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Esternalizzazione di personale tramite trasferimento di fittizi rami d’azienda

1. Premessa

Ha preso piede, tra i vari sistemi o tecniche imprenditoriali di riduzione illegale di personale aggiranti il ricorso alla Legge n. 233/91,  quella dell’espulsione di dipendenti indesiderati o in esubero praticata mediante la creazione ed il successivo trasferimento di fittizi rami, funzioni o porzioni d’azienda che, sostanzialmente, maschera una mera esternalizzazione di lavoratori attuata tramite cessione non consensuale (in violazione dell’articolo 1406 del codice civile) dei loro contratti individuali di lavoro dall’azienda cedente all’azienda cessionaria, utilizzando illegittimamente la normativa del trasferimento d’azienda (articolo 2112 del codice civile) che, notoriamente, consente, in via d’eccezione, il trasferimento non consensuale da un’azienda ad un’altra di prestatori d’opera, sempre che ricorrano reali (e non simulate) esigenze di riorganizzazione aziendale.

Va detto che, se in anteriori tempi di cosiddetti “vacche grasse” le imprese traguardavano la cosiddetta “autosufficienza” istituendo e gelosamente mantenendo, al proprio interno, accanto ai servizi essenziali anche i cosiddetti servizi ausiliari,  in tempi posteriori di incipiente o galoppante crisi, le imprese hanno cercato di ridurre i loro costi e, quindi, hanno scelto la soluzione della frammentazione dei servizi, liberandosi di quelli ritenuti non strettamente indispensabili cioè meramente ausiliari, per mantenere al proprio interno solo attività e personale ritenuto essenziale al cosiddetto “core business” societario.

Hanno cercato, pertanto, di sgravarsi del personale impiegato nei servizi ausiliari interni, attraverso la tecnica della creazione e successivo trasferimento (a terzi o a consociate) di fittizi rami o porzioni d’azienda destinatari di ccnl meno onerosi (quindi applicanti condizioni retributivo-normative deteriori per i cosiddetti esternalizzati) o mediante la creazione ad hoc di minisocietà (preferibilmente al disotto dei 15 dipendenti, onde sottrarsi ai vincoli della cosiddetta “stabilità reale”) nelle quali trasferire parte dei propri dipendenti non essenziali o in eccedenza: Società sovente destinate, in tempi brevi,  alla chiusura accompagnata dall’espulsione definitiva dal mercato del lavoro del personale in esse esternalizzato, conseguente alla risoluzione dei rapporti di lavoro per cessazione d’attività.

2. La normativa di riferimento per il trasferimento di porzioni d’azienda

Relativamente all’originaria disciplina del trasferimento d’azienda risiedente nell’articolo 2112 del codice civile, va ricordato come il governo di centro-destra, all’inizio del nuovo millennio, abbia fatto proprie le pressioni datoriali tese ad avere piena mano libera nelle riorganizzazioni aziendali, e, di conseguenza, sia riuscito in data 5 luglio 2002 a concludere con due Confederazioni sindacali (Cisl e Uil) il cosiddetto “Patto per l’Italia” il cui all. n. 3 (trasfuso poi nell’articolo 32 del Decreto Legislativo n. 276/2003) era stato preordinato per svincolare i datori di lavoro, nei trasferimenti di rami d’azienda, dal rispetto del requisito garante della non fraudolenza delle operazioni di esternalizzazione, costituito dalla cosiddetta “preesistenza” del ramo ceduto all’interno dell’azienda cedente, anteriormente al trasferimento dei lavoratori impegnati nel ramo o servizio ausiliare al “core business”.

A seguito di tale concordata (quanto esiziale) modifica normativa per i trasferimenti di rami d’azienda,  il 5 comma dell’articolo 2112 del codice civile venne riformulato in questi termini: «Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento é attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

La modifica introdotta da quel Patto (definito, non a caso, “scellerato”) venne immediatamente percepita dalla dottrina lavoristica in tutta la sua pericolosità, tanto che da un illustre giuslavorista si disse che: «Con la consueta disinvoltura nei confronti delle regole europee, il governo di centro-destra vorrebbe adesso intervenire sulla disciplina vigente e modificarla nel senso che il requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda dovrebbe sussistere solo “nel momento del suo trasferimento”: un banale éscamotage linguistico, dietro il quale non è difficile scorgere l’intenzione di legittimare la costituzione di fittizi rami d’azienda, mai esistiti prima dell’operazione di trasferimento, al solo scopo di consentire l’espulsione dei lavoratori addetti al preteso ramo, aggirando qualsiasi regola in materia di licenziamento[1]».

Analogamente si espresse un altro giuslavorista, secondo cui: «La riforma concordata nel Patto prevede che l’autonomia funzionale del ramo d’azienda in luogo di essere preesistente sussista anche solo nel momento in cui viene attuato il trasferimento. Ciò evidentemente vuol dire che il datore di lavoro può organizzare una pluralità di lavoratori, che nulla hanno a che fare tra di loro, in un unico ufficio o reparto, costituito solo in vista della cessione e al momento della stessa: questi lavoratori saranno quindi automaticamente ceduti all’esterno, anche se, prima della cessione, non facevano parte di un ramo autonomo dell’azienda[2]».

Il ventilato rischio di una legittimazione legislativa a trasferimenti fraudolenti - conseguente alla studiata eliminazione dal testo originario dell’articolo 2112 del codice civile del requisito della “preesistenza” del ramo da cedere, sostituito dall’autorizzazione (consentita dalle due improvvide Confederazioni Cisl e Uil firmatarie del cosiddetto Patto per l’Italia)  al confezionamento ad hoc, da parte del cedente in accordo con il cessionario, all’atto del trasferimento, della porzione d’azienda da alienare unitamente ad un coacervo di personale indesiderato o eccedentario - incontrò subito il dissenso della migliore dottrina e - quel che più conta - s’imbatté nel muro eretto dalla  prevalente giurisprudenza di merito ed eminentemente di Cassazione che considerarono il nuovo espediente normativo inidoneo a travolgere le garanzie dei lavoratori, stante  la presenza vincolante nell’ordinamento  della superiore normativa comunitaria.

