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Dica almeno “lo giuro”

Il diritto di mentire
Dica almeno “lo giuro”
Dica almeno “lo giuro”

Nel nostro processo l’imputato ha, spesso, un numero troppo ristretto di diritti.

L’articolo 111 della nostra Costituzione è arrivato fin troppo tardi a colmare un vuoto già scavalcato da tempo in altri paesi.

Dal 1999 abbiamo recepito principi che sono frutto della Dottrina e della Giurisprudenza anglosassoni.

Con le modifiche apportate al Codice di Procedura Penale dal 2000 in avanti, abbiamo iniziato a familiarizzare con l’uso di parole come “giusto processo”, “contraddittorio”, “giusta durata”, “informazione tempestiva e riservata” e così a seguire.

Diritti copiati da altri paesi e sanciti per ricordarci che accusa e difesa sono uguali, e uguali devono rimanere.

C’è sempre un “ma” nascosto da qualche parte, rimasto incastrato nelle maglie della creazione giuridica.

Abbiamo, come spesso accade, copiato male, lasciando una possibilità che non ha nulla a che fare con un processo “giusto”, e che si annida nella più marcata differenza tra vittima e imputato.

La vittima può testimoniare (con dei limiti, è ovvio).

L’imputato no.

L’imputato, se rende interrogatorio, riceve un avvertimento che dovrebbe far venire i brividi, e che è frutto di una visione esasperata di un caro brocardo latino: nemo tenetur se detegere.

Chi viene sottoposto ad indagine viene avvisato del fatto che assumerà la qualifica di testimone solo se renderà dichiarazioni che concernono la responsabilità di altri.

La derivata logica nella mente di chi ascolta, e cerca una falla, è immediata.

Se non si racconta della responsabilità di altri, si materializza un diritto inaspettato: il diritto di mentire.

Prendiamoci il tempo necessario a soppesare una realtà cui ci siamo abituati.

Il diritto di mentire.

Un diritto che si estende talmente in profondità che è addirittura consentito all’imputato rendere dichiarazioni spontanee, senza essere interrotto e senza che gli vengano fatte domande da nessuno.

Perché, magari, facendo delle domande, le menzogne verrebbero alla luce.

Sono davvero tutti statisticamente così emotivi da non riuscire a sopportare il peso delle domande, e da dovere prevedere legislativamente la possibilità di leggere ad alta voce il tema che ci si è preparati a casa?

Ecco, quindi, che nella nostra peculiare versione del processo “giusto”, un concetto chiaramente percepibile come immorale - mentire - s’innalza al rango di diritto costituzionalmente garantito.

Si presume a tal punto che l’imputato menta, da eliminare ogni conseguenza se lo fa, e da permettergli di parlare in spontanee dichiarazioni e raccontare, se desidera, una fiaba.

Senza la possibilità che gli vengano fatte domande.

Qualche PM milanese ha sicuramente già percepito il problema.

Se il PM fosse stato, invece, un Crown Prosecutor, la storia di certi processi, forse, sarebbe cambiata.

Perché il diritto a mentire, nei sistemi di Common Law da cui abbiamo acquisito concetti come il “giusto processo” o la “cross examination”, non esiste.

La possibilità di mentire impuniti, semplicemente, non è prevista.

Nel processo civile, ad esempio, non è consentito nascondere e tenersi una prova: è necessario consegnare ogni elemento attinente all’ipotesi dedotta in giudizio, ed il proprio solicitor si fa personalmente garante davanti alla Corte della completezza delle prove consegnate.

Ma l’avversione alla menzogna si estende in ogni campo.

Per entrare negli U.S.A., è necessario compilare l’ESTA.

Una delle domande che più colpiscono il nostro immaginario è: “Sta cercando di entrare negli Stati Uniti per partecipare ad attività immorali o criminali?”

In Italia, se il soggetto avesse risposto “No”, e si rivelasse essere un criminale, avrebbe esercitato un suo diritto: nemo tenetur se detegere.

Nei paesi di Common Law, invece, sarebbe punito più gravemente: per avere mentito.

Questo, forse, potrebbe essere considerato un eccesso.

Ma, a volte, l’avversione anglosassone per le menzogne sfiora concetti che anche un giurista di Civil Law potrebbe, o dovrebbe, considerare giusti.

In Inghilterra, infatti, anche il silenzio, a volte, viene considerato un’aggravante.

A volte, il right to remain silent ha delle conseguenze, che nel nostro paese non esisterebbero.

L’esempio più significativo è quello dell’arrestato che non riferisce immediatamente l’esistenza di  una “defence”, ovvero di quella che noi chiameremmo “causa di giustificazione”, ma che implica anche concetti riferibili a quelle che noi chiameremmo “attenuanti”.

Se un soggetto viene fermato da Scotland Yard con l’accusa di “murder” (omicidio), e non riferisce immediatamente che lo ha fatto per legittima difesa, o perché provocato, non gli verrà data una seconda occasione di dirlo e di essere creduto.

