico predeterminato, sia esso già esistente o costituito ad hoc”.

Appare evidente che la trasformazione dell’ente intermedio provincia regionale da ente territoriale di governo (ente locale) ad ente pubblico associativo o consortile rileva anche sul piano della legittimazione ad agire in nome e per conto della comunità provinciale amministrata.

Applicando un siffatto paradigma in diversa direzione e con riferimento ai futuri Liberi consorzi di comuni, ai quali lo Statuto siciliano, al contrario, nega la rappresentatività degli interessi collettivi degli aderenti e degli interessi diffusi della comunità amministrata, si può comprendere come sia stata programmata, più o meno consapevolmente, la riduzione della capacità di agire in sede giudiziaria di questi nuovi soggetti istituzionali a tutela di una molteplicità di interessi in attuazione dell’articolo 45 della Costituzione, afferenti all’economia, al mercato, alle regole della concorrenza e per l’efficienza della Pubblica Amministrazione.

Corollario di questo ragionamento è che, mentre alla provincia regionale, quale ente esponenziale della comunità provinciale, spetta la legittimazione ad agire in giudizio a tutela degli interessi collettivi (purché si tratti di interessi differenziati e qualificati che ruotino attorno all’incidenza sul territorio provinciale dei provvedimenti amministrativi adottati da altri enti pubblici e potenzialmente lesivi), la medesima legittimazione non può essere riconosciuta ad un ente consortile o associativo qual è il libero consorzio di comuni, trattandosi di une ente privo della funzione esponenziale degli interessi della collettività stanziata.

3. La collaborazione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica

La perdita dello status di ente territoriale di governo rileva anche ai fini della facoltà riconosciuta a regioni, province e comuni, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della Legge 6 giugno 2003, n. 131, di richiedere pareri in materia di contabilità pubblica, nonché ulteriori forme di collaborazione ai fini della regolare gestione finanziaria e dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa.

La normativa in esame consente infatti alle amministrazioni regionali, provinciali e comunali, di rivolgere alle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti due diverse tipologie di richieste.

Da un lato, possono domandare l’intervento della magistratura contabile al fine di ottenere forme di “collaborazione”, non specificate dalla legge, dirette ad assicurare la regolare gestione finanziaria dell’ente ovvero l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa. Dall’altro possono richiedere pareri in materia di contabilità pubblica.

La funzione consultiva, che nei primi anni di applicazione della legge è stata la principale forma di collaborazione attivata dalle amministrazioni locali, “non esaurisce, quindi, la possibilità d’intervento delle Sezioni regionali della Corte dei conti, in seguito a specifiche richieste degli enti territoriali. Anzi, in base alla formulazione della norma non sembrerebbe neppure essere la principale forma di collaborazione, poiché nella prima parte del comma 8 dell’articolo 7 è chiaramente specificato che gli enti territoriali possono domandare alle Sezioni regionali della magistratura contabile “ulteriori forme di collaborazione”, con l’unico limite della finalizzazione alla regolare gestione finanziaria dell’ente ed allo svolgimento della azione amministrativa secondo i parametri dell’efficienza e dell’efficacia”[15].

In conseguenza dell’equi-ordinazione degli enti territoriali allo Stato (articolo 114 della Costituzione), e della necessaria abrogazione di ogni forma di controllo amministrativo esterno sulle regioni (articolo 125 della Costituzione), sulle province e sui comuni (articolo 130 della Costituzione), il legislatore ha inteso permettere agli enti territoriali di avvalersi della collaborazione della Corte dei conti, organo magistratuale che opera quale garante imparziale nell’interesse dello Stato-comunità[16], e, dopo la riforma costituzionale, di tutti gli enti che costituiscono la Repubblica[17].

Le nuove attribuzioni conferite alla Corte dei Conti appaiono così finalizzate ad individuare un organo neutrale che, in materia di coordinamento della finanza pubblica, interagisce tra i vari livelli di governo della Repubblica a tutela delle istanze e prerogative di ciascuno di essi in una materia, quale quella della finanza pubblica, che condiziona l’esercizio di tutte le funzioni pubbliche.

La funzione di cui al comma 8 dell’articolo 7 della Legge n. 131/2003 si connota così come facoltà conferita agli amministratori di regioni, comuni e province di avvalersi di un organo neutrale e professionalmente qualificato per acquisire elementi necessari ad assicurare la legalità della loro attività amministrativa. I pareri e le altre forme di collaborazione s’inseriscono nei procedimenti amministrativi degli enti territoriali consentendo, nell’ambito delle tematiche sulle quali la collaborazione viene esercitata, scelte adeguate e ponderate nello svolgimento dei poteri che pertengono agli amministratori pubblici, restando peraltro esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con l’organo di controllo esterno.

Essendo l’ambito di legittimazione soggettiva per l’attivazione delle citate forme di collaborazione rigorosamente circoscritto agli enti territoriali di governo, e/o alle sue rappresentanze istituzionali quali sono i consigli regionali per le autonomie locali, i futuri liberi consorzi di comuni non potranno usufruire della medesima facoltà.

