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Il mutamento di mansioni dopo il Jobs Act

Il mutamento di mansioni dopo il Jobs Act
Il mutamento di mansioni dopo il Jobs Act

1. Premessa

Con  Legge n. 183 del 10 dicembre 2014 (cosiddetto Jobs Act), il Governo ha approvato quella che la maggioranza dei giuslavoristi ha correttamente qualificato “controriforma del lavoro”, in ragione del suo carattere regressivo dei diritti dei prestatori di lavoro realizzato tramite la revoca delle  tutele per la parte debole del rapporto conquistate o ad essa riconosciute dall’ordinamento dopo gli anni ‘50 del secolo scorso. La controriforma è il frutto della vecchia, quanto errata, convinzione degli imprenditori - fatta propria per l’occasione dal Governo - che la riduzione dei diritti civili dei lavoratori con corrispondente accrescimento del potere datoriale in azienda abbia il potere taumaturgico di incrementare l’occupazione che, nel nostro Paese, ha toccato livelli elevatissimi a danno, in particolare, dei giovani.

Partendo da posizioni pubblicamente e mediaticamente rassicuranti per i cittadini-lavoratori in ordine all’intangibilità delle garanzie e sanzioni avverso il licenziamento ingiustificato (implicanti  la reintegra nel posto da cui illegittimamente estromessi), poi  modificate incredibilmente quanto ingannevolmente nel corso del tempo,  il Consiglio dei ministri ha approvato in forma definitiva - nella seduta del 20 febbraio 2015 - due decreti attuativi della controriforma, riguardanti rispettivamente la nuova disciplina dei licenziamenti e degli ammortizzatori sociali.

Della riforma della normativa dei licenziamenti ingiustificati - già depotenziata dall’omologa dell’ex ministro Fornero - caratterizzati per i nuovi assunti dalla privazione della reintegrazione ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dalla sua sostituzione con un trattamento indennitario monetizzante del tutto modesto (crescente con l’anzianità di servizio), ci siamo già diffusamente e criticamente occupati nel nostro articolo “La riduzione delle tutele del lavoro nel cosioddetto Jobs Act”, reperibile in rete nei portali sia di Altalex[1] sia di Filodiritto[2] (cui si rinviano gli eventuali interessati).

Peraltro nella stessa seduta del 20 febbraio 2015, il Consiglio dei ministri  ha approvato in fase preliminare e non definitiva (definitività acquisibile solo dopo il parere non vincolante delle Commissioni parlamentari  e riesame dello stesso Consiglio dei ministri) lo “schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione delle mansioni” - quest’ultime fatte oggetto di riscrittura in peius tramite l’articolo 55 dello schema, riportato in nota[3] -  di cui ci occupiamo in questo articolo.

2. La riscrittura deteriore dell’articolo 2103 del codice civile

Nella soluzione di arretramento delle tutele per la parte debole del rapporto di lavoro, accompagnata dalla privazione dell’intervento riequilibratore e sanzionatorio del Giudice per i casi di arbitrio datoriale - e di  corrispettivo accrescimento degli spazi di “mano libera”  per gli imprenditori - si inscrive, in piena coerenza con il precedente regressivo sul tema dei licenziamenti, la riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile[4], prefigurata nell’articolo 55 dello schema di decreto attuativo, nell’ipotesi (piuttosto realistica) che esca confermata nel testo definitivo.

In tale riscrittura emerge, innanzitutto, l’eliminazione della garanzia per i lavoratori - in caso di mutamento unilaterale delle mansioni - costituita dal rispetto della cd. “equivalenza” tra le precedenti disimpegnate (cd. a quo) e quelle alle quali si è stati unilateralmente spostati (cosiddetto ad quem).

L’equivalenza - presente nel (vecchio) testo dell’articolo 2103 del codice civile a salvaguardia da demansionamenti e dequalificanti degradazioni - è stata sostituita dalla legittimazione per il datore ad assegnare insindacabilmente il lavoratore a mansioni diverse, alla sola condizione che siano “mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

Come appare intuitivo, la variazione non è assolutamente di poco conto, specie se si  tiene presente il fatto che alla precedente normativa (precedente, nell’ipotesi di conferma sostitutiva da parte della modifica peggiorativa) - che imponeva allo ius variandi datoriale  il rispetto del requisito dell’equivalenza a prevenzione dalle dequalificazioni - è stato da tempo riconosciuto addirittura un valore superindividuale; cioè dell’essere l’articolo 2103 del codice civile teso non solo alla salvaguardia della dignità e personalità del singolo ma alla tutela del più elevato ed ampio «interesse della collettività che il patrimonio di nozioni, di esperienza e perizia acquisita dal lavoratore nell’esercizio dell’attività non venga sacrificato alle esigenze dell’organizzazione aziendale del lavoro ed al profitto dell’impresa»[5] mediante l’assegnazione «del dipendente a mansioni inferiori che non consentano, nel loro espletamento, l’utilizzazione ed il conseguente perfezionamento del patrimonio professionale già acquisito, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti prospettive di miglioramento professionale»[6].

