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La riduzione delle tutele del lavoro nel cosiddetto Jobs Act

La riduzione delle tutele del lavoro nel cosiddetto Jobs Act
La riduzione delle tutele del lavoro nel cosiddetto Jobs Act

1. Premessa

Con una singolare propensione verso l’esterofilia, l’attuale governo ha inteso designare - con  una locuzione reperibile in un messaggio del presidente degli USA Obama -  quale Jobs Act, la ventilata riforma del lavoro orientata in senso liberistico, tanto che non v’è chi non si sia reso conto, tra i giuslavoristi, che trattasi di una mera controriforma di segno regressivo per i diritti dei lavoratori, tesa a traguardare meramente la liberalizzazione dei licenziamenti ed a sancire, con il decorso del tempo, l’eutanasia della tutela reintegratoria ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per tutti indistintamente i lavoratori, una volta che gli attuali esclusi dalla sottrazione alla reintegra (quelli assunti prima dell’entrata in vigore dei decreti attuativi della Legge n 183/2014, emessi il 24/12/2014, suscettibili di entrare in vigore presumibilmente nel mese di febbraio 2015) saranno usciti per turnover fisiologico dal circuito lavorativo.

Con il cosiddetto Jobs Act (oramai Legge-delega 10/12/2014 n. 183) il nuovo legislatore ha enfatizzato mediaticamente, a fini di propiziarne la pubblica accettazione, l’introduzione di un “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”; destinato, come già detto, ai soli lavoratori con qualifica di operaio, impiegato o quadro (per i dirigenti, già nel previgente assetto il licenziamento privo di giustificatezza implicava solo la corresponsione di mensilità della cosiddetta. indennità supplementare, non già la reintegra) assunti dalle aziende private in data posteriore all’entrata in vigore dei due decreti attuativi del 24 dicembre 2014. Contratto caratterizzato, per il caso di licenziamento ingiustificato del prestatore, dalla non ricorrenza del rimedio reintegratorio (in aderenza alla dismissione legislativa della cosiddetta. property rule sostituita dalla cosiddetta. liability rule) per l’applicazione, in sua vece, di una soluzione monetizzante, riposante sulla responsabilità civile datoriale, concretizzantesi in un trattamento economico indennitario, graduato in forma crescente in relazione all’anzianità di servizio maturata dal licenziato in azienda.

Così chiarita la natura delle cosiddette. “tutele crescenti” (afferenti pertanto la sola misura delle mensilità indennitarie), appare in tutta evidenza come la formula semantica utilizzata sia pacificamente non rispondente al vero, anzi, praticamente, ingannevole. Formula frutto di una retromarcia rispetto alle iniziali prospettazioni rese all’opinione pubblica - sia da parte dei responsabili politici che da parte dei tecnici che avevano suggerito l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i nuovi assunti - nella iniziale forma carente della tutela reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo, ma acquisibile alla maturazione di un’anzianità di servizio aziendale dell’ordine dei 3 anni, onde realizzare una temporalmente diluita parificazione delle tutele dei nuovi assunti con quelle fruite, in caso di licenziamento illegittimo, dai già occupati (cioè la reintegra ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori).  

Tale iniziale soluzione, quantunque insoddisfacente per la intrinseca gradualità del beneficio della stabilità reale, si poneva, in un certo qual modo, in linea con l’opinione del Consiglio dell’Unione Europea del dicembre  2008, secondo cui il contratto a tutele crescenti deve consistere in un contratto che inizia “con un livello di base di tutela del lavoro” e in cui la protezione si accumula “progressivamente via via che il lavoratore occupa un posto di lavoro fino a raggiungere una protezione piena”.

Niente di tutto questo il Jobs Act ha assicurato ai nuovi assunti, riconfinati nella precarietà. Come è stato efficacemente detto: “Qui non c’è alcuna tutela piena, nulla che “cresca”, tranne l’indennità che può essere stabilita dal giudice ove il licenziamento impugnato sia ritenuto ingiustificato, o che sia offerta in via conciliativa, in una cifra minima inferiore, dallo stesso datore di lavoro”[1].

L’abbandono dell’iniziale soluzione innanzi prospettata è potuto avvenire, in tempi successivi, grazie all’emersione nel premier dei sottaciuti reali convincimenti personali ed alla conseguente loro esternazione mediatica al Paese tramite affermazioni di spinto tenore liberistico, mai in precedenza profferite, sostanzialmente del tenore secondo cui ... è il datore che assume e è il datore che ha il diritto di licenziare; va eliminata l’interferenza dei giudici che, valutando discrezionalmente comportamenti o inadempienze dei lavoratori,detengono attualmente il potere di riammettere in azienda gli espulsi dal titolare dell’impresa; e qualora il licenziamento datoriale possa risultare ingiustificato o arbitrario sul datore graverà esclusivamente una responsabilità risarcitoria economicamente quantificabile aprioristicamente dallo stesso legislatore, sottratta alla valutazione equitativa dei magistrati... et similia. In accordo di governo con noti conservatori del Nuovo centro destra (coloro che in precedenza avevano introdotto nell’ordinamento, con l’articolo 8 della Legge n. 148/2011, la derogabilità in peius del contratto nazionale da parte della cosiddetta contrattazione di prossimità), nel novembre del 2014 usciva un ordine del giorno della direzione del PD  contenente una  deliberazione tramite cui si sosteneva che l’originario generico testo del d.d.l. delega (in cui nessun cenno era reperibile in ordine ai licenziamenti) avrebbe dovuto essere corretto prevedendo “una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro. Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”.

In conseguenza della precitata deliberazione, allo schema della legge delega veniva apportato un emendamento[2] che stabiliva di introdurre la: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tutele crescenti …escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro, previo indennizzo certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari ingiustificati” [(così lett.c), comma 4, Legge n.183 del 2014)].

Era stata  così spianata la strada  per la liberalizzazione e monetizzazione dei licenziamenti, con la sola esclusione di quelli discriminatori (notoriamente derivanti da ragioni di discriminazione politica, sindacale, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali, cui va aggiunto quella per violazione delle norme sulla maternità e paternità, in occasione del matrimonio o per motivo illecito determinante); peraltro senza totale appagamento da quella compagine governativa e imprenditoriale conservatrice che richiedeva la vanificazione totale anche di questa modestissima fattispecie di reintegra, attraverso l’inserimento normativo nello schema della legge delega, a titolo integrativo, del cosiddetto. opting out per il datore di lavoro; cioè a dire della facoltà per quest’ultimo di sostituire la reintegra con l’offerta di un risarcimento economico monetario (richiesta peraltro cui non venne dato corso, testimoniante, tuttavia, la concezione  secondo cui la mortificazione della dignità della persona del lavoratore poteva essere sanata con  una mercificante monetizzazione).

2. La nuova disciplina dei licenziamenti illegittimi

Il realizzato intendimento di conseguire la liberalizzazione dei licenziamenti tramite l’abolizione del precedente rimedio della reintegra, sostituito (a vantaggio della parte datoriale) da una più spiccia monetizzazione, viene così lucidamente e compiacentemente esternato in una sua relazione dal presidente della Commissione Lavoro del Senato, on. Sacconi: “La normativa di delega appare rivolta a sostituire un regime fondato sulla reintegrazione nel posto di lavoro, se il giudice imponderabilmente non approva l’operato dell’imprenditore, con un regime fondato su un indennizzo di entità predeterminata crescente con il crescere dell’affidamento reciproco tra le parti. Aggiungendo, con malcelata insoddisfazione a nostro avviso, che:” la limitazione della riforma alle nuove assunzioni disposta dalla delega – già ipotizzata nel tentativo abortito del 2001 – avrebbe trovato giustificazione nell’ipotesi di un più radicale abbandono della tutela reale e nel conseguente bisogno di un regime transitorio”.

