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La difficoltosa risarcibilità dei danni subiti nell’ambiente di lavoro

1. Premessa...conclusiva

Come è oramai noto, la Sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 6572/2006 pose fine ad un contrasto giurisprudenziale sui danni non patrimoniali risarcibili, optando per la tesi più restrittiva per i lavoratori ricorrenti, mediante l’affermazione che i danni alla professionalità da demansionamento come pure i danni alla salute e alla vita di relazione da mobbing (cosiddetti esistenziali) costituiscono “danni conseguenza” (non già “danni evento” risarcibili in re ipsa al riscontro in giudizio della condotta datoriale dannosa).

Da questo assetto dogmatico discende che una volta che il giudice abbia accertato il comportamento lesivo datoriale, il risarcimento monetario non può essere automatico ma  condizionato alla ulteriore prova da parte del lavoratore che l’accertata condotta lesiva datoriale (o dei superiori) abbia determinato causalmente danni alla salute (cosiddetto danno biologico) ovvero impoverimento della pregressa professionalità in termini tali da non essere più utilmente spendibile in azienda o sul mercato esterno, ovvero, ancora, perdita di opportunità di progressione di carriera (cosiddetta perdita di chance) rispetto a colleghi, che in quanto non fatti bersaglio del comportamento vessatorio datoriale, la carriera hanno, invece, continuato a farla.

Appare, con tutta evidenza, intuitivo come il doppio onere probatorio di cui la Cassazione a Sezioni Unite n. 6572/2006 ha gravato i lavoratori ricorrenti in giudizio, renda piuttosto difficoltoso se non  aleatorio un risarcimento di danni, giacché se il giudice accerta che il datore ha illegittimamente demansionato il lavoratore ovvero lo ha vessato, con caratteristiche mobbizzanti, ma quest’ultimo non è stato in grado di provare al magistrato (in giuridichese, allegare) ˗ sia documentalmente o ancor meglio per testi ˗ in che cosa sia consistito il suo depauperamento professionale, ovvero quali siano state le modificazioni peggiorative indotte nelle relazioni sociali e nel suo pregresso stile di vita ovvero nel suo antecedente stato di benessere psico˗fisico, il risarcimento monetario richiesto tramite il ricorso al magistrato verrà dichiarato inaccoglibile e il giudice si limiterà ad ordinare ai responsabili aziendali la sola cessazione del comportamento contra legem e il ripristino della situazione legale antecedente.

Di seguito evidenziamo come si è giunti a questa sconfortante situazione.

2. Cronistoria

Il riconoscimento da parte dei Giudici di merito e di Cassazione dei danni subiti dalle pratiche di demansionamento e mobbing è stato abbastanza agevole nell’arco 1990/2004, ove l’orientamento giurisprudenziale vedeva prevalere l’opinione per cui, una volta allegato in giudizio da parte del lavoratore (per documentazione o per testi) il demansionamento o l’inoperosità forzata e documentate le pratiche vessatorie, il risarcimento discendeva conseguenzialmente dietro liquidazione equitativa del magistrato, ex articolo 1226 del codice civile, in quanto il danno era considerato “in re ipsa” cioè immanente al riscontro di veridicità ed effettività dei comportamenti pregiudizievoli posti in essere dallo stesso datore o dai suoi preposti.

Il parametro adottato all’epoca per indennizzare un demansionamento incisivo, di durata almeno semestrale o ultrannuale, era rappresentato dal 100% della retribuzione mensile percepita moltiplicata per tutti i mesi di durata del demansionamento, inattività o vessazione. Col passare degli anni, la magistratura si è fatta più “tirchia” e tale parametro ha subito nell’applicazione una sensibile, graduale, contrazione fino ad attestarsi, ai nostri giorni, a non più del 20˗30% della retribuzione.

A questo orientamento ragionevole e di buon senso ˗ basato sulla incontestabile constatazione per nozioni di comune conoscenza (ex articolo 115 del codice di procedura civile) che le pratiche demansionanti o vessatorie non sono né neutre né benefiche per la vittima ma determinative, all’opposto, di un danno e di una sofferenza ˗ si è contrapposto poco dopo un orientamento minoritario, portato avanti dai legali delle aziende (che ha fatto progressiva breccia su una parte della magistratura).

Tale orientamento formalistico si avvalse, tra l’altro, dell’impostazione della Sentenza n. 372/1994 della Corte Costituzionale (redatta dal giuslavorista prof. L. Mengoni) così espressasi: “È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 del codice civile, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”.

Ne scaturì il conseguente corollario che, ai fini del risarcimento danni da responsabilità civile, era insufficiente l’accertamento giudiziale dell’effettività dei comportamenti inadempienti e illeciti del datore o dei preposti, ma andava pretesa addizionalmente dal lavoratore la dimostrazione in concreto della tipologia del danno per il quale richiedeva di essere indennizzato in giudizio.

Per meglio capirci, questo orientamento subordinava il diritto al risarcimento ˗ ad esempio del danno alla professionalità da demansionamento ˗ alla dimostrazione da parte del lavoratore dell’aver subito un impoverimento delle proprie cognizioni professionali, tale da rendergli difficoltosa o impossibile la progressione di carriera all’interno dell’azienda o il reperimento una nuova occupazione, in pari ruolo professionale, all’esterno.

