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La prescrizione dei crediti retributivi dopo il Jobs act

La prescrizione dei crediti retributivi dopo il Jobs act
La prescrizione dei crediti retributivi dopo il Jobs act

1. Prescrizione per i crediti retributivi: decorrenza in corso di rapporto (solo per quelli dotati di stabilità reale)

La carenza di una peculiare regolamentazione della prescrizione, nell’ambito del sistema normativo disciplinante la materia del lavoro, impone all’interprete di individuare preliminarmente il regime (o i regimi) di prescrizione applicabile ai vari diritti nascenti dal rapporto di lavoro subordinato nonché di verificare se tale regime abbia subito, nel corso del tempo, mutamenti sostanziali in conseguenza di modifiche normative introdotte dal legislatore incidenti sulla stabilità del rapporto di lavoro, quale il progressivo depotenziamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, iniziato con la cosiddetta “legge Fornero” del 2012 e portato pressoché a compimento con il primo decreto attuativo del cosiddetto Jobs act, n. 23 del 2015.

Secondo l’opinione ormai nettamente dominante tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore di lavoro con periodicità annuale o infra annuale - ed, in particolare, i crediti di retribuzione - si prescrive nel termine di cinque anni, secondo il disposto dell’articolo 2948, n. 4, del codice civile.  Allo stesso termine quinquennale di prescrizione sono sottoposte, in virtù dell’articolo 2948, n. 5, del codice civile, le competenze spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro (il trattamento di fine rapporto, l’indennità di mancato preavviso e l’indennità per causa di morte).

La prescrizione ordinaria decennale, di cui all’articolo 2946 del codice civile, assume invece nella materia del lavoro una rilevanza applicativa secondaria, svolgendo un ruolo residuale invero assai limitato.

Il connotato caratterizzante i diritti del prestatore, riconducibili nella previsione dell’articolo 2948, n. 4, del codice civile, non è tanto la natura retributiva, quanto piuttosto la particolare modalità di soddisfazione del credito del lavoratore, nel senso che soltanto ove l’adempimento della prestazione da parte del datore si realizzi, per imposizione legale o contrattuale o più semplicemente per consuetudine, con continuità a scadenze periodiche, potrà trovare applicazione la prescrizione breve quinquennale. Viceversa opererà la prescrizione ordinaria decennale.

Ciò premesso risulta, purtroppo, ancora diffusa tra i lavoratori - mentre la questione è chiara pressoché solo per gli addetti ai lavori (magistrati, giuslavoristi, ecc.) - una radicata quanto errata convinzione, secondo cui i propri diritti, afferenti ai crediti retributivi, non si prescriverebbero per tutto il periodo di spiegamento del  rapporto di lavoro ma sarebbero, all’opposto, rivendicabili dopo la risoluzione del rapporto stesso.

Causa  di tale infondato convincimento può ritenersi una sommaria cognizione dei principi stabiliti - in epoca antecedente alla promulgazione delle leggi sui licenziamenti individuali e dello Statuto dei lavoratori - dalla Sentenza n. 63 del 10.6.1966 della Corte costituzionale, in tema di prescrizione dei crediti di lavoro di cui all’articolo 36 della Costituzione.

 2. Le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione

All’epoca la rivoluzionaria decisione stabilì che la regola, sancita dall’articolo 2935 del codice civile, della decorrenza della prescrizione “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (e cioè dal giorno in cui è sorto), non era operativa per i diritti retributivi sorgenti dall’articolo 36 della Costituzione - soggetti di norma a prescrizione estintiva quinquennale - in ragione della condizione di soggezione psicologica in cui versa il lavoratore, nel rapporto di lavoro subordinato privatistico. Soggezione concretizzantesi “nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti...” (così Corte costituzionale n. 63 del 1966). Espressamente la Corte Costituzionale disse: “in un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti; di modo che la rinuncia, quando è fatta durante quel rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità è sancita dall’art. 36 della Costituzione: lo stesso articolo 2113 del Codice civile, che la giurisprudenza ha già inquadrato nei principi costituzionali, ammette l’annullamento della rinuncia proprio se questa è intervenuta prima della cessazione del rapporto di lavoro o subito dopo. In sostanza si è voluto proteggere il contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto […]”.

Da queste considerazioni conseguì, pertanto, la dichiarazione di “illegittimità costituzionale degli articoli 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro” (in senso conforme Corte Costituzionale Sentenza n. 143/1969). Dalla dichiarazione di incostituzionalità discese, per via giurisprudenziale,  la regola del differimento, alla fine del rapporto di lavoro, del decorso della prescrizione per l’azione volta a rivendicare gli stretti titoli retributivi rientranti nell’ambito del “salario minimo familiare”(di cui si occupa appunto l’articolo 36 della Costituzione, in relazione al quale la Consulta dichiarò la parziale illegittimità delle disposizioni sulla prescrizione).

