x

x

Riflessioni sul danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale

Danno non patrimoniale
Danno non patrimoniale

Nel Codice civile italiano, le obbligazioni costituiscono un rilevante macro-sistema alla luce, soprattutto, della peculiare duttilità che permette loro di ergersi a veri e propri schemi generali in grado di regolamentare qualsivoglia ambito: contrattuale, pre-contrattuale, extra-contrattuale, “para-contrattuale” (il riferimento è agli istituti di cui agli articoli 2028-2042 del Codice civile).

Detto macro-sistema rinviene il suo boccaporto preliminare nel combinato disposto degli articoli 1173 e 1174 del Codice civile. Ivi, il Legislatore ha dapprima individuato la matrice genetica delle obbligazioni. Quelle fonti, cioè, “idonee a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” e ne ha stilato un puntuale catalogo (articolo 1173 del Codice civile). Si è, quindi, preoccupato di vagliare in profondità la fisiologia della singola obbligazione, contratta dal debitore a vantaggio del creditore, soffermandosi sui suoi elementi essenziali. 

In particolare, il nucleo operativo dell’articolo 1174 del Codice civile ruota attorno alla necessaria caratterizzazione economica della prestazione obbligatoria ed al suo essere inscindibilmente connessa ad un interesse, anche non patrimoniale, dell’accipiens.

La patrimonialità della prestazione, pertanto, se tipizza il contenuto dell’obbligazione, non peculiarizza quello dell’interesse del creditore il quale, specie ove leso, ben può trovare un “costante” ristoro.

Da queste brevi battute, si evince, quindi, come la ratio sottesa al micro-sistema or ora delineato sia quella di conferire all’interprete le chiavi necessarie per valutare la legittimità, liceità e correttezza (articolo 1175 del Codice civile) dei rapporti obbligatori insorti tra cives così da somministrare loro un’adeguata tutela nel caso in cui l’esito di questa indagine sia negativo.

Laddove ciò accada, la principale - e più vistosa - ricaduta dell’allontanamento del rapporto obbligatorio dai suoi parametri legali è data dalla perpetrazione di un danno a sfavore, tendenzialmente, di una delle parti del rapporto. Al netto, cioè, di quelle - rare - ipotesi di efficient breach in cui la libertà di non adempiere, riservata al debitore, non lo esime dal risarcire i danni, di qualunque tipo, ugualmente cagionati all’accipiens, la cui liquidazione, tuttavia, avviene in misura sensibilmente ridotta.

La causazione del danno comporta, infatti, ove predicabile, l’imputazione in capo al suo autore della correlata responsabilità, da modularsi applicando schemi differenti a seconda del vincolo, contrattuale o meno (articolo 1173 del Codice civile che rinvia agli articoli 1218, 1453, 2043 e 2059 del Codice civile), che lega gli obbligati.

Pertanto, se la fruizione di schemi differenti determina, invero, una differente ripartizione dell’onere probatorio (più robusto, per il danneggiato, nell’ipotesi di cui all’articolo 2043 del Codice civile; meno gravoso, per il creditore che subisce l’inadempimento, nel caso di cui agli articoli 1218 e 1453 del Codice civile), il comune denominatore di quegli schemi è pur sempre una lesione di cui si chiede il ristoro e della quale è necessario individuare gli elementi costitutivi per legittimare quella riparazione. Sul punto, la lettera dell’articolo 1174 del Codice civile è chiara: l’interesse del creditore a ricevere la prestazione del solvens può rivestire anche carattere non patrimoniale. Il che significa, argomentando a contrario, che il Legislatore ha voluto attribuire rilevanza giuridica alla lesione di per sé dell’interesse del creditore: a prescindere, cioè, dalla specifica caratterizzazione di quell’interesse, purché correlato alla prestazione oggetto del rapporto, e fermi restando i limiti operativi dettati dagli articoli 1322, comma 2, e 2059 del Codice civile in punto di risarcibilità dei danni non patrimoniali. Id est: il limite “astratto” della cosiddetta meritevolezza dell’interesse atipico (leso) ad essere tutelato, e dunque ristorato, ed il limite “concreto” della effettiva ristorabilità di quell’interesse ove non patrimoniale.

Sull’ammissibilità del ristoro del danno non patrimoniale e sulla corretta interpretazione che dovesse darsi al ricordato articolo 2059 del Codice civile, è intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite nel 2008 con una nota pronuncia che ha ricomposto il caotico dibattito in merito e che ha, in parte sovvertito ed in parte confermato, gli arresti che la Consulta e la stessa Cassazione avevano già maturato sul tema. Il Supremo Consesso, nel redigere un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale, ne ha individuato e tratteggiato gli elementi essenziali, differenziandoli anche da quelli che caratterizzano il danno risarcibile ex art. 2043 del Codice civile. Fattispecie, quest’ultima, che si limita a configurare la ristorabilità dei danni solo patrimoniali scaturenti da fatto illecito, così delineando un sistema risarcitorio monco e comunque non in linea con la ratio dell’articolo 1174 del Codice civile e degli articoli 1322, comma 2 e 2059 del Codice civile. Infatti, se la norma che disciplina la responsabilità aquiliana si distingue per l’atipicità della fonte del suo illecito (“qualunque fatto doloso o colposo”, quindi contra ius) e per l’ingiustizia del vulnusnon iure, subito dal danneggiato, non lo stesso può dirsi per il caso di cui all’articolo 2059 del Codice civile.

L’ampia - ma perentoria - formulazione della fattispecie (“il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”) impone all’interprete di valutare la ristorabilità del pregiudizio sofferto dal danneggiato alla luce dei dettami normativi. Dettami che comprendono, in un’ottica costituzionalmente orientata, anche quelli rinvenibili all’interno della Carta Fondamentale e che sanzionano le violazioni ai diritti inviolabili (sub specie: diritti della persona) o ai diritti a questi connessi sulla scorta di una lettura evolutiva della Grundnorm. Il danno non patrimoniale è, dunque, un danno tipico - o tipizzato - cui l’ordinamento accorda protezione solo ove la legge, con la Costituzione in primis, gli riconosca tale, sensibile tutela.

La Cassazione, quindi, si sofferma sull’anatomia del danno non patrimoniale. Ne valuta le possibili micro-ripartizioni al fine di comprendere se esse assumano una valenza meramente qualificatoria o se, al contrario, possano assurgere ad ipotesi autonome di danno, come tali singolarmente, ed isolatamente, risarcibili. La problematica, di evidente natura ermeneutica e applicativa, si è posta, in particolare, con riguardo alla paventata autonomia del danno esistenziale.

I Giudici di legittimità, nel propendere per la prima delle citate impostazioni, risolvono la querelle ricordando la ratio sottesa al sistema di responsabilità aquiliana del Codice civile del 1942. La funzione dell’artciolo 2043 del Codice civile è, infatti, quella di assicurare al danneggiato una giusta riparazione per il torto subito, secondo una logica decisamente antitetica rispetto a quella - sanzionatoria - che caratterizzava il Codice del 1865 e che peculiarizza, tutt’ora, i sistemi giuridici anglosassoni inclini a liquidare i cosiddetti punitive damages.