Per il risarcimento del danno morale/esistenziale, poi, era da ritenersi insufficiente la dimostrazione dettagliata delle plurime, reiterate e accertate vessazioni, dovendosi pretendere e dimostrare addizionalmente da parte della vittima quale forma esteriorizzata abbia assunto il danno morale, alla reputazione e all’immagine nonché se e in che modo le incontestate vessazioni siano state idonee a determinare una modificazione peggiorativa della qualità della vita.

Come anticipato, il contrasto tra i due orientamenti venne composto dalla Sentenza 24 marzo 2006, n. 6572 delle Sezioni Unite della Cassazione (Pres. Vincenzo Carbone ˗ Rel. Maura La Terza), che ritenne di privilegiare il surriferito orientamento minoritario, più rigidamente formalistico, più restrittivo per i danneggiati, idoneo a gravare la vittima non di una ma di due forme di prova (la seconda quasi con connotazioni di “probatio diabolica”), così rappresentate: la prima, dalla dimostrazione in giudizio dello stato di demansionamento subito, delle pratiche illecite e persecutorie a cui si è stati sottoposti; la seconda consistente, giustappunto, nella dimostrazione dell’impoverimento professionale (in caso di demansionamento e/o inoperosità forzata), e, nel caso di richiesta di indennizzo di un danno non patrimoniale (quale il morale o l’esistenziale), dalla dimostrazione del pregiudizio alla vita di relazione per alterazione peggiorativa delle pregresse abitudini di vita, risultate stravolte.

La decisione così si espresse: “2. Dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo. L’inadempimento infatti è già sanzionato con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma, non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di ci all’articolo 1218 e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli articoli 2087 e 2103 del codice civile, da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte costituzionale 372/94).

D’altra parte – mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta – ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile.

In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma˗castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento

3. È noto poi che dall’inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all’integrità psico˗fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cosiddetto esistenziale, che possono anche coesistere l’una con l’altra

Prima di scendere all’esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno.

Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’articolo 421 del codice di procedura civile – non può invece mai sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cassazione Sezioni Unite 1099/98).

4. Passando ora all’esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno.

Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.

Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività.

In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore.

5. Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacché questo, che non può prescindere dall’accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell’integrità psico˗fisica medicalmente accertabile, secondo la definizione legislativa di cui all’articolo 5 comma 3 della Legge 57/2001 sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall’articolo 13 del Decreto Legislativo 38/2000 in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte costituzione con la sentenza 233/03).
6. Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della Costituzione (cosiddetto danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto.

Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso.

Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell’atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all’immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione.

Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’integrità psico fisica – necessità imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita.

Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita.

Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte costituzionale con la Sentenza 372/94 per cui “È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 del codice civile, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”.

7. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente.

Mentre il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato.

Ed infatti – se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostante di congiunti e colleghi di lavoro.

Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cassazione 9834/02) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all’articolo 2727 del codice civile venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostante, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cassazione 13819/03) complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex articolo 115 del codice di procedura civile a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

D’altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell’arbitrio, necessità di parametri a cui ancorarsi”.

La sentenza soprariferita costituì l’applicazione dei criteri elaborati, in tema risarcitorio, da una parte della dottrina e della giurisprudenza, che avevano portato alla teorica distinzione (in dottrina e giurisprudenza) tra “danno evento” e “danno conseguenza” (dicotomia che l’antecedente Cassazione, Sezioni Unite n. 2515 del 21/2/2002 aveva qualificato espressamente “mera sovrastruttura teorica”).

Questa distinzione era stata elaborata con riferimento all’esigenza di limitare al massimo il risarcimento dei danni non patrimoniali – a differenza che per il ristoro dei danni patrimoniali –, esigenza che appariva accolta dall’articolo 2059 del codice civile, in congiunzione con l’articolo 1223 del codice civile, per il quale: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.

La distinzione teorica in questione aveva portato, poi, a configurare il risarcimento del danno alla persona secondo uno schema tripartito, e con il seguente inquadramento:

˗ il danno alla salute (cosiddetto biologico, medicalmente accertabile): inquadrato come “danno˗evento”, come tale immediatamente risarcibile una volta certificato sanitariamente, a prescindere da qualsiasi prova di compromissione reddituale;

˗ il danno patrimoniale: inquadrato come “danno˗conseguenza”, che, in quanto determinante un decremento della sfera patrimoniale del soggetto leso, era risarcibile dietro dimostrazione della perdita economica o del mancato guadagno ;

˗ Il danno non patrimoniale (morale, alla professionalità, esistenziale, cioè alla vita di relazione): inquadrato come “danno˗conseguenza”, risarcibile dietro prova dei pregiudizi subiti e dei riflessi negativi indotti alla qualità della vita, all’assetto delle relazioni sociali, ecc.