Nella vigenza dell’articolo 2103 del codice civile, oggetto di riscrittura, mansioni equivalenti tra le quali era legittimo lo spostamento in orizzontale dovevano, pertanto, intendersi - anche secondo l’autorevole opinione della Cassazione - quelle che  nella loro successione consentivano che «risultasse tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anche di arricchire, il patrimonio professionale precedentemente acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze»[7]. Con la chiarificante specificazione, sempre della magistratura di merito e di  Cassazione, secondo cui: «Deve ritenersi che il concetto di equivalenza delle mansioni prescinda dalla riconducibilità in astratto delle mansioni al medesimo livello contrattuale, postulando di contro che le nuove mansioni siano in concreto aderenti alla specifica competenza tecnica e professionale del dipendente al fine di salvaguardare il livello professionale raggiunto...»[8], «(...) di guisa che sussiste la violazione del disposto di cui all’articolo 2013 del  codice civile qualora le nuove mansioni, pur comprese nel livello - o nella categoria - contrattuale già attribuito al dipendente, comportino una lesione del suo diritto a conservare e migliorare la competenza o la professionalità maturata o pregiudichino quello al suo avanzamento graduale nella gerarchia del settore»[9], cosicché «(...) l’equivalenza delle mansioni contrattuali a quelle successivamente attribuite può dirsi sussistente solo quando le mansioni ad quem tengono conto della professionalità già acquisita dal dipendente; il criterio dell’inquadramento nel medesimo livello categoriale è pertanto insufficiente giacché il mutamento di mansioni può tradursi - nonostante il mantenimento del medesimo livello - nel disconoscimento di ogni pregressa esperienza professionale».

La garanzia della “equivalenza”, nella  prospettata riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile, viene soppressa per il suo presunto carattere ingombrante ed ostativo all’esasperata fungibilità tra le mansioni pretesa eminentemente da datori di lavoro che, piuttosto che valorizzare la specializzazione professionale, mostrano di preferire  il lavoratore “tuttofare”, cosiddetto “polivalente”, più facilmente gestibile. Detta garanzia viene sostituita dal conferimento al datore di lavoro del potere di spostare unilateralmente in orizzontale il lavoratore tra le varie mansioni che gli agenti della contrattazione -  insufficientemente garanti per i diritti soggettivi dei singoli, anche per effetto dello sbilanciato potere che intercorre tra sindacati dei lavoratori e organizzazioni datoriali  in assoluto e nelle negoziazioni - dovrebbero aver posto sullo stesso livello di inquadramento categoriale, all’interno delle classificazioni contrattuali, nella presunzione di un’astratta equipollenza.

Poiché la garanzia della professionalità attiene ad un diritto della personalità, a connotazione del tutto individuale, nella precedente formulazione dell’articolo 2103 del codice civile, la verifica dell’equivalenza tra i compiti a quo e quelli ad quem era stata, condivisibilmente, sottratta a “parallelismi” realizzati in accordi sindacali notoriamente caratterizzati da soluzioni mediatorie  poco affidabili e demandata di fatto, invece, al riscontro imparziale del Giudice che, in futuro, per effetto  del conferimento in esclusiva alle pattuizioni intersindacali della facoltà di individuare (per approssimazione, ad essere benevoli) la  “somiglianza” o non “difformità” sostanziale dei profili professionali tra di loro,  risulta privato di qualsiasi  potere di intervento e di sindacato al riguardo.  Privazione tutt’altro che occasionale, anzi del tutto ricercata dall’attuale dell’attuale compagine governativa, stante la  sua  manifesta predilezione  di estraniare la magistratura, relativamente alle tematiche del lavoro, dallo svolgere il proprio ruolo istituzionale di garante contro atteggiamenti prevaricatori o arbitrari di una o l’altra delle parti.  

Non è irrealistico prevedere come le conseguenze di questa modifica saranno suscettibili di rivelarsi nefaste per i lavoratori, giacché è notorio che nei contratti collettivi  vengono poste nello stesso livello di inquadramento mansioni riconducibili a professionalità spesso del tutto eterogenee tra loro (es. il contabile, l’informatico, l’analista finanziario, l’ispettore commerciale, il legale di contenzioso, l’esperto in relazioni sindacali, quello di gestione risorse umane, il fiscalista e simili). Ne consegue che, in questo nuovo assetto normativo, il datore di lavoro potrà legittimamente richiedere al lavoratore, ad es.  con professionalità giuridico-legale, di spostarsi su compiti amministrativo contabili (implicanti l’acquisizione ex novo di altra formazione professionale, naturalmente previa frequentazione di corsi di addestramento ad hoc), senza che lo stesso possa dissentirne, e così via per altre esemplificazioni professionali.

Senza originalità - ma con uno sguardo al passato, rivelatore di una propensione all’arretramento - il legislatore  della riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile non ha fatto altro che importare  nel settore del lavoro privato la soluzione normativa, in tema di mutamento di mansioni, a suo tempo prevista dall’articolo 52 del Decreto Legislativo n. 165/2001 per il pubblico impiego (prima della modifica in tale ambito apportata dal successivo Decreto Legislativo n. 150 del 27/10/2009, nell’ottica di una tendenziale parificazione della disciplina delle mansioni fra settore privato e settore pubblico, realizzata con il recepimento egualitario della nozione di equivalenza).

Il suddetto articolo 52 così disponeva: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive»; disposizione addirittura  superata, in omaggio  alla  fungibilità, dalla dizione dell’articolo 3, comma 2,  del contratto Regioni e autonomie locali del 1999, secondo cui: «tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili» dall’amministrazione, tacitando così preventivamente l’eventuale dissenso dei dipendenti.