Quindi, la nuova disciplina dei licenziamenti, salvo mantenere  la tutela reintegratoria (accompagnata dalle pregresse, invariate, misure risarcitorie di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, compresa l’opzione unilaterale del lavoratore per le 15 mensilità di retribuzione globale di fatto) per i soli licenziamenti discriminatori (quali innanzi specificati, tra cui correttamente la giurisprudenza di legittimità fa rientrare quelli ascrivibili a rappresaglia o ritorsione) nonché per quelli nulli intimati oralmente, ha - per così dire - universalizzato la monetizzazione, cioè l’indennizzo, quale misura sanzionatoria per il licenziamento ingiustificato ed al tempo stesso come rimedio risarcitorio per il lavoratore privato ingiustificatamente (senza giusta causa o giustificato motivo) del posto di lavoro.

Specifica al riguardo l’articolo 3, comma 1, dello schema del primo decreto attuativo del cosiddetto Jobs Act, reso il 24/12/2014 (e approvato dal CdM il 20/2/2015), che: “(...) nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Ed al comma 2 del medesimo articolo 3 aggiunge che: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lett. c, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all’articolo 2, comma 3” (cioè la facoltà di opzione per le 15 mensilità, da effettuare entro 30 gg. dal deposito della pronuncia giudiziale o dall’invito datoriale a riprendere servizio, esenti da contribuzione previdenziale).

Il comma 2 dell’articolo 3 sopra riportato è quello che evidenzia il maggior aspetto regressivo della nuova disciplina dei licenziamenti ingiustificati. È un articolo a contenuto palesemente insoddisfacente, oppressivo e vessatorio per il lavoratore. Fatta l’affermazione della “universalizzazione” della monetizzazione  quale misura risarcitoria, introduce uno spazio di deroga a favore della reintegrazione solo se “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

La rigidità della formulazione non è casuale ma frutto di deliberata scelta del nuovo legislatore, onde minimizzare o vanificare l’ipotesi che in sede giudiziale venga  da parte del Giudice accordata l’osteggiata reintegra a fronte di un licenziamento carente di giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo.

Peraltro, va osservato che - risultando ancora vigente l’articolo 2, l. n. 604/66 che dispone l’obbligo di motivazione del licenziamento a carico del datore -  grava ancora sul datore di lavoro l’onere di provare  la veridicità del fatto o inadempimento contestato al lavoratore; tuttavia il nuovo legislatore, in questo contesto,  adottando scientemente la formulazione  surriferita ha  voluto evitare che le eventuali prove lacunose o inadeguate, offerte al Giudice dal datore di lavoro in ordine al fatto imputato al licenziato a giustificazione del licenziamento, potessero di per se sole  determinare la pronuncia di una soluzione reintegratoria. Così, secondo quella che viene considerata essere l’interpretazione più ragionevole della disposizione, il nuovo legislatore ha inteso accollare al lavoratore in sede giudiziale un onere corrispondente a quello datoriale, tuttavia sbilanciatamente prevalente rispetto a quello di quest’ultimo, consistente - in ragione della negazione della sussistenza del fatto o comportamento imputatogli  dal datore - nella diretta dimostrazione di assoluta inesistenza del fatto medesimo, inteso e espressamente qualificato come mero “fatto materiale”, cioè come evento o comportamento posto in essere, prescindendo da valutazioni in ordine alla colpa, all’elemento psicologico, alle circostanze attenuanti e similari[3]. La mancata prova da parte del lavoratore  della insussistenza dell’addebitato fatto materiale risulta assorbente rispetto alle eventuali lacunosità probatorie del datore di lavoro, cosicché in presenza di una infrazione disciplinare di qualsiasi tipo (anche lieve o media) emersa in giudizio anche per effetto di una carente dimostrazione contraria del lavoratore, il licenziamento inflittogli verrà confermato e il trattamento risarcitorio sarà solo quello indennitario. Ciò anche nel caso in cui appaia anche al Giudice palesemente sproporzionato per il ricorrere di sole marginali infrazioni (lievi ritardi al lavoro, mancate tempestive comunicazioni di malattia certificata, errori involontari di contabilizzazione, ecc.), giacché al Giudice risulta preclusa la facoltà di derubricazione del provvedimento estintivo esorbitante mediante conversione in sanzione conservativa più ragionevole (multa, sospensione), detenuta in precedenza. Infatti la nuova disciplina - che ha fatto proprio l’obbiettivo della marginalizzazione del ruolo del Giudice come quello del sindacato - accorda al solo datore di lavoro la discrezionalità di comminazione della sanzione  valutata soggettivamente più idonea, in presenza di un fatto materiale sussistente (ove “sussistente” ingloba anche il fatto “insussistente” ma non provato dal lavoratore come tale). Al tempo stesso rende inutilizzabili per la pronuncia giudiziale i codici disciplinari contrattuali con le specifiche correlazioni tra infrazioni tipizzate e sanzioni contemplate. 

In coerenza con le affermazioni mediatiche di estraniazione del Giudice dall’interferire tramite le proprie decisioni (indirettamente o direttamente) su aspetti ritenuti dall’odierno legislatore di esclusiva pertinenza del titolare dell’impresa, l’introdotta disciplina inibisce al Giudice la possibilità di sindacare sulla proporzionalità o meno della sanzione datorialmente comminata, titolandolo ad accertare solo se il fatto imputato  al lavoratore (e posto a base della sanzione sproporzionata)  è stato dallo stesso posto in essere (o meno) nonché a quantificare l’entità dell’indennizzo entro i ranges legislativamente prefissati, in misura “crescente”, cioè proporzionata all’anzianità di servizio.

La nuova disciplina marginalizza, quindi, il ruolo giudiziale così come getta al macero i codici disciplinari contrattuali, aprendo indubbi spazi per potenziali arbitri datoriali ed alla possibilità di espellere lavoratori indesiderati e/o non compiacenti.

Infine l’ultimo comma del precitato articolo 3 del decreto stabilisce che al licenziamento dei nuovi assunti con contratto a cosiddetto tutele crescenti non si applica la procedura garantista di cui all’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori (contraddittorio, audizione del lavoratore a difesa anche con l’assistenza sindacale, termini procedurali per la comminazione della sanzione). Garanzie evidentemente considerate d’intralcio ad una velocizzazione dei provvedimenti espulsivi.

Il testo di questo articolo ha suscitato nutrite quanto fondate critiche, la “probatio diabolica” addossata al lavoratore onerato della dimostrazione in giudizio della insussistenza del fatto materiale imputatogli, ha occasionato l’addebito di un’inversione dell’onere della prova dal datore, naturale titolare in ragione dell’imputazione del fatto o comportamento, al lavoratore. I sostenitori della legittimità della pretesa in capo al lavoratore si sono tuttavia affrettati a negare la fondatezza del diffuso rilievo, tramite  la seguente argomentazione: “nel nuovo ordinamento la reintegrazione costituisce la sanzione disciplinare che viene inflitta al datore di lavoro per due e due sole sue mancanze gravi: aver licenziato una persona per motivi discriminatori (articolo 2 del decreto) e averla accusata di un fatto mai accaduto (articolo 3, comma 2). Il legislatore per un verso non considera più il singolo posto di lavoro come oggetto di un diritto della persona che lo occupa, per altro verso non ritiene particolarmente desiderabile, per il lavoratore, essere reintegrato in un’azienda dove è malvoluto. Insomma, la funzione della reintegrazione nel nuovo sistema non è più tanto quella del rimedio contrattuale previsto a vantaggio della persona che lavora (il cui interesse alla sicurezza economica e professionale è tutelato nel mercato e non più nel contratto), quanto piuttosto un deterrente di natura punitiva contro due comportamenti del datore specificamente vietati: a) discriminazione, b) contestazione di un fatto mai accaduto. Questa essendo la ratio della disposizione, si capisce che la sanzione della reintegrazione si applichi solo là dove il fondamento dell’accusa (quella mossa al datore) risulti compiutamente provato; e che l’onere della prova in proposito gravi sulla parte che muove l’accusa, cioè in questo caso il lavoratore[4].