In conseguenza di questo inquadramento dogmatico – rispolverato e riaffermato dalle Sezioni Unite n. 6572/2006 anche per il risarcimento dei danni alla persona in ambito lavorativo – le successive sentenze delle sezioni semplici della Cassazione ˗ fino a tutt’oggi e senza alcuna prospettiva di un diverso orientamento ˗ statuiscono (reiteratamente e  in forma oggettivamente ostativa ad un atteso risarcimento per i lavoratori) che: una volta riscontrato che il demansionamento sussiste e si è protratto nel tempo, rimane il problema della prova dell’esistenza di un danno risarcibile e del nesso causale.

In fattispecie la sentenza di 2 grado ha liquidato un danno da demansionamento, del quale ha debitamente illustrato le caratteristiche, quale lesione di un diritto fondamentale dell’individuo e quindi risarcibile anche sotto il profilo non patrimoniale, ed ha nel contempo affermato che tale danno è risarcibile “ex se”.

Tale affermazione non può essere condivisa: Cassazione 19.12.2008 n. 29832 afferma che in tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.

Mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione all’integrità psico˗fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni.

Nella specie, la Corte di Appello liquida il danno da demansionamento, inteso non come danno esistenziale ma come lesione della professionalità e della dignità del lavoratore, dando per scontato che i presupposti in fatto sussistano, laddove era necessario un accertamento in fatto circa l’esistenza di un pregiudizio e del nesso causale. Il danno non patrimoniale è risarcibile nei casi previsti dalla legge, vale a dire in caso di fatto˗reato, di lesione per la quale la norma positiva prevede il risarcimento del danno, ed infine in caso di lesione di diritti fondamentali (è il caso di specie): Cassazione Sezioni Unite 11.11.2008 n. 26972.

Ma rimane il problema della prova dell’esistenza del danno e del nesso causale, prova che non può essere presupposta. Non è ammissibile la categoria del “danno esistenziale” (…) ed il danno non patrimoniale, nella cui categoria viene ricondotto il danno biologico, deve essere derivato da una lesione di un diritto costituzionalmente riconosciuto, deve essere grave e non futile (Cassazione Sezioni Unite n. 26972/08). In altri termini, il giudice, in caso di accertato demansionamento, deve procedere alla liquidazione del danno sulla base di una ricostruzione in fatto della vicenda, dell’accertamento anche presuntivo dell’esistenza di un danno risarcibile e del nesso di causalità (Cass. 26.6.2006 n. 14729).

Poiché la sentenza impugnata non motiva in ordine a quanto precede, limitandosi a formulare affermazioni di principio e ravvisando il danno “in re ipsa”, essa va cassata “in parte qua” ed il processo va rimesso ad altra Corte di Appello la quale procederà a nuovo esame della fattispecie, attenendosi al seguente principio: “accertato un demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità richiesto dal lavoratore non può prescindere dalla dimostrazione in fatto dell’esistenza del danno e del nesso causale tra di esso e il demansionamento; va tenuto conto che trattasi di danno non patrimoniale, onde va evitata ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale che abbiano la stessa fonte causale” (così Cassazione, Sezione lavoro, 30.9.2009 n. 20980, preceduta da Cassazione 19.12.2008 n.29832 e seguita da tutte le successive, fra cui: Cassazione 17.9.2010 n. 19785, Cassazione 7.10. 2011, n. 20663, Cassazione 23.3.2012 n. 4712, Cassazione 19.3.2013 n. 6797, Cassazione 2.7.2013 n. 16508, Cassazione 11.10. 2013, n. 23171, Cassazione 13.6. 2014, n. 13485).

Va altresì evidenziato che in ordine al risarcimento del danno non patrimoniale cosiddetto esistenziale (eminentemente richiesto dai danneggiati da vessazioni e mobbing) lo stesso viene ritenuto dalla Cassazione “configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un “vulnus” a interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati “ex ante” da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale senza duplicare il risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà scriminare i meri pregiudizi ˗ concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili ˗ dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità” (Cassazione 18.5.2012, n. 7963, Cassazione 4.3. 2011, n. 5237).

3. L'esigenza di scriminare i reali danni risarcibili da quelli futili

La limitazione risarcitoria ai danni seri e non futili, quali i meri disagi imposti da una convivenza necessitata, costituisce applicazione del principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite nella Sentenza n. 26972 dell’11/11/2008 – resa a distanza di 2 anni dalla precedente Cassazione Sezioni Unite n.6572/2006 –, che nel ridimensionare l’asserita autonomia del cosiddetto danno esistenziale, si espresse in questi termini: “3.2. (...) Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black˗out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia. (...).

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. 

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (Sentenza n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (Sentenza n.14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle cd. liti bagatellari. Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’articolo 2059 del codice civile. 3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza”.

4. Il temperamento della rigidità probatoria per il lavoratore, accordato tramite il ricorso alle presunzioni ex articolo 2729 del codice civile

Agli estensori delle rigorose statuizioni espresse in Cassazione Sezioni Unite n. 6572/2006, va, peraltro, riconosciuta l’accortezza dell’introduzione di una misura di temperamento (cosiddetto smorzamento) della inattesa rigidità probatoria posta a carico dei ricorrenti ˗ funzionale a determinarne l’accettazione senza dissociazioni da parte dei magistrati delle sezioni semplici della stessa Cassazione ˗ rigidità che doveva essere apparsa agli stessi ermellini tale da scoraggiare il ricorso delle vittime alla giustizia, in ragione delle inaudite prove loro accollate e della conseguente previsione di insuccesso dei ricorsi.