Talché l’orientamento di Cassazione (oramai stabilizzatosi, come evidenziamo in prosieguo),  giunse a stabilire come «l’articolo 32 del Decreto Legislativo n. 276/03 (emanato a seguito della legge delega n. 30/2003 che prevedeva innanzitutto il “completo adeguamento della disciplina vigente alla normativa comunitaria”), vada innanzitutto interpretato alla luce di quest’ultima, la quale presuppone che l’oggetto del trasferimento costituisca un’entità economica con propria identità funzionalmente autonoma che resti conservata con il trasferimento (cfr. in particolare le direttive CE n. 98/50 e n.23/2001; quest’ultima stabilisce infatti, all’articolo 1 lettera b), che: “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”). Ne consegue - secondo la Cassazione (cfr., per tutte,  Cassazione 4 dicembre 2012 n. 2171) - che, nonostante talune difformi opinioni basate sul dato letterale dell’assenza, nelle Direttive comunitarie, del concetto di “preesistenza” (pur essendo previsto quello della conservazione dell’identità), l’entità economica trasferita deve in realtà ritenersi preesistente al trasferimento, non potendo conservarsi quel che non c’è (cfr. sul punto, Cassazione 13 ottobre 2009 n. 21697). Il concetto di preesistenza deve poi ritenersi necessariamente riferito ad una articolazione funzionalmente autonoma dell’azienda, posto che qualunque lavorazione aziendale, per poter essere ceduta, non potrebbe che preesistere al negozio traslativo, essendone il necessario oggetto contrattuale. Tale conclusione risulta obbligata anche alla luce della legge delega n. 30/2003, considerando che essa prevedeva la sussistenza del requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda al momento del suo trasferimento, dovendosi conseguentemente ritenere non consentito attribuire unicamente alle parti imprenditoriali di individuare a quali cessioni si applichi la fondamentale garanzia di cui all’articolo 2112 del codice civile, risultando peraltro arduo sostenere che competa unicamente al datore di lavoro decidere sull’applicabilità di disposizioni inderogabili a garanzia dei lavoratori. Resta dunque assodato che quando oggetto di cessione non sia un complesso di beni e contratti funzionalmente coordinati all’esercizio almeno potenziale ad una attività di impresa, ma solo contratti di lavoro (con l’aggiunta eventuale di taluni beni strumentali non legati da un nesso organizzativo-funzionale), si è fuori dall’ipotesi di cui all’articolo 2112 del codice civile, essendo invece applicabile l’articolo 1406 del codice civile, che condiziona l’efficacia della cessione al consenso del contraente ceduto. (...) Non può ammettersi  - alla luce dei principi comunitari, cfr. C.G.E. 24 gennaio 2002, causa C-51/00 - che l’autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto possa derivare (soggettivamente) solo dalla qualificazione fattane dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, consentendo ai soggetti stipulanti il negozio traslativo (peraltro neppure portatori di superiori interessi pubblici o collettivi), la libera definizione della fattispecie cui la norma inderogabile si applica, e ciò in contrasto con la disciplina comunitaria in ordine all’inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda».

3. La sentenza 6 marzo 2014 - C-458/12 - della Corte Europea di Giustizia e gli equivoci occasionati

Va fatto ancora presente come l’irrilevanza o inidoneità  della nuova formulazione del 5 comma dell’articolo 2112 del codice civile[3] a sottrarre dal consenso individuale ex articolo 1406 del codice civile la cessione dei contratti di lavoro dei prestatori d’opera accorpati in una pseudo struttura aziendale priva di autonomia funzionale ma dichiarata tale solo dall’accordo tra cedente e cessionario, abbia rischiato recentissimamente di essere messa in discussione da una travisata interpretazione della sentenza della C.G.E. del 6 marzo 2014 - C-458/12.

La decisione è scaturita a seguito di una controversia tra lavoratori trasferiti da Telecom spa ad una partecipata, per la soluzione della quale il Tribunale di Trento ha pregiudizialmente ritenuto  opportuno di investire la Corte europea di giustizia per sapere (per quanto rileva ai fini del nostro discorso): «1) Se la disciplina dell’Unione europea in tema di “trasferimento di parte di azienda” [in particolare l’articolo 1, paragrafo 1, lettere a) e b), in riferimento all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva (...) 2001/23(...)], osti ad una norma interna, quale quella dettata dall’articolo 2112, comma 5, del codice civile, che consente la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora la parte di azienda oggetto del trasferimento non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma già preesistente al trasferimento, tanto da poter essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

Il Tribunale nazionale probabilmente intendeva far dare dalla C.G.E risposta alle perplessità indottegli dalle tesi datoriali che contestavano la consolidata inapplicabilità dell’articolo 2112 del codice civile (contemplante la cessione dei lavoratori senza consenso) per l’ipotesi del trasferimento ad una azienda cessionaria di una frazione aziendale priva di preesistente autonomia funzionale, sebbene come tale dichiarata (“identificata”) congiuntamente da cedente e cessionario.

Stante il fatto che le  menzionate direttive comunitarie sono  tese a garantire  i diritti dei lavoratori nelle multiformi fattispecie di mobilità aziendale, la Corte europea non ha fornito la risposta nel senso atteso dal Giudice italiano (conferma di obbligatorietà del trasferimento dei lavoratori anche in caso di cessione di una struttura non autonoma ad un’altra azienda) ma concludentemente - a nostro avviso - ha riconvertito idealmente il quesito in quello così riassumibile:” dica la C.G.E. se la normativa comunitaria che rende obbligatorio (per il cessionario subentrante nel ramo aziendale ceduto) il mantenimento del posto e dei diritti maturati dai lavoratori presso il cedente come pure la conservazione di una loro rappresentanza sindacale, riguardi anche i lavoratori trasferiti di fatto da un’unità produttiva priva di preesistente autonomia nell’azienda del cedente”.