Se questa è la ratio, ammettere l’autonomia concettuale ed operativa del micro-cosmo del danno esistenziale - e, a fortiori, delle altre micro-categorie del danno morale/soggettivo e biologico - , non può che tradursi nella vanificazione di quegli sforzi interpretativi che avevano portato la stessa Suprema Corte a ripudiare la liquidazione di un tort svincolato dagli imprescindibili referenti normativi (articolo 2059 del Codice civile) e, in quanto tale, necessariamente atipico.

In altri termini, la nozione di danno non patrimoniale che il Codice fornisce e che, attraverso le sue “pieghe” normative e quelle della Carta fondamentale, dev’essere ricostruita, impedisce al giurista di operare all’interno dello stesso una pluri-ripartizione, se non per finalità meramente descrittive. Finalità idonee ad aiutare l’interprete nel tratteggiare, classificandole, le sfaccettature che, a monte, un unico - ed unitario - danno non patrimoniale può assumere e rispetto al quale, esse, non sono ontologicamente differenti. Opinare in altro modo significherebbe, infatti, autorizzare pretestuose e bagatellari duplicazioni risarcitorie contrastanti sia con la ricordata - e correlata - funzione riparatoria del torto aquiliano sia con la necessaria tipicità che correla il danno risarcibile ex articolo 2059 del Codice civile alla norma di riferimento.

Emerge in tutta evidenza, pertanto, che l’articolo 2059 del Codice civile, sebbene allocato, a livello topografico, in chiusura del macro-sistema normativo della responsabilità aquiliana, è invero non esclusivo di quest’ultima. Infatti, alla tipicità/unitarietà che lo caratterizza endemicamente e che gli permette di operare solo in ricorrenza di determinati presupposti, si affianca la duttilità con cui l’interprete può fruire delle sue prescrizioni, purché rigorosamente osservate, applicandole anche a contesti negoziali e modulandole sulle caratteristiche precipue di questi ultimi: basti pensare alla “secondarietà” dell’obbligazione risarcitoria in caso di inadempimento contrattuale e alla “primarietà” della medesima ove scaturente da un fatto illecito.

Detta malleabilità costituisce, pertanto, un valido argomento perché la disposizione di cui all’articolo 2059 del Codice civile assurga ad autonomo micro-sistema risarcitorio, caratterizzato da propri dogmi (tipicità-unitarietà), nonché in grado di completare il quadro, altrimenti indefinito, dei tipi di tutela somministrabili al danneggiato. Soprattutto ove quest’ultimo assuma le vesti del creditore/contraente insoddisfatto e non possa - o non voglia - beneficiare solo dei rimedi in forma specifica.

A tal proposito, la configurabilità di un danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale è stata ritenuta ammissibile, nel nostro ordinamento, soltanto di recente, a seguito di non isolate pronunce di merito e di legittimità. In particolare, in una pronuncia del 2007, la Cassazione riconosce l’assenza di orientamenti pacifici e consolidati sul punto e rimarca la difficoltà di conciliare la natura economica del rapporto contrattuale con la richiesta di ristoro di pregiudizi ben diversi, caratterizzanti la dimensione intima del danneggiato.

Ciononostante, la Cassazione sposa il nuovo approdo interpretativo valorizzando taluni istituti del nostro ordinamento, di creazione normativa e pretoria, nonché la tesi negoziale della causa in concreto, soprattutto con riguardo al contratto di viaggio “tutto compreso”.

A stimolare le riflessioni della Corte, è stata la connaturata bivalenza degli istituti prima richiamati: essi, infatti, si stagliano, dal punto di vista applicativo, su un terreno squisitamente negoziale, ma sono altresì in grado di determinare, ove lesi nelle proprie prescrizioni, conseguenze di doppia natura.

Si pensi, ad esempio, all’ipotesi del contatto sociale: fattispecie pretoria che ha avuto il pregio di operare una sorta di reductio ad unum e di ricondurre, così, nel proprio alveo contrattuale istituti dapprima ricompresi in quello extra-contrattuale. Se peculiarità della cosiddetta teoria del contatto è la sussistenza di un rapporto negoziale che avvince le parti contraenti e le “collega” ad altra parte apparentemente terza rispetto a quel vincolo, la frattura di quel legame produce una lesione, come tale risarcibile ex articolo 1218 del Codice civile, ove ne ricorrano i presupposti operativi.

Tipico è il caso della responsabilità da inadempimento dell’ente ospedaliero, pubblico o privato, per le prestazioni mal rese, ai danni del paziente, dal medico della struttura. L’evento-inadempimento è fonte di responsabilità per l’ospedale: una responsabilità per culpa in eligendo ed in vigilando, eziologicamente “autonoma” rispetto a quella cui è esposto il medico. Medico che, tuttavia, ha dato causa, col proprio negligente operato, al danno del paziente. Un vulnus che, tendenzialmente, consiste in lesioni, di vario genere ed entità all’integrità fisica del degente (ove non trasmodi nella morte del medesimo e nelle conseguenti problematiche in punto di ammissibilità del danno tanatologico e della sua trasmissibilità, o meno, jure hereditatis). Entrambi, ospedale e sanitario, saranno chiamati in solido a ristorare il pregiudizio subito dalla vittima. Esso, però, ai fini della sua effettiva risarcibilità, dev’essere vagliato nella sua dimensione ontologica e patologica.

Come si è anticipato, infatti, l’articolo 1218 del Codice civile, non specifica il tipo di vulnus che debba essere arrecato al creditore affinché questi possa “giovarsi” della discendente obbligazione risarcitoria. Il dato normativo, invero, si preoccupa di delineare le condizioni operative che determinano, in capo a chi subisce il danno, la nascita di un titolo idoneo a rivendicarne il risarcimento. Non si sofferma, però, sulla fisiologia di quel pregiudizio. Pertanto, nel silenzio della littera legis e sulla scorta del noto brocardo “ubi voluit dixit”, deve concludersi per l’assoluta irrilevanza che, ai fini dell’operatività dell’articolo 1218 del Codice civile, riveste il tipo di danno perpetrato al creditore. Ciò significa che il pregiudizio subito potrà avere anche carattere non patrimoniale, il che è perfettamente in linea con le ricordate direttive dell’articolo 1174 del Codice civile, con l’interpretazione “estensiva” che se ne è proposta e con la ratio e lo spirito sottesi all’intero macro-sistema delle obbligazioni.

In quest’ottica, il danno non patrimoniale, eventualmente cagionato al paziente, potrà godere di un adeguato ristoro solo ove soddisfi le condizioni che la legge, all’articolo 2059 del Codice civile, richiede ai fini della sua risarcibilità (ed effettiva liquidazione) da parte del Giudice competente. Dovrà, quindi, essersi tradotto in una lesione ai diritti inviolabili della persona ovvero essere specificamente previsto dalla legge (carattere della tipicità: argomento ex articolo 185 del Codice penale), nonché modularsi nelle tre sfaccettature del biologico, esistenziale o morale/soggettivo pur rimanendo, in via ontologica, unico ed unitariamente risarcibile (carattere dell’unitarietà).