Il Common Law, infatti, considera il comportamento di chi sa e tace come un indice di colpevolezza, e come un’aggravante.

Inoltre, forse, potrebbe risultare molto complesso spiegare ai dodici giurati perché non si è riferita prima l’esistenza di una defence.

Ancora una volta, la spiegazione dell’esistenza di regole come questa è semplice, e diretta.

E’ normale pensare che, se l’esistenza di una defence non è stata riferita subito, la defence stessa sia una scusa inventata successivamente.

Perché chi ha una causa di giustificazione, normalmente la dice: subito.

La posizione dell’imputato, quindi, nel processo penale inglese, è molto simile, quasi identica, a quella della vittima che rende testimonianza.

Le sue dichiarazioni, se non vere, verranno considerate come punibili (come un testimone), e non gli sarà concesso di omettere, senza conseguenze, parte della verità (come a un testimone).

Ritorniamo quindi al parallelo.

Vogliamo un processo giusto, in cui accusa e difesa sono uguali, ed hanno il medesimo potere e le stesse armi processuali.

Allora, perché consentiamo al nostro ordinamento di partire dal presupposto che la parola dell’imputato non ha valore, mentre quella della vittima si?

Non sarebbe opportuno o negare la possibilità di testimoniare a entrambi, o consentirla a entrambi?

Perché l’imputato non solo non può testimoniare, ma si parte anche dal presupposto che possa dire il falso, o omettere, senza conseguenza alcuna?

Perché consentiamo all’imputato di tacere la propria difesa per l’intero processo, per giocare a volte una carta fortunata tirata fuori dal cilindro della ricostruzione ad arte di cause di giustificazione o attenuanti?

Perché non facciamo in modo che la sua parola sia passibile di conseguenze non solo se testimonia su circostanze che riguardano la responsabilità di altri, ma anche se omette di riferire immediatamente circostanze rilevanti per la sua difesa, o una causa di giustificazione, che esibisce durante la discussione finale?

Perché gli concediamo il diritto di mentire senza conseguenze?

Nei paesi di Common Law, omettere una circostanza che giustificherebbe la condotta è indice di colpevolezza, l’esercizio del diritto di rimanere in silenzio ha conseguenze e non esiste il diritto a mentire.

In Italia, speriamo che un giorno l’imputato venga invitato a dire, almeno, “lo giuro”.

Ma terrà le dita incrociate.

Nel nostro processo l’imputato ha, spesso, un numero troppo ristretto di diritti.

L’articolo 111 della nostra Costituzione è arrivato fin troppo tardi a colmare un vuoto già scavalcato da tempo in altri paesi.

Dal 1999 abbiamo recepito principi che sono frutto della Dottrina e della Giurisprudenza anglosassoni.

Con le modifiche apportate al Codice di Procedura Penale dal 2000 in avanti, abbiamo iniziato a familiarizzare con l’uso di parole come “giusto processo”, “contraddittorio”, “giusta durata”, “informazione tempestiva e riservata” e così a seguire.

Diritti copiati da altri paesi e sanciti per ricordarci che accusa e difesa sono uguali, e uguali devono rimanere.

C’è sempre un “ma” nascosto da qualche parte, rimasto incastrato nelle maglie della creazione giuridica.

Abbiamo, come spesso accade, copiato male, lasciando una possibilità che non ha nulla a che fare con un processo “giusto”, e che si annida nella più marcata differenza tra vittima e imputato.

La vittima può testimoniare (con dei limiti, è ovvio).

L’imputato no.

L’imputato, se rende interrogatorio, riceve un avvertimento che dovrebbe far venire i brividi, e che è frutto di una visione esasperata di un caro brocardo latino: nemo tenetur se detegere.

Chi viene sottoposto ad indagine viene avvisato del fatto che assumerà la qualifica di testimone solo se renderà dichiarazioni che concernono la responsabilità di altri.

La derivata logica nella mente di chi ascolta, e cerca una falla, è immediata.

Se non si racconta della responsabilità di altri, si materializza un diritto inaspettato: il diritto di mentire.

Prendiamoci il tempo necessario a soppesare una realtà cui ci siamo abituati.

Il diritto di mentire.

Un diritto che si estende talmente in profondità che è addirittura consentito all’imputato rendere dichiarazioni spontanee, senza essere interrotto e senza che gli vengano fatte domande da nessuno.

Perché, magari, facendo delle domande, le menzogne verrebbero alla luce.

Sono davvero tutti statisticamente così emotivi da non riuscire a sopportare il peso delle domande, e da dovere prevedere legislativamente la possibilità di leggere ad alta voce il tema che ci si è preparati a casa?

Ecco, quindi, che nella nostra peculiare versione del processo “giusto”, un concetto chiaramente percepibile come immorale - mentire - s’innalza al rango di diritto costituzionalmente garantito.