Lo smorzamento (o temperamento) è avvenuto tramite la possibilità, accordata ai ricorrenti (cfr. punto 6 della sentenza in questione, innanzi riportato), di provare attraverso le presunzioni ex articoli 2727˗2729 del codice civile i “danni˗conseguenza” (cioè le situazioni pregiudizievoli alla professionalità, quali l’obsolescenza delle cognizioni professionali, in caso di protratto demansionamento o inattività; le modificazioni peggiorative della qualità della vita e delle abitudini pregresse, la caduta d’interesse nelle relazioni sociali e familiari, nel caso di rivendicazione di un danno esistenziale).

Cioè a dire, in luogo di ricorrere ad attestazioni documentali o testimoniali (poco realistiche se pretese da colleghi in servizio), i ricorrenti sono stati abilitati a provare le conseguenze lesive degli illeciti comportamenti datoriali o del mobber, mediante l’offerta (nei ricorsi al Giudice) di considerazioni indiziarie che, tuttavia, debbono rivestire le caratteristiche dell’essere “gravi, precise e concordanti”, la cui idoneità probatoria è rimessa al prudente apprezzamento del Giudice stesso (articolo 2729 del codice civile).

Così delineato il quadro dei principi giurisprudenziali che regolano, dopo la presa di posizione delle Sezioni Unite della Cassazione, il ristoro dei danni alla persona, la giurisprudenza successiva al 2006, nell’allinearsi (senza effettiva possibilità di dissociazione) alle statuizioni riferite, ha fatto ampio ricorso alle presunzioni nella valutazione delle prove del danno˗conseguenza, cioè al temperamento introdotto che, peraltro, presenta ampie caratteristiche di insicurezza e di rischio nell’ accettazione e valutazione con successo.

5. I requisiti su cui si fonda una valida prova per presunzioni per l’accoglimento di un ricorso giudiziario

Va infine avvertito che, per strutturare una prova per presunzioni idonea a formare nel giudice ˗ in assenza di documentazione o testimonianze in merito ˗ il convincimento di veridicità dei fatti lamentati e della loro incisività e idoneità lesiva, la giurisprudenza richiede imprescindibilmente (più che suggerire) che la vittima evidenzi, nel ricorso, i seguenti requisiti o aspetti della situazione per la quale si richiede il risarcimento di danno (con riferimento rispettivamente al demansionamento o al mobbing):

˗ la durata del demansionamento e delle vessazioni mobbizzanti (comportamenti presi in considerazione dai Giudici solo se protratti per un periodo non inferiore a 6 mesi/un anno);

˗ la gravità della dequalificazione o forzata inattività (emergente con maggiore incisività, e  disponibilità alla presa in considerazione in sede giudiziaria, per mansioni tecniche, specialistiche o informatiche – da evidenziare debitamente ˗ soggette ad obsolescenza tecnologica) ovvero dei comportamenti mobbizzanti e/o persecutori subiti;

˗ la conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dei comportamenti lesivi (cioè loro notorietà con intuitivi riflessi sulla dignità, immagine e reputazione professionale della vittima);

˗ la frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione di carriera (in quanto irrealizzate in conseguenza diretta dei comportamenti ostili), al riguardo avendo cura la vittima di evidenziare ˗ in raffronto comparativo da articolare nel ricorso ˗ come della progressione di carriera ne hanno, invece, beneficiato colleghi (da indicare nominativamente) di pari livello/inquadramento non fatti bersaglio di vessazione o discriminazione;

˗ le eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore (questo requisito esprime la necessità che la vittima documenti in ricorso di avere denunciato ˗ cioè rappresentato ˗ al datore di lavoro i fatti di cui si lamenta, in luogo di soffrire in silenzio, in quanto sia la denuncia sia la diffida ai responsabili ad attivarsi per la cessazione, sono indiziari di non acquiescenza); quindi reazioni  nei confronti del datore di lavoro o di gestori aziendali (nel senso di imputazione formale scritta ad essi, quali rappresentanti dell’azienda, della responsabilità dei comportamenti pregiudizievoli, propri o dei preposti) con diffida ad attivarsi per la loro cessazione, debitamente illustrati in ricorso nei loro riflessi lesivi dei normali rapporti sociali e per gli indesiderati effetti di peggioramento della qualità della vita.

Sulla base del nutrito contenzioso da noi seguito e, quindi, a noi noto sul tema, possiamo attestare che solo in presenza ˗ e con adeguata focalizzazione nei ricorsi ˗ di tutte queste caratteristiche, le rivendicazioni delle vittime suscettibili di essere valutate dai Giudici sulla base delle presunzioni ex articolo 2729 del codice civile, presentano possibilità di successo, altrimenti vanno inesorabilmente incontro al rigetto.

Parimenti destinate al rigetto la maggior parte delle rivendicazioni per mobbing alle quali non si accompagni una qualche forma di danno biologico certificato, determinante inabilità temporanea o permanente, in varia percentuale.