Nella prima decade del 2000, le differenze tra la normativa  più garantista per la professionalità dei lavoratori soggettivamente intesa, codificata nell’articolo 2013 c.c. - per il settore privato - e le discipline deteriori per i dipendenti e più vantaggiose  per gli Organi di gestione del rapporto di lavoro pubblico (codificate sia nell’articolo 52, Decreto Legislativo n. 165/2001 per il pubblico impiego sia nei vari ccnl del comparto Regioni e Autonomie locali), vennero poste in evidenza  dalla Cassazione[10],  che ebbe occasione di occuparsene.  Nelle sue considerazioni, la Suprema Corte giunse  ad asserire che: «il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 52, sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto, o ad altre equivalenti. Sul concetto di equivalenza, nel settore privato, come è noto, è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle. La lettera del citato articolo 52 sembra invece far proprio un concetto di equivalenza «formale», ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. In quest’ottica, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all’aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico». Quanto all’analoga norma del ccnl delle autonomie locali, la stessa sentenza affermò che: «l’equivalenza in senso formale sembra peraltro ribadita dalla norma contrattuale dell’articolo 3, comma 2, del c.c.n.l. del comparto Regioni e Autonomie locali che prevede che “Ai sensi del Decreto Legislativo n. 29 del 1993, articolo 56 come modificato dal Decreto Legislativo n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili; l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro”».

La comparazione operata dalla Cassazione tra le discipline del mutamento di mansioni in ambito privatistico e nel settore pubblicistico mise in evidenza all’epoca - oltre agli aspetti più sostanzialmente garantisti della prima rispetto alla seconda - come, in caso di divergenze in ordine all’equivalenza tra la mansione di provenienza e quella di assegnazione unilaterale aziendale, il lavoratore del settore privato potesse rimettere al Giudice il riscontro di equivalenza, al cui responso il datore di lavoro doveva attenersi. Invece la vecchia disciplina del mutamento di mansioni prevista nell’articolo 52 del Decreto Legislativo n. 165/2001 - disancorata dal rispetto della cosiddetta equivalenza soggettiva (così qualificata in quanto richiede che, nel mutamento, si tenga debitamente conto del patrimonio di professionalità acquisito dal singolo lavoratore fatto oggetto di spostamento ad altri compiti) - non consentiva, a differenza dell’articolo 2103 del codice civile vigente nel settore privato, il ricorso al Giudice del lavoro per una sua valutazione in ordine all’equivalenza tra le mansioni. Ciò in quanto la titolarità di tale potere valutativo era stata assegnata  ex lege agli agenti contrattuali che, in sede di redazione dei contratti collettivi, dovevano preventivamente esercitarlo tramite l’inserimento nello stesso livello o area contrattuale di plurimi profili professionali considerati, in astratto e presuntivamente, di pari valore e qualità. In questo assetto, il Giudice - anche se richiesto - era (ed è) costretto ad astenersi dal giudicare per non interferire su soluzioni che il legislatore ha rimesso all’autonomia collettiva. Peraltro, e come già anticipato, la soluzione estraniante il Giudice del lavoro dal riscontro di equivalenza tra le mansioni - prevista originariamente nell’articolo 52 del Decreto Legislativo n. 165/2001 per l’impiego pubblico - è stata successivamente rimossa per effetto della modifica in tema di mansioni apportata dal Decreto Legislativo n. 150 del 27/10/2009 [11], tramite cui venne operata una tendenziale parificazione, in ordine al mutamento di mansioni, tra settore privato e pubblico, esportando anche in quest’ultimo la nozione di “equivalenza” giudizialmente sindacabile.

Da quanto in precedenza rappresentato, appare evidente come la prospettata soluzione di riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile - effettuata mediante riesumazione e recepimento, per il settore privato, della formulazione, in tema di mansioni,  codificata nell’abrogato articolo 52, 1 comma, del Decreto Legislativo n. 165/2001, e già abbandonata dal 2009 per lo stesso settore pubblico -  non possa che qualificarsi “soluzione di arretramento” in senso sostanziale e temporale (per l’evidente ritorno al passato).

Espresse queste considerazioni critiche conviene precisare che chi scrive non è disancorato dalla conoscenza della mutevole realtà degli assetti produttivi e organizzativi aziendali, indotta da un mercato sempre più dinamico e competitivo, talché  non è affatto nostro intendimento supportare un’assoluta invarianza delle mansioni dei lavoratori, a partire dall’assunzione  e fino alla cessazione del rapporto. Una simile impostazione si attirerebbe le giuste critiche  di poggiare su  una visione statica degli assetti produttivi e lavorativi,  pertanto viziata da una irragionevole  tendenza alla conservazione di professionalità suscettibili di atteggiarsi col passare del tempo a “sclerotizzate”, quando le dinamiche aziendali postulano, invece, disponibilità dei lavoratori a riconversioni professionali, le quali dovranno, peraltro, avvenire senza implicare dispersione e tanto meno azzeramenti del patrimonio di competenze pregresse.

Pur non disconoscendo la sussistenza di esigenze obbiettive - documentabili e verificabili in forma circostanziata  quantomeno  da colui che è fatto oggetto di spostamento ad altre mansioni - che possono rendere fondata la richiesta di una disponibilità dei prestatori ad una moderata fungibilità tra mansioni omogenee e a mutamenti di compiti realizzabili tramite aggiornamento professionale che non si risolva  nella costrizione all’apprendimento  ex novo di una eterogenea professionalità, il vizio principale della prospettata riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile risiede, a nostro avviso:

a) nello studiato abbandono  del requisito dell’equivalenza onde sottrarre la disposizione datoriale di mutamento di mansioni ad una contestazione individuale del lavoratore, ora resa preclusa e impedita da un formale rispetto datoriale delle classificazioni contrattuali (contenenti gli accostamenti dei plurimi profili professionali) che, seppure realizzate empiricamente in intese sindacali aziendali o nazionali, appaiono spacciate dal nuovo legislatore come aprioristicamente ed incontestabilmente garanti del rispetto dell’omogeneità o affinità tra le mansioni di assegnazione;

b) nell’amputazione, da parte della criticata riscrittura, della possibilità per il lavoratore - che per effetto del mutamento unilaterale di mansioni si ritenga dequalificato - di sottoporre ad un Giudice del lavoro il riscontro di fondatezza del proprio convincimento, a fini di opporre al datore di lavoro l’eventuale responso giudiziale positivo e così beneficiare auspicabilmente di un conseguente comportamento correttivo da parte aziendale ovvero di una futura soluzione risarcitoria.