E, ad evitare interpretazioni ampliative della materia retributiva oggetto del differimento dell’azione della prescrizione per l’epoca dell’estinzione del rapporto, la Corte - in successive decisioni [1]- precisò, direttamente o indirettamente, che  mentre erano riconducibili all’ambito del salario assistito dalla garanzia di irrinunciabilità ex articolo 36 della Costituzione, i compensi dello straordinario continuativo,  la gratifica natalizia e 13 mensilità nonché i differenziali di retribuzione fra qualifica inferiore rivestita e quella superiore spettante, non lo erano invece la rivendicazione in se e per se del diritto alla qualifica (considerato un diritto di status, soggetto a prescrizione decennale ex articolo 2946 del codice civile, pertanto decorrente in corso di rapporto), l’indennità sostitutiva delle ferie (avente natura risarcitoria, anch’essa soggetta a prescrizione decennale ex articolo 2946 del codice civile, parimenti  decorrente in corso di rapporto) e analoghe spettanze monetarie che, pur nascenti da vicende del rapporto di lavoro, hanno carattere risarcitorio e non retributivo in senso stretto.

Tuttavia la regola del differimento a fine rapporto dell’inizio della prescrizione per il lavoratore - enunciata in assenza della legislazione garantistica (di cui alle leggi n. 604/1996 e n. 300/1970, cosiddetto Statuto dei lavoratori) - subì successive correzioni ad opera della stessa Corte costituzionale, una volta che la sopravvenuta legislazione, protettiva del lavoratore ed al tempo stesso espulsiva e sanzionatoria del licenziamento arbitrario, stemperò il timore del recesso datoriale immotivato e ridusse il grado di minor resistenza del rapporto di lavoro privato rispetto a quello di pubblico impiego.

La Corte costituzionale - attraverso posteriori decisioni  (n. 143/1969; n. 86/1971 ed infine n. 174/1972) - si pose apertis verbis il quesito (positivamente risolto) se, per effetto delle introdotte innovazioni legislative (ripetesi: legge sulla “giusta causa e giustificato motivo” nei licenziamenti individuali e Statuto dei lavoratori) non fosse venuto meno anche il fondamento giuridico  su cui poggiava la parziale invalidazione delle disposizioni civilistiche sulla prescrizione, stabilita nella precitata sentenza n. 63 del 1966.

E pervenne così alla conclusione che  il principio del differimento, all’epoca dell’estinzione del rapporto, della decorrenza della prescrizione  non era affatto applicabile “tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”.

Sulla tematica la Corte costituzionale ebbe occasione di ritornare con una serie di sentenze del giugno 1979 [2] tramite le quali riconfermò sostanzialmente, anche se non perspicuamente, la rettifica  apportata nel 1972 all’orientamento dilatorio, per i rapporti di lavoro subordinato nei quali il lavoratore risulta adeguatamente tutelato, sostanzialmente e processualmente, contro il timore della ritorsione del licenziamento arbitrario.

L’orientamento della Corte costituzionale venne recepito dalla Cassazione la quale, nella Sentenza  n. 5494 del 20.6.1997, precisò che: “ai fini della decorrenza della prescrizione (in corso di rapporto, ndr) la configurabilità di un rapporto di lavoro assistito dalla garanzia della stabilità [ ...] va riconosciuta allorquando [...] il posto di lavoro - quale che sia la natura pubblica o privata del datore di lavoro - possa essere oggetto di una tutela reale, la quale consenta, cioè, non soltanto il risarcimento del danno di fronte all’illegittimo licenziamento, ma anche la reintegrazione del lavoratore, ai sensi dell’articolo 18, Legge 20 maggio 1970 n. 300, ovvero di altre disposizioni che comunque garantiscano la stabilità ... ”.

L’orientamento ricevette conferma dalle S.U. della Cassazione nella Sentenza n. 1268 del 12.4.1976, la quale asserì con tutta chiarezza che la decorrenza della prescrizione ordinaria (quinquennale, per i crediti retributivi del lavoratore) “non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende...dal grado di stabilità del rapporto stesso”, dovendosi “ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.

Affermò, al riguardo, la Cassazione che, agli effetti della dilazione del decorso della prescrizione a fine rapporto, tale situazione di stabilità, “per la generalità dei casi, coincide oggi con l’ambito di operatività della legge 20.5.1970 n. 300 (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall’articolo 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 sui licenziamenti individuali)”, potendo tuttavia “anche realizzarsi ogniqualvolta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che danno al prestatore d’opera una tutela di pari intensità”.

Il surriferito principio - in ordine ai criteri atti ad implicare l’immediato decorso della prescrizione - è da ritenersi pacificamente consolidato, attesa la nutrita serie di decisioni posteriori di segno conforme della Cassazione.

Conseguenza, ai fini pratici, di quanto sopra riportato è che - nella generalità dei settori - mentre per tutto il restante personale la prescrizione era (ed è) pienamente operativa in corso di rapporto (nelle medie e grandi aziende, in organico nelle unità produttive occupanti più di 15 dipendenti), gli unici beneficiari del differimento del decorso della prescrizione a fine rapporto  risultavano essere - prima dell’emanazione del cosiddetto Jobs act - i “dirigenti” Per i lavoratori rivestenti tale qualifica, infatti, la  risoluzione ad iniziativa discrezionale aziendale - quantunque condizionata  pattiziamente (cioè contrattualmente) a “giusta causa o a giustificato motivo” - non è accompagnata, in caso di ingiustificatezza, dalla tutela della reintegrazione nel rapporto ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori  (norma che assicura la cd. stabilità reale del rapporto), ma eventualmente solo  a penali a contenuto risarcitorio di natura retributiva (cosiddetta indennità supplementare per i dirigenti d’industria), soggette ad imposizione Irpef, secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione[3].