La risposta fornita dalla C.G.E. è stata nel senso che: «ai fini dell’applicazione di detta direttiva (2001/23), l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente, là dove la nozione di autonomia si riferisce ai poteri, riconosciuti ai responsabili del gruppo di lavoratori considerato, di organizzare, in modo relativamente libero e indipendente, il lavoro in seno a tale gruppo e, più specificamente, di impartire istruzioni e distribuire compiti ai lavoratori subordinati appartenenti al gruppo medesimo, e ciò senza intervento diretto da parte di altre strutture organizzative del datore di lavoro (sentenza Scattolon, cit., punto 51 e la giurisprudenza ivi citata). Infatti, l’impiego, al citato articolo 6, paragrafo 1, primo e quarto comma, del termine “conservi” implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento. Pertanto, qualora risultasse, nel procedimento principale, che l’entità trasferita di cui trattasi non disponeva, anteriormente al trasferimento, di un’autonomia funzionale sufficiente - circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare -, tale trasferimento non ricadrebbe sotto la direttiva 2001/23. In tal caso, dalla direttiva non deriverebbe alcun obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti. Ciò detto, la direttiva sopra menzionata non deve essere letta nel senso che vieti ad uno Stato membro di prevedere un siffatto mantenimento dei diritti dei lavoratori nella situazione evocata al punto precedente della presente sentenza. Infatti, il “considerando” 3 della direttiva 2001/23 afferma che occorre adottare le disposizioni necessarie per proteggere i lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, in particolare per assicurare il mantenimento dei loro diritti. Pertanto, il citato “considerando” evidenzia il rischio rappresentato, per il mantenimento dei diritti dei lavoratori, dalla situazione di subentro di un nuovo imprenditore, nonché la necessità di tutelare i lavoratori dinanzi a tale rischio mediante l’adozione di opportune disposizioni.

Dunque, la semplice mancanza di autonomia funzionale dell’entità trasferita non può, di per sé, costituire un ostacolo a che uno Stato membro garantisca nel proprio ordinamento interno il mantenimento dei diritti dei lavoratori dopo il cambiamento dell’imprenditore. Tale conclusione è corroborata dall’articolo 8 della direttiva 2001/23, il quale dispone che quest’ultima non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori».

In poche parole, la Corte europea di giustizia  giunge a dire che alla legislazione nazionale, in un’ottica di mantenimento dei diritti dei lavoratori e di mero favore, non è preclusa la possibilità di prevedere in capo all’acquirente di una porzione d’impresa - non dotata di preesistente autonomia nell’impresa cedente - la conservazione dei diritti maturati dai lavoratori di fatto trasferiti. Con la precisazione che nella fattispecie in questione la normativa comunitaria non estende al cessionario l’obbligo di  subentro nei rapporti di lavoro implicante  l’automatico mantenimento per i lavoratori dei diritti maturati presso il cedente. Naturalmente senza che da tale eventuale estensione di favore da parte della normativa nazionale, discenda o consegua la privazione della facoltà per i lavoratori di agire in giudizio per contestare l’illegittimità del trasferimento del presunto ramo d’azienda ed ottenere, pertanto, il ripristino di dipendenza dall’azienda cedente.

La sopra riferita interpretazione delle conclusioni della sentenza comunitaria - la cui lettura equivoca aveva suscitato, in commenti filo datoriali, auspici di un’attesa inversione di tendenza sul tema dei requisiti per il legittimo trasferimento di rami d’azienda - riceve autorevole conferma da una nutrita serie di sentenze della Cassazione rese nel corso  del 2014 (nei mesi successivi al marzo, di pubblicazione della sentenza comunitaria).

Tra le molte, Cass. 12/8/2014, n. 17901 afferma: «non può ammettersi un trasferimento di ramo d’azienda con riferimento alla sola decisione, assunta dal soggetto cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un’unica funzione al momento del trasferimento. Tanto infatti contrasterebbe e con le direttive comunitarie 1998/50 e 2001/23, che richiedono già prima di quest’atto “un’entità economica che conservi la propria identità” ossia un assetto già formato, e con gli articolo 4 e 36 della Costituzione, che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori (sentenza n. 115 del 1994 della Corte costituzionale) ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, incontrollabile per l’assenza di riferimenti oggettivi (cfr. Cass. 15 aprile 2014, n. 8757 e 4 dicembre 2012, n. 21711). Né a diverse conclusioni può indurre la sentenza 6 marzo 2014 della Corte di giustizia resa nella causa Lorenzo Amatori e altri, C-458/12, secondo la quale l’art. 1, par. 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23/Ce del consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento.

La richiamata pronuncia, infatti, interviene su questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trento che muove dall’errato presupposto che la norma interna, quale quella dettata dall’art. 2112, 5° comma, c.c., consente la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora la parte di azienda oggetto del trasferimento non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma già preesistente al trasferimento, tanto da poter essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.

Inoltre la sentenza comunitaria va letta, non nel senso che non occorre, ai fini di cui trattasi, il requisito della preesistenza, ma che è consentito agli Stati membri prevedere una norma che estenda l’obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti anche in caso di non preesistenza del ramo d’azienda.

D’altro canto, la stessa corte, nella citata sentenza, ribadisce che, ai fini dell’applicazione della richiamata direttiva 2001/23, l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente.

Alla stregua delle svolte considerazioni, pertanto, non è corretta la sentenza impugnata (Corte Appello di Napoli) la quale ha ritenuto che ai sensi del novellato articolo 2112 del codice civile le parti potessero al momento del trasferimento identificare il ramo d’azienda da cedere».

4. La riaffermazione dell’orientamento consolidato nelle sentenze di Cassazione del 2014

Fatta in tal modo chiarezza in ordine all’interpretazione  della sentenza della Corte europea di giustizia del 6/3/2014resa nella causa L. Amatori e altri, C-458/12, la Cassazione tramite una nutrita (quasi alluvionale) serie di sentenze emesse dalla sezione lavoro nel 2014 (ex plurimis: Cass. n. 17901/14, rel. Napoletano; Cass. n. 17863/14, rel. Bronzini; Cass. n. 17381/14, rel. Bronzini; Cass. n. 13617/14, rel. Buffa;  Cass. n. 11721/14, rel. Amendola; Cass. n. 11575/14, rel. Amendola; Cass. n. 11237/14, rel. Tricomi; Cass. n. 10926/14, rel. Amendola; Cass. n. 9957/14, rel. Lorito; Cass. n. 8902/14, rel. Napoletano, ecc.) riafferma in maniera consolidata il proprio precedente orientamento.