3. Ulteriori modifiche peggiorative  

Addizionalmente la prospettata riscrittura dell’articolo 2013 del codice civile accorda al datore di lavoro - in presenza di processi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale e negli altri casi individuati dai contratti collettivi - la possibilità di poter modificare le mansioni di un lavoratore mediante una degradazione a mansioni inferiori di non più di un livello sottostante, senza modifiche  del suo trattamento economico (salvo il venir meno di trattamenti accessori legati alla specifica modalità di svolgimento del precedente lavoro). Viene altresì previsto che addizionali ipotesi di demansionamento - eccedenti quelle  rispondenti ad esigenze indotte da riconversioni e ristrutturazioni - possano essere contemplate nei contratti collettivi, anche aziendali. Ed infine (a quadratura del cerchio e con formulazione piuttosto farisaica) che - nelle sedi legislativamente abilitate alle transazioni e conciliazioni - “possano essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”.

Altra modifica peggiorativa è costituita dall’allungamento da 3 a 6 mesi dell’arco temporale superato il quale, con prestazione continuativa, il lavoratore matura il diritto all’assegnazione definitiva  alle mansioni disimpegnate. Ben potendo la contrattazione collettiva, anche aziendale, fissare il suddetto arco temporale in misura superiore ai 6 mesi.

Le deteriori innovazioni apportate al vecchio articolo 2103 del codice civile  gravitano - come già detto - su un’area dei diritti della personalità estremamente delicata e, ad evitare possibili arbitri da chi esercita lo ius variandi, è necessario che venga esercitata la massima vigilanza da parte dei potenziali destinatari delle modifiche in peius e dei loro rappresentanti, da indirizzare sul riscontro di genuinità ed effettività  delle causali legittimanti l’iniziativa aziendale (ristrutturazioni, riconversioni e simili).

Va, peraltro, detto che anche il precedente regime (ancora attuale fintanto che l’ipotizzata riscrittura non diventi definitiva) consentiva talune, quantunque del tutto circoscritte, deroghe al dettato dell’articolo 2103 del codice civile. Trattavasi di situazioni in cui  era stata ritenuta prioritaria l’esigenza di salvaguardare beni valutati dal legislatore di rango superiore al “cambio mansioni” deteriore, quale il mantenimento, comunque, dell’occupazione[12].

In tali limitatissime ipotesi, la legittimazione al demansionamento, è stata condivisa dalla stessa Cassazione, secondo cui: “costituisce principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l’articolo 2103 del codice civile (...)  non opera allorché il patto peggiorativo corrisponde all’interesse del lavoratore medesimo. Ed in effetti il diritto alla tutela della posizione economica e professionale del lavoratore deve trovare contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del lavoratore quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro” [13]. Ove, peraltro,  alla sussistenza dei requisiti legittimanti il demansionamento si accompagnava,  pur sempre, il consenso del lavoratore.

 

[1]) Cfr: http://www.altalex.com/index.php?idnot=70447.

[2]) Cfr:  https://www.filodiritto.com/articoli/2015/02/la-riduzione-delle-tutele-del-lavoro-nel-cosiddetto-jobs-act.html.

[3]) "ART. 55 (Mutamenti delle mansioni)

«2103. Prestazione del lavoro. - Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 10 settembre 2003, n. 276, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo».

[4]) L' art.2103 (Mansioni del lavoratore) così ancora recita: "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad una altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Ogni patto contrario è nullo".

[5]) Così letteralmente Cass. 27 maggio 1983, n. 3671.

[6]) Così Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150,  in Lav. e prev. oggi 2003, 343. Nello stesso senso, Cass. 17 marzo 1999, n. 2428; Cass. 10 agosto 1999, n. 8577; Cass. 3 novembre 1997, n. 10775; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276.

[7]) Cass. 28 marzo 1995, n. 3623; Cass. 26 gennaio 1993, n. 9319.

[8]) Trib. Camerino 2/4/2007, est. Basilli, in Lav. nella giur. 2007, 1044.

[9]) Cass. Sez. Lav. 17 luglio 1998, n. 7040, in Mass. Giur. it.,1998.

[10]) Cfr. n. 11835  del  21/5/2009 - est. La Terza.

11) Così stabilendosi: «All'articolo 52 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il comma 1 è sostituito dai seguenti: “1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all'articolo 35, comma 1, lettera a). L'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione” (…)».

[12]) Fattispecie individuate dall’art. 4, comma 11° legge 23 luglio 1991, n. 223, afferente il riassorbimento in azienda di lavoratori esuberanti, post mobilità; dall’art. 1, comma 7° e dall’art. 4, comma 4° legge 12 marzo 1999, n. 68, afferente la sopravvenuta inabilità parziale dei lavoratori allo svolgimento delle loro mansioni; dall’art. 7, 5° co. L. 151/2001, già art. 30/33 della legge n. 1204/1971, riguardante le lavoratrici madri, che durante il periodo di gestazione e sino a sette mesi dopo il parto - se il tipo di attività o le condizioni ambientali sono pregiudizievoli alla loro salute - devono essere spostate ad altre mansioni anche inferiori a quelle abituali, conservando la retribuzione precedente.