1. Premessa...conclusiva

Come è oramai noto, la Sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 6572/2006 pose fine ad un contrasto giurisprudenziale sui danni non patrimoniali risarcibili, optando per la tesi più restrittiva per i lavoratori ricorrenti, mediante l’affermazione che i danni alla professionalità da demansionamento come pure i danni alla salute e alla vita di relazione da mobbing (cosiddetti esistenziali) costituiscono “danni conseguenza” (non già “danni evento” risarcibili in re ipsa al riscontro in giudizio della condotta datoriale dannosa).

Da questo assetto dogmatico discende che una volta che il giudice abbia accertato il comportamento lesivo datoriale, il risarcimento monetario non può essere automatico ma  condizionato alla ulteriore prova da parte del lavoratore che l’accertata condotta lesiva datoriale (o dei superiori) abbia determinato causalmente danni alla salute (cosiddetto danno biologico) ovvero impoverimento della pregressa professionalità in termini tali da non essere più utilmente spendibile in azienda o sul mercato esterno, ovvero, ancora, perdita di opportunità di progressione di carriera (cosiddetta perdita di chance) rispetto a colleghi, che in quanto non fatti bersaglio del comportamento vessatorio datoriale, la carriera hanno, invece, continuato a farla.

Appare, con tutta evidenza, intuitivo come il doppio onere probatorio di cui la Cassazione a Sezioni Unite n. 6572/2006 ha gravato i lavoratori ricorrenti in giudizio, renda piuttosto difficoltoso se non  aleatorio un risarcimento di danni, giacché se il giudice accerta che il datore ha illegittimamente demansionato il lavoratore ovvero lo ha vessato, con caratteristiche mobbizzanti, ma quest’ultimo non è stato in grado di provare al magistrato (in giuridichese, allegare) ˗ sia documentalmente o ancor meglio per testi ˗ in che cosa sia consistito il suo depauperamento professionale, ovvero quali siano state le modificazioni peggiorative indotte nelle relazioni sociali e nel suo pregresso stile di vita ovvero nel suo antecedente stato di benessere psico˗fisico, il risarcimento monetario richiesto tramite il ricorso al magistrato verrà dichiarato inaccoglibile e il giudice si limiterà ad ordinare ai responsabili aziendali la sola cessazione del comportamento contra legem e il ripristino della situazione legale antecedente.

Di seguito evidenziamo come si è giunti a questa sconfortante situazione.

2. Cronistoria

Il riconoscimento da parte dei Giudici di merito e di Cassazione dei danni subiti dalle pratiche di demansionamento e mobbing è stato abbastanza agevole nell’arco 1990/2004, ove l’orientamento giurisprudenziale vedeva prevalere l’opinione per cui, una volta allegato in giudizio da parte del lavoratore (per documentazione o per testi) il demansionamento o l’inoperosità forzata e documentate le pratiche vessatorie, il risarcimento discendeva conseguenzialmente dietro liquidazione equitativa del magistrato, ex articolo 1226 del codice civile, in quanto il danno era considerato “in re ipsa” cioè immanente al riscontro di veridicità ed effettività dei comportamenti pregiudizievoli posti in essere dallo stesso datore o dai suoi preposti.

Il parametro adottato all’epoca per indennizzare un demansionamento incisivo, di durata almeno semestrale o ultrannuale, era rappresentato dal 100% della retribuzione mensile percepita moltiplicata per tutti i mesi di durata del demansionamento, inattività o vessazione. Col passare degli anni, la magistratura si è fatta più “tirchia” e tale parametro ha subito nell’applicazione una sensibile, graduale, contrazione fino ad attestarsi, ai nostri giorni, a non più del 20˗30% della retribuzione.

A questo orientamento ragionevole e di buon senso ˗ basato sulla incontestabile constatazione per nozioni di comune conoscenza (ex articolo 115 del codice di procedura civile) che le pratiche demansionanti o vessatorie non sono né neutre né benefiche per la vittima ma determinative, all’opposto, di un danno e di una sofferenza ˗ si è contrapposto poco dopo un orientamento minoritario, portato avanti dai legali delle aziende (che ha fatto progressiva breccia su una parte della magistratura).

Tale orientamento formalistico si avvalse, tra l’altro, dell’impostazione della Sentenza n. 372/1994 della Corte Costituzionale (redatta dal giuslavorista prof. L. Mengoni) così espressasi: “È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 del codice civile, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”.

Ne scaturì il conseguente corollario che, ai fini del risarcimento danni da responsabilità civile, era insufficiente l’accertamento giudiziale dell’effettività dei comportamenti inadempienti e illeciti del datore o dei preposti, ma andava pretesa addizionalmente dal lavoratore la dimostrazione in concreto della tipologia del danno per il quale richiedeva di essere indennizzato in giudizio.

Per meglio capirci, questo orientamento subordinava il diritto al risarcimento ˗ ad esempio del danno alla professionalità da demansionamento ˗ alla dimostrazione da parte del lavoratore dell’aver subito un impoverimento delle proprie cognizioni professionali, tale da rendergli difficoltosa o impossibile la progressione di carriera all’interno dell’azienda o il reperimento una nuova occupazione, in pari ruolo professionale, all’esterno.