Più in particolare, si può usare l’argomento del danno biologico nell’ipotesi del contatto sociale sub specie ospedaliero per fornire alcune precisazioni a quanto poc’anzi detto. Nonché per rimarcare come esso ampli la portata applicativa dell’articolo 2059 del Codice civile.

Infatti, posto che fonte di quel pregiudizio è un inadempimento, a monte di quest’ultimo ben può assestarsi una condotta illecita del sanitario. Una condotta, magari, in grado di integrare un’ipotesi delittuosa (lesioni personali e personali colpose, in disparte i casi di cui agli articoli 586 e 589 del Codice penale) che, nella concezione più in voga subito dopo l’entrata in vigore dell’attuale Codice, costituiva l’unico caso in cui era possibile accordare ristoro ai danni di natura non economica (articolo 185 del Codice penale).

Il che significava, in buona sostanza, ammettere la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale ai soli casi di reato-contratto. Ai casi in cui, cioè, il momento consumativo del delitto coincideva con la stipulazione contrattuale: si pensi, ad esempio, all’usura e a quella giurisprudenza che professava l’autonomia delle vicende civilistiche da quelle penalistiche e che, pertanto, sanzionava con la nullità il contratto usurario, obbligando il reo/danneggiante alle restituzioni e al risarcimento del danno cagionato.

Anche con riguardo all’art. 2-bis della Legge n. 241 del 1990, e prima che in giurisprudenza si propendesse per la definitiva qualificazione della responsabilità della P.A. come extracontrattuale, era invalsa la tesi secondo cui il contatto che congiungeva P.A. e cittadino, all’interno del procedimento amministrativo, costituisse una ipotesi di contatto sociale qualificato. Ragion per cui, dalla “inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” ben potevano derivare danni non patrimoniali risarcibili solo ove soddisfatte le condizioni operative dell’articolo 2059 del Codice Penale.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite ha, poi, ravvisato un’altra ipotesi, stavolta di carattere normativo, in cui inadempimento contrattuale e danno non patrimoniale possono logicamente combinarsi. Il riferimento è alla clausola penale di cui all’articolo 1382 del Codice civile. Infatti, la predeterminazione convenzionale del quantum debeatur in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, oltre a sortire il “tradizionale” effetto della limitazione della prestazione risarcitoria a quanto pattuito, reca con sé una ulteriore conseguenza, invero celata nella non trasparente formulazione dell’articolo 1382 del Codice civile. Al pari delle riflessioni spese con riguardo all’articolo 1218 del Codice civile, anche qui deve convenirsi che il lemma “danno” sia stato utilizzato dal Legislatore con un’accezione estensiva. Un’accezione, cioè, atta a ricomprendere non solo i danni economici derivanti dall’evento-inadempimento, ma anche quelli di natura non patrimoniale, ove connessi a quest’ultimo ed in quanto risarcibili ex articolo 2059 del Codice civile.

Si pensi, ad esempio, ad un contratto di locazione in cui sia apposta una clausola penale che, nel caso di mancato rilascio dell’immobile locato alla scadenza pattuita, obblighi il conduttore inadempiente al risarcimento del danno convenuto nei confronti del locatore. In questo caso, al di là dei profili economici certamente discendenti da siffatta mancanza, è indubbio - e taluna giurisprudenza è concorde sul punto - che il bene casa giochi un ruolo primario nella vita individuale e di relazione del singolo. Al punto che la sua mancata fruibilità, per colpa dell’inquilino inadempiente, può ergersi a fonte sia di un danno alla salute sia di un vulnus morale, caratterizzato proprio dalla inaspettata - e transeunte - perduranza di quella situazione di disagio. Ai fini di una maggiore chiarezza, si pensi all’ipotesi in cui il locatore, nell’attesa del rilascio dell’immobile, sia costretto a vivere in una sistemazione di comodo, condividendo spazi d’aria, magari ristretti, con altri membri della famiglia e con contestuale sacrificio delle ordinarie condizioni d’igiene. Alla luce di tali considerazioni e delle rilevanti ricadute che il mancato soddisfacimento dell’esigenza abitativa può comportare al titolare della medesima, il nostro ordinamento non può non ammetterne una piena tutela, somministrabile anche ex articolo 1382 del Codice civile.

Ma non è tutto. Ancora, la giurisprudenza di legittimità, rinviando ad altre, più specifiche, pronunce sul tema, individua nel cosiddetto danno da vacanza rovinata una ipotesi di danno non patrimoniale (sub specie: esistenziale) da inadempimento contrattuale.

I giudici, invero, giungono a tali conclusioni valorizzando la figura atipica del contratto di viaggio all inclusive. Detta categoria negoziale non gode di una espressa disciplina normativa nel nostro ordinamento. Tuttavia, essa è riuscita comunque a superare il vaglio di “meritevolezza” degli interessi, sottesi al predisposto regolamento negoziale, e a godere, di conseguenza, della “meritata” tutela giuridica. La causa concreta del contratto di viaggio “tutto compreso” è infatti identificabile nell’occasione di svago che un piacevole e confortevole soggiorno può garantire al turista. Occasione che assume una rilevanza diversa a seconda del “motivo” che ha indotto l’acquirente a prenotare il pacchetto.

Si pensi al soggiorno in luna di miele o alla vacanza per le ferie estive: in entrambi i casi, l’interesse del turista è quello di godere appieno di un periodo di relax irripetibile, peculiare e che non deluda le nutrite aspettative. Da qui, dalla specialità del momento dedicato alla vacanza, la caratterizzazione della sua lesione alla stregua di danno esistenziale. Di un danno, pertanto, non transeunte, ma destinato a permanere, traducendosi in un’inguaribile ferita arrecata all’aspetto dinamico-relazionale della vita del singolo. Prova ne sia che, in tali contesti, la ragione che ha spinto il contraente all’acquisto del pacchetto, spesso confluisce nel regolamento negoziale al punto di costituirne una presupposizione. Essa dismette, cioè, le vesti del mero motivo, destinato ad incidere sul rapporto nel solo caso di cui all’articolo 1345 del Codice civile, ed indossa quelle di condicio - in senso penalistico - che ha determinato la parte a contrattare. Pertanto, una volta confluita nel regolamento negoziale, detta condicio ne “colora” la causa, completandola, e facendo assumere all’occasione di svago, di volta in volta perseguita, accezioni ed intensità differenti.

Ciò posto, la giurisprudenza non ha potuto, allora, non riconoscere la monetizzabilità del vulnus eventualmente patito dal turista ove le sue aspettative di relax e svago vengano disattese. Al di là, quindi, dei danni economici subiti, identificabili nelle spese sostenute per l’acquisto del pacchetto e nel mancato impiego di quelle risorse finanziarie in attività più remunerative e soddisfacenti, il turista deluso, nei limiti di cui all’articolo 2059 del Codice civile, ben può vedersi ristorato anche il pregiudizio non patrimoniale eventualmente subito. A tal proposito, non mancano, peraltro, orientamenti pretori che riconoscono al danno da vacanza rovinata natura biologica (in quanto incidente sulla diffusione della malattie sociali da stress lavorativo), morale (in quanto riconnesso al patema d’animo provato dal turista in conseguenza dell’inesatto adempimento delle prestazioni del pacchetto) ovvero natura spiccatamente autonoma e, come tale, risarcibile a prescindere dal suo inquadramento nella categoria del danno patrimoniale o non patrimoniale dacché, invero, previsto e regolamentato dal nuovo Codice del turismo.