[13]) Cfr. per tutte, Cass. n. 18269/2006.

1. Premessa

Con  Legge n. 183 del 10 dicembre 2014 (cosiddetto Jobs Act), il Governo ha approvato quella che la maggioranza dei giuslavoristi ha correttamente qualificato “controriforma del lavoro”, in ragione del suo carattere regressivo dei diritti dei prestatori di lavoro realizzato tramite la revoca delle  tutele per la parte debole del rapporto conquistate o ad essa riconosciute dall’ordinamento dopo gli anni ‘50 del secolo scorso. La controriforma è il frutto della vecchia, quanto errata, convinzione degli imprenditori - fatta propria per l’occasione dal Governo - che la riduzione dei diritti civili dei lavoratori con corrispondente accrescimento del potere datoriale in azienda abbia il potere taumaturgico di incrementare l’occupazione che, nel nostro Paese, ha toccato livelli elevatissimi a danno, in particolare, dei giovani.

Partendo da posizioni pubblicamente e mediaticamente rassicuranti per i cittadini-lavoratori in ordine all’intangibilità delle garanzie e sanzioni avverso il licenziamento ingiustificato (implicanti  la reintegra nel posto da cui illegittimamente estromessi), poi  modificate incredibilmente quanto ingannevolmente nel corso del tempo,  il Consiglio dei ministri ha approvato in forma definitiva - nella seduta del 20 febbraio 2015 - due decreti attuativi della controriforma, riguardanti rispettivamente la nuova disciplina dei licenziamenti e degli ammortizzatori sociali.

Della riforma della normativa dei licenziamenti ingiustificati - già depotenziata dall’omologa dell’ex ministro Fornero - caratterizzati per i nuovi assunti dalla privazione della reintegrazione ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dalla sua sostituzione con un trattamento indennitario monetizzante del tutto modesto (crescente con l’anzianità di servizio), ci siamo già diffusamente e criticamente occupati nel nostro articolo “La riduzione delle tutele del lavoro nel cosioddetto Jobs Act”, reperibile in rete nei portali sia di Altalex[1] sia di Filodiritto[2] (cui si rinviano gli eventuali interessati).

Peraltro nella stessa seduta del 20 febbraio 2015, il Consiglio dei ministri  ha approvato in fase preliminare e non definitiva (definitività acquisibile solo dopo il parere non vincolante delle Commissioni parlamentari  e riesame dello stesso Consiglio dei ministri) lo “schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione delle mansioni” - quest’ultime fatte oggetto di riscrittura in peius tramite l’articolo 55 dello schema, riportato in nota[3] -  di cui ci occupiamo in questo articolo.

2. La riscrittura deteriore dell’articolo 2103 del codice civile

Nella soluzione di arretramento delle tutele per la parte debole del rapporto di lavoro, accompagnata dalla privazione dell’intervento riequilibratore e sanzionatorio del Giudice per i casi di arbitrio datoriale - e di  corrispettivo accrescimento degli spazi di “mano libera”  per gli imprenditori - si inscrive, in piena coerenza con il precedente regressivo sul tema dei licenziamenti, la riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile[4], prefigurata nell’articolo 55 dello schema di decreto attuativo, nell’ipotesi (piuttosto realistica) che esca confermata nel testo definitivo.

In tale riscrittura emerge, innanzitutto, l’eliminazione della garanzia per i lavoratori - in caso di mutamento unilaterale delle mansioni - costituita dal rispetto della cd. “equivalenza” tra le precedenti disimpegnate (cd. a quo) e quelle alle quali si è stati unilateralmente spostati (cosiddetto ad quem).

L’equivalenza - presente nel (vecchio) testo dell’articolo 2103 del codice civile a salvaguardia da demansionamenti e dequalificanti degradazioni - è stata sostituita dalla legittimazione per il datore ad assegnare insindacabilmente il lavoratore a mansioni diverse, alla sola condizione che siano “mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

Come appare intuitivo, la variazione non è assolutamente di poco conto, specie se si  tiene presente il fatto che alla precedente normativa (precedente, nell’ipotesi di conferma sostitutiva da parte della modifica peggiorativa) - che imponeva allo ius variandi datoriale  il rispetto del requisito dell’equivalenza a prevenzione dalle dequalificazioni - è stato da tempo riconosciuto addirittura un valore superindividuale; cioè dell’essere l’articolo 2103 del codice civile teso non solo alla salvaguardia della dignità e personalità del singolo ma alla tutela del più elevato ed ampio «interesse della collettività che il patrimonio di nozioni, di esperienza e perizia acquisita dal lavoratore nell’esercizio dell’attività non venga sacrificato alle esigenze dell’organizzazione aziendale del lavoro ed al profitto dell’impresa»[5] mediante l’assegnazione «del dipendente a mansioni inferiori che non consentano, nel loro espletamento, l’utilizzazione ed il conseguente perfezionamento del patrimonio professionale già acquisito, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti prospettive di miglioramento professionale»[6].