Asserisce, nella trattazione delle fattispecie sottopostegli (eminentemente per controversie concernenti una nota società di telecomunicazioni impegnata in frammentazioni aziendali, cessioni a terzi di funzioni ausiliarie e/o porzioni di unità produttive,  e simili) che, in tema di trasferimento di azienda, il lavoratore ha interesse ad accertare in giudizio la non ravvisabilità di un ramo di azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento e, quindi, l’inefficacia di questo nei suoi confronti in difetto del suo consenso, per l’inapplicabilità dell’articolo 2112 del codice civile e l’operatività della regola generale di cui all’articolo 1406 del codice civile, non essendo indifferente per il lavoratore, quale creditore della prestazione retributiva, il mutamento della persona del debitore, ossia del datore di lavoro, che può offrire garanzie più o meno ampie di tutela dei diritti dei lavoratori, in ragione del suo grado di solvibilità o di attitudine o disponibilità a proseguire l’attività e, quindi, garantire la continuità produttiva. Tale interesse non viene meno né per lo svolgimento, in via di mero fatto, di prestazioni lavorative nell’ambito del rapporto di lavoro con il cessionario, che è cosa ben diversa dall’accettazione della cessione del contratto di lavoro, né per effetto di eventuale conciliazione intercorsa tra il lavoratore ed il cessionario all’esito del licenziamento del primo né, in genere, per effetto delle vicende risolutive del rapporto con il cessionario.

Con riferimento poi alla cessione di azienda regolata dall’articolo 2112 del codice civile, la Cassazione espressasi di recente[4] ha tenuto a riconfermare il pregresso orientamento sostenuto dalla S. Corte che ha sempre affermato (così Cass. 3/10/2013, n. 22627; Cass. 3/10/2013, n. 22613; Cass. 4/12/2012, n. 21711; Cass. 1/02/2008, n. 2489;  Cass. 17/3/2009, n. 6452) che per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’art 2112 cod. civ. (così come modificato dalla legge 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE n. 98/50), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità.

Il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito. Si è pure rilevato (Cass. 10/1/2004 n. 206) che l’articolo 2112 del codice civile, letto in linea con la giurisprudenza comunitaria formatasi in merito alla interpretazione della direttiva n. 187 del 1977 e con le esplicite indicazioni fornite dalla direttiva n. 50 del 1998, consente di ricondurre alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità.

In presenza di tali condizioni, può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare “know how”, realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex articolo 1406 e seguenti del codice civile. Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’articolo 2112 del codice civile resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto.

Detta nozione di trasferimento di ramo d’azienda è coerente con la disciplina in materia dell’Unione europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui «è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria» (articolo 1, n. 1, direttiva 2001/23). La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario, ha ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C-340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C-232/04 e C-233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal, C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, puntò 60).

Tali principi sono stati ribaditi ulteriormente dalla Corte europea che, pur richiamando l’articolo 8 della direttiva 2001/23 e la facoltà ivi prevista che gli Stati membri applichino o introducano disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori, prevedendo ad esempio il mantenimento dei diritti dei lavoratori anche in ipotesi più ampie (e così nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento), ha affermato che, ai fini dell’applicazione di detta direttiva, l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente, e che, per altro verso, l’impiego, al citato articolo 6, paragrafo 1, primo e quarto comma, del termine «conservi» implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento (Corte di Giustizia 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punti 32-34).

In proposito, va segnalato che la specifica finalità perseguita dalla giurisprudenza comunitaria (volta ad agevolare il trapasso dei lavoratori al cessionario e la conservazione del posto di lavoro) non è incompatibile con la finalità, perseguita dalla giurisprudenza nazionale, di impedire le esternalizzazioni che realizzino un peggioramento della posizione dei lavoratori, trattandosi di tutele volte alla protezione dei diritti dei lavoratore nell’ambito delle vicende successorie del datore di lavoro.

Affinché, dunque, si possano produrre gli effetti derivanti dall’applicazione dell’articolo 2112 del codice civile, occorre la configurabilità di un trasferimento di ramo di azienda, evenienza che postula necessariamente, secondo quanto detto, una struttura organizzata e funzionalmente autonoma all’interno della cedente ed il mantenimento di tale struttura all’interno della cessionaria.

Infine va anche precisato che, in caso di azione giudiziaria attivata dai lavoratori esternalizzati per contestare lo pseudo trasferimento del fittizio ramo d’azienda,  la prova della ricorrenza dei requisiti di preesistenza ed autonomia funzionale del medesimo incombe sull’azienda cedente, in quanto é essa che si è avvalsa, nell’operazione traslativa, dell’articolo 2112 del codice civile, costituente nell’ordinamento eccezione al necessario consenso del lavoratore creditore ceduto. In tal senso, pacificamente, Cass. n. 13617/2014; Cass. n. 11721/2014; Cass. n. 8017/2006: Cass. n. 206/2004.  Su di essa, pertanto, grava la dimostrazione della sussistenza - in capo al presunto ramo d’azienda -  delle caratteristiche di genuinità e di idoneità ad essere riconducibile nella consolidata configurazione giuridica che ne legittima la cessione, nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale.  

 

[1] Così M. Roccella, nell'articolo,  Lavoro: le carte truccate del governo, leggibile nel nostro sito: http://dirittolavoro.altervista.org/, sezione Articoli, n. 142. Nello stesso senso: A. Bellavista,  in Il Patto per l’Italia e la disciplina dei licenziamenti, ibidem, sezione Articoli  n. 138.

[2] Così M. Fezzi,  nell'articolo, Patto per l’Italia: prime valutazioni, ibidem, sezione Articoli  n. 136.

[3] Recitante: "Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento".

[4] Tra le molte, cfr. Cass., sez. lav., 16 giugno 2014, n. 13617, rel. Buffa.