Per completezza va detto che il decreto attuativo citato prevede, all’articolo 4, l’applicabilità del rimedio indennitario (monetizzazione) anche per i licenziamenti affetti da cd. vizi formali individuati nella violazione del requisito di motivazione (di cui all’articolo 2, comma 2, della Legge n. 604 del 1966) o della procedura di cui all’articolo 7 della Legge n. 300 del 1970; al loro ricorrere il Giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità.

Tramite l’articolo 5 il decreto attuativo introduce la facoltà datoriale di revoca agevolata del licenziamento (frutto di cd. ravvedimento operoso ovvero di mera convenienza), purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo; tramite la revoca  il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla sola  retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca.

Infine mediante l’articolo 6 viene accordata al datore di lavoro la possibilità di evitare il contenzioso sul disposto licenziamento, tramite conciliazione - prospettata al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (da realizzare  in una delle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4 del codice civile, e all’articolo 82, comma 1, del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276), accompagnata dall’offerta al lavoratore licenziato di un importo, esente da Irpef e da contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18  mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L’accettazione dell’assegno in sede di conciliazione da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

Tramite l’articolo 9 si assoggettano alla nuova disciplina indennitaria (con importi dimezzati rispetto ai licenziati illegittimamente da imprese sovradimensionate ed entro il tetto-limite di 6 mensilità) i licenziamenti illegittimi  dei lavoratori occupati nelle piccole imprese al disotto dei 15 dipendenti e nelle organizzazioni di tendenza (partiti politici, sindacati ecc.), disciplina che sostituisce la pregressa fondata sulla stabilità meramente obbligatoria ex lege n. 108/1990.

Tramite l’articolo 10, poi, si estende la soluzione indennitaria anche ai destinatari di licenziamento collettivo  viziato per intimazione senza forma scritta o  per violazione dei criteri di scelta o delle procedure  di cui all’articolo 4, comma 12, della Legge n. 233/1991. Previsione confermata dal decreto attuativo del 20/2/2015 (nonostante la richiesta  di esclusione contenuta nei pareri convergenti delle Commissioni lavoro di Camera e Senato).

L’articolo 11 delinea, poi, in forma  programmatica, i tratti salienti del trattamento di disoccupazione involontaria e di ricollocazione a carico dello Stato, fruibile da parte dei licenziati ingiustificatamente, cui verrà offerto un voucher  da spendere presso agenzie pubbliche o private impegnate in programmi di riallocazione, da esse riscuotibile solo  a risultato occupazionale riconseguito.

L’articolo 12 sancisce l’inapplicabilità del precedente rito, presuntivamente agevolativo, della legge Fornero al contenzioso sui licenziamenti dei nuovi assunti  posteriormente all’ entrata in vigore del decreto attuativo, rito risoltosi, secondo valutazione pressoché unanime, in un vero e proprio insuccesso. Il beneficio del suo abbandono  non risulterà, tuttavia, immediato, giacché i tribunali del lavoro saranno  per molto tempo ancora gravati da un contenzioso pregresso  regolato da una triplicità di riti: a) quell’ordinario del lavoro richiesto dalle cause  intraprese prima del luglio 2012; b) il cd. rito Fornero richiesto dalle controversie attivate successivamente a tale data; c) quello disciplinato dalla Legge n. 533/1973, richiesto dalle prossime cause vertenti sulla nuova disciplina dei licenziamenti, di cui al Jobs Act. 

3. Implicazioni ed effetti distorsivi della nuova disciplina della riforma del lavoro

3.1. Va ancora detto che la riforma del lavoro posta in essere dall’attuale governo non si esaurisce nell’innovazione riduttiva della disciplina dei licenziamenti, innanzi da noi delineata esaminando il cosiddetto Jobs Act, ma si struttura di esso e di un precedente stadio o tranche, costituito dal cosiddetto decreto Poletti del 20/3/2014 (convertito in Legge n. 78 del 16 maggio 2014) regolativo dei contratti a termine e dell’apprendistato, tramite cui si liberalizza ulteriormente il ricorso ai contratti a termine, istituzionalizzandoli come la forma di assunzione precaria di gran lunga prevalente, abolendone la “causale”, cioè la necessità di motivare le ragioni oggettive che ne giustificano il ricorso, e prevedendo addirittura la possibilità di 8 proroghe e rinnovi senza causale nell’arco dei 3 anni (poi ridotti a 5 in sede di conversione parlamentare del decreto). I due stadi della riforma appaiono scoordinati, autonomi l’uno dall’altro, addirittura contraddittori, idonei a suscitare una malcelata concorrenza interna tra la tipologia del contratto a tempo determinato (di cui alla Legge n. 78/2014) e quella del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (di cui alla Legge n. 183/2014). Non è dato, pertanto, apprezzare - come invece si dovrebbe - un’armonia tra i due stadi della riforma né tra le due soluzioni negoziali del contratto a termine e del contratto a tempo indeterminato. Scaturisce, quindi, la netta sensazione che si è in presenza di due provvedimenti a “compartimenti stagni”, autonomi l’uno dall’altro e, come detto in precedenza, in regime di concorrenza circa le scelte adottabili dal datore di lavoro per le nuove assunzioni, nel dilemma tra tempo determinato acausale e tempo indeterminato a tutele crescenti[5].

3.2. Ciò detto, in questo paragrafo evidenziamo quelle che sono state ritenute le implicazioni negative della cosiddetta. seconda tranche della riforma da noi innanzi trattata.
Nonostante declamata per porre fine al dualismo delle differenze di tutela tra precari e occupati (cosiddetto outsiders e insiders), la pseudo riforma designata insipidamente Jobs Act ha mancato il suo dichiarato obbiettivo, raggiungendo solo quello, evidentemente interiormente nutrito senza palesi esternazioni dal premier e dalla compagine maggioritaria dei partiti di governo, della riduzione dei diritti del lavoro culminati nella liberalizzazione dei licenziamenti. Deliberatamente scegliendo la soluzione più favorevole per le esigenze datoriali di evitamento della parificazione delle tutele dei precari neoassunti a quelle degli occupati in regime di stabilità reale (fruitori della reintegra in caso di licenziamento ingiustificato) e riservando ad essi - qualora neo assunti con un contratto a tempo indeterminato posteriormente alla vigenza dei decreti attuativi della riforma - un trattamento deteriore rispetto ai già occupati, altro non ha fatto che porre in essere un nuovo dualismo, sub specie di lavoratori di serie A e di serie B (anche se ci sono note le onerosità della cd. parificazione immediata al rialzo, esse sono insuscettibili di costituire un esimente alla soluzione deteriore prescelta).
Mentre riteniamo che il trattamento duale abbia scarse probabilità di sfociare nell’accoglimento di ventilate questioni di costituzionalità, esprimiamo il sicuro avviso che il nuovo dualismo differenziante lavoratori occupati e neo assunti con il cosiddetto contratto a tutele (economiche) crescenti determinerà, invece, la disincentivazione della mobilità dei lavoratori, costretti a permanere ingessati sulle posizioni di lavoro già occupate, giacché spostandosi verso altre e più appetibili realtà aziendali perderebbero il pregresso ruolo di “occupati”, scadendo in quello di neo assunti destinatari delle deteriori tutele indennitarie, per l’evenienza di un licenziamento ingiustificato. Poca valenza ha, al riguardo, la notazione/suggerimento da taluno prospettata, in ordine alla pur sempre sussistente possibilità del lavoratore - in caso di nuova assunzione per dimissioni dalla precedente azienda - di pattuire con l’azienda acquirente un trattamento convenzionale garante del mantenimento delle antecedenti condizioni e tutele normative di stabilità reale (la reintegra), argomentando sulla carenza nell’ordinamento lavoristico di un divieto di pattuizione di trattamenti in melius dello standard offerto dalla nuova disciplina. È evidente che tali pattuizioni possono essere poste in essere da parte di lavoratori con alta professionalità ed elevata specializzazione, cui si coniuga solitamente un forte potere contrattuale, mentre nella normalità dei casi la conservazione, in via convenzionale, delle precedenti condizioni normative non ha luogo o è rimessa alla benevolenza datoriale.
Speculare alla disincentivazione della mobilità professionale infra aziendale dei lavoratori è l’incentivazione per i gestori aziendali a scrollarsi i più onerosi e anziani dipendenti per sostituirli con neo assunti dal trattamento retributivo e normativo deteriore, stante anche il beneficio di poter avvalersi della decontribuzione triennale e dello sconto Irap previsti dalla legge di stabilità.