Per il risarcimento del danno morale/esistenziale, poi, era da ritenersi insufficiente la dimostrazione dettagliata delle plurime, reiterate e accertate vessazioni, dovendosi pretendere e dimostrare addizionalmente da parte della vittima quale forma esteriorizzata abbia assunto il danno morale, alla reputazione e all’immagine nonché se e in che modo le incontestate vessazioni siano state idonee a determinare una modificazione peggiorativa della qualità della vita.

Come anticipato, il contrasto tra i due orientamenti venne composto dalla Sentenza 24 marzo 2006, n. 6572 delle Sezioni Unite della Cassazione (Pres. Vincenzo Carbone ˗ Rel. Maura La Terza), che ritenne di privilegiare il surriferito orientamento minoritario, più rigidamente formalistico, più restrittivo per i danneggiati, idoneo a gravare la vittima non di una ma di due forme di prova (la seconda quasi con connotazioni di “probatio diabolica”), così rappresentate: la prima, dalla dimostrazione in giudizio dello stato di demansionamento subito, delle pratiche illecite e persecutorie a cui si è stati sottoposti; la seconda consistente, giustappunto, nella dimostrazione dell’impoverimento professionale (in caso di demansionamento e/o inoperosità forzata), e, nel caso di richiesta di indennizzo di un danno non patrimoniale (quale il morale o l’esistenziale), dalla dimostrazione del pregiudizio alla vita di relazione per alterazione peggiorativa delle pregresse abitudini di vita, risultate stravolte.

La decisione così si espresse: “2. Dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo. L’inadempimento infatti è già sanzionato con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma, non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di ci all’articolo 1218 e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli articoli 2087 e 2103 del codice civile, da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte costituzionale 372/94).

D’altra parte – mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta – ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile.

In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma˗castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento

3. È noto poi che dall’inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all’integrità psico˗fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cosiddetto esistenziale, che possono anche coesistere l’una con l’altra

Prima di scendere all’esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno.

Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’articolo 421 del codice di procedura civile – non può invece mai sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cassazione Sezioni Unite 1099/98).

4. Passando ora all’esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno.

Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.

Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività.

In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore.

5. Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacché questo, che non può prescindere dall’accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell’integrità psico˗fisica medicalmente accertabile, secondo la definizione legislativa di cui all’articolo 5 comma 3 della Legge 57/2001 sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall’articolo 13 del Decreto Legislativo 38/2000 in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte costituzione con la sentenza 233/03).
6. Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della Costituzione (cosiddetto danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto.

Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso.

Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell’atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all’immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione.

Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’integrità psico fisica – necessità imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita.

Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita.

Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte costituzionale con la Sentenza 372/94 per cui “È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 del codice civile, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”.

7. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente.

Mentre il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato.

Ed infatti – se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostante di congiunti e colleghi di lavoro.

Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cassazione 9834/02) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all’articolo 2727 del codice civile venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostante, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cassazione 13819/03) complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex articolo 115 del codice di procedura civile a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

D’altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell’arbitrio, necessità di parametri a cui ancorarsi”.

La sentenza soprariferita costituì l’applicazione dei criteri elaborati, in tema risarcitorio, da una parte della dottrina e della giurisprudenza, che avevano portato alla teorica distinzione (in dottrina e giurisprudenza) tra “danno evento” e “danno conseguenza” (dicotomia che l’antecedente Cassazione, Sezioni Unite n. 2515 del 21/2/2002 aveva qualificato espressamente “mera sovrastruttura teorica”).

Questa distinzione era stata elaborata con riferimento all’esigenza di limitare al massimo il risarcimento dei danni non patrimoniali – a differenza che per il ristoro dei danni patrimoniali –, esigenza che appariva accolta dall’articolo 2059 del codice civile, in congiunzione con l’articolo 1223 del codice civile, per il quale: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.

La distinzione teorica in questione aveva portato, poi, a configurare il risarcimento del danno alla persona secondo uno schema tripartito, e con il seguente inquadramento:

˗ il danno alla salute (cosiddetto biologico, medicalmente accertabile): inquadrato come “danno˗evento”, come tale immediatamente risarcibile una volta certificato sanitariamente, a prescindere da qualsiasi prova di compromissione reddituale;

˗ il danno patrimoniale: inquadrato come “danno˗conseguenza”, che, in quanto determinante un decremento della sfera patrimoniale del soggetto leso, era risarcibile dietro dimostrazione della perdita economica o del mancato guadagno ;

˗ Il danno non patrimoniale (morale, alla professionalità, esistenziale, cioè alla vita di relazione): inquadrato come “danno˗conseguenza”, risarcibile dietro prova dei pregiudizi subiti e dei riflessi negativi indotti alla qualità della vita, all’assetto delle relazioni sociali, ecc.