4. Le attività di promozione dello sviluppo della comunità

Lo status di ente territoriale a fini generali consente alla provincia regionale (così come ai comuni) di esercitare funzioni amministrative e di erogare servizi d’interesse generale non solo in forza di una specifica previsione di legge, ma anche in conformità di quanto auto normato attraverso il proprio statuto. Ciò può avvenire in considerazione del nuovo ruolo che la riforma del titolo V della Costituzione ha assegnato agli statuti degli enti locali.

Gli statuti, dopo tale riforma, costituiscono una peculiare fonte di livello sub-primario, poiché, contrariamente ai vecchi regolamenti comunali e pro comunali e pro comunali e provinciali, previsti dalla legge ordinaria, sono espressamente contemplati dalla Costituzione. Peraltro, l’articolo 3, comma 3, del TUEL così recita: “La provincia, ente locale intermedio tra comune e Regione, rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo”. In tale contesto la provincia regionale può mettere a disposizione di tale mission istituzionale anche il proprio patrimonio (articolo 119, comma 7 della Costituzione).

Fermo restando le esigenze di redditività di detto patrimonio ed il rispetto del regime giuridico connesso alla natura dei beni (diverso se appartenenti al demanio, al patrimonio disponibile o indisponibile), la provincia regionale, quale ente locale a fini generali può certamente disporre dello stesso in funzione dell’individuato interesse pubblico più idoneo da curare.

Tanti e cristallizzati sono, ad esempio, i rapporti tra provincia e associazionismo locale nell’ottica di un sano e trasparente principio di sussidiarietà orizzontale. Così come diffusi sono i casi di messa a disposizione della comunità amministrata del patrimonio provinciale in regime di comodato d’uso gratuito o attraverso un canone di locazione ridotto. È infatti possibile valutare l’opportunità/necessità di optare per un canone di locazione ridotto rispetto al valore di mercato (ex articolo 32, comma 8, Legge n. 724/94) atteso che la provincia non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato economico in senso stretto nell’utilizzazione dei beni patrimoniali ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata.

Appare utile in questa fase evidenziare quanto affermato dalla Corte dei Conti secondo cui “il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni”[18].

In questo caso la mancata redditività piena del bene è comunque manifestamente compensata dall’avvenuta valorizzazione di un altro bene (lo sviluppo sociale, culturale ed economico del territorio amministrato) ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e fondamento negli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione nonché, come spessa accade, in specifiche disposizioni statutarie.

Ciò posto, come precisato altresì da altra sezione dalla Corte dei Conti, “se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo”[19].

Diffusi sono altresì i casi in cui la provincia regionale partecipa, con proprie quote associative, per la promozione di un determinato bene o servizio a favore della comunità amministrata. Società, consorzi e fondazioni, sono strumenti associativi di cui tutte e nove le province regionali hanno fatto uso per promuovere aeroporti, consorzi universitari, licei linguistici e musicali, distretti turistici, culturali, della pesca ecc.. Tutte attività non espressamente previste da norme positive, ed in alcuni casi non sempre coerenti con le finalità istituzionali delle province regionali, ma promosse in forza di specifiche previsioni statutarie.

Orbene, nell’azione di governo provinciale tale discrezionalità può essere riconosciuta solo ad un ente territoriale di governo e non anche ad un ente strumentale dei comuni qual è il libero consorzio di comuni. Pertanto sarà facile prevedere un periodo di turbolenze in capo agli attuali commissariamenti delle province regionali, costretti, loro malgrado, a chiudere tutti i rapporti precedentemente intrattenuti dalle province regionali in forza di una competenza generale di cui risultano sprovvisti i liberi consorzi di comuni[20].

5. Considerazioni finali

La frettolosa riforma dell’ente intermedio siciliano, i cui limiti attuativi e costituzionali sono già stati evidenziati[21], nel tentativo di semplificare il sistema delle autonomie locali in coerenza con lo spirito dell’articolo 15 dello Statuto, ha finito per declassare un ente che, ancorché attraverso una forzatura della Legge regionale n. 9/86, era riuscito a collocarsi dignitosamente tra gli enti territoriali di governo dotati di copertura costituzionale.

Oggi la Sicilia, in forza di un’autonomia speciale recentemente messa in discussione dall’ipotesi di contro-riforma del Titolo V della Costituzione[22], avrà un nuovo ente intermedio che, a differenza di quanto invece mantenuto nella riforma statale n. 56/2014, perde, più o meno consapevolmente, lo status di ente locale. Ma a pensarci bene ed alla luce di quanto sopra argomentato, le ricadute di tale declassamento si avranno nelle comunità amministrate, che perderanno un autorevole alleato istituzionale.

Diversamente da quanto opinato dai più, la perdita più consistente non deriva quindi dalla mancata elezione diretta degli organi di governo del nuovo ente intermedio, ma dalla perdita del più volte citato status di ente territoriale di governo.