3.3. Gli annunciati “interventi di semplificazione, modifica o superamento delle…tipologie contrattuali” sovrabbondanti nel nostro ordinamento lavoristico e non “coerenti con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale”, - contemplati nell’art. 7 lett.a) della legge delega n. 183/2014 - tramite il decreto attuativo del 20/2/2015 si sono così concretizzati:
- a partire dall’entrata in vigore del decreto non potranno essere attivati nuovi contratti di collaborazione a progetto (quelli già in essere potranno proseguire fino alla loro scadenza); in ogni caso, a partire dal 1° gennaio 2016 ai rapporti di collaborazione personali con contenuto ripetitivo ed etero-organizzati dal datore di lavoro saranno applicate le norme del lavoro subordinato. Restano salve le collaborazioni regolamentate da accordi collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedono discipline specifiche relative al trattamento economico e normativo in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore e poche altri tipi di collaborazioni.

Vengono superati: i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro ed il job sharing. Vengono confermate le seguenti tipologie:

Contratto a tempo determinato cui non sono apportate modifiche sostanziali.

Contratto di somministrazione. Per il contratto di somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing) si prevede un’estensione del campo di applicazione, eliminando le causali e fissando al contempo un limite percentuale all’utilizzo calcolato sul totale dei dipendenti a tempo indeterminato dell’impresa che vi fa ricorso (10%).

Contratto a chiamata. Viene confermata anche l’attuale modalità tecnologica, sms, di tracciabilità dell’attivazione del contratto.

Lavoro accessorio (voucher). Verrà elevato il tetto dell’importo per il lavoratore fino a 7.000 euro, restando comunque nei limiti della no-tax area, e verrà introdotta la tracciabilità con tecnologia sms come per il lavoro a chiamata.

Apprendistato. Si punta a semplificare l’apprendistato di primo livello (per il diploma e la qualifica professionale) e di terzo livello (alta formazione e ricerca) riducendone anche i costi per le imprese che vi fanno ricorso, nell’ottica di favorirne l’utilizzo in coerenza con le norme sull’alternanza scuola-lavoro.

Part-time. Vengono definiti i limiti e le modalità con cui, in assenza di previsioni al proposito del contratto collettivo, il datore di lavoro può chiedere al lavoratore lo svolgimento di lavoro supplementare e le parti possono pattuire clausole elastiche (le clausole che consentono lo spostamento della collocazione dell’orario di lavoro) o flessibili (le clausole che consentono la variazione in aumento dell’orario di lavoro nel part- time verticale o misto).

Viene inoltre prevista la possibilità, per il lavoratore, di richiedere il passaggio al part-time in caso di necessità di cura connesse a malattie gravi o in alternativa alla fruizione del congedo parentale.

3.4. Affrontato, in qualche modo, da parte del precitato decreto attuativo, anche il tema delle modifiche all’articolo 2103 del codice civile a suo tempo prospettato nella “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera”. Per darvi concretezza è stata accordata al datore di lavoro - in presenza di processi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale e negli altri casi individuati dai contratti collettivi - la possibilità di poter modificare le mansioni di un lavoratore assegnandolo a mansioni inferiori di non più di un livello sottostante, senza modificare il suo trattamento economico (salvo il venir meno di trattamenti accessori legati alla specifica modalità di svolgimento del precedente lavoro).

La materia è estremamente delicata e, ad evitare possibili arbitri, necessita della massima vigilanza  da parte dei potenziali destinatari delle modifiche in peius e dei loro rappresentanti, da indirizzare sul riscontro di genuinità ed effettività  delle causali legittimanti l’iniziativa aziendale (ristrutturazioni, riconversioni e simili). Va, peraltro, detto che anche il precedente regime consentiva talune circoscritte deroghe al dettato dell’articolo 2103 del codice civile. Trattavasi di situazioni in cui era stato ritenuto di salvaguardare beni valutati dal legislatore di rango superiore al “cambio mansioni” deteriore, quale il mantenimento, comunque, dell’occupazione (cfr., l’articolo 4, comma 11 Legge 23 luglio 1991, n. 223, afferente il riassorbimento in azienda di lavoratori esuberanti, post mobilità; l’articolo 1, comma 7 e dall’articolo 4, comma 4 Legge 12 marzo 1999, n. 68, afferente la sopravvenuta inabilità parziale dei lavoratori allo svolgimento delle loro mansioni; l’articolo 7, comma 5 della Legge 151/2001, già articolo 30/33 della Legge n. 1204/1971, riguardante le lavoratrici madri, che durante il periodo di gestazione e sino a sette mesi dopo il parto - se il tipo di attività o le condizioni ambientali sono pregiudizievoli alla loro salute - devono essere spostate ad altre mansioni anche inferiori a quelle abituali, conservando la retribuzione precedente.). Orientamento da tempo condiviso dalla stessa Cassazione secondo cui: “costituisce principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l’articolo 2103 del codice civile (...) non opera allorché il patto peggiorativo corrisponde all’interesse del lavoratore medesimo. Ed in effetti il diritto alla tutela della posizione economica e professionale del lavoratore deve trovare contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del lavoratore quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro” (cfr. per tutte, Cassazione n. 18269/2006). Ove alla sussistenza dei requisiti legittimanti il demansionamento si accompagnava,  pur sempre, il consenso del lavoratore.

È stata altresì prevista la possibilità di accordi individuali, in cosiddetta “sede protetta”, tra datore di lavoro e lavoratore che possano prevedere la modifica senza limiti anche del livello di inquadramento e della retribuzione al fine della conservazione dell’occupazione, dell’acquisizione di una diversa professionalità o del miglioramento delle condizioni di vita.

Inattuata, allo stato, la previsione di cui all’articolo 7, lett. e) della Legge Delega n. 183/2014, relativa alla “revisione della disciplina dei  controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e  della  riservatezza del lavoratore”.

Ad essa non è stato dato ancora corso tramite specificazione in decreti attuativi; peraltro, nonostante  una rassicurante formulazione, non è pessimistico (ma realistico) aspettarsi che si tradurrà nella legittimazione datoriale a controlli audiovisivi più invasivi e penetranti degli attuali - sinora condizionati ad accordi sindacali ed al controllo  ispettivo degli organi istituzionali preposti a garanzia del rispetto  della dignità e della privacy dei lavoratori - di cui nel testo legislativo non v’è traccia alcuna.

 

[1] Così L. Mariucci,  nell'ottimo articolo La commedia degli inganni: l'itinerario regressivo della legge sul lavoro, inedito allo stato.

[2] La surriferita ricostruzione   riceve conferma da quella, ancor più articolata, descritta da L. Mariucci nell'articolo citato in nota 1.

[3] Così aderendo e recependo l'opinione di Cass., sez. lav., 6 novembre 2014 n. 23669.

[4]  P. Ichino, risposta ad un lettore, in http://www.pietroichino.it/, Newsletter n. 331 del 2/2/2015.