Nella vigenza dell’articolo 2103 del codice civile, oggetto di riscrittura, mansioni equivalenti tra le quali era legittimo lo spostamento in orizzontale dovevano, pertanto, intendersi - anche secondo l’autorevole opinione della Cassazione - quelle che  nella loro successione consentivano che «risultasse tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anche di arricchire, il patrimonio professionale precedentemente acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze»[7]. Con la chiarificante specificazione, sempre della magistratura di merito e di  Cassazione, secondo cui: «Deve ritenersi che il concetto di equivalenza delle mansioni prescinda dalla riconducibilità in astratto delle mansioni al medesimo livello contrattuale, postulando di contro che le nuove mansioni siano in concreto aderenti alla specifica competenza tecnica e professionale del dipendente al fine di salvaguardare il livello professionale raggiunto...»[8], «(...) di guisa che sussiste la violazione del disposto di cui all’articolo 2013 del  codice civile qualora le nuove mansioni, pur comprese nel livello - o nella categoria - contrattuale già attribuito al dipendente, comportino una lesione del suo diritto a conservare e migliorare la competenza o la professionalità maturata o pregiudichino quello al suo avanzamento graduale nella gerarchia del settore»[9], cosicché «(...) l’equivalenza delle mansioni contrattuali a quelle successivamente attribuite può dirsi sussistente solo quando le mansioni ad quem tengono conto della professionalità già acquisita dal dipendente; il criterio dell’inquadramento nel medesimo livello categoriale è pertanto insufficiente giacché il mutamento di mansioni può tradursi - nonostante il mantenimento del medesimo livello - nel disconoscimento di ogni pregressa esperienza professionale».

La garanzia della “equivalenza”, nella  prospettata riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile, viene soppressa per il suo presunto carattere ingombrante ed ostativo all’esasperata fungibilità tra le mansioni pretesa eminentemente da datori di lavoro che, piuttosto che valorizzare la specializzazione professionale, mostrano di preferire  il lavoratore “tuttofare”, cosiddetto “polivalente”, più facilmente gestibile. Detta garanzia viene sostituita dal conferimento al datore di lavoro del potere di spostare unilateralmente in orizzontale il lavoratore tra le varie mansioni che gli agenti della contrattazione -  insufficientemente garanti per i diritti soggettivi dei singoli, anche per effetto dello sbilanciato potere che intercorre tra sindacati dei lavoratori e organizzazioni datoriali  in assoluto e nelle negoziazioni - dovrebbero aver posto sullo stesso livello di inquadramento categoriale, all’interno delle classificazioni contrattuali, nella presunzione di un’astratta equipollenza.

Poiché la garanzia della professionalità attiene ad un diritto della personalità, a connotazione del tutto individuale, nella precedente formulazione dell’articolo 2103 del codice civile, la verifica dell’equivalenza tra i compiti a quo e quelli ad quem era stata, condivisibilmente, sottratta a “parallelismi” realizzati in accordi sindacali notoriamente caratterizzati da soluzioni mediatorie  poco affidabili e demandata di fatto, invece, al riscontro imparziale del Giudice che, in futuro, per effetto  del conferimento in esclusiva alle pattuizioni intersindacali della facoltà di individuare (per approssimazione, ad essere benevoli) la  “somiglianza” o non “difformità” sostanziale dei profili professionali tra di loro,  risulta privato di qualsiasi  potere di intervento e di sindacato al riguardo.  Privazione tutt’altro che occasionale, anzi del tutto ricercata dall’attuale dell’attuale compagine governativa, stante la  sua  manifesta predilezione  di estraniare la magistratura, relativamente alle tematiche del lavoro, dallo svolgere il proprio ruolo istituzionale di garante contro atteggiamenti prevaricatori o arbitrari di una o l’altra delle parti.  

Non è irrealistico prevedere come le conseguenze di questa modifica saranno suscettibili di rivelarsi nefaste per i lavoratori, giacché è notorio che nei contratti collettivi  vengono poste nello stesso livello di inquadramento mansioni riconducibili a professionalità spesso del tutto eterogenee tra loro (es. il contabile, l’informatico, l’analista finanziario, l’ispettore commerciale, il legale di contenzioso, l’esperto in relazioni sindacali, quello di gestione risorse umane, il fiscalista e simili). Ne consegue che, in questo nuovo assetto normativo, il datore di lavoro potrà legittimamente richiedere al lavoratore, ad es.  con professionalità giuridico-legale, di spostarsi su compiti amministrativo contabili (implicanti l’acquisizione ex novo di altra formazione professionale, naturalmente previa frequentazione di corsi di addestramento ad hoc), senza che lo stesso possa dissentirne, e così via per altre esemplificazioni professionali.

Senza originalità - ma con uno sguardo al passato, rivelatore di una propensione all’arretramento - il legislatore  della riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile non ha fatto altro che importare  nel settore del lavoro privato la soluzione normativa, in tema di mutamento di mansioni, a suo tempo prevista dall’articolo 52 del Decreto Legislativo n. 165/2001 per il pubblico impiego (prima della modifica in tale ambito apportata dal successivo Decreto Legislativo n. 150 del 27/10/2009, nell’ottica di una tendenziale parificazione della disciplina delle mansioni fra settore privato e settore pubblico, realizzata con il recepimento egualitario della nozione di equivalenza).

Il suddetto articolo 52 così disponeva: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive»; disposizione addirittura  superata, in omaggio  alla  fungibilità, dalla dizione dell’articolo 3, comma 2,  del contratto Regioni e autonomie locali del 1999, secondo cui: «tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili» dall’amministrazione, tacitando così preventivamente l’eventuale dissenso dei dipendenti.