1. Premessa

Ha preso piede, tra i vari sistemi o tecniche imprenditoriali di riduzione illegale di personale aggiranti il ricorso alla Legge n. 233/91,  quella dell’espulsione di dipendenti indesiderati o in esubero praticata mediante la creazione ed il successivo trasferimento di fittizi rami, funzioni o porzioni d’azienda che, sostanzialmente, maschera una mera esternalizzazione di lavoratori attuata tramite cessione non consensuale (in violazione dell’articolo 1406 del codice civile) dei loro contratti individuali di lavoro dall’azienda cedente all’azienda cessionaria, utilizzando illegittimamente la normativa del trasferimento d’azienda (articolo 2112 del codice civile) che, notoriamente, consente, in via d’eccezione, il trasferimento non consensuale da un’azienda ad un’altra di prestatori d’opera, sempre che ricorrano reali (e non simulate) esigenze di riorganizzazione aziendale.

Va detto che, se in anteriori tempi di cosiddetti “vacche grasse” le imprese traguardavano la cosiddetta “autosufficienza” istituendo e gelosamente mantenendo, al proprio interno, accanto ai servizi essenziali anche i cosiddetti servizi ausiliari,  in tempi posteriori di incipiente o galoppante crisi, le imprese hanno cercato di ridurre i loro costi e, quindi, hanno scelto la soluzione della frammentazione dei servizi, liberandosi di quelli ritenuti non strettamente indispensabili cioè meramente ausiliari, per mantenere al proprio interno solo attività e personale ritenuto essenziale al cosiddetto “core business” societario.

Hanno cercato, pertanto, di sgravarsi del personale impiegato nei servizi ausiliari interni, attraverso la tecnica della creazione e successivo trasferimento (a terzi o a consociate) di fittizi rami o porzioni d’azienda destinatari di ccnl meno onerosi (quindi applicanti condizioni retributivo-normative deteriori per i cosiddetti esternalizzati) o mediante la creazione ad hoc di minisocietà (preferibilmente al disotto dei 15 dipendenti, onde sottrarsi ai vincoli della cosiddetta “stabilità reale”) nelle quali trasferire parte dei propri dipendenti non essenziali o in eccedenza: Società sovente destinate, in tempi brevi,  alla chiusura accompagnata dall’espulsione definitiva dal mercato del lavoro del personale in esse esternalizzato, conseguente alla risoluzione dei rapporti di lavoro per cessazione d’attività.

2. La normativa di riferimento per il trasferimento di porzioni d’azienda

Relativamente all’originaria disciplina del trasferimento d’azienda risiedente nell’articolo 2112 del codice civile, va ricordato come il governo di centro-destra, all’inizio del nuovo millennio, abbia fatto proprie le pressioni datoriali tese ad avere piena mano libera nelle riorganizzazioni aziendali, e, di conseguenza, sia riuscito in data 5 luglio 2002 a concludere con due Confederazioni sindacali (Cisl e Uil) il cosiddetto “Patto per l’Italia” il cui all. n. 3 (trasfuso poi nell’articolo 32 del Decreto Legislativo n. 276/2003) era stato preordinato per svincolare i datori di lavoro, nei trasferimenti di rami d’azienda, dal rispetto del requisito garante della non fraudolenza delle operazioni di esternalizzazione, costituito dalla cosiddetta “preesistenza” del ramo ceduto all’interno dell’azienda cedente, anteriormente al trasferimento dei lavoratori impegnati nel ramo o servizio ausiliare al “core business”.

A seguito di tale concordata (quanto esiziale) modifica normativa per i trasferimenti di rami d’azienda,  il 5 comma dell’articolo 2112 del codice civile venne riformulato in questi termini: «Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento é attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

La modifica introdotta da quel Patto (definito, non a caso, “scellerato”) venne immediatamente percepita dalla dottrina lavoristica in tutta la sua pericolosità, tanto che da un illustre giuslavorista si disse che: «Con la consueta disinvoltura nei confronti delle regole europee, il governo di centro-destra vorrebbe adesso intervenire sulla disciplina vigente e modificarla nel senso che il requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda dovrebbe sussistere solo “nel momento del suo trasferimento”: un banale éscamotage linguistico, dietro il quale non è difficile scorgere l’intenzione di legittimare la costituzione di fittizi rami d’azienda, mai esistiti prima dell’operazione di trasferimento, al solo scopo di consentire l’espulsione dei lavoratori addetti al preteso ramo, aggirando qualsiasi regola in materia di licenziamento[1]».

Analogamente si espresse un altro giuslavorista, secondo cui: «La riforma concordata nel Patto prevede che l’autonomia funzionale del ramo d’azienda in luogo di essere preesistente sussista anche solo nel momento in cui viene attuato il trasferimento. Ciò evidentemente vuol dire che il datore di lavoro può organizzare una pluralità di lavoratori, che nulla hanno a che fare tra di loro, in un unico ufficio o reparto, costituito solo in vista della cessione e al momento della stessa: questi lavoratori saranno quindi automaticamente ceduti all’esterno, anche se, prima della cessione, non facevano parte di un ramo autonomo dell’azienda[2]».

Il ventilato rischio di una legittimazione legislativa a trasferimenti fraudolenti - conseguente alla studiata eliminazione dal testo originario dell’articolo 2112 del codice civile del requisito della “preesistenza” del ramo da cedere, sostituito dall’autorizzazione (consentita dalle due improvvide Confederazioni Cisl e Uil firmatarie del cosiddetto Patto per l’Italia)  al confezionamento ad hoc, da parte del cedente in accordo con il cessionario, all’atto del trasferimento, della porzione d’azienda da alienare unitamente ad un coacervo di personale indesiderato o eccedentario - incontrò subito il dissenso della migliore dottrina e - quel che più conta - s’imbatté nel muro eretto dalla  prevalente giurisprudenza di merito ed eminentemente di Cassazione che considerarono il nuovo espediente normativo inidoneo a travolgere le garanzie dei lavoratori, stante  la presenza vincolante nell’ordinamento  della superiore normativa comunitaria.