In conseguenza di questo inquadramento dogmatico – rispolverato e riaffermato dalle Sezioni Unite n. 6572/2006 anche per il risarcimento dei danni alla persona in ambito lavorativo – le successive sentenze delle sezioni semplici della Cassazione ˗ fino a tutt’oggi e senza alcuna prospettiva di un diverso orientamento ˗ statuiscono (reiteratamente e  in forma oggettivamente ostativa ad un atteso risarcimento per i lavoratori) che: una volta riscontrato che il demansionamento sussiste e si è protratto nel tempo, rimane il problema della prova dell’esistenza di un danno risarcibile e del nesso causale.

In fattispecie la sentenza di 2 grado ha liquidato un danno da demansionamento, del quale ha debitamente illustrato le caratteristiche, quale lesione di un diritto fondamentale dell’individuo e quindi risarcibile anche sotto il profilo non patrimoniale, ed ha nel contempo affermato che tale danno è risarcibile “ex se”.

Tale affermazione non può essere condivisa: Cassazione 19.12.2008 n. 29832 afferma che in tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.

Mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione all’integrità psico˗fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni.

Nella specie, la Corte di Appello liquida il danno da demansionamento, inteso non come danno esistenziale ma come lesione della professionalità e della dignità del lavoratore, dando per scontato che i presupposti in fatto sussistano, laddove era necessario un accertamento in fatto circa l’esistenza di un pregiudizio e del nesso causale. Il danno non patrimoniale è risarcibile nei casi previsti dalla legge, vale a dire in caso di fatto˗reato, di lesione per la quale la norma positiva prevede il risarcimento del danno, ed infine in caso di lesione di diritti fondamentali (è il caso di specie): Cassazione Sezioni Unite 11.11.2008 n. 26972.

Ma rimane il problema della prova dell’esistenza del danno e del nesso causale, prova che non può essere presupposta. Non è ammissibile la categoria del “danno esistenziale” (…) ed il danno non patrimoniale, nella cui categoria viene ricondotto il danno biologico, deve essere derivato da una lesione di un diritto costituzionalmente riconosciuto, deve essere grave e non futile (Cassazione Sezioni Unite n. 26972/08). In altri termini, il giudice, in caso di accertato demansionamento, deve procedere alla liquidazione del danno sulla base di una ricostruzione in fatto della vicenda, dell’accertamento anche presuntivo dell’esistenza di un danno risarcibile e del nesso di causalità (Cass. 26.6.2006 n. 14729).

Poiché la sentenza impugnata non motiva in ordine a quanto precede, limitandosi a formulare affermazioni di principio e ravvisando il danno “in re ipsa”, essa va cassata “in parte qua” ed il processo va rimesso ad altra Corte di Appello la quale procederà a nuovo esame della fattispecie, attenendosi al seguente principio: “accertato un demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità richiesto dal lavoratore non può prescindere dalla dimostrazione in fatto dell’esistenza del danno e del nesso causale tra di esso e il demansionamento; va tenuto conto che trattasi di danno non patrimoniale, onde va evitata ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale che abbiano la stessa fonte causale” (così Cassazione, Sezione lavoro, 30.9.2009 n. 20980, preceduta da Cassazione 19.12.2008 n.29832 e seguita da tutte le successive, fra cui: Cassazione 17.9.2010 n. 19785, Cassazione 7.10. 2011, n. 20663, Cassazione 23.3.2012 n. 4712, Cassazione 19.3.2013 n. 6797, Cassazione 2.7.2013 n. 16508, Cassazione 11.10. 2013, n. 23171, Cassazione 13.6. 2014, n. 13485).

Va altresì evidenziato che in ordine al risarcimento del danno non patrimoniale cosiddetto esistenziale (eminentemente richiesto dai danneggiati da vessazioni e mobbing) lo stesso viene ritenuto dalla Cassazione “configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un “vulnus” a interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati “ex ante” da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale senza duplicare il risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà scriminare i meri pregiudizi ˗ concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili ˗ dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità” (Cassazione 18.5.2012, n. 7963, Cassazione 4.3. 2011, n. 5237).

3. L'esigenza di scriminare i reali danni risarcibili da quelli futili

La limitazione risarcitoria ai danni seri e non futili, quali i meri disagi imposti da una convivenza necessitata, costituisce applicazione del principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite nella Sentenza n. 26972 dell’11/11/2008 – resa a distanza di 2 anni dalla precedente Cassazione Sezioni Unite n.6572/2006 –, che nel ridimensionare l’asserita autonomia del cosiddetto danno esistenziale, si espresse in questi termini: “3.2. (...) Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black˗out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia. (...).

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. 

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (Sentenza n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (Sentenza n.14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle cd. liti bagatellari. Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’articolo 2059 del codice civile. 3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza”.

4. Il temperamento della rigidità probatoria per il lavoratore, accordato tramite il ricorso alle presunzioni ex articolo 2729 del codice civile

Agli estensori delle rigorose statuizioni espresse in Cassazione Sezioni Unite n. 6572/2006, va, peraltro, riconosciuta l’accortezza dell’introduzione di una misura di temperamento (cosiddetto smorzamento) della inattesa rigidità probatoria posta a carico dei ricorrenti ˗ funzionale a determinarne l’accettazione senza dissociazioni da parte dei magistrati delle sezioni semplici della stessa Cassazione ˗ rigidità che doveva essere apparsa agli stessi ermellini tale da scoraggiare il ricorso delle vittime alla giustizia, in ragione delle inaudite prove loro accollate e della conseguente previsione di insuccesso dei ricorsi.