[5]  Così C. Romeo, nell'articolo  Il dilemma delle tutele nel nuovo diritto del lavoro: i campi esclusi dalla riforma del Jobs Act, inedito allo stato.

1. Premessa

Con una singolare propensione verso l’esterofilia, l’attuale governo ha inteso designare - con  una locuzione reperibile in un messaggio del presidente degli USA Obama -  quale Jobs Act, la ventilata riforma del lavoro orientata in senso liberistico, tanto che non v’è chi non si sia reso conto, tra i giuslavoristi, che trattasi di una mera controriforma di segno regressivo per i diritti dei lavoratori, tesa a traguardare meramente la liberalizzazione dei licenziamenti ed a sancire, con il decorso del tempo, l’eutanasia della tutela reintegratoria ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per tutti indistintamente i lavoratori, una volta che gli attuali esclusi dalla sottrazione alla reintegra (quelli assunti prima dell’entrata in vigore dei decreti attuativi della Legge n 183/2014, emessi il 24/12/2014, suscettibili di entrare in vigore presumibilmente nel mese di febbraio 2015) saranno usciti per turnover fisiologico dal circuito lavorativo.

Con il cosiddetto Jobs Act (oramai Legge-delega 10/12/2014 n. 183) il nuovo legislatore ha enfatizzato mediaticamente, a fini di propiziarne la pubblica accettazione, l’introduzione di un “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”; destinato, come già detto, ai soli lavoratori con qualifica di operaio, impiegato o quadro (per i dirigenti, già nel previgente assetto il licenziamento privo di giustificatezza implicava solo la corresponsione di mensilità della cosiddetta. indennità supplementare, non già la reintegra) assunti dalle aziende private in data posteriore all’entrata in vigore dei due decreti attuativi del 24 dicembre 2014. Contratto caratterizzato, per il caso di licenziamento ingiustificato del prestatore, dalla non ricorrenza del rimedio reintegratorio (in aderenza alla dismissione legislativa della cosiddetta. property rule sostituita dalla cosiddetta. liability rule) per l’applicazione, in sua vece, di una soluzione monetizzante, riposante sulla responsabilità civile datoriale, concretizzantesi in un trattamento economico indennitario, graduato in forma crescente in relazione all’anzianità di servizio maturata dal licenziato in azienda.

Così chiarita la natura delle cosiddette. “tutele crescenti” (afferenti pertanto la sola misura delle mensilità indennitarie), appare in tutta evidenza come la formula semantica utilizzata sia pacificamente non rispondente al vero, anzi, praticamente, ingannevole. Formula frutto di una retromarcia rispetto alle iniziali prospettazioni rese all’opinione pubblica - sia da parte dei responsabili politici che da parte dei tecnici che avevano suggerito l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i nuovi assunti - nella iniziale forma carente della tutela reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo, ma acquisibile alla maturazione di un’anzianità di servizio aziendale dell’ordine dei 3 anni, onde realizzare una temporalmente diluita parificazione delle tutele dei nuovi assunti con quelle fruite, in caso di licenziamento illegittimo, dai già occupati (cioè la reintegra ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori).  

Tale iniziale soluzione, quantunque insoddisfacente per la intrinseca gradualità del beneficio della stabilità reale, si poneva, in un certo qual modo, in linea con l’opinione del Consiglio dell’Unione Europea del dicembre  2008, secondo cui il contratto a tutele crescenti deve consistere in un contratto che inizia “con un livello di base di tutela del lavoro” e in cui la protezione si accumula “progressivamente via via che il lavoratore occupa un posto di lavoro fino a raggiungere una protezione piena”.

Niente di tutto questo il Jobs Act ha assicurato ai nuovi assunti, riconfinati nella precarietà. Come è stato efficacemente detto: “Qui non c’è alcuna tutela piena, nulla che “cresca”, tranne l’indennità che può essere stabilita dal giudice ove il licenziamento impugnato sia ritenuto ingiustificato, o che sia offerta in via conciliativa, in una cifra minima inferiore, dallo stesso datore di lavoro”[1].

L’abbandono dell’iniziale soluzione innanzi prospettata è potuto avvenire, in tempi successivi, grazie all’emersione nel premier dei sottaciuti reali convincimenti personali ed alla conseguente loro esternazione mediatica al Paese tramite affermazioni di spinto tenore liberistico, mai in precedenza profferite, sostanzialmente del tenore secondo cui ... è il datore che assume e è il datore che ha il diritto di licenziare; va eliminata l’interferenza dei giudici che, valutando discrezionalmente comportamenti o inadempienze dei lavoratori,detengono attualmente il potere di riammettere in azienda gli espulsi dal titolare dell’impresa; e qualora il licenziamento datoriale possa risultare ingiustificato o arbitrario sul datore graverà esclusivamente una responsabilità risarcitoria economicamente quantificabile aprioristicamente dallo stesso legislatore, sottratta alla valutazione equitativa dei magistrati... et similia. In accordo di governo con noti conservatori del Nuovo centro destra (coloro che in precedenza avevano introdotto nell’ordinamento, con l’articolo 8 della Legge n. 148/2011, la derogabilità in peius del contratto nazionale da parte della cosiddetta contrattazione di prossimità), nel novembre del 2014 usciva un ordine del giorno della direzione del PD  contenente una  deliberazione tramite cui si sosteneva che l’originario generico testo del d.d.l. delega (in cui nessun cenno era reperibile in ordine ai licenziamenti) avrebbe dovuto essere corretto prevedendo “una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro. Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”.

In conseguenza della precitata deliberazione, allo schema della legge delega veniva apportato un emendamento[2] che stabiliva di introdurre la: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tutele crescenti …escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro, previo indennizzo certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari ingiustificati” [(così lett.c), comma 4, Legge n.183 del 2014)].

Era stata  così spianata la strada  per la liberalizzazione e monetizzazione dei licenziamenti, con la sola esclusione di quelli discriminatori (notoriamente derivanti da ragioni di discriminazione politica, sindacale, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali, cui va aggiunto quella per violazione delle norme sulla maternità e paternità, in occasione del matrimonio o per motivo illecito determinante); peraltro senza totale appagamento da quella compagine governativa e imprenditoriale conservatrice che richiedeva la vanificazione totale anche di questa modestissima fattispecie di reintegra, attraverso l’inserimento normativo nello schema della legge delega, a titolo integrativo, del cosiddetto. opting out per il datore di lavoro; cioè a dire della facoltà per quest’ultimo di sostituire la reintegra con l’offerta di un risarcimento economico monetario (richiesta peraltro cui non venne dato corso, testimoniante, tuttavia, la concezione  secondo cui la mortificazione della dignità della persona del lavoratore poteva essere sanata con  una mercificante monetizzazione).

2. La nuova disciplina dei licenziamenti illegittimi

Il realizzato intendimento di conseguire la liberalizzazione dei licenziamenti tramite l’abolizione del precedente rimedio della reintegra, sostituito (a vantaggio della parte datoriale) da una più spiccia monetizzazione, viene così lucidamente e compiacentemente esternato in una sua relazione dal presidente della Commissione Lavoro del Senato, on. Sacconi: “La normativa di delega appare rivolta a sostituire un regime fondato sulla reintegrazione nel posto di lavoro, se il giudice imponderabilmente non approva l’operato dell’imprenditore, con un regime fondato su un indennizzo di entità predeterminata crescente con il crescere dell’affidamento reciproco tra le parti. Aggiungendo, con malcelata insoddisfazione a nostro avviso, che:” la limitazione della riforma alle nuove assunzioni disposta dalla delega – già ipotizzata nel tentativo abortito del 2001 – avrebbe trovato giustificazione nell’ipotesi di un più radicale abbandono della tutela reale e nel conseguente bisogno di un regime transitorio”.