Solo nelle piccole imprese al di sotto dei 16 dipendenti - ove per tutti i dipendenti vige la sola stabilità “obbligatoria”, da intendersi quale libertà di licenziamento con monetizzazione - vale per tutti i prestatori d’opera la regola dell’operatività della prescrizione a rapporto di lavoro estinto, come evidenziato in precedenza per i dirigenti.

3. Depotenziamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e riflessi sulla prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore 

Preso atto, pertanto, che per effetto del consolidato, autorevole, orientamento giurisprudenziale, il decorso della prescrizione in corso di rapporto dei crediti retributivi del lavoratore (per essi intendendosi quanto riconducile al cosiddetto salario familiare ex articolo 36 della Costituzione), è stato ancorato al presupposto/requisito della stabilità reale del rapporto di lavoro (rinvenibile nel rimedio reintegratorio nel posto di lavoro a fronte del riscontro giudiziale di ingiustificatezza del licenziamento, insufficiente risultando il risarcimento monetario tipico della cosiddetta stabilità obbligatoria), è sorto il seguente interrogativo (invero sin dall’emanazione della cosiddetta “legge Fornero” del 2012  che ha iniziato l’operazione di ridimensionamento del campo di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori): se la marginalizzazione legislativa della reintegra (presupposto della stabilità reale) a vantaggio dell’ampliamento della cosiddetta stabilità obbligatoria (caratterizzata dalla monetizzazione del licenziamento) non abbia implicato la reviviscenza dell’originario orientamento (senza correttivi) in tema di prescrizione affermato dalla Sentenza n. 63/1966 della Corte costituzione. Cioè a dire, se  non abbia comportato la conseguenza automatica della sospensione della prescrizione in corso di rapporto con conseguente possibilità  di differimento a fine rapporto delle rivendicazioni dei lavoratori per i loro crediti retributivi maturati e non onorati dall’impresa.

A questo interrogativo va data, a nostro avviso risposta positiva - ma resta prudenzialmente da attendere una risposta confermativa dalle future decisioni della magistratura - per i crediti retributivi maturati e  maturabili dai nuovi assunti con il “contratto a tutele crescenti” dopo  il 7 marzo 2015, data di  entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 23/2015, attuativo del cosiddetto Jobs act, che ha  trasformato la reintegrazione nel posto di lavoro, quale rimedio a fronte di un licenziamento ingiustificato,  da regola ad eccezione.

Stante, poi, il fatto che per i lavoratori di vecchia assunzione occupati in aziende o unità produttive dimensionate con più di 15 dipendenti, il Jobs act  non ha pregiudicato (com’era nelle aspettative di molti) le tutele preesistenti (articolo 18 Statuto dei lavoratori) in ordine al regime rescissorio del rapporto di lavoro, per la rivendicazione  dei crediti retributivi di quest’ultimi  resta operativa la prescrizione in corso di rapporto, in applicazione dell’articolo 2935 del codice civile.

A sostegno del convincimento sopra espresso che debba ricorrere, invece, l’operatività della sospensione (in corso di rapporto) della prescrizione dei crediti retributivi per i neo assunti con contratto a cosiddetto “tutele crescenti”, milita l’oggettiva constatazione che la risoluzione del loro rapporto è caratterizzata - in misura assolutamente prevalente - dalla tutela obbligatoria (monetizzazione economica), risultando  le ipotesi di tutela reale (con applicazione della reintegra per decisione della magistratura) del tutto residuali. Infatti tali ipotesi sono  circoscritte al licenziamento discriminatorio (ai sensi dell’articolo 15, l. n. 300 e  successive modificazioni ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge[4]), a quello nullo (intimato in forma orale) e a quello di natura disciplinare, per il quale esclusivamente venga in giudizio provata (con onere talora difficoltoso per il lavoratore incolpato) l’assoluta inesistenza del fatto materiale posto a base della sanzione espulsiva (articolo 3, 2 comma, Decreto legislativo n. 23/2015).

In contrapposizione, l’ambito di applicazione della tutela obbligatoria (con monetizzazione) è amplissimo, estendendosi alle fattispecie:

a) dei licenziamenti cd. economici ingiustificati (per giustificato motivo oggettivo),  asseritamente ascritti a ristrutturazioni, riorganizzazioni aziendali e simili, reali o simulate, che se anche riscontrate fittizie (in toto o in parte) implicano per il lavoratore licenziato la sola corresponsione - su decisione giudiziale - di un indennizzo pari all’importo di 2 mensilità per ogni anno di servizio con un minimo di 4 ed un massimo di 24 (articolo 3, 1 comma, del Decreto legislativo n. 23/2015);

b) dei licenziamenti disciplinari (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) viziati da carente proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla modestia della trasgressione o inadempienza, in palese violazione dell’articolo 2106 del codice civile che ne postula il rispetto; licenziamento che la nuova normativa legittima sulla base del solo riscontro di sussistenza del “fatto materiale” contestato al licenziato (o sulla mancata dimostrazione in giudizio di una prova contraria da parte di quest’ultimo), a prescindere dalla gravità o tenuità o assoluta irrilevanza pregiudizievole, in termini di danno, dell’inadempienza, che, nel precedente assetto normativo avrebbe comportato da parte del giudice, se non l’annullamento, perlomeno la conversione della sanzione espulsiva in sanzione conservativa (multa o sospensione);

c) dei licenziamenti affetti da quelli che la rubrica dell’articolo 4 del Decreto Legislativo n. 23/2015 qualifica “vizi formali o procedurali”, consistenti nella  mancata osservanza della motivazione di cui all’articolo 2, 2 comma, della Legge n. 604/’66 e della procedura di cui all’articolo 7 della Legge n. 300/’70, al riscontro dei quali il giudice dichiara comunque la risoluzione del rapporto del licenziato, liquidando al lavoratore un indennizzo pari a una mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 ed un massimo di 12.

