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Alcune osservazioni sul Regolamento Europeo n. 536/2014 sui Clinical Trials

Alcune osservazioni sul Regolamento Europeo n. 536/2014 sui Clinical Trials
Alcune osservazioni sul Regolamento Europeo n. 536/2014 sui Clinical Trials

Il nuovo Regolamento Europeo sulle sperimentazioni cliniche di medicinali ad uso umano, si inserisce all’interno di un contesto normativo europeo nel quale la Commissione Europea ha voluto dare un forte impulso alla ricerca scientifica ed al progresso industriale. Ci sono molte novità, prima fra tutte la centralizzazione della procedura di autorizzazione alla sperimentazione clinica e la gestione amministrativa attraverso il Portale UE. Inoltre, vi è la spinta verso una semplificazione delle procedure e delle operazioni burocratiche, nonchè un nuovo e più preciso approccio al rischio nelle sperimentazioni cliniche. In questo contesto non mancano le difficoltà, da un lato a livello di implementazione locale/nazionale, dall’altro sulla regolamentazione delle valutazioni etiche (Comitati Etici). Su questi aspetti si svilupperà il successo o l’insuccesso di una regolamentazione che esige dagli Stati membri un forte senso di responsabilità.

Il contesto di riferimento ed il ruolo del Regolamento europeo

Nel settore farmaceutico il percorso della ricerca scientifica, dell’innovazione tecnologia e lo scambio culturale scientifico passano attravero la ricerca clinica. In questo percorso l’Italia ha svolto un ruolo non trascurabile, che nel passato si è concretizzato col concorso di numerosi fattori quali, la presenza di eccellenze tra gli istituti di ricerca, gli investimenti delle imprese farmaceutiche e la peculiare caratteristica del Servizio Sanitario Nazionale che garantisce la tutela della salute gratuita a tutti i cittadini.

L’ultimo rapporto nazionale sulla sperimentazione clinica dei medicinali in Italia, pubblicato dall’Agenzia Italiana del Farmaco nel 2014, mette in evidenza molti dati interessanti, tra i quali la ripresa della sperimentazione clinica finanziata dall’industria farmaceutica a partire dal 2009, dopo un periodo di stasi, o addirittura di decrescita per alcuni studi clinici[1].

Parallelamente appare in sensibile decrescita la sperimentazione clinica condotta da enti no profit, ma questo è un fenomeno complesso e multifattoriale italiano, che non troverebbe corrispondenze nel contesto europeo.

Gli ultimi tre anni, a partire dal 2013, sono stati caratterizzati da un notevole fermento anche sotto il profilo legislativo e regolamentare, sia a livello europeo sia a livello italiano.

A livello italiano la Legge n. 189 del 2012 ha trasferito all’Agenzia Italiana del Farmaco le competenze in materia di sperimentazione clinica precedentemente attribuite all’Istituto Superiore della Sanità, disponendo inoltre la riorganizzazione della rete dei Comitati Etici, secondo criteri e principi stabiliti.

La riforma della rete dei Comitati Etici italiani muoveva dall’intento di semplificare le procedure di richiesta e valutazione etica, nochè dall’esigenza di meglio chiarire i ruoli, gli ambiti di competenza e di funzionamento anche su base territoriale. I criteri in base ai quali veniva disposta la riforma dei Comitati Etici erano:

a) che a ciascun comitato etico fosse attribuita una competenza territoriale di una o più province, in modo da rispettare il parametro di un comitato per ogni milione di abitanti, fatta salva la possibilità di prevedere un ulteriore comitato etico, con competenza estesa a uno o più istituti di ricovero e cura a carattere scientifico;

b) che la scelta dei comitati da confermare tenesse conto del numero dei pareri unici per sperimentazione clinica di medicinali emessi nel corso dell'ultimo triennio;

c) che la competenza di ciascun comitato potesse riguardare, oltre alle sperimentazioni cliniche dei medicinali, ogni altra questione sull'uso dei medicinali e dei dispositivi medici, sull'impiego di procedure chirurgiche e cliniche o relativa allo studio di prodotti alimentari sull'uomo generalmente rimessa, per prassi internazionale, alle valutazioni dei comitati;

d) assicurare l'indipendenza di ciascun comitato e l'assenza di rapporti gerarchici tra diversi comitati.

A livello europeo, l’anno 2013 è stato caratterizzato dalla conclusione delle attività, svolte dagli Stati membri, per arrivare alla definizione del Regolamento n. 536/2014 che riscrive l’impostazione normativa degli studi clinici in Europa, con il tentativo di rispondere alle esigenze di semplificazione ed armonizzazione che già da qualche anno venivano segnalate da quasi tutti gli stakeholders (industria, ricercatori pubblici e privati, associazioni ed enti di ricerca scientifica, università, pazienti e strutture pubbliche di assistenza sanitaria).

Una iniziativa che segna un vero cambiamento di direzione a partire dallo strumento normativo adottato per veicolare le nuove norme, ossia il passaggio dalla Direttiva al Regolamento.

Il Regolamento è un atto legislativo vincolante che deve essere applicato in tutti i suoi elementi nell’intera Unione Europea, la Direttiva è un atto legislativo che stabilisce un obiettivo che tutti i paesi dell’Unione Europea devono realizzare, ciascun paese però può decidere come procedere.

Il Regolamento ha la caratteristica di essere “self executing” in quanto non necessita di alcun atto di recepimento e di attuazione a livello nazionale, che sarebbe peraltro superfluo e anzi incompatibile.

Ciò in quanto la trasposizione di un Regolamento in un atto di diritto interno finirebbe per oscurare il ruolo e la natura di diritto dell'Unione Europea, con effetti pratici processuali non indifferenti, come la possibilità di proporre rinvio pregiudiziale, anche nel contesto di una azione giurisdizionale dinanzi all’autorità nazionale.

Tuttavia, oltre all’effetto vincolante dello strumento normativo rappresentato dal Regolamento, su cui si tornerà più avanti nel presente articolo, occorre tener presente che, nel contesto del diritto dell’Unione, la procedura legislativa ordinaria è fortemenete caratterizzata dalla partecipazione attiva dei rappresentanti degli Stati membri, che pertanto hanno, in diversi momenti della procedura, la possibilità di contribuire con proposte e osservazioni sul testo proposto inizialmente. Una attività che, verosimilmente, si svolge anche per evitare che a livello dell’Unione si formino disposizioni normative nettamente in contrasto col diritto nazionale.

Il Regolamento, la cui proposta era stata presentata il 17 luglio 2012, trova la sua base giuridica negli articoli 114 e 164, paragrafo 4, del Trattato dell’Unione Europea laddove si afferma che a) diritti, la sicurezza, la dignità ed il benessere dei soggetti sono