Quindi, la nuova disciplina dei licenziamenti, salvo mantenere  la tutela reintegratoria (accompagnata dalle pregresse, invariate, misure risarcitorie di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, compresa l’opzione unilaterale del lavoratore per le 15 mensilità di retribuzione globale di fatto) per i soli licenziamenti discriminatori (quali innanzi specificati, tra cui correttamente la giurisprudenza di legittimità fa rientrare quelli ascrivibili a rappresaglia o ritorsione) nonché per quelli nulli intimati oralmente, ha - per così dire - universalizzato la monetizzazione, cioè l’indennizzo, quale misura sanzionatoria per il licenziamento ingiustificato ed al tempo stesso come rimedio risarcitorio per il lavoratore privato ingiustificatamente (senza giusta causa o giustificato motivo) del posto di lavoro.

Specifica al riguardo l’articolo 3, comma 1, dello schema del primo decreto attuativo del cosiddetto Jobs Act, reso il 24/12/2014 (e approvato dal CdM il 20/2/2015), che: “(...) nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Ed al comma 2 del medesimo articolo 3 aggiunge che: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lett. c, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all’articolo 2, comma 3” (cioè la facoltà di opzione per le 15 mensilità, da effettuare entro 30 gg. dal deposito della pronuncia giudiziale o dall’invito datoriale a riprendere servizio, esenti da contribuzione previdenziale).

Il comma 2 dell’articolo 3 sopra riportato è quello che evidenzia il maggior aspetto regressivo della nuova disciplina dei licenziamenti ingiustificati. È un articolo a contenuto palesemente insoddisfacente, oppressivo e vessatorio per il lavoratore. Fatta l’affermazione della “universalizzazione” della monetizzazione  quale misura risarcitoria, introduce uno spazio di deroga a favore della reintegrazione solo se “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

La rigidità della formulazione non è casuale ma frutto di deliberata scelta del nuovo legislatore, onde minimizzare o vanificare l’ipotesi che in sede giudiziale venga  da parte del Giudice accordata l’osteggiata reintegra a fronte di un licenziamento carente di giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo.

Peraltro, va osservato che - risultando ancora vigente l’articolo 2, l. n. 604/66 che dispone l’obbligo di motivazione del licenziamento a carico del datore -  grava ancora sul datore di lavoro l’onere di provare  la veridicità del fatto o inadempimento contestato al lavoratore; tuttavia il nuovo legislatore, in questo contesto,  adottando scientemente la formulazione  surriferita ha  voluto evitare che le eventuali prove lacunose o inadeguate, offerte al Giudice dal datore di lavoro in ordine al fatto imputato al licenziato a giustificazione del licenziamento, potessero di per se sole  determinare la pronuncia di una soluzione reintegratoria. Così, secondo quella che viene considerata essere l’interpretazione più ragionevole della disposizione, il nuovo legislatore ha inteso accollare al lavoratore in sede giudiziale un onere corrispondente a quello datoriale, tuttavia sbilanciatamente prevalente rispetto a quello di quest’ultimo, consistente - in ragione della negazione della sussistenza del fatto o comportamento imputatogli  dal datore - nella diretta dimostrazione di assoluta inesistenza del fatto medesimo, inteso e espressamente qualificato come mero “fatto materiale”, cioè come evento o comportamento posto in essere, prescindendo da valutazioni in ordine alla colpa, all’elemento psicologico, alle circostanze attenuanti e similari[3]. La mancata prova da parte del lavoratore  della insussistenza dell’addebitato fatto materiale risulta assorbente rispetto alle eventuali lacunosità probatorie del datore di lavoro, cosicché in presenza di una infrazione disciplinare di qualsiasi tipo (anche lieve o media) emersa in giudizio anche per effetto di una carente dimostrazione contraria del lavoratore, il licenziamento inflittogli verrà confermato e il trattamento risarcitorio sarà solo quello indennitario. Ciò anche nel caso in cui appaia anche al Giudice palesemente sproporzionato per il ricorrere di sole marginali infrazioni (lievi ritardi al lavoro, mancate tempestive comunicazioni di malattia certificata, errori involontari di contabilizzazione, ecc.), giacché al Giudice risulta preclusa la facoltà di derubricazione del provvedimento estintivo esorbitante mediante conversione in sanzione conservativa più ragionevole (multa, sospensione), detenuta in precedenza. Infatti la nuova disciplina - che ha fatto proprio l’obbiettivo della marginalizzazione del ruolo del Giudice come quello del sindacato - accorda al solo datore di lavoro la discrezionalità di comminazione della sanzione  valutata soggettivamente più idonea, in presenza di un fatto materiale sussistente (ove “sussistente” ingloba anche il fatto “insussistente” ma non provato dal lavoratore come tale). Al tempo stesso rende inutilizzabili per la pronuncia giudiziale i codici disciplinari contrattuali con le specifiche correlazioni tra infrazioni tipizzate e sanzioni contemplate. 

In coerenza con le affermazioni mediatiche di estraniazione del Giudice dall’interferire tramite le proprie decisioni (indirettamente o direttamente) su aspetti ritenuti dall’odierno legislatore di esclusiva pertinenza del titolare dell’impresa, l’introdotta disciplina inibisce al Giudice la possibilità di sindacare sulla proporzionalità o meno della sanzione datorialmente comminata, titolandolo ad accertare solo se il fatto imputato  al lavoratore (e posto a base della sanzione sproporzionata)  è stato dallo stesso posto in essere (o meno) nonché a quantificare l’entità dell’indennizzo entro i ranges legislativamente prefissati, in misura “crescente”, cioè proporzionata all’anzianità di servizio.

La nuova disciplina marginalizza, quindi, il ruolo giudiziale così come getta al macero i codici disciplinari contrattuali, aprendo indubbi spazi per potenziali arbitri datoriali ed alla possibilità di espellere lavoratori indesiderati e/o non compiacenti.

Infine l’ultimo comma del precitato articolo 3 del decreto stabilisce che al licenziamento dei nuovi assunti con contratto a cosiddetto tutele crescenti non si applica la procedura garantista di cui all’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori (contraddittorio, audizione del lavoratore a difesa anche con l’assistenza sindacale, termini procedurali per la comminazione della sanzione). Garanzie evidentemente considerate d’intralcio ad una velocizzazione dei provvedimenti espulsivi.

Il testo di questo articolo ha suscitato nutrite quanto fondate critiche, la “probatio diabolica” addossata al lavoratore onerato della dimostrazione in giudizio della insussistenza del fatto materiale imputatogli, ha occasionato l’addebito di un’inversione dell’onere della prova dal datore, naturale titolare in ragione dell’imputazione del fatto o comportamento, al lavoratore. I sostenitori della legittimità della pretesa in capo al lavoratore si sono tuttavia affrettati a negare la fondatezza del diffuso rilievo, tramite  la seguente argomentazione: “nel nuovo ordinamento la reintegrazione costituisce la sanzione disciplinare che viene inflitta al datore di lavoro per due e due sole sue mancanze gravi: aver licenziato una persona per motivi discriminatori (articolo 2 del decreto) e averla accusata di un fatto mai accaduto (articolo 3, comma 2). Il legislatore per un verso non considera più il singolo posto di lavoro come oggetto di un diritto della persona che lo occupa, per altro verso non ritiene particolarmente desiderabile, per il lavoratore, essere reintegrato in un’azienda dove è malvoluto. Insomma, la funzione della reintegrazione nel nuovo sistema non è più tanto quella del rimedio contrattuale previsto a vantaggio della persona che lavora (il cui interesse alla sicurezza economica e professionale è tutelato nel mercato e non più nel contratto), quanto piuttosto un deterrente di natura punitiva contro due comportamenti del datore specificamente vietati: a) discriminazione, b) contestazione di un fatto mai accaduto. Questa essendo la ratio della disposizione, si capisce che la sanzione della reintegrazione si applichi solo là dove il fondamento dell’accusa (quella mossa al datore) risulti compiutamente provato; e che l’onere della prova in proposito gravi sulla parte che muove l’accusa, cioè in questo caso il lavoratore[4].