Conclusivamente va rilevato come alla scelta legislativa di non estendere ai neo assunti (dopo l’entrata in vigore del primo decreto attuativo del Jobs act, n. 23/2015) la tutela reale assistita dal rimedio della reintegra ex articolo 18 Statuto dei lavoratori al riscontro di un licenziamento ingiustificato, si sia accompagnata per essi la riemersione dell’originaria preoccupazione che la rivendicazione dei propri crediti retributivi in corso di rapporto possa essere inibita dal timore di pregiudizi ritorsivi datoriali non sanabili, in caso di licenziamento, dal rimedio sanzionatorio della reintegrazione, esclusivamente risultando la perdita del posto di lavoro indennizzabile monetariamente, peraltro in misura oltremodo modesta.

L’aver riservato ai nuovi assunti con cosiddetto “contratto a tutele crescenti” la deteriore tutela obbligatoria in luogo della pregnante tutela reale (mantenuta per i già occupati anteriormente all’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 23/2015) ha, pertanto, comportato - a nostro avviso - l’instaurarsi di due diversi regimi di prescrizione per i crediti retributivi del personale di una medesima azienda dimensionata al disopra dei 15 dipendenti: prescrizione operativa in corso di rapporto per i vecchi occupati, differita alla cessazione del rapporto (ed entro il quinquennio successivo) per i neo assunti, con equiparazione pertanto al regime di prescrizione differita per dirigenti esposti al recesso ad nutum nonché a quello per i dipendenti da aziende dimensionate al disotto dei 15 occupati.

Il differimento della  prescrizione per questi neoassunti destinatari di un contratto assistito da tutele deteriori rispetto ai già occupati  è stato qualificato, da taluno, come “inaspettato beneficio di poter rivendicare i propri crediti retributivi insoddisfatti a distanza di decine di anni, fino a 5 anni dopo la cessazione del rapporto di lavoro”; più ragionevolmente sarebbe da considerare come modestissima “sopravvenienza attiva” discesa in automatico da una soluzione legislativa caratterizzata, comparativamente, da incisivi svantaggi.

 

[1] Cfr. Corte cost. n. 39/1969, in Foro it. 1969,I, 1058;Corte cost. n. 10/1970, ivi 1970, I, 711; Corte cost. n. 115/1975, in Mass. giur. lav. 1975, 286.

[2] Nn. da 40 a 45 in Giur. cost. 1979, 338 con annotazione di G.  PERA.

[3]In tal senso, da ultimo, Cass., sez. trib., n. 3632 del 20 febbraio 2006, decisione che  ha respinto la richiesta di configurazione dell’indennità supplementare corrisposta al dirigente illegittimamente licenziato quale “indennità risarcitoria di prestigio leso e di chances professionali”, considerandola correttamente risarcitoria di redditi futuri perduti e cioè di “danno da lucro cessante” e non “di danno emergente”. In precedenza nello stesso senso, Cass. n. 18369 del 16.9.2005, Cass. n. 3582/2003 e precedenti.

[4] La fattispecie del licenziamento discriminatorio è disciplinata dall’art. 15 della l. n. 300/1970 e dall’art. art. 3 della l. n. 108/1990 (in precedenza art. 4, l. n. 604/1966);  disposizioni che, arricchitesi nel corso degli anni con interventi della normativa antidiscriminatoria di derivazione comunitaria, hanno sancito il principio per cui  è nullo il licenziamento dettato da ragioni di ordine sindacale, politico, religioso, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. Parimenti nullo è quello comminato in concomitanza di matrimonio (nel periodo intercorrente dal giorno delle pubblicazioni, in quanto segua il matrimonio a un anno dopo), istituto disciplinato dall’art. 35 del d.lgs. 198/2006. Analogamente, ai sensi dell’art. 54 d. lgs. n. 151/2001, è vietato e nullo il licenziamento in concomitanza di gravidanza della lavoratrice (dal momento del concepimento all’anno di vita del bambino),

Discriminatorio o assimilabile ad esso è il cd. licenziamento ritorsivo o per rappresaglia avverso l’esercizio di un diritto, di una prerogativa o di un dovere da parte del lavoratore (ad esempio un’azione stragiudiziale o giudiziale, una testimonianza resa in tribunale, ecc.) o quale reazione datoriale ad  una qualsiasi attività del lavoratore diretta ad ottenere il rispetto di norme e principi (quali la parità di trattamento, la legalità, la sicurezza sul lavoro, ecc.).

Il licenziamento ritorsivo e azioni similari sono assimilati alle discriminazioni sia giurisprudenzialmente sia espressamente nell’ambito del d. lgs. n. 198/2006, art. 26 comma 3°, che sancisce: “sono considerate altresì discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne”.