Talché l’orientamento di Cassazione (oramai stabilizzatosi, come evidenziamo in prosieguo),  giunse a stabilire come «l’articolo 32 del Decreto Legislativo n. 276/03 (emanato a seguito della legge delega n. 30/2003 che prevedeva innanzitutto il “completo adeguamento della disciplina vigente alla normativa comunitaria”), vada innanzitutto interpretato alla luce di quest’ultima, la quale presuppone che l’oggetto del trasferimento costituisca un’entità economica con propria identità funzionalmente autonoma che resti conservata con il trasferimento (cfr. in particolare le direttive CE n. 98/50 e n.23/2001; quest’ultima stabilisce infatti, all’articolo 1 lettera b), che: “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”). Ne consegue - secondo la Cassazione (cfr., per tutte,  Cassazione 4 dicembre 2012 n. 2171) - che, nonostante talune difformi opinioni basate sul dato letterale dell’assenza, nelle Direttive comunitarie, del concetto di “preesistenza” (pur essendo previsto quello della conservazione dell’identità), l’entità economica trasferita deve in realtà ritenersi preesistente al trasferimento, non potendo conservarsi quel che non c’è (cfr. sul punto, Cassazione 13 ottobre 2009 n. 21697). Il concetto di preesistenza deve poi ritenersi necessariamente riferito ad una articolazione funzionalmente autonoma dell’azienda, posto che qualunque lavorazione aziendale, per poter essere ceduta, non potrebbe che preesistere al negozio traslativo, essendone il necessario oggetto contrattuale. Tale conclusione risulta obbligata anche alla luce della legge delega n. 30/2003, considerando che essa prevedeva la sussistenza del requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda al momento del suo trasferimento, dovendosi conseguentemente ritenere non consentito attribuire unicamente alle parti imprenditoriali di individuare a quali cessioni si applichi la fondamentale garanzia di cui all’articolo 2112 del codice civile, risultando peraltro arduo sostenere che competa unicamente al datore di lavoro decidere sull’applicabilità di disposizioni inderogabili a garanzia dei lavoratori. Resta dunque assodato che quando oggetto di cessione non sia un complesso di beni e contratti funzionalmente coordinati all’esercizio almeno potenziale ad una attività di impresa, ma solo contratti di lavoro (con l’aggiunta eventuale di taluni beni strumentali non legati da un nesso organizzativo-funzionale), si è fuori dall’ipotesi di cui all’articolo 2112 del codice civile, essendo invece applicabile l’articolo 1406 del codice civile, che condiziona l’efficacia della cessione al consenso del contraente ceduto. (...) Non può ammettersi  - alla luce dei principi comunitari, cfr. C.G.E. 24 gennaio 2002, causa C-51/00 - che l’autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto possa derivare (soggettivamente) solo dalla qualificazione fattane dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, consentendo ai soggetti stipulanti il negozio traslativo (peraltro neppure portatori di superiori interessi pubblici o collettivi), la libera definizione della fattispecie cui la norma inderogabile si applica, e ciò in contrasto con la disciplina comunitaria in ordine all’inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda».

3. La sentenza 6 marzo 2014 - C-458/12 - della Corte Europea di Giustizia e gli equivoci occasionati

Va fatto ancora presente come l’irrilevanza o inidoneità  della nuova formulazione del 5 comma dell’articolo 2112 del codice civile[3] a sottrarre dal consenso individuale ex articolo 1406 del codice civile la cessione dei contratti di lavoro dei prestatori d’opera accorpati in una pseudo struttura aziendale priva di autonomia funzionale ma dichiarata tale solo dall’accordo tra cedente e cessionario, abbia rischiato recentissimamente di essere messa in discussione da una travisata interpretazione della sentenza della C.G.E. del 6 marzo 2014 - C-458/12.

La decisione è scaturita a seguito di una controversia tra lavoratori trasferiti da Telecom spa ad una partecipata, per la soluzione della quale il Tribunale di Trento ha pregiudizialmente ritenuto  opportuno di investire la Corte europea di giustizia per sapere (per quanto rileva ai fini del nostro discorso): «1) Se la disciplina dell’Unione europea in tema di “trasferimento di parte di azienda” [in particolare l’articolo 1, paragrafo 1, lettere a) e b), in riferimento all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva (...) 2001/23(...)], osti ad una norma interna, quale quella dettata dall’articolo 2112, comma 5, del codice civile, che consente la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora la parte di azienda oggetto del trasferimento non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma già preesistente al trasferimento, tanto da poter essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

Il Tribunale nazionale probabilmente intendeva far dare dalla C.G.E risposta alle perplessità indottegli dalle tesi datoriali che contestavano la consolidata inapplicabilità dell’articolo 2112 del codice civile (contemplante la cessione dei lavoratori senza consenso) per l’ipotesi del trasferimento ad una azienda cessionaria di una frazione aziendale priva di preesistente autonomia funzionale, sebbene come tale dichiarata (“identificata”) congiuntamente da cedente e cessionario.

Stante il fatto che le  menzionate direttive comunitarie sono  tese a garantire  i diritti dei lavoratori nelle multiformi fattispecie di mobilità aziendale, la Corte europea non ha fornito la risposta nel senso atteso dal Giudice italiano (conferma di obbligatorietà del trasferimento dei lavoratori anche in caso di cessione di una struttura non autonoma ad un’altra azienda) ma concludentemente - a nostro avviso - ha riconvertito idealmente il quesito in quello così riassumibile:” dica la C.G.E. se la normativa comunitaria che rende obbligatorio (per il cessionario subentrante nel ramo aziendale ceduto) il mantenimento del posto e dei diritti maturati dai lavoratori presso il cedente come pure la conservazione di una loro rappresentanza sindacale, riguardi anche i lavoratori trasferiti di fatto da un’unità produttiva priva di preesistente autonomia nell’azienda del cedente”.