Nella prima decade del 2000, le differenze tra la normativa  più garantista per la professionalità dei lavoratori soggettivamente intesa, codificata nell’articolo 2013 c.c. - per il settore privato - e le discipline deteriori per i dipendenti e più vantaggiose  per gli Organi di gestione del rapporto di lavoro pubblico (codificate sia nell’articolo 52, Decreto Legislativo n. 165/2001 per il pubblico impiego sia nei vari ccnl del comparto Regioni e Autonomie locali), vennero poste in evidenza  dalla Cassazione[10],  che ebbe occasione di occuparsene.  Nelle sue considerazioni, la Suprema Corte giunse  ad asserire che: «il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 52, sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto, o ad altre equivalenti. Sul concetto di equivalenza, nel settore privato, come è noto, è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle. La lettera del citato articolo 52 sembra invece far proprio un concetto di equivalenza «formale», ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. In quest’ottica, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all’aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico». Quanto all’analoga norma del ccnl delle autonomie locali, la stessa sentenza affermò che: «l’equivalenza in senso formale sembra peraltro ribadita dalla norma contrattuale dell’articolo 3, comma 2, del c.c.n.l. del comparto Regioni e Autonomie locali che prevede che “Ai sensi del Decreto Legislativo n. 29 del 1993, articolo 56 come modificato dal Decreto Legislativo n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili; l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro”».

La comparazione operata dalla Cassazione tra le discipline del mutamento di mansioni in ambito privatistico e nel settore pubblicistico mise in evidenza all’epoca - oltre agli aspetti più sostanzialmente garantisti della prima rispetto alla seconda - come, in caso di divergenze in ordine all’equivalenza tra la mansione di provenienza e quella di assegnazione unilaterale aziendale, il lavoratore del settore privato potesse rimettere al Giudice il riscontro di equivalenza, al cui responso il datore di lavoro doveva attenersi. Invece la vecchia disciplina del mutamento di mansioni prevista nell’articolo 52 del Decreto Legislativo n. 165/2001 - disancorata dal rispetto della cosiddetta equivalenza soggettiva (così qualificata in quanto richiede che, nel mutamento, si tenga debitamente conto del patrimonio di professionalità acquisito dal singolo lavoratore fatto oggetto di spostamento ad altri compiti) - non consentiva, a differenza dell’articolo 2103 del codice civile vigente nel settore privato, il ricorso al Giudice del lavoro per una sua valutazione in ordine all’equivalenza tra le mansioni. Ciò in quanto la titolarità di tale potere valutativo era stata assegnata  ex lege agli agenti contrattuali che, in sede di redazione dei contratti collettivi, dovevano preventivamente esercitarlo tramite l’inserimento nello stesso livello o area contrattuale di plurimi profili professionali considerati, in astratto e presuntivamente, di pari valore e qualità. In questo assetto, il Giudice - anche se richiesto - era (ed è) costretto ad astenersi dal giudicare per non interferire su soluzioni che il legislatore ha rimesso all’autonomia collettiva. Peraltro, e come già anticipato, la soluzione estraniante il Giudice del lavoro dal riscontro di equivalenza tra le mansioni - prevista originariamente nell’articolo 52 del Decreto Legislativo n. 165/2001 per l’impiego pubblico - è stata successivamente rimossa per effetto della modifica in tema di mansioni apportata dal Decreto Legislativo n. 150 del 27/10/2009 [11], tramite cui venne operata una tendenziale parificazione, in ordine al mutamento di mansioni, tra settore privato e pubblico, esportando anche in quest’ultimo la nozione di “equivalenza” giudizialmente sindacabile.

Da quanto in precedenza rappresentato, appare evidente come la prospettata soluzione di riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile - effettuata mediante riesumazione e recepimento, per il settore privato, della formulazione, in tema di mansioni,  codificata nell’abrogato articolo 52, 1 comma, del Decreto Legislativo n. 165/2001, e già abbandonata dal 2009 per lo stesso settore pubblico -  non possa che qualificarsi “soluzione di arretramento” in senso sostanziale e temporale (per l’evidente ritorno al passato).

Espresse queste considerazioni critiche conviene precisare che chi scrive non è disancorato dalla conoscenza della mutevole realtà degli assetti produttivi e organizzativi aziendali, indotta da un mercato sempre più dinamico e competitivo, talché  non è affatto nostro intendimento supportare un’assoluta invarianza delle mansioni dei lavoratori, a partire dall’assunzione  e fino alla cessazione del rapporto. Una simile impostazione si attirerebbe le giuste critiche  di poggiare su  una visione statica degli assetti produttivi e lavorativi,  pertanto viziata da una irragionevole  tendenza alla conservazione di professionalità suscettibili di atteggiarsi col passare del tempo a “sclerotizzate”, quando le dinamiche aziendali postulano, invece, disponibilità dei lavoratori a riconversioni professionali, le quali dovranno, peraltro, avvenire senza implicare dispersione e tanto meno azzeramenti del patrimonio di competenze pregresse.

Pur non disconoscendo la sussistenza di esigenze obbiettive - documentabili e verificabili in forma circostanziata  quantomeno  da colui che è fatto oggetto di spostamento ad altre mansioni - che possono rendere fondata la richiesta di una disponibilità dei prestatori ad una moderata fungibilità tra mansioni omogenee e a mutamenti di compiti realizzabili tramite aggiornamento professionale che non si risolva  nella costrizione all’apprendimento  ex novo di una eterogenea professionalità, il vizio principale della prospettata riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile risiede, a nostro avviso:

a) nello studiato abbandono  del requisito dell’equivalenza onde sottrarre la disposizione datoriale di mutamento di mansioni ad una contestazione individuale del lavoratore, ora resa preclusa e impedita da un formale rispetto datoriale delle classificazioni contrattuali (contenenti gli accostamenti dei plurimi profili professionali) che, seppure realizzate empiricamente in intese sindacali aziendali o nazionali, appaiono spacciate dal nuovo legislatore come aprioristicamente ed incontestabilmente garanti del rispetto dell’omogeneità o affinità tra le mansioni di assegnazione;

b) nell’amputazione, da parte della criticata riscrittura, della possibilità per il lavoratore - che per effetto del mutamento unilaterale di mansioni si ritenga dequalificato - di sottoporre ad un Giudice del lavoro il riscontro di fondatezza del proprio convincimento, a fini di opporre al datore di lavoro l’eventuale responso giudiziale positivo e così beneficiare auspicabilmente di un conseguente comportamento correttivo da parte aziendale ovvero di una futura soluzione risarcitoria.