1. Prescrizione per i crediti retributivi: decorrenza in corso di rapporto (solo per quelli dotati di stabilità reale)

La carenza di una peculiare regolamentazione della prescrizione, nell’ambito del sistema normativo disciplinante la materia del lavoro, impone all’interprete di individuare preliminarmente il regime (o i regimi) di prescrizione applicabile ai vari diritti nascenti dal rapporto di lavoro subordinato nonché di verificare se tale regime abbia subito, nel corso del tempo, mutamenti sostanziali in conseguenza di modifiche normative introdotte dal legislatore incidenti sulla stabilità del rapporto di lavoro, quale il progressivo depotenziamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, iniziato con la cosiddetta “legge Fornero” del 2012 e portato pressoché a compimento con il primo decreto attuativo del cosiddetto Jobs act, n. 23 del 2015.

Secondo l’opinione ormai nettamente dominante tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore di lavoro con periodicità annuale o infra annuale - ed, in particolare, i crediti di retribuzione - si prescrive nel termine di cinque anni, secondo il disposto dell’articolo 2948, n. 4, del codice civile.  Allo stesso termine quinquennale di prescrizione sono sottoposte, in virtù dell’articolo 2948, n. 5, del codice civile, le competenze spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro (il trattamento di fine rapporto, l’indennità di mancato preavviso e l’indennità per causa di morte).

La prescrizione ordinaria decennale, di cui all’articolo 2946 del codice civile, assume invece nella materia del lavoro una rilevanza applicativa secondaria, svolgendo un ruolo residuale invero assai limitato.

Il connotato caratterizzante i diritti del prestatore, riconducibili nella previsione dell’articolo 2948, n. 4, del codice civile, non è tanto la natura retributiva, quanto piuttosto la particolare modalità di soddisfazione del credito del lavoratore, nel senso che soltanto ove l’adempimento della prestazione da parte del datore si realizzi, per imposizione legale o contrattuale o più semplicemente per consuetudine, con continuità a scadenze periodiche, potrà trovare applicazione la prescrizione breve quinquennale. Viceversa opererà la prescrizione ordinaria decennale.

Ciò premesso risulta, purtroppo, ancora diffusa tra i lavoratori - mentre la questione è chiara pressoché solo per gli addetti ai lavori (magistrati, giuslavoristi, ecc.) - una radicata quanto errata convinzione, secondo cui i propri diritti, afferenti ai crediti retributivi, non si prescriverebbero per tutto il periodo di spiegamento del  rapporto di lavoro ma sarebbero, all’opposto, rivendicabili dopo la risoluzione del rapporto stesso.

Causa  di tale infondato convincimento può ritenersi una sommaria cognizione dei principi stabiliti - in epoca antecedente alla promulgazione delle leggi sui licenziamenti individuali e dello Statuto dei lavoratori - dalla Sentenza n. 63 del 10.6.1966 della Corte costituzionale, in tema di prescrizione dei crediti di lavoro di cui all’articolo 36 della Costituzione.

 2. Le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione

All’epoca la rivoluzionaria decisione stabilì che la regola, sancita dall’articolo 2935 del codice civile, della decorrenza della prescrizione “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (e cioè dal giorno in cui è sorto), non era operativa per i diritti retributivi sorgenti dall’articolo 36 della Costituzione - soggetti di norma a prescrizione estintiva quinquennale - in ragione della condizione di soggezione psicologica in cui versa il lavoratore, nel rapporto di lavoro subordinato privatistico. Soggezione concretizzantesi “nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti...” (così Corte costituzionale n. 63 del 1966). Espressamente la Corte Costituzionale disse: “in un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti; di modo che la rinuncia, quando è fatta durante quel rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità è sancita dall’art. 36 della Costituzione: lo stesso articolo 2113 del Codice civile, che la giurisprudenza ha già inquadrato nei principi costituzionali, ammette l’annullamento della rinuncia proprio se questa è intervenuta prima della cessazione del rapporto di lavoro o subito dopo. In sostanza si è voluto proteggere il contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto […]”.

Da queste considerazioni conseguì, pertanto, la dichiarazione di “illegittimità costituzionale degli articoli 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro” (in senso conforme Corte Costituzionale Sentenza n. 143/1969). Dalla dichiarazione di incostituzionalità discese, per via giurisprudenziale,  la regola del differimento, alla fine del rapporto di lavoro, del decorso della prescrizione per l’azione volta a rivendicare gli stretti titoli retributivi rientranti nell’ambito del “salario minimo familiare”(di cui si occupa appunto l’articolo 36 della Costituzione, in relazione al quale la Consulta dichiarò la parziale illegittimità delle disposizioni sulla prescrizione).