La risposta fornita dalla C.G.E. è stata nel senso che: «ai fini dell’applicazione di detta direttiva (2001/23), l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente, là dove la nozione di autonomia si riferisce ai poteri, riconosciuti ai responsabili del gruppo di lavoratori considerato, di organizzare, in modo relativamente libero e indipendente, il lavoro in seno a tale gruppo e, più specificamente, di impartire istruzioni e distribuire compiti ai lavoratori subordinati appartenenti al gruppo medesimo, e ciò senza intervento diretto da parte di altre strutture organizzative del datore di lavoro (sentenza Scattolon, cit., punto 51 e la giurisprudenza ivi citata). Infatti, l’impiego, al citato articolo 6, paragrafo 1, primo e quarto comma, del termine “conservi” implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento. Pertanto, qualora risultasse, nel procedimento principale, che l’entità trasferita di cui trattasi non disponeva, anteriormente al trasferimento, di un’autonomia funzionale sufficiente - circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare -, tale trasferimento non ricadrebbe sotto la direttiva 2001/23. In tal caso, dalla direttiva non deriverebbe alcun obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti. Ciò detto, la direttiva sopra menzionata non deve essere letta nel senso che vieti ad uno Stato membro di prevedere un siffatto mantenimento dei diritti dei lavoratori nella situazione evocata al punto precedente della presente sentenza. Infatti, il “considerando” 3 della direttiva 2001/23 afferma che occorre adottare le disposizioni necessarie per proteggere i lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, in particolare per assicurare il mantenimento dei loro diritti. Pertanto, il citato “considerando” evidenzia il rischio rappresentato, per il mantenimento dei diritti dei lavoratori, dalla situazione di subentro di un nuovo imprenditore, nonché la necessità di tutelare i lavoratori dinanzi a tale rischio mediante l’adozione di opportune disposizioni.

Dunque, la semplice mancanza di autonomia funzionale dell’entità trasferita non può, di per sé, costituire un ostacolo a che uno Stato membro garantisca nel proprio ordinamento interno il mantenimento dei diritti dei lavoratori dopo il cambiamento dell’imprenditore. Tale conclusione è corroborata dall’articolo 8 della direttiva 2001/23, il quale dispone che quest’ultima non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori».

In poche parole, la Corte europea di giustizia  giunge a dire che alla legislazione nazionale, in un’ottica di mantenimento dei diritti dei lavoratori e di mero favore, non è preclusa la possibilità di prevedere in capo all’acquirente di una porzione d’impresa - non dotata di preesistente autonomia nell’impresa cedente - la conservazione dei diritti maturati dai lavoratori di fatto trasferiti. Con la precisazione che nella fattispecie in questione la normativa comunitaria non estende al cessionario l’obbligo di  subentro nei rapporti di lavoro implicante  l’automatico mantenimento per i lavoratori dei diritti maturati presso il cedente. Naturalmente senza che da tale eventuale estensione di favore da parte della normativa nazionale, discenda o consegua la privazione della facoltà per i lavoratori di agire in giudizio per contestare l’illegittimità del trasferimento del presunto ramo d’azienda ed ottenere, pertanto, il ripristino di dipendenza dall’azienda cedente.

La sopra riferita interpretazione delle conclusioni della sentenza comunitaria - la cui lettura equivoca aveva suscitato, in commenti filo datoriali, auspici di un’attesa inversione di tendenza sul tema dei requisiti per il legittimo trasferimento di rami d’azienda - riceve autorevole conferma da una nutrita serie di sentenze della Cassazione rese nel corso  del 2014 (nei mesi successivi al marzo, di pubblicazione della sentenza comunitaria).

Tra le molte, Cass. 12/8/2014, n. 17901 afferma: «non può ammettersi un trasferimento di ramo d’azienda con riferimento alla sola decisione, assunta dal soggetto cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un’unica funzione al momento del trasferimento. Tanto infatti contrasterebbe e con le direttive comunitarie 1998/50 e 2001/23, che richiedono già prima di quest’atto “un’entità economica che conservi la propria identità” ossia un assetto già formato, e con gli articolo 4 e 36 della Costituzione, che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori (sentenza n. 115 del 1994 della Corte costituzionale) ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, incontrollabile per l’assenza di riferimenti oggettivi (cfr. Cass. 15 aprile 2014, n. 8757 e 4 dicembre 2012, n. 21711). Né a diverse conclusioni può indurre la sentenza 6 marzo 2014 della Corte di giustizia resa nella causa Lorenzo Amatori e altri, C-458/12, secondo la quale l’art. 1, par. 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23/Ce del consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento.

La richiamata pronuncia, infatti, interviene su questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trento che muove dall’errato presupposto che la norma interna, quale quella dettata dall’art. 2112, 5° comma, c.c., consente la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora la parte di azienda oggetto del trasferimento non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma già preesistente al trasferimento, tanto da poter essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.

Inoltre la sentenza comunitaria va letta, non nel senso che non occorre, ai fini di cui trattasi, il requisito della preesistenza, ma che è consentito agli Stati membri prevedere una norma che estenda l’obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti anche in caso di non preesistenza del ramo d’azienda.

D’altro canto, la stessa corte, nella citata sentenza, ribadisce che, ai fini dell’applicazione della richiamata direttiva 2001/23, l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente.

Alla stregua delle svolte considerazioni, pertanto, non è corretta la sentenza impugnata (Corte Appello di Napoli) la quale ha ritenuto che ai sensi del novellato articolo 2112 del codice civile le parti potessero al momento del trasferimento identificare il ramo d’azienda da cedere».

4. La riaffermazione dell’orientamento consolidato nelle sentenze di Cassazione del 2014

Fatta in tal modo chiarezza in ordine all’interpretazione  della sentenza della Corte europea di giustizia del 6/3/2014resa nella causa L. Amatori e altri, C-458/12, la Cassazione tramite una nutrita (quasi alluvionale) serie di sentenze emesse dalla sezione lavoro nel 2014 (ex plurimis: Cass. n. 17901/14, rel. Napoletano; Cass. n. 17863/14, rel. Bronzini; Cass. n. 17381/14, rel. Bronzini; Cass. n. 13617/14, rel. Buffa;  Cass. n. 11721/14, rel. Amendola; Cass. n. 11575/14, rel. Amendola; Cass. n. 11237/14, rel. Tricomi; Cass. n. 10926/14, rel. Amendola; Cass. n. 9957/14, rel. Lorito; Cass. n. 8902/14, rel. Napoletano, ecc.) riafferma in maniera consolidata il proprio precedente orientamento.