Per completezza va detto che il decreto attuativo citato prevede, all’articolo 4, l’applicabilità del rimedio indennitario (monetizzazione) anche per i licenziamenti affetti da cd. vizi formali individuati nella violazione del requisito di motivazione (di cui all’articolo 2, comma 2, della Legge n. 604 del 1966) o della procedura di cui all’articolo 7 della Legge n. 300 del 1970; al loro ricorrere il Giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità.

Tramite l’articolo 5 il decreto attuativo introduce la facoltà datoriale di revoca agevolata del licenziamento (frutto di cd. ravvedimento operoso ovvero di mera convenienza), purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo; tramite la revoca  il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla sola  retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca.

Infine mediante l’articolo 6 viene accordata al datore di lavoro la possibilità di evitare il contenzioso sul disposto licenziamento, tramite conciliazione - prospettata al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (da realizzare  in una delle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4 del codice civile, e all’articolo 82, comma 1, del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276), accompagnata dall’offerta al lavoratore licenziato di un importo, esente da Irpef e da contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18  mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L’accettazione dell’assegno in sede di conciliazione da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

Tramite l’articolo 9 si assoggettano alla nuova disciplina indennitaria (con importi dimezzati rispetto ai licenziati illegittimamente da imprese sovradimensionate ed entro il tetto-limite di 6 mensilità) i licenziamenti illegittimi  dei lavoratori occupati nelle piccole imprese al disotto dei 15 dipendenti e nelle organizzazioni di tendenza (partiti politici, sindacati ecc.), disciplina che sostituisce la pregressa fondata sulla stabilità meramente obbligatoria ex lege n. 108/1990.

Tramite l’articolo 10, poi, si estende la soluzione indennitaria anche ai destinatari di licenziamento collettivo  viziato per intimazione senza forma scritta o  per violazione dei criteri di scelta o delle procedure  di cui all’articolo 4, comma 12, della Legge n. 233/1991. Previsione confermata dal decreto attuativo del 20/2/2015 (nonostante la richiesta  di esclusione contenuta nei pareri convergenti delle Commissioni lavoro di Camera e Senato).

L’articolo 11 delinea, poi, in forma  programmatica, i tratti salienti del trattamento di disoccupazione involontaria e di ricollocazione a carico dello Stato, fruibile da parte dei licenziati ingiustificatamente, cui verrà offerto un voucher  da spendere presso agenzie pubbliche o private impegnate in programmi di riallocazione, da esse riscuotibile solo  a risultato occupazionale riconseguito.

L’articolo 12 sancisce l’inapplicabilità del precedente rito, presuntivamente agevolativo, della legge Fornero al contenzioso sui licenziamenti dei nuovi assunti  posteriormente all’ entrata in vigore del decreto attuativo, rito risoltosi, secondo valutazione pressoché unanime, in un vero e proprio insuccesso. Il beneficio del suo abbandono  non risulterà, tuttavia, immediato, giacché i tribunali del lavoro saranno  per molto tempo ancora gravati da un contenzioso pregresso  regolato da una triplicità di riti: a) quell’ordinario del lavoro richiesto dalle cause  intraprese prima del luglio 2012; b) il cd. rito Fornero richiesto dalle controversie attivate successivamente a tale data; c) quello disciplinato dalla Legge n. 533/1973, richiesto dalle prossime cause vertenti sulla nuova disciplina dei licenziamenti, di cui al Jobs Act. 

3. Implicazioni ed effetti distorsivi della nuova disciplina della riforma del lavoro

3.1. Va ancora detto che la riforma del lavoro posta in essere dall’attuale governo non si esaurisce nell’innovazione riduttiva della disciplina dei licenziamenti, innanzi da noi delineata esaminando il cosiddetto Jobs Act, ma si struttura di esso e di un precedente stadio o tranche, costituito dal cosiddetto decreto Poletti del 20/3/2014 (convertito in Legge n. 78 del 16 maggio 2014) regolativo dei contratti a termine e dell’apprendistato, tramite cui si liberalizza ulteriormente il ricorso ai contratti a termine, istituzionalizzandoli come la forma di assunzione precaria di gran lunga prevalente, abolendone la “causale”, cioè la necessità di motivare le ragioni oggettive che ne giustificano il ricorso, e prevedendo addirittura la possibilità di 8 proroghe e rinnovi senza causale nell’arco dei 3 anni (poi ridotti a 5 in sede di conversione parlamentare del decreto). I due stadi della riforma appaiono scoordinati, autonomi l’uno dall’altro, addirittura contraddittori, idonei a suscitare una malcelata concorrenza interna tra la tipologia del contratto a tempo determinato (di cui alla Legge n. 78/2014) e quella del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (di cui alla Legge n. 183/2014). Non è dato, pertanto, apprezzare - come invece si dovrebbe - un’armonia tra i due stadi della riforma né tra le due soluzioni negoziali del contratto a termine e del contratto a tempo indeterminato. Scaturisce, quindi, la netta sensazione che si è in presenza di due provvedimenti a “compartimenti stagni”, autonomi l’uno dall’altro e, come detto in precedenza, in regime di concorrenza circa le scelte adottabili dal datore di lavoro per le nuove assunzioni, nel dilemma tra tempo determinato acausale e tempo indeterminato a tutele crescenti[5].

3.2. Ciò detto, in questo paragrafo evidenziamo quelle che sono state ritenute le implicazioni negative della cosiddetta. seconda tranche della riforma da noi innanzi trattata.
Nonostante declamata per porre fine al dualismo delle differenze di tutela tra precari e occupati (cosiddetto outsiders e insiders), la pseudo riforma designata insipidamente Jobs Act ha mancato il suo dichiarato obbiettivo, raggiungendo solo quello, evidentemente interiormente nutrito senza palesi esternazioni dal premier e dalla compagine maggioritaria dei partiti di governo, della riduzione dei diritti del lavoro culminati nella liberalizzazione dei licenziamenti. Deliberatamente scegliendo la soluzione più favorevole per le esigenze datoriali di evitamento della parificazione delle tutele dei precari neoassunti a quelle degli occupati in regime di stabilità reale (fruitori della reintegra in caso di licenziamento ingiustificato) e riservando ad essi - qualora neo assunti con un contratto a tempo indeterminato posteriormente alla vigenza dei decreti attuativi della riforma - un trattamento deteriore rispetto ai già occupati, altro non ha fatto che porre in essere un nuovo dualismo, sub specie di lavoratori di serie A e di serie B (anche se ci sono note le onerosità della cd. parificazione immediata al rialzo, esse sono insuscettibili di costituire un esimente alla soluzione deteriore prescelta).
Mentre riteniamo che il trattamento duale abbia scarse probabilità di sfociare nell’accoglimento di ventilate questioni di costituzionalità, esprimiamo il sicuro avviso che il nuovo dualismo differenziante lavoratori occupati e neo assunti con il cosiddetto contratto a tutele (economiche) crescenti determinerà, invece, la disincentivazione della mobilità dei lavoratori, costretti a permanere ingessati sulle posizioni di lavoro già occupate, giacché spostandosi verso altre e più appetibili realtà aziendali perderebbero il pregresso ruolo di “occupati”, scadendo in quello di neo assunti destinatari delle deteriori tutele indennitarie, per l’evenienza di un licenziamento ingiustificato. Poca valenza ha, al riguardo, la notazione/suggerimento da taluno prospettata, in ordine alla pur sempre sussistente possibilità del lavoratore - in caso di nuova assunzione per dimissioni dalla precedente azienda - di pattuire con l’azienda acquirente un trattamento convenzionale garante del mantenimento delle antecedenti condizioni e tutele normative di stabilità reale (la reintegra), argomentando sulla carenza nell’ordinamento lavoristico di un divieto di pattuizione di trattamenti in melius dello standard offerto dalla nuova disciplina. È evidente che tali pattuizioni possono essere poste in essere da parte di lavoratori con alta professionalità ed elevata specializzazione, cui si coniuga solitamente un forte potere contrattuale, mentre nella normalità dei casi la conservazione, in via convenzionale, delle precedenti condizioni normative non ha luogo o è rimessa alla benevolenza datoriale.
Speculare alla disincentivazione della mobilità professionale infra aziendale dei lavoratori è l’incentivazione per i gestori aziendali a scrollarsi i più onerosi e anziani dipendenti per sostituirli con neo assunti dal trattamento retributivo e normativo deteriore, stante anche il beneficio di poter avvalersi della decontribuzione triennale e dello sconto Irap previsti dalla legge di stabilità.