E, ad evitare interpretazioni ampliative della materia retributiva oggetto del differimento dell’azione della prescrizione per l’epoca dell’estinzione del rapporto, la Corte - in successive decisioni [1]- precisò, direttamente o indirettamente, che  mentre erano riconducibili all’ambito del salario assistito dalla garanzia di irrinunciabilità ex articolo 36 della Costituzione, i compensi dello straordinario continuativo,  la gratifica natalizia e 13 mensilità nonché i differenziali di retribuzione fra qualifica inferiore rivestita e quella superiore spettante, non lo erano invece la rivendicazione in se e per se del diritto alla qualifica (considerato un diritto di status, soggetto a prescrizione decennale ex articolo 2946 del codice civile, pertanto decorrente in corso di rapporto), l’indennità sostitutiva delle ferie (avente natura risarcitoria, anch’essa soggetta a prescrizione decennale ex articolo 2946 del codice civile, parimenti  decorrente in corso di rapporto) e analoghe spettanze monetarie che, pur nascenti da vicende del rapporto di lavoro, hanno carattere risarcitorio e non retributivo in senso stretto.

Tuttavia la regola del differimento a fine rapporto dell’inizio della prescrizione per il lavoratore - enunciata in assenza della legislazione garantistica (di cui alle leggi n. 604/1996 e n. 300/1970, cosiddetto Statuto dei lavoratori) - subì successive correzioni ad opera della stessa Corte costituzionale, una volta che la sopravvenuta legislazione, protettiva del lavoratore ed al tempo stesso espulsiva e sanzionatoria del licenziamento arbitrario, stemperò il timore del recesso datoriale immotivato e ridusse il grado di minor resistenza del rapporto di lavoro privato rispetto a quello di pubblico impiego.

La Corte costituzionale - attraverso posteriori decisioni  (n. 143/1969; n. 86/1971 ed infine n. 174/1972) - si pose apertis verbis il quesito (positivamente risolto) se, per effetto delle introdotte innovazioni legislative (ripetesi: legge sulla “giusta causa e giustificato motivo” nei licenziamenti individuali e Statuto dei lavoratori) non fosse venuto meno anche il fondamento giuridico  su cui poggiava la parziale invalidazione delle disposizioni civilistiche sulla prescrizione, stabilita nella precitata sentenza n. 63 del 1966.

E pervenne così alla conclusione che  il principio del differimento, all’epoca dell’estinzione del rapporto, della decorrenza della prescrizione  non era affatto applicabile “tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”.

Sulla tematica la Corte costituzionale ebbe occasione di ritornare con una serie di sentenze del giugno 1979 [2] tramite le quali riconfermò sostanzialmente, anche se non perspicuamente, la rettifica  apportata nel 1972 all’orientamento dilatorio, per i rapporti di lavoro subordinato nei quali il lavoratore risulta adeguatamente tutelato, sostanzialmente e processualmente, contro il timore della ritorsione del licenziamento arbitrario.

L’orientamento della Corte costituzionale venne recepito dalla Cassazione la quale, nella Sentenza  n. 5494 del 20.6.1997, precisò che: “ai fini della decorrenza della prescrizione (in corso di rapporto, ndr) la configurabilità di un rapporto di lavoro assistito dalla garanzia della stabilità [ ...] va riconosciuta allorquando [...] il posto di lavoro - quale che sia la natura pubblica o privata del datore di lavoro - possa essere oggetto di una tutela reale, la quale consenta, cioè, non soltanto il risarcimento del danno di fronte all’illegittimo licenziamento, ma anche la reintegrazione del lavoratore, ai sensi dell’articolo 18, Legge 20 maggio 1970 n. 300, ovvero di altre disposizioni che comunque garantiscano la stabilità ... ”.

L’orientamento ricevette conferma dalle S.U. della Cassazione nella Sentenza n. 1268 del 12.4.1976, la quale asserì con tutta chiarezza che la decorrenza della prescrizione ordinaria (quinquennale, per i crediti retributivi del lavoratore) “non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende...dal grado di stabilità del rapporto stesso”, dovendosi “ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.

Affermò, al riguardo, la Cassazione che, agli effetti della dilazione del decorso della prescrizione a fine rapporto, tale situazione di stabilità, “per la generalità dei casi, coincide oggi con l’ambito di operatività della legge 20.5.1970 n. 300 (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall’articolo 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 sui licenziamenti individuali)”, potendo tuttavia “anche realizzarsi ogniqualvolta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che danno al prestatore d’opera una tutela di pari intensità”.

Il surriferito principio - in ordine ai criteri atti ad implicare l’immediato decorso della prescrizione - è da ritenersi pacificamente consolidato, attesa la nutrita serie di decisioni posteriori di segno conforme della Cassazione.

Conseguenza, ai fini pratici, di quanto sopra riportato è che - nella generalità dei settori - mentre per tutto il restante personale la prescrizione era (ed è) pienamente operativa in corso di rapporto (nelle medie e grandi aziende, in organico nelle unità produttive occupanti più di 15 dipendenti), gli unici beneficiari del differimento del decorso della prescrizione a fine rapporto  risultavano essere - prima dell’emanazione del cosiddetto Jobs act - i “dirigenti” Per i lavoratori rivestenti tale qualifica, infatti, la  risoluzione ad iniziativa discrezionale aziendale - quantunque condizionata  pattiziamente (cioè contrattualmente) a “giusta causa o a giustificato motivo” - non è accompagnata, in caso di ingiustificatezza, dalla tutela della reintegrazione nel rapporto ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori  (norma che assicura la cd. stabilità reale del rapporto), ma eventualmente solo  a penali a contenuto risarcitorio di natura retributiva (cosiddetta indennità supplementare per i dirigenti d’industria), soggette ad imposizione Irpef, secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione[3].