Pertanto, se, alla luce delle riflessioni della Suprema Corte, il rapporto contrattuale ben può fungere da fonte per obbligazioni risarcitorie di natura diversa, i criteri che il Giudice dovrà utilizzare per liquidare quei danni saranno, tuttavia, i medesimi.

A prescindere dal tipo di pregiudizio subito dal creditore, infatti, l’ambito operativo entro il quale esso va inscritto è pur sempre, come visto, quello della responsabilità da inadempimento, sub specie contrattuale. Ciò significa che la ricostruzione della responsabilità del debitore/danneggiante avverrà secondo le prescrizioni dell’articolo 1218 del Codice civile ed in base alle correlate semplificazioni di cui gode, in punto di onere probatorio, il creditore/danneggiato. Egli è, infatti, chiamato unicamente a provare l’esistenza di un rapporto negoziale che lo legava alla controparte e ad allegare l’inadempimento di cui si duole. Viceversa, sul solvens graverà il più robusto onere di provare che quell’inadempimento, non colpevole né colposo, è dovuto ad impossibilità a lui non imputabile.

In altri termini, il debitore dovrà addurre, quali prove liberatorie, il caso fortuito e la forza maggiore, a meno che non intenda agire, ricorrendone i presupposti operativi, per lo scioglimento del vincolo ex articoli 1463 e seguenti ovvero 1467 e seguenti del Codice civile.

Argomentando a contrario, è palese, allora, come sia sufficiente l’elemento soggettivo della colpa a configurare un inadempimento imputabile ai sensi dell’articolo 1218 del Codice civile; elemento che il Legislatore ha, implicitamente, preso in considerazione nel redigere la fattispecie dell’aricolo 1225 del Codice civile. Ciò posto, infatti, il pregiudizio che discende dalla mancata o inesatta esecuzione della prestazione negoziale, sia esso patrimoniale o non patrimoniale, sarà risarcibile se soddisferà proprio i canoni di cui agli articoli 1225 e 1223 del Codice civile.

Al pari dei danni economici, i danni non patrimoniali sono risarcibili in quanto siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (articolo 1223 del Codice civile) e siano, dunque, a questo collegabili sulla base di un nesso causale. Pertanto, l’inadempimento si erge non solo a fonte genetica del danno, secondo lo schema “verticale” contratto - inadempimento - lesione, ma anche, e soprattutto, ad evento giuridicamente necessario ai fini della (astratta) risarcibilità del danno, secondo una logica che ricorda quella dell’articolo 44 del Codice penale.

L’immediatezza e diretta derivabilità della lesione dall’evento-inadempimento, se da un lato esclude la risarcibilità dei cosiddetti danni indiretti, tali per cui essi ebbero a verificarsi in virtù della ricorrenza di altri fattori che li determinarono, dall’altro scorge, nel disposto dell’articolo 1225 del Codice civile, un limite alla propria operatività. Detto limite, similmente a quanto accade nell’ipotesi dell’articolo 1227 del Codice civile in punto di responsabilità extracontrattuale, si propone di ammorbidire la durezza dell’articolo 1218 del Codice civile, con specifico riguardo al gravoso onere probatorio che incombe sul debitore.

Ove, infatti, l’inadempimento non dipenda dal dolo del danneggiante, il ristoro da accordare al creditore per il pregiudizio comunque subito sarà modulato e parametrato in base alla sua prevedibilità al momento in cui l’obbligazione è sorta. Pertanto, all’astratta (meglio: generica) risarcibilità del danno di cui all’articolo 1218 del Codice civile, il Codice affianca una sua specificazione. La giurisprudenza l’ha poi, ulteriormente, approfondita indicando il grado di concretezza cui ancorare l’indice di prevedibilità.

Più in particolare, l’ha fatto distinguendo tra danni (non patrimoniali) impliciti e danni (non patrimoniali) esternati. I primi si accompagnano all’inadempimento secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit; criterio in base al quale ad un determinato fatto corrisponde, secondo l’ordinario svolgersi del mondo fenomenico, un certo effetto. I secondi, al contrario, appartengono specificamente alla dimensione precipua della vittima, ma sono comunque conosciuti dal danneggiante.

L’inscrivere il pregiudizio nell’una o nell’altra categoria comporta, pertanto, un diverso grado di prevedibilità - evidentemente modulato in astratto nel primo caso; in concreto, nel secondo -, nonché un differente quantum risarcitorio effettivamente liquidabile al danneggiato.

Questo è il banco di prova, dunque, per constatare come, il Legislatore prima e la giurisprudenza evolutiva poi, abbiano costruito un sistema normativo ed interpretativo altamente coerente. L’intento perseguito dal Legislatore del 1942 era quello di fornire ai privati gli strumenti più idonei alla tutela dei propri interessi e di corrispondere all’interprete gli utensili necessari ad ampliare lo strumentario già in dotazione dei consociati.

La ristorabilità dei pregiudizi non patrimoniali e la funzione di filtro giocata dall’articolo 2059 del Codice civile, in uno con la loro operatività anche in contesti negoziali, hanno determinato, nel nostro ordinamento, l’abbandono di pratiche onerose e poco in linea con l’idea di semplificazione processuale di cui all’articolo 111 della Costituzione e ai dettami CEDU.

Basti pensare all’ormai obsoleto cumulo di azioni - contrattuale ed extracontrattuale - quale sola modalità per assicurare all’attore il completo ristoro da tutti i pregiudizi subiti in conseguenza di un qualsivoglia “torto”.

Grazie ad una, imprescindibile e necessaria, esegesi costituzionalmente orientata di tutte le prescrizioni intra ed extra codicem, quello stesso risultato di semplificazione ed effettività della tutela è adesso raggiunto per mezzo di una lettura più attenta e sensibile del dato normativo. Una lettura che ha permesso, alla Carta fondamentale in toto, di veicolarsi e permeare il Codice attraverso il lemma, apparentemente a-tecnico, “legge”, nonché di valorizzare la pregnanza del “danno” di cui all’articolo 1218 del Codice civile. Danno che, al pari della “perdita” subita dal creditore nell’articolo 1223 del Codice civile, non soffre di una limitata caratterizzazione, sub specie patrimoniale, ma amplia la propria portata sino a divenire intelligentemente generico e a ricomprendere accezioni non economiche, purché “legalmente” ristorabili. Il tutto, evidentemente, nell’ottica di favorire quell’assimilazione alla sovraordinata dimensione europea che può essere realizzata, e soddisfatta, solo qualora a compierla sia un sistema giuridico, in primis completo e coerente, in armonia con le proprie prescrizioni.