Lo smorzamento (o temperamento) è avvenuto tramite la possibilità, accordata ai ricorrenti (cfr. punto 6 della sentenza in questione, innanzi riportato), di provare attraverso le presunzioni ex articoli 2727˗2729 del codice civile i “danni˗conseguenza” (cioè le situazioni pregiudizievoli alla professionalità, quali l’obsolescenza delle cognizioni professionali, in caso di protratto demansionamento o inattività; le modificazioni peggiorative della qualità della vita e delle abitudini pregresse, la caduta d’interesse nelle relazioni sociali e familiari, nel caso di rivendicazione di un danno esistenziale).

Cioè a dire, in luogo di ricorrere ad attestazioni documentali o testimoniali (poco realistiche se pretese da colleghi in servizio), i ricorrenti sono stati abilitati a provare le conseguenze lesive degli illeciti comportamenti datoriali o del mobber, mediante l’offerta (nei ricorsi al Giudice) di considerazioni indiziarie che, tuttavia, debbono rivestire le caratteristiche dell’essere “gravi, precise e concordanti”, la cui idoneità probatoria è rimessa al prudente apprezzamento del Giudice stesso (articolo 2729 del codice civile).

Così delineato il quadro dei principi giurisprudenziali che regolano, dopo la presa di posizione delle Sezioni Unite della Cassazione, il ristoro dei danni alla persona, la giurisprudenza successiva al 2006, nell’allinearsi (senza effettiva possibilità di dissociazione) alle statuizioni riferite, ha fatto ampio ricorso alle presunzioni nella valutazione delle prove del danno˗conseguenza, cioè al temperamento introdotto che, peraltro, presenta ampie caratteristiche di insicurezza e di rischio nell’ accettazione e valutazione con successo.

5. I requisiti su cui si fonda una valida prova per presunzioni per l’accoglimento di un ricorso giudiziario

Va infine avvertito che, per strutturare una prova per presunzioni idonea a formare nel giudice ˗ in assenza di documentazione o testimonianze in merito ˗ il convincimento di veridicità dei fatti lamentati e della loro incisività e idoneità lesiva, la giurisprudenza richiede imprescindibilmente (più che suggerire) che la vittima evidenzi, nel ricorso, i seguenti requisiti o aspetti della situazione per la quale si richiede il risarcimento di danno (con riferimento rispettivamente al demansionamento o al mobbing):

˗ la durata del demansionamento e delle vessazioni mobbizzanti (comportamenti presi in considerazione dai Giudici solo se protratti per un periodo non inferiore a 6 mesi/un anno);

˗ la gravità della dequalificazione o forzata inattività (emergente con maggiore incisività, e  disponibilità alla presa in considerazione in sede giudiziaria, per mansioni tecniche, specialistiche o informatiche – da evidenziare debitamente ˗ soggette ad obsolescenza tecnologica) ovvero dei comportamenti mobbizzanti e/o persecutori subiti;

˗ la conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dei comportamenti lesivi (cioè loro notorietà con intuitivi riflessi sulla dignità, immagine e reputazione professionale della vittima);

˗ la frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione di carriera (in quanto irrealizzate in conseguenza diretta dei comportamenti ostili), al riguardo avendo cura la vittima di evidenziare ˗ in raffronto comparativo da articolare nel ricorso ˗ come della progressione di carriera ne hanno, invece, beneficiato colleghi (da indicare nominativamente) di pari livello/inquadramento non fatti bersaglio di vessazione o discriminazione;

˗ le eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore (questo requisito esprime la necessità che la vittima documenti in ricorso di avere denunciato ˗ cioè rappresentato ˗ al datore di lavoro i fatti di cui si lamenta, in luogo di soffrire in silenzio, in quanto sia la denuncia sia la diffida ai responsabili ad attivarsi per la cessazione, sono indiziari di non acquiescenza); quindi reazioni  nei confronti del datore di lavoro o di gestori aziendali (nel senso di imputazione formale scritta ad essi, quali rappresentanti dell’azienda, della responsabilità dei comportamenti pregiudizievoli, propri o dei preposti) con diffida ad attivarsi per la loro cessazione, debitamente illustrati in ricorso nei loro riflessi lesivi dei normali rapporti sociali e per gli indesiderati effetti di peggioramento della qualità della vita.

Sulla base del nutrito contenzioso da noi seguito e, quindi, a noi noto sul tema, possiamo attestare che solo in presenza ˗ e con adeguata focalizzazione nei ricorsi ˗ di tutte queste caratteristiche, le rivendicazioni delle vittime suscettibili di essere valutate dai Giudici sulla base delle presunzioni ex articolo 2729 del codice civile, presentano possibilità di successo, altrimenti vanno inesorabilmente incontro al rigetto.

Parimenti destinate al rigetto la maggior parte delle rivendicazioni per mobbing alle quali non si accompagni una qualche forma di danno biologico certificato, determinante inabilità temporanea o permanente, in varia percentuale.