3.3. Gli annunciati “interventi di semplificazione, modifica o superamento delle…tipologie contrattuali” sovrabbondanti nel nostro ordinamento lavoristico e non “coerenti con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale”, - contemplati nell’art. 7 lett.a) della legge delega n. 183/2014 - tramite il decreto attuativo del 20/2/2015 si sono così concretizzati:
- a partire dall’entrata in vigore del decreto non potranno essere attivati nuovi contratti di collaborazione a progetto (quelli già in essere potranno proseguire fino alla loro scadenza); in ogni caso, a partire dal 1° gennaio 2016 ai rapporti di collaborazione personali con contenuto ripetitivo ed etero-organizzati dal datore di lavoro saranno applicate le norme del lavoro subordinato. Restano salve le collaborazioni regolamentate da accordi collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedono discipline specifiche relative al trattamento economico e normativo in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore e poche altri tipi di collaborazioni.

Vengono superati: i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro ed il job sharing. Vengono confermate le seguenti tipologie:

Contratto a tempo determinato cui non sono apportate modifiche sostanziali.

Contratto di somministrazione. Per il contratto di somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing) si prevede un’estensione del campo di applicazione, eliminando le causali e fissando al contempo un limite percentuale all’utilizzo calcolato sul totale dei dipendenti a tempo indeterminato dell’impresa che vi fa ricorso (10%).

Contratto a chiamata. Viene confermata anche l’attuale modalità tecnologica, sms, di tracciabilità dell’attivazione del contratto.

Lavoro accessorio (voucher). Verrà elevato il tetto dell’importo per il lavoratore fino a 7.000 euro, restando comunque nei limiti della no-tax area, e verrà introdotta la tracciabilità con tecnologia sms come per il lavoro a chiamata.

Apprendistato. Si punta a semplificare l’apprendistato di primo livello (per il diploma e la qualifica professionale) e di terzo livello (alta formazione e ricerca) riducendone anche i costi per le imprese che vi fanno ricorso, nell’ottica di favorirne l’utilizzo in coerenza con le norme sull’alternanza scuola-lavoro.

Part-time. Vengono definiti i limiti e le modalità con cui, in assenza di previsioni al proposito del contratto collettivo, il datore di lavoro può chiedere al lavoratore lo svolgimento di lavoro supplementare e le parti possono pattuire clausole elastiche (le clausole che consentono lo spostamento della collocazione dell’orario di lavoro) o flessibili (le clausole che consentono la variazione in aumento dell’orario di lavoro nel part- time verticale o misto).

Viene inoltre prevista la possibilità, per il lavoratore, di richiedere il passaggio al part-time in caso di necessità di cura connesse a malattie gravi o in alternativa alla fruizione del congedo parentale.

3.4. Affrontato, in qualche modo, da parte del precitato decreto attuativo, anche il tema delle modifiche all’articolo 2103 del codice civile a suo tempo prospettato nella “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera”. Per darvi concretezza è stata accordata al datore di lavoro - in presenza di processi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale e negli altri casi individuati dai contratti collettivi - la possibilità di poter modificare le mansioni di un lavoratore assegnandolo a mansioni inferiori di non più di un livello sottostante, senza modificare il suo trattamento economico (salvo il venir meno di trattamenti accessori legati alla specifica modalità di svolgimento del precedente lavoro).

La materia è estremamente delicata e, ad evitare possibili arbitri, necessita della massima vigilanza  da parte dei potenziali destinatari delle modifiche in peius e dei loro rappresentanti, da indirizzare sul riscontro di genuinità ed effettività  delle causali legittimanti l’iniziativa aziendale (ristrutturazioni, riconversioni e simili). Va, peraltro, detto che anche il precedente regime consentiva talune circoscritte deroghe al dettato dell’articolo 2103 del codice civile. Trattavasi di situazioni in cui era stato ritenuto di salvaguardare beni valutati dal legislatore di rango superiore al “cambio mansioni” deteriore, quale il mantenimento, comunque, dell’occupazione (cfr., l’articolo 4, comma 11 Legge 23 luglio 1991, n. 223, afferente il riassorbimento in azienda di lavoratori esuberanti, post mobilità; l’articolo 1, comma 7 e dall’articolo 4, comma 4 Legge 12 marzo 1999, n. 68, afferente la sopravvenuta inabilità parziale dei lavoratori allo svolgimento delle loro mansioni; l’articolo 7, comma 5 della Legge 151/2001, già articolo 30/33 della Legge n. 1204/1971, riguardante le lavoratrici madri, che durante il periodo di gestazione e sino a sette mesi dopo il parto - se il tipo di attività o le condizioni ambientali sono pregiudizievoli alla loro salute - devono essere spostate ad altre mansioni anche inferiori a quelle abituali, conservando la retribuzione precedente.). Orientamento da tempo condiviso dalla stessa Cassazione secondo cui: “costituisce principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l’articolo 2103 del codice civile (...) non opera allorché il patto peggiorativo corrisponde all’interesse del lavoratore medesimo. Ed in effetti il diritto alla tutela della posizione economica e professionale del lavoratore deve trovare contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del lavoratore quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro” (cfr. per tutte, Cassazione n. 18269/2006). Ove alla sussistenza dei requisiti legittimanti il demansionamento si accompagnava,  pur sempre, il consenso del lavoratore.

È stata altresì prevista la possibilità di accordi individuali, in cosiddetta “sede protetta”, tra datore di lavoro e lavoratore che possano prevedere la modifica senza limiti anche del livello di inquadramento e della retribuzione al fine della conservazione dell’occupazione, dell’acquisizione di una diversa professionalità o del miglioramento delle condizioni di vita.

Inattuata, allo stato, la previsione di cui all’articolo 7, lett. e) della Legge Delega n. 183/2014, relativa alla “revisione della disciplina dei  controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e  della  riservatezza del lavoratore”.

Ad essa non è stato dato ancora corso tramite specificazione in decreti attuativi; peraltro, nonostante  una rassicurante formulazione, non è pessimistico (ma realistico) aspettarsi che si tradurrà nella legittimazione datoriale a controlli audiovisivi più invasivi e penetranti degli attuali - sinora condizionati ad accordi sindacali ed al controllo  ispettivo degli organi istituzionali preposti a garanzia del rispetto  della dignità e della privacy dei lavoratori - di cui nel testo legislativo non v’è traccia alcuna.

 

[1] Così L. Mariucci,  nell'ottimo articolo La commedia degli inganni: l'itinerario regressivo della legge sul lavoro, inedito allo stato.

[2] La surriferita ricostruzione   riceve conferma da quella, ancor più articolata, descritta da L. Mariucci nell'articolo citato in nota 1.

[3] Così aderendo e recependo l'opinione di Cass., sez. lav., 6 novembre 2014 n. 23669.

[4]  P. Ichino, risposta ad un lettore, in http://www.pietroichino.it/, Newsletter n. 331 del 2/2/2015.

[5]  Così C. Romeo, nell'articolo  Il dilemma delle tutele nel nuovo diritto del lavoro: i campi esclusi dalla riforma del Jobs Act, inedito allo stato.