Solo nelle piccole imprese al di sotto dei 16 dipendenti - ove per tutti i dipendenti vige la sola stabilità “obbligatoria”, da intendersi quale libertà di licenziamento con monetizzazione - vale per tutti i prestatori d’opera la regola dell’operatività della prescrizione a rapporto di lavoro estinto, come evidenziato in precedenza per i dirigenti.

3. Depotenziamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e riflessi sulla prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore 

Preso atto, pertanto, che per effetto del consolidato, autorevole, orientamento giurisprudenziale, il decorso della prescrizione in corso di rapporto dei crediti retributivi del lavoratore (per essi intendendosi quanto riconducile al cosiddetto salario familiare ex articolo 36 della Costituzione), è stato ancorato al presupposto/requisito della stabilità reale del rapporto di lavoro (rinvenibile nel rimedio reintegratorio nel posto di lavoro a fronte del riscontro giudiziale di ingiustificatezza del licenziamento, insufficiente risultando il risarcimento monetario tipico della cosiddetta stabilità obbligatoria), è sorto il seguente interrogativo (invero sin dall’emanazione della cosiddetta “legge Fornero” del 2012  che ha iniziato l’operazione di ridimensionamento del campo di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori): se la marginalizzazione legislativa della reintegra (presupposto della stabilità reale) a vantaggio dell’ampliamento della cosiddetta stabilità obbligatoria (caratterizzata dalla monetizzazione del licenziamento) non abbia implicato la reviviscenza dell’originario orientamento (senza correttivi) in tema di prescrizione affermato dalla Sentenza n. 63/1966 della Corte costituzione. Cioè a dire, se  non abbia comportato la conseguenza automatica della sospensione della prescrizione in corso di rapporto con conseguente possibilità  di differimento a fine rapporto delle rivendicazioni dei lavoratori per i loro crediti retributivi maturati e non onorati dall’impresa.

A questo interrogativo va data, a nostro avviso risposta positiva - ma resta prudenzialmente da attendere una risposta confermativa dalle future decisioni della magistratura - per i crediti retributivi maturati e  maturabili dai nuovi assunti con il “contratto a tutele crescenti” dopo  il 7 marzo 2015, data di  entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 23/2015, attuativo del cosiddetto Jobs act, che ha  trasformato la reintegrazione nel posto di lavoro, quale rimedio a fronte di un licenziamento ingiustificato,  da regola ad eccezione.

Stante, poi, il fatto che per i lavoratori di vecchia assunzione occupati in aziende o unità produttive dimensionate con più di 15 dipendenti, il Jobs act  non ha pregiudicato (com’era nelle aspettative di molti) le tutele preesistenti (articolo 18 Statuto dei lavoratori) in ordine al regime rescissorio del rapporto di lavoro, per la rivendicazione  dei crediti retributivi di quest’ultimi  resta operativa la prescrizione in corso di rapporto, in applicazione dell’articolo 2935 del codice civile.

A sostegno del convincimento sopra espresso che debba ricorrere, invece, l’operatività della sospensione (in corso di rapporto) della prescrizione dei crediti retributivi per i neo assunti con contratto a cosiddetto “tutele crescenti”, milita l’oggettiva constatazione che la risoluzione del loro rapporto è caratterizzata - in misura assolutamente prevalente - dalla tutela obbligatoria (monetizzazione economica), risultando  le ipotesi di tutela reale (con applicazione della reintegra per decisione della magistratura) del tutto residuali. Infatti tali ipotesi sono  circoscritte al licenziamento discriminatorio (ai sensi dell’articolo 15, l. n. 300 e  successive modificazioni ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge[4]), a quello nullo (intimato in forma orale) e a quello di natura disciplinare, per il quale esclusivamente venga in giudizio provata (con onere talora difficoltoso per il lavoratore incolpato) l’assoluta inesistenza del fatto materiale posto a base della sanzione espulsiva (articolo 3, 2 comma, Decreto legislativo n. 23/2015).

In contrapposizione, l’ambito di applicazione della tutela obbligatoria (con monetizzazione) è amplissimo, estendendosi alle fattispecie:

a) dei licenziamenti cd. economici ingiustificati (per giustificato motivo oggettivo),  asseritamente ascritti a ristrutturazioni, riorganizzazioni aziendali e simili, reali o simulate, che se anche riscontrate fittizie (in toto o in parte) implicano per il lavoratore licenziato la sola corresponsione - su decisione giudiziale - di un indennizzo pari all’importo di 2 mensilità per ogni anno di servizio con un minimo di 4 ed un massimo di 24 (articolo 3, 1 comma, del Decreto legislativo n. 23/2015);

b) dei licenziamenti disciplinari (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) viziati da carente proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla modestia della trasgressione o inadempienza, in palese violazione dell’articolo 2106 del codice civile che ne postula il rispetto; licenziamento che la nuova normativa legittima sulla base del solo riscontro di sussistenza del “fatto materiale” contestato al licenziato (o sulla mancata dimostrazione in giudizio di una prova contraria da parte di quest’ultimo), a prescindere dalla gravità o tenuità o assoluta irrilevanza pregiudizievole, in termini di danno, dell’inadempienza, che, nel precedente assetto normativo avrebbe comportato da parte del giudice, se non l’annullamento, perlomeno la conversione della sanzione espulsiva in sanzione conservativa (multa o sospensione);

c) dei licenziamenti affetti da quelli che la rubrica dell’articolo 4 del Decreto Legislativo n. 23/2015 qualifica “vizi formali o procedurali”, consistenti nella  mancata osservanza della motivazione di cui all’articolo 2, 2 comma, della Legge n. 604/’66 e della procedura di cui all’articolo 7 della Legge n. 300/’70, al riscontro dei quali il giudice dichiara comunque la risoluzione del rapporto del licenziato, liquidando al lavoratore un indennizzo pari a una mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 ed un massimo di 12.