Nel Codice civile italiano, le obbligazioni costituiscono un rilevante macro-sistema alla luce, soprattutto, della peculiare duttilità che permette loro di ergersi a veri e propri schemi generali in grado di regolamentare qualsivoglia ambito: contrattuale, pre-contrattuale, extra-contrattuale, “para-contrattuale” (il riferimento è agli istituti di cui agli articoli 2028-2042 del Codice civile).

Detto macro-sistema rinviene il suo boccaporto preliminare nel combinato disposto degli articoli 1173 e 1174 del Codice civile. Ivi, il Legislatore ha dapprima individuato la matrice genetica delle obbligazioni. Quelle fonti, cioè, “idonee a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” e ne ha stilato un puntuale catalogo (articolo 1173 del Codice civile). Si è, quindi, preoccupato di vagliare in profondità la fisiologia della singola obbligazione, contratta dal debitore a vantaggio del creditore, soffermandosi sui suoi elementi essenziali. 

In particolare, il nucleo operativo dell’articolo 1174 del Codice civile ruota attorno alla necessaria caratterizzazione economica della prestazione obbligatoria ed al suo essere inscindibilmente connessa ad un interesse, anche non patrimoniale, dell’accipiens.

La patrimonialità della prestazione, pertanto, se tipizza il contenuto dell’obbligazione, non peculiarizza quello dell’interesse del creditore il quale, specie ove leso, ben può trovare un “costante” ristoro.

Da queste brevi battute, si evince, quindi, come la ratio sottesa al micro-sistema or ora delineato sia quella di conferire all’interprete le chiavi necessarie per valutare la legittimità, liceità e correttezza (articolo 1175 del Codice civile) dei rapporti obbligatori insorti tra cives così da somministrare loro un’adeguata tutela nel caso in cui l’esito di questa indagine sia negativo.

Laddove ciò accada, la principale - e più vistosa - ricaduta dell’allontanamento del rapporto obbligatorio dai suoi parametri legali è data dalla perpetrazione di un danno a sfavore, tendenzialmente, di una delle parti del rapporto. Al netto, cioè, di quelle - rare - ipotesi di efficient breach in cui la libertà di non adempiere, riservata al debitore, non lo esime dal risarcire i danni, di qualunque tipo, ugualmente cagionati all’accipiens, la cui liquidazione, tuttavia, avviene in misura sensibilmente ridotta.

La causazione del danno comporta, infatti, ove predicabile, l’imputazione in capo al suo autore della correlata responsabilità, da modularsi applicando schemi differenti a seconda del vincolo, contrattuale o meno (articolo 1173 del Codice civile che rinvia agli articoli 1218, 1453, 2043 e 2059 del Codice civile), che lega gli obbligati.

Pertanto, se la fruizione di schemi differenti determina, invero, una differente ripartizione dell’onere probatorio (più robusto, per il danneggiato, nell’ipotesi di cui all’articolo 2043 del Codice civile; meno gravoso, per il creditore che subisce l’inadempimento, nel caso di cui agli articoli 1218 e 1453 del Codice civile), il comune denominatore di quegli schemi è pur sempre una lesione di cui si chiede il ristoro e della quale è necessario individuare gli elementi costitutivi per legittimare quella riparazione. Sul punto, la lettera dell’articolo 1174 del Codice civile è chiara: l’interesse del creditore a ricevere la prestazione del solvens può rivestire anche carattere non patrimoniale. Il che significa, argomentando a contrario, che il Legislatore ha voluto attribuire rilevanza giuridica alla lesione di per sé dell’interesse del creditore: a prescindere, cioè, dalla specifica caratterizzazione di quell’interesse, purché correlato alla prestazione oggetto del rapporto, e fermi restando i limiti operativi dettati dagli articoli 1322, comma 2, e 2059 del Codice civile in punto di risarcibilità dei danni non patrimoniali. Id est: il limite “astratto” della cosiddetta meritevolezza dell’interesse atipico (leso) ad essere tutelato, e dunque ristorato, ed il limite “concreto” della effettiva ristorabilità di quell’interesse ove non patrimoniale.

Sull’ammissibilità del ristoro del danno non patrimoniale e sulla corretta interpretazione che dovesse darsi al ricordato articolo 2059 del Codice civile, è intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite nel 2008 con una nota pronuncia che ha ricomposto il caotico dibattito in merito e che ha, in parte sovvertito ed in parte confermato, gli arresti che la Consulta e la stessa Cassazione avevano già maturato sul tema. Il Supremo Consesso, nel redigere un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale, ne ha individuato e tratteggiato gli elementi essenziali, differenziandoli anche da quelli che caratterizzano il danno risarcibile ex art. 2043 del Codice civile. Fattispecie, quest’ultima, che si limita a configurare la ristorabilità dei danni solo patrimoniali scaturenti da fatto illecito, così delineando un sistema risarcitorio monco e comunque non in linea con la ratio dell’articolo 1174 del Codice civile e degli articoli 1322, comma 2 e 2059 del Codice civile. Infatti, se la norma che disciplina la responsabilità aquiliana si distingue per l’atipicità della fonte del suo illecito (“qualunque fatto doloso o colposo”, quindi contra ius) e per l’ingiustizia del vulnusnon iure, subito dal danneggiato, non lo stesso può dirsi per il caso di cui all’articolo 2059 del Codice civile.

L’ampia - ma perentoria - formulazione della fattispecie (“il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”) impone all’interprete di valutare la ristorabilità del pregiudizio sofferto dal danneggiato alla luce dei dettami normativi. Dettami che comprendono, in un’ottica costituzionalmente orientata, anche quelli rinvenibili all’interno della Carta Fondamentale e che sanzionano le violazioni ai diritti inviolabili (sub specie: diritti della persona) o ai diritti a questi connessi sulla scorta di una lettura evolutiva della Grundnorm. Il danno non patrimoniale è, dunque, un danno tipico - o tipizzato - cui l’ordinamento accorda protezione solo ove la legge, con la Costituzione in primis, gli riconosca tale, sensibile tutela.

La Cassazione, quindi, si sofferma sull’anatomia del danno non patrimoniale. Ne valuta le possibili micro-ripartizioni al fine di comprendere se esse assumano una valenza meramente qualificatoria o se, al contrario, possano assurgere ad ipotesi autonome di danno, come tali singolarmente, ed isolatamente, risarcibili. La problematica, di evidente natura ermeneutica e applicativa, si è posta, in particolare, con riguardo alla paventata autonomia del danno esistenziale.

I Giudici di legittimità, nel propendere per la prima delle citate impostazioni, risolvono la querelle ricordando la ratio sottesa al sistema di responsabilità aquiliana del Codice civile del 1942. La funzione dell’artciolo 2043 del Codice civile è, infatti, quella di assicurare al danneggiato una giusta riparazione per il torto subito, secondo una logica decisamente antitetica rispetto a quella - sanzionatoria - che caratterizzava il Codice del 1865 e che peculiarizza, tutt’ora, i sistemi giuridici anglosassoni inclini a liquidare i cosiddetti punitive damages.

Se questa è la ratio, ammettere l’autonomia concettuale ed operativa del micro-cosmo del danno esistenziale - e, a fortiori, delle altre micro-categorie del danno morale/soggettivo e biologico - , non può che tradursi nella vanificazione di quegli sforzi interpretativi che avevano portato la stessa Suprema Corte a ripudiare la liquidazione di un tort svincolato dagli imprescindibili referenti normativi (articolo 2059 del Codice civile) e, in quanto tale, necessariamente atipico.

In altri termini, la nozione di danno non patrimoniale che il Codice fornisce e che, attraverso le sue “pieghe” normative e quelle della Carta fondamentale, dev’essere ricostruita, impedisce al giurista di operare all’interno dello stesso una pluri-ripartizione, se non per finalità meramente descrittive. Finalità idonee ad aiutare l’interprete nel tratteggiare, classificandole, le sfaccettature che, a monte, un unico - ed unitario - danno non patrimoniale può assumere e rispetto al quale, esse, non sono ontologicamente differenti. Opinare in altro modo significherebbe, infatti, autorizzare pretestuose e bagatellari duplicazioni risarcitorie contrastanti sia con la ricordata - e correlata - funzione riparatoria del torto aquiliano sia con la necessaria tipicità che correla il danno risarcibile ex articolo 2059 del Codice civile alla norma di riferimento.

Emerge in tutta evidenza, pertanto, che l’articolo 2059 del Codice civile, sebbene allocato, a livello topografico, in chiusura del macro-sistema normativo della responsabilità aquiliana, è invero non esclusivo di quest’ultima. Infatti, alla tipicità/unitarietà che lo caratterizza endemicamente e che gli permette di operare solo in ricorrenza di determinati presupposti, si affianca la duttilità con cui l’interprete può fruire delle sue prescrizioni, purché rigorosamente osservate, applicandole anche a contesti negoziali e modulandole sulle caratteristiche precipue di questi ultimi: basti pensare alla “secondarietà” dell’obbligazione risarcitoria in caso di inadempimento contrattuale e alla “primarietà” della medesima ove scaturente da un fatto illecito.

Detta malleabilità costituisce, pertanto, un valido argomento perché la disposizione di cui all’articolo 2059 del Codice civile assurga ad autonomo micro-sistema risarcitorio, caratterizzato da propri dogmi (tipicità-unitarietà), nonché in grado di completare il quadro, altrimenti indefinito, dei tipi di tutela somministrabili al danneggiato. Soprattutto ove quest’ultimo assuma le vesti del creditore/contraente insoddisfatto e non possa - o non voglia - beneficiare solo dei rimedi in forma specifica.

A tal proposito, la configurabilità di un danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale è stata ritenuta ammissibile, nel nostro ordinamento, soltanto di recente, a seguito di non isolate pronunce di merito e di legittimità. In particolare, in una pronuncia del 2007, la Cassazione riconosce l’assenza di orientamenti pacifici e consolidati sul punto e rimarca la difficoltà di conciliare la natura economica del rapporto contrattuale con la richiesta di ristoro di pregiudizi ben diversi, caratterizzanti la dimensione intima del danneggiato.

Ciononostante, la Cassazione sposa il nuovo approdo interpretativo valorizzando taluni istituti del nostro ordinamento, di creazione normativa e pretoria, nonché la tesi negoziale della causa in concreto, soprattutto con riguardo al contratto di viaggio “tutto compreso”.

A stimolare le riflessioni della Corte, è stata la connaturata bivalenza degli istituti prima richiamati: essi, infatti, si stagliano, dal punto di vista applicativo, su un terreno squisitamente negoziale, ma sono altresì in grado di determinare, ove lesi nelle proprie prescrizioni, conseguenze di doppia natura.

Si pensi, ad esempio, all’ipotesi del contatto sociale: fattispecie pretoria che ha avuto il pregio di operare una sorta di reductio ad unum e di ricondurre, così, nel proprio alveo contrattuale istituti dapprima ricompresi in quello extra-contrattuale. Se peculiarità della cosiddetta teoria del contatto è la sussistenza di un rapporto negoziale che avvince le parti contraenti e le “collega” ad altra parte apparentemente terza rispetto a quel vincolo, la frattura di quel legame produce una lesione, come tale risarcibile ex articolo 1218 del Codice civile, ove ne ricorrano i presupposti operativi.

Tipico è il caso della responsabilità da inadempimento dell’ente ospedaliero, pubblico o privato, per le prestazioni mal rese, ai danni del paziente, dal medico della struttura. L’evento-inadempimento è fonte di responsabilità per l’ospedale: una responsabilità per culpa in eligendo ed in vigilando, eziologicamente “autonoma” rispetto a quella cui è esposto il medico. Medico che, tuttavia, ha dato causa, col proprio negligente operato, al danno del paziente. Un vulnus che, tendenzialmente, consiste in lesioni, di vario genere ed entità all’integrità fisica del degente (ove non trasmodi nella morte del medesimo e nelle conseguenti problematiche in punto di ammissibilità del danno tanatologico e della sua trasmissibilità, o meno, jure hereditatis). Entrambi, ospedale e sanitario, saranno chiamati in solido a ristorare il pregiudizio subito dalla vittima. Esso, però, ai fini della sua effettiva risarcibilità, dev’essere vagliato nella sua dimensione ontologica e patologica.

Come si è anticipato, infatti, l’articolo 1218 del Codice civile, non specifica il tipo di vulnus che debba essere arrecato al creditore affinché questi possa “giovarsi” della discendente obbligazione risarcitoria. Il dato normativo, invero, si preoccupa di delineare le condizioni operative che determinano, in capo a chi subisce il danno, la nascita di un titolo idoneo a rivendicarne il risarcimento. Non si sofferma, però, sulla fisiologia di quel pregiudizio. Pertanto, nel silenzio della littera legis e sulla scorta del noto brocardo “ubi voluit dixit”, deve concludersi per l’assoluta irrilevanza che, ai fini dell’operatività dell’articolo 1218 del Codice civile, riveste il tipo di danno perpetrato al creditore. Ciò significa che il pregiudizio subito potrà avere anche carattere non patrimoniale, il che è perfettamente in linea con le ricordate direttive dell’articolo 1174 del Codice civile, con l’interpretazione “estensiva” che se ne è proposta e con la ratio e lo spirito sottesi all’intero macro-sistema delle obbligazioni.

In quest’ottica, il danno non patrimoniale, eventualmente cagionato al paziente, potrà godere di un adeguato ristoro solo ove soddisfi le condizioni che la legge, all’articolo 2059 del Codice civile, richiede ai fini della sua risarcibilità (ed effettiva liquidazione) da parte del Giudice competente. Dovrà, quindi, essersi tradotto in una lesione ai diritti inviolabili della persona ovvero essere specificamente previsto dalla legge (carattere della tipicità: argomento ex articolo 185 del Codice penale), nonché modularsi nelle tre sfaccettature del biologico, esistenziale o morale/soggettivo pur rimanendo, in via ontologica, unico ed unitariamente risarcibile (carattere dell’unitarietà).

Più in particolare, si può usare l’argomento del danno biologico nell’ipotesi del contatto sociale sub specie ospedaliero per fornire alcune precisazioni a quanto poc’anzi detto. Nonché per rimarcare come esso ampli la portata applicativa dell’articolo 2059 del Codice civile.

Infatti, posto che fonte di quel pregiudizio è un inadempimento, a monte di quest’ultimo ben può assestarsi una condotta illecita del sanitario. Una condotta, magari, in grado di integrare un’ipotesi delittuosa (lesioni personali e personali colpose, in disparte i casi di cui agli articoli 586 e 589 del Codice penale) che, nella concezione più in voga subito dopo l’entrata in vigore dell’attuale Codice, costituiva l’unico caso in cui era possibile accordare ristoro ai danni di natura non economica (articolo 185 del Codice penale).

Il che significava, in buona sostanza, ammettere la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale ai soli casi di reato-contratto. Ai casi in cui, cioè, il momento consumativo del delitto coincideva con la stipulazione contrattuale: si pensi, ad esempio, all’usura e a quella giurisprudenza che professava l’autonomia delle vicende civilistiche da quelle penalistiche e che, pertanto, sanzionava con la nullità il contratto usurario, obbligando il reo/danneggiante alle restituzioni e al risarcimento del danno cagionato.

Anche con riguardo all’art. 2-bis della Legge n. 241 del 1990, e prima che in giurisprudenza si propendesse per la definitiva qualificazione della responsabilità della P.A. come extracontrattuale, era invalsa la tesi secondo cui il contatto che congiungeva P.A. e cittadino, all’interno del procedimento amministrativo, costituisse una ipotesi di contatto sociale qualificato. Ragion per cui, dalla “inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” ben potevano derivare danni non patrimoniali risarcibili solo ove soddisfatte le condizioni operative dell’articolo 2059 del Codice Penale.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite ha, poi, ravvisato un’altra ipotesi, stavolta di carattere normativo, in cui inadempimento contrattuale e danno non patrimoniale possono logicamente combinarsi. Il riferimento è alla clausola penale di cui all’articolo 1382 del Codice civile. Infatti, la predeterminazione convenzionale del quantum debeatur in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, oltre a sortire il “tradizionale” effetto della limitazione della prestazione risarcitoria a quanto pattuito, reca con sé una ulteriore conseguenza, invero celata nella non trasparente formulazione dell’articolo 1382 del Codice civile. Al pari delle riflessioni spese con riguardo all’articolo 1218 del Codice civile, anche qui deve convenirsi che il lemma “danno” sia stato utilizzato dal Legislatore con un’accezione estensiva. Un’accezione, cioè, atta a ricomprendere non solo i danni economici derivanti dall’evento-inadempimento, ma anche quelli di natura non patrimoniale, ove connessi a quest’ultimo ed in quanto risarcibili ex articolo 2059 del Codice civile.

Si pensi, ad esempio, ad un contratto di locazione in cui sia apposta una clausola penale che, nel caso di mancato rilascio dell’immobile locato alla scadenza pattuita, obblighi il conduttore inadempiente al risarcimento del danno convenuto nei confronti del locatore. In questo caso, al di là dei profili economici certamente discendenti da siffatta mancanza, è indubbio - e taluna giurisprudenza è concorde sul punto - che il bene casa giochi un ruolo primario nella vita individuale e di relazione del singolo. Al punto che la sua mancata fruibilità, per colpa dell’inquilino inadempiente, può ergersi a fonte sia di un danno alla salute sia di un vulnus morale, caratterizzato proprio dalla inaspettata - e transeunte - perduranza di quella situazione di disagio. Ai fini di una maggiore chiarezza, si pensi all’ipotesi in cui il locatore, nell’attesa del rilascio dell’immobile, sia costretto a vivere in una sistemazione di comodo, condividendo spazi d’aria, magari ristretti, con altri membri della famiglia e con contestuale sacrificio delle ordinarie condizioni d’igiene. Alla luce di tali considerazioni e delle rilevanti ricadute che il mancato soddisfacimento dell’esigenza abitativa può comportare al titolare della medesima, il nostro ordinamento non può non ammetterne una piena tutela, somministrabile anche ex articolo 1382 del Codice civile.

Ma non è tutto. Ancora, la giurisprudenza di legittimità, rinviando ad altre, più specifiche, pronunce sul tema, individua nel cosiddetto danno da vacanza rovinata una ipotesi di danno non patrimoniale (sub specie: esistenziale) da inadempimento contrattuale.

I giudici, invero, giungono a tali conclusioni valorizzando la figura atipica del contratto di viaggio all inclusive. Detta categoria negoziale non gode di una espressa disciplina normativa nel nostro ordinamento. Tuttavia, essa è riuscita comunque a superare il vaglio di “meritevolezza” degli interessi, sottesi al predisposto regolamento negoziale, e a godere, di conseguenza, della “meritata” tutela giuridica. La causa concreta del contratto di viaggio “tutto compreso” è infatti identificabile nell’occasione di svago che un piacevole e confortevole soggiorno può garantire al turista. Occasione che assume una rilevanza diversa a seconda del “motivo” che ha indotto l’acquirente a prenotare il pacchetto.

Si pensi al soggiorno in luna di miele o alla vacanza per le ferie estive: in entrambi i casi, l’interesse del turista è quello di godere appieno di un periodo di relax irripetibile, peculiare e che non deluda le nutrite aspettative. Da qui, dalla specialità del momento dedicato alla vacanza, la caratterizzazione della sua lesione alla stregua di danno esistenziale. Di un danno, pertanto, non transeunte, ma destinato a permanere, traducendosi in un’inguaribile ferita arrecata all’aspetto dinamico-relazionale della vita del singolo. Prova ne sia che, in tali contesti, la ragione che ha spinto il contraente all’acquisto del pacchetto, spesso confluisce nel regolamento negoziale al punto di costituirne una presupposizione. Essa dismette, cioè, le vesti del mero motivo, destinato ad incidere sul rapporto nel solo caso di cui all’articolo 1345 del Codice civile, ed indossa quelle di condicio - in senso penalistico - che ha determinato la parte a contrattare. Pertanto, una volta confluita nel regolamento negoziale, detta condicio ne “colora” la causa, completandola, e facendo assumere all’occasione di svago, di volta in volta perseguita, accezioni ed intensità differenti.

Ciò posto, la giurisprudenza non ha potuto, allora, non riconoscere la monetizzabilità del vulnus eventualmente patito dal turista ove le sue aspettative di relax e svago vengano disattese. Al di là, quindi, dei danni economici subiti, identificabili nelle spese sostenute per l’acquisto del pacchetto e nel mancato impiego di quelle risorse finanziarie in attività più remunerative e soddisfacenti, il turista deluso, nei limiti di cui all’articolo 2059 del Codice civile, ben può vedersi ristorato anche il pregiudizio non patrimoniale eventualmente subito. A tal proposito, non mancano, peraltro, orientamenti pretori che riconoscono al danno da vacanza rovinata natura biologica (in quanto incidente sulla diffusione della malattie sociali da stress lavorativo), morale (in quanto riconnesso al patema d’animo provato dal turista in conseguenza dell’inesatto adempimento delle prestazioni del pacchetto) ovvero natura spiccatamente autonoma e, come tale, risarcibile a prescindere dal suo inquadramento nella categoria del danno patrimoniale o non patrimoniale dacché, invero, previsto e regolamentato dal nuovo Codice del turismo.

Pertanto, se, alla luce delle riflessioni della Suprema Corte, il rapporto contrattuale ben può fungere da fonte per obbligazioni risarcitorie di natura diversa, i criteri che il Giudice dovrà utilizzare per liquidare quei danni saranno, tuttavia, i medesimi.

A prescindere dal tipo di pregiudizio subito dal creditore, infatti, l’ambito operativo entro il quale esso va inscritto è pur sempre, come visto, quello della responsabilità da inadempimento, sub specie contrattuale. Ciò significa che la ricostruzione della responsabilità del debitore/danneggiante avverrà secondo le prescrizioni dell’articolo 1218 del Codice civile ed in base alle correlate semplificazioni di cui gode, in punto di onere probatorio, il creditore/danneggiato. Egli è, infatti, chiamato unicamente a provare l’esistenza di un rapporto negoziale che lo legava alla controparte e ad allegare l’inadempimento di cui si duole. Viceversa, sul solvens graverà il più robusto onere di provare che quell’inadempimento, non colpevole né colposo, è dovuto ad impossibilità a lui non imputabile.

In altri termini, il debitore dovrà addurre, quali prove liberatorie, il caso fortuito e la forza maggiore, a meno che non intenda agire, ricorrendone i presupposti operativi, per lo scioglimento del vincolo ex articoli 1463 e seguenti ovvero 1467 e seguenti del Codice civile.

Argomentando a contrario, è palese, allora, come sia sufficiente l’elemento soggettivo della colpa a configurare un inadempimento imputabile ai sensi dell’articolo 1218 del Codice civile; elemento che il Legislatore ha, implicitamente, preso in considerazione nel redigere la fattispecie dell’aricolo 1225 del Codice civile. Ciò posto, infatti, il pregiudizio che discende dalla mancata o inesatta esecuzione della prestazione negoziale, sia esso patrimoniale o non patrimoniale, sarà risarcibile se soddisferà proprio i canoni di cui agli articoli 1225 e 1223 del Codice civile.

Al pari dei danni economici, i danni non patrimoniali sono risarcibili in quanto siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (articolo 1223 del Codice civile) e siano, dunque, a questo collegabili sulla base di un nesso causale. Pertanto, l’inadempimento si erge non solo a fonte genetica del danno, secondo lo schema “verticale” contratto - inadempimento - lesione, ma anche, e soprattutto, ad evento giuridicamente necessario ai fini della (astratta) risarcibilità del danno, secondo una logica che ricorda quella dell’articolo 44 del Codice penale.

L’immediatezza e diretta derivabilità della lesione dall’evento-inadempimento, se da un lato esclude la risarcibilità dei cosiddetti danni indiretti, tali per cui essi ebbero a verificarsi in virtù della ricorrenza di altri fattori che li determinarono, dall’altro scorge, nel disposto dell’articolo 1225 del Codice civile, un limite alla propria operatività. Detto limite, similmente a quanto accade nell’ipotesi dell’articolo 1227 del Codice civile in punto di responsabilità extracontrattuale, si propone di ammorbidire la durezza dell’articolo 1218 del Codice civile, con specifico riguardo al gravoso onere probatorio che incombe sul debitore.

Ove, infatti, l’inadempimento non dipenda dal dolo del danneggiante, il ristoro da accordare al creditore per il pregiudizio comunque subito sarà modulato e parametrato in base alla sua prevedibilità al momento in cui l’obbligazione è sorta. Pertanto, all’astratta (meglio: generica) risarcibilità del danno di cui all’articolo 1218 del Codice civile, il Codice affianca una sua specificazione. La giurisprudenza l’ha poi, ulteriormente, approfondita indicando il grado di concretezza cui ancorare l’indice di prevedibilità.

Più in particolare, l’ha fatto distinguendo tra danni (non patrimoniali) impliciti e danni (non patrimoniali) esternati. I primi si accompagnano all’inadempimento secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit; criterio in base al quale ad un determinato fatto corrisponde, secondo l’ordinario svolgersi del mondo fenomenico, un certo effetto. I secondi, al contrario, appartengono specificamente alla dimensione precipua della vittima, ma sono comunque conosciuti dal danneggiante.

L’inscrivere il pregiudizio nell’una o nell’altra categoria comporta, pertanto, un diverso grado di prevedibilità - evidentemente modulato in astratto nel primo caso; in concreto, nel secondo -, nonché un differente quantum risarcitorio effettivamente liquidabile al danneggiato.

Questo è il banco di prova, dunque, per constatare come, il Legislatore prima e la giurisprudenza evolutiva poi, abbiano costruito un sistema normativo ed interpretativo altamente coerente. L’intento perseguito dal Legislatore del 1942 era quello di fornire ai privati gli strumenti più idonei alla tutela dei propri interessi e di corrispondere all’interprete gli utensili necessari ad ampliare lo strumentario già in dotazione dei consociati.

La ristorabilità dei pregiudizi non patrimoniali e la funzione di filtro giocata dall’articolo 2059 del Codice civile, in uno con la loro operatività anche in contesti negoziali, hanno determinato, nel nostro ordinamento, l’abbandono di pratiche onerose e poco in linea con l’idea di semplificazione processuale di cui all’articolo 111 della Costituzione e ai dettami CEDU.

Basti pensare all’ormai obsoleto cumulo di azioni - contrattuale ed extracontrattuale - quale sola modalità per assicurare all’attore il completo ristoro da tutti i pregiudizi subiti in conseguenza di un qualsivoglia “torto”.

Grazie ad una, imprescindibile e necessaria, esegesi costituzionalmente orientata di tutte le prescrizioni intra ed extra codicem, quello stesso risultato di semplificazione ed effettività della tutela è adesso raggiunto per mezzo di una lettura più attenta e sensibile del dato normativo. Una lettura che ha permesso, alla Carta fondamentale in toto, di veicolarsi e permeare il Codice attraverso il lemma, apparentemente a-tecnico, “legge”, nonché di valorizzare la pregnanza del “danno” di cui all’articolo 1218 del Codice civile. Danno che, al pari della “perdita” subita dal creditore nell’articolo 1223 del Codice civile, non soffre di una limitata caratterizzazione, sub specie patrimoniale, ma amplia la propria portata sino a divenire intelligentemente generico e a ricomprendere accezioni non economiche, purché “legalmente” ristorabili. Il tutto, evidentemente, nell’ottica di favorire quell’assimilazione alla sovraordinata dimensione europea che può essere realizzata, e soddisfatta, solo qualora a compierla sia un sistema giuridico, in primis completo e coerente, in armonia con le proprie prescrizioni.