Si presume a tal punto che l’imputato menta, da eliminare ogni conseguenza se lo fa, e da permettergli di parlare in spontanee dichiarazioni e raccontare, se desidera, una fiaba.

Senza la possibilità che gli vengano fatte domande.

Qualche PM milanese ha sicuramente già percepito il problema.

Se il PM fosse stato, invece, un Crown Prosecutor, la storia di certi processi, forse, sarebbe cambiata.

Perché il diritto a mentire, nei sistemi di Common Law da cui abbiamo acquisito concetti come il “giusto processo” o la “cross examination”, non esiste.

La possibilità di mentire impuniti, semplicemente, non è prevista.

Nel processo civile, ad esempio, non è consentito nascondere e tenersi una prova: è necessario consegnare ogni elemento attinente all’ipotesi dedotta in giudizio, ed il proprio solicitor si fa personalmente garante davanti alla Corte della completezza delle prove consegnate.

Ma l’avversione alla menzogna si estende in ogni campo.

Per entrare negli U.S.A., è necessario compilare l’ESTA.

Una delle domande che più colpiscono il nostro immaginario è: “Sta cercando di entrare negli Stati Uniti per partecipare ad attività immorali o criminali?”

In Italia, se il soggetto avesse risposto “No”, e si rivelasse essere un criminale, avrebbe esercitato un suo diritto: nemo tenetur se detegere.

Nei paesi di Common Law, invece, sarebbe punito più gravemente: per avere mentito.

Questo, forse, potrebbe essere considerato un eccesso.

Ma, a volte, l’avversione anglosassone per le menzogne sfiora concetti che anche un giurista di Civil Law potrebbe, o dovrebbe, considerare giusti.

In Inghilterra, infatti, anche il silenzio, a volte, viene considerato un’aggravante.

A volte, il right to remain silent ha delle conseguenze, che nel nostro paese non esisterebbero.

L’esempio più significativo è quello dell’arrestato che non riferisce immediatamente l’esistenza di  una “defence”, ovvero di quella che noi chiameremmo “causa di giustificazione”, ma che implica anche concetti riferibili a quelle che noi chiameremmo “attenuanti”.

Se un soggetto viene fermato da Scotland Yard con l’accusa di “murder” (omicidio), e non riferisce immediatamente che lo ha fatto per legittima difesa, o perché provocato, non gli verrà data una seconda occasione di dirlo e di essere creduto.

Il Common Law, infatti, considera il comportamento di chi sa e tace come un indice di colpevolezza, e come un’aggravante.

Inoltre, forse, potrebbe risultare molto complesso spiegare ai dodici giurati perché non si è riferita prima l’esistenza di una defence.

Ancora una volta, la spiegazione dell’esistenza di regole come questa è semplice, e diretta.

E’ normale pensare che, se l’esistenza di una defence non è stata riferita subito, la defence stessa sia una scusa inventata successivamente.

Perché chi ha una causa di giustificazione, normalmente la dice: subito.

La posizione dell’imputato, quindi, nel processo penale inglese, è molto simile, quasi identica, a quella della vittima che rende testimonianza.

Le sue dichiarazioni, se non vere, verranno considerate come punibili (come un testimone), e non gli sarà concesso di omettere, senza conseguenze, parte della verità (come a un testimone).

Ritorniamo quindi al parallelo.

Vogliamo un processo giusto, in cui accusa e difesa sono uguali, ed hanno il medesimo potere e le stesse armi processuali.

Allora, perché consentiamo al nostro ordinamento di partire dal presupposto che la parola dell’imputato non ha valore, mentre quella della vittima si?

Non sarebbe opportuno o negare la possibilità di testimoniare a entrambi, o consentirla a entrambi?

Perché l’imputato non solo non può testimoniare, ma si parte anche dal presupposto che possa dire il falso, o omettere, senza conseguenza alcuna?

Perché consentiamo all’imputato di tacere la propria difesa per l’intero processo, per giocare a volte una carta fortunata tirata fuori dal cilindro della ricostruzione ad arte di cause di giustificazione o attenuanti?

Perché non facciamo in modo che la sua parola sia passibile di conseguenze non solo se testimonia su circostanze che riguardano la responsabilità di altri, ma anche se omette di riferire immediatamente circostanze rilevanti per la sua difesa, o una causa di giustificazione, che esibisce durante la discussione finale?

Perché gli concediamo il diritto di mentire senza conseguenze?

Nei paesi di Common Law, omettere una circostanza che giustificherebbe la condotta è indice di colpevolezza, l’esercizio del diritto di rimanere in silenzio ha conseguenze e non esiste il diritto a mentire.

In Italia, speriamo che un giorno l’imputato venga invitato a dire, almeno, “lo giuro”.

Ma terrà le dita incrociate.