Conclusivamente va rilevato come alla scelta legislativa di non estendere ai neo assunti (dopo l’entrata in vigore del primo decreto attuativo del Jobs act, n. 23/2015) la tutela reale assistita dal rimedio della reintegra ex articolo 18 Statuto dei lavoratori al riscontro di un licenziamento ingiustificato, si sia accompagnata per essi la riemersione dell’originaria preoccupazione che la rivendicazione dei propri crediti retributivi in corso di rapporto possa essere inibita dal timore di pregiudizi ritorsivi datoriali non sanabili, in caso di licenziamento, dal rimedio sanzionatorio della reintegrazione, esclusivamente risultando la perdita del posto di lavoro indennizzabile monetariamente, peraltro in misura oltremodo modesta.

L’aver riservato ai nuovi assunti con cosiddetto “contratto a tutele crescenti” la deteriore tutela obbligatoria in luogo della pregnante tutela reale (mantenuta per i già occupati anteriormente all’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 23/2015) ha, pertanto, comportato - a nostro avviso - l’instaurarsi di due diversi regimi di prescrizione per i crediti retributivi del personale di una medesima azienda dimensionata al disopra dei 15 dipendenti: prescrizione operativa in corso di rapporto per i vecchi occupati, differita alla cessazione del rapporto (ed entro il quinquennio successivo) per i neo assunti, con equiparazione pertanto al regime di prescrizione differita per dirigenti esposti al recesso ad nutum nonché a quello per i dipendenti da aziende dimensionate al disotto dei 15 occupati.

Il differimento della  prescrizione per questi neoassunti destinatari di un contratto assistito da tutele deteriori rispetto ai già occupati  è stato qualificato, da taluno, come “inaspettato beneficio di poter rivendicare i propri crediti retributivi insoddisfatti a distanza di decine di anni, fino a 5 anni dopo la cessazione del rapporto di lavoro”; più ragionevolmente sarebbe da considerare come modestissima “sopravvenienza attiva” discesa in automatico da una soluzione legislativa caratterizzata, comparativamente, da incisivi svantaggi.

 

[1] Cfr. Corte cost. n. 39/1969, in Foro it. 1969,I, 1058;Corte cost. n. 10/1970, ivi 1970, I, 711; Corte cost. n. 115/1975, in Mass. giur. lav. 1975, 286.

[2] Nn. da 40 a 45 in Giur. cost. 1979, 338 con annotazione di G.  PERA.

[3]In tal senso, da ultimo, Cass., sez. trib., n. 3632 del 20 febbraio 2006, decisione che  ha respinto la richiesta di configurazione dell’indennità supplementare corrisposta al dirigente illegittimamente licenziato quale “indennità risarcitoria di prestigio leso e di chances professionali”, considerandola correttamente risarcitoria di redditi futuri perduti e cioè di “danno da lucro cessante” e non “di danno emergente”. In precedenza nello stesso senso, Cass. n. 18369 del 16.9.2005, Cass. n. 3582/2003 e precedenti.

[4] La fattispecie del licenziamento discriminatorio è disciplinata dall’art. 15 della l. n. 300/1970 e dall’art. art. 3 della l. n. 108/1990 (in precedenza art. 4, l. n. 604/1966);  disposizioni che, arricchitesi nel corso degli anni con interventi della normativa antidiscriminatoria di derivazione comunitaria, hanno sancito il principio per cui  è nullo il licenziamento dettato da ragioni di ordine sindacale, politico, religioso, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. Parimenti nullo è quello comminato in concomitanza di matrimonio (nel periodo intercorrente dal giorno delle pubblicazioni, in quanto segua il matrimonio a un anno dopo), istituto disciplinato dall’art. 35 del d.lgs. 198/2006. Analogamente, ai sensi dell’art. 54 d. lgs. n. 151/2001, è vietato e nullo il licenziamento in concomitanza di gravidanza della lavoratrice (dal momento del concepimento all’anno di vita del bambino),

Discriminatorio o assimilabile ad esso è il cd. licenziamento ritorsivo o per rappresaglia avverso l’esercizio di un diritto, di una prerogativa o di un dovere da parte del lavoratore (ad esempio un’azione stragiudiziale o giudiziale, una testimonianza resa in tribunale, ecc.) o quale reazione datoriale ad  una qualsiasi attività del lavoratore diretta ad ottenere il rispetto di norme e principi (quali la parità di trattamento, la legalità, la sicurezza sul lavoro, ecc.).

Il licenziamento ritorsivo e azioni similari sono assimilati alle discriminazioni sia giurisprudenzialmente sia espressamente nell’ambito del d. lgs. n. 198/2006, art. 26 comma 3°, che sancisce: “sono considerate altresì discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne”.