Asserisce, nella trattazione delle fattispecie sottopostegli (eminentemente per controversie concernenti una nota società di telecomunicazioni impegnata in frammentazioni aziendali, cessioni a terzi di funzioni ausiliarie e/o porzioni di unità produttive,  e simili) che, in tema di trasferimento di azienda, il lavoratore ha interesse ad accertare in giudizio la non ravvisabilità di un ramo di azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento e, quindi, l’inefficacia di questo nei suoi confronti in difetto del suo consenso, per l’inapplicabilità dell’articolo 2112 del codice civile e l’operatività della regola generale di cui all’articolo 1406 del codice civile, non essendo indifferente per il lavoratore, quale creditore della prestazione retributiva, il mutamento della persona del debitore, ossia del datore di lavoro, che può offrire garanzie più o meno ampie di tutela dei diritti dei lavoratori, in ragione del suo grado di solvibilità o di attitudine o disponibilità a proseguire l’attività e, quindi, garantire la continuità produttiva. Tale interesse non viene meno né per lo svolgimento, in via di mero fatto, di prestazioni lavorative nell’ambito del rapporto di lavoro con il cessionario, che è cosa ben diversa dall’accettazione della cessione del contratto di lavoro, né per effetto di eventuale conciliazione intercorsa tra il lavoratore ed il cessionario all’esito del licenziamento del primo né, in genere, per effetto delle vicende risolutive del rapporto con il cessionario.

Con riferimento poi alla cessione di azienda regolata dall’articolo 2112 del codice civile, la Cassazione espressasi di recente[4] ha tenuto a riconfermare il pregresso orientamento sostenuto dalla S. Corte che ha sempre affermato (così Cass. 3/10/2013, n. 22627; Cass. 3/10/2013, n. 22613; Cass. 4/12/2012, n. 21711; Cass. 1/02/2008, n. 2489;  Cass. 17/3/2009, n. 6452) che per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’art 2112 cod. civ. (così come modificato dalla legge 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE n. 98/50), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità.

Il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito. Si è pure rilevato (Cass. 10/1/2004 n. 206) che l’articolo 2112 del codice civile, letto in linea con la giurisprudenza comunitaria formatasi in merito alla interpretazione della direttiva n. 187 del 1977 e con le esplicite indicazioni fornite dalla direttiva n. 50 del 1998, consente di ricondurre alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità.

In presenza di tali condizioni, può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare “know how”, realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex articolo 1406 e seguenti del codice civile. Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’articolo 2112 del codice civile resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto.

Detta nozione di trasferimento di ramo d’azienda è coerente con la disciplina in materia dell’Unione europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui «è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria» (articolo 1, n. 1, direttiva 2001/23). La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario, ha ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C-340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C-232/04 e C-233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal, C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, puntò 60).

Tali principi sono stati ribaditi ulteriormente dalla Corte europea che, pur richiamando l’articolo 8 della direttiva 2001/23 e la facoltà ivi prevista che gli Stati membri applichino o introducano disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori, prevedendo ad esempio il mantenimento dei diritti dei lavoratori anche in ipotesi più ampie (e così nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento), ha affermato che, ai fini dell’applicazione di detta direttiva, l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente, e che, per altro verso, l’impiego, al citato articolo 6, paragrafo 1, primo e quarto comma, del termine «conservi» implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento (Corte di Giustizia 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punti 32-34).

In proposito, va segnalato che la specifica finalità perseguita dalla giurisprudenza comunitaria (volta ad agevolare il trapasso dei lavoratori al cessionario e la conservazione del posto di lavoro) non è incompatibile con la finalità, perseguita dalla giurisprudenza nazionale, di impedire le esternalizzazioni che realizzino un peggioramento della posizione dei lavoratori, trattandosi di tutele volte alla protezione dei diritti dei lavoratore nell’ambito delle vicende successorie del datore di lavoro.

Affinché, dunque, si possano produrre gli effetti derivanti dall’applicazione dell’articolo 2112 del codice civile, occorre la configurabilità di un trasferimento di ramo di azienda, evenienza che postula necessariamente, secondo quanto detto, una struttura organizzata e funzionalmente autonoma all’interno della cedente ed il mantenimento di tale struttura all’interno della cessionaria.

Infine va anche precisato che, in caso di azione giudiziaria attivata dai lavoratori esternalizzati per contestare lo pseudo trasferimento del fittizio ramo d’azienda,  la prova della ricorrenza dei requisiti di preesistenza ed autonomia funzionale del medesimo incombe sull’azienda cedente, in quanto é essa che si è avvalsa, nell’operazione traslativa, dell’articolo 2112 del codice civile, costituente nell’ordinamento eccezione al necessario consenso del lavoratore creditore ceduto. In tal senso, pacificamente, Cass. n. 13617/2014; Cass. n. 11721/2014; Cass. n. 8017/2006: Cass. n. 206/2004.  Su di essa, pertanto, grava la dimostrazione della sussistenza - in capo al presunto ramo d’azienda -  delle caratteristiche di genuinità e di idoneità ad essere riconducibile nella consolidata configurazione giuridica che ne legittima la cessione, nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale.  

 

[1] Così M. Roccella, nell'articolo,  Lavoro: le carte truccate del governo, leggibile nel nostro sito: http://dirittolavoro.altervista.org/, sezione Articoli, n. 142. Nello stesso senso: A. Bellavista,  in Il Patto per l’Italia e la disciplina dei licenziamenti, ibidem, sezione Articoli  n. 138.

[2] Così M. Fezzi,  nell'articolo, Patto per l’Italia: prime valutazioni, ibidem, sezione Articoli  n. 136.

[3] Recitante: "Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento".

[4] Tra le molte, cfr. Cass., sez. lav., 16 giugno 2014, n. 13617, rel. Buffa.