3. Ulteriori modifiche peggiorative  

Addizionalmente la prospettata riscrittura dell’articolo 2013 del codice civile accorda al datore di lavoro - in presenza di processi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale e negli altri casi individuati dai contratti collettivi - la possibilità di poter modificare le mansioni di un lavoratore mediante una degradazione a mansioni inferiori di non più di un livello sottostante, senza modifiche  del suo trattamento economico (salvo il venir meno di trattamenti accessori legati alla specifica modalità di svolgimento del precedente lavoro). Viene altresì previsto che addizionali ipotesi di demansionamento - eccedenti quelle  rispondenti ad esigenze indotte da riconversioni e ristrutturazioni - possano essere contemplate nei contratti collettivi, anche aziendali. Ed infine (a quadratura del cerchio e con formulazione piuttosto farisaica) che - nelle sedi legislativamente abilitate alle transazioni e conciliazioni - “possano essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”.

Altra modifica peggiorativa è costituita dall’allungamento da 3 a 6 mesi dell’arco temporale superato il quale, con prestazione continuativa, il lavoratore matura il diritto all’assegnazione definitiva  alle mansioni disimpegnate. Ben potendo la contrattazione collettiva, anche aziendale, fissare il suddetto arco temporale in misura superiore ai 6 mesi.

Le deteriori innovazioni apportate al vecchio articolo 2103 del codice civile  gravitano - come già detto - su un’area dei diritti della personalità estremamente delicata e, ad evitare possibili arbitri da chi esercita lo ius variandi, è necessario che venga esercitata la massima vigilanza da parte dei potenziali destinatari delle modifiche in peius e dei loro rappresentanti, da indirizzare sul riscontro di genuinità ed effettività  delle causali legittimanti l’iniziativa aziendale (ristrutturazioni, riconversioni e simili).

Va, peraltro, detto che anche il precedente regime (ancora attuale fintanto che l’ipotizzata riscrittura non diventi definitiva) consentiva talune, quantunque del tutto circoscritte, deroghe al dettato dell’articolo 2103 del codice civile. Trattavasi di situazioni in cui  era stata ritenuta prioritaria l’esigenza di salvaguardare beni valutati dal legislatore di rango superiore al “cambio mansioni” deteriore, quale il mantenimento, comunque, dell’occupazione[12].

In tali limitatissime ipotesi, la legittimazione al demansionamento, è stata condivisa dalla stessa Cassazione, secondo cui: “costituisce principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l’articolo 2103 del codice civile (...)  non opera allorché il patto peggiorativo corrisponde all’interesse del lavoratore medesimo. Ed in effetti il diritto alla tutela della posizione economica e professionale del lavoratore deve trovare contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del lavoratore quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro” [13]. Ove, peraltro,  alla sussistenza dei requisiti legittimanti il demansionamento si accompagnava,  pur sempre, il consenso del lavoratore.

 

[1]) Cfr: http://www.altalex.com/index.php?idnot=70447.

[2]) Cfr:  https://www.filodiritto.com/articoli/2015/02/la-riduzione-delle-tutele-del-lavoro-nel-cosiddetto-jobs-act.html.

[3]) "ART. 55 (Mutamenti delle mansioni)

«2103. Prestazione del lavoro. - Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 10 settembre 2003, n. 276, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo».

[4]) L' art.2103 (Mansioni del lavoratore) così ancora recita: "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad una altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Ogni patto contrario è nullo".

[5]) Così letteralmente Cass. 27 maggio 1983, n. 3671.

[6]) Così Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150,  in Lav. e prev. oggi 2003, 343. Nello stesso senso, Cass. 17 marzo 1999, n. 2428; Cass. 10 agosto 1999, n. 8577; Cass. 3 novembre 1997, n. 10775; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276.

[7]) Cass. 28 marzo 1995, n. 3623; Cass. 26 gennaio 1993, n. 9319.

[8]) Trib. Camerino 2/4/2007, est. Basilli, in Lav. nella giur. 2007, 1044.

[9]) Cass. Sez. Lav. 17 luglio 1998, n. 7040, in Mass. Giur. it.,1998.

[10]) Cfr. n. 11835  del  21/5/2009 - est. La Terza.

11) Così stabilendosi: «All'articolo 52 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il comma 1 è sostituito dai seguenti: “1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all'articolo 35, comma 1, lettera a). L'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione” (…)».

[12]) Fattispecie individuate dall’art. 4, comma 11° legge 23 luglio 1991, n. 223, afferente il riassorbimento in azienda di lavoratori esuberanti, post mobilità; dall’art. 1, comma 7° e dall’art. 4, comma 4° legge 12 marzo 1999, n. 68, afferente la sopravvenuta inabilità parziale dei lavoratori allo svolgimento delle loro mansioni; dall’art. 7, 5° co. L. 151/2001, già art. 30/33 della legge n. 1204/1971, riguardante le lavoratrici madri, che durante il periodo di gestazione e sino a sette mesi dopo il parto - se il tipo di attività o le condizioni ambientali sono pregiudizievoli alla loro salute - devono essere spostate ad altre mansioni anche inferiori a quelle abituali, conservando la retribuzione precedente.

[13]) Cfr. per tutte, Cass. n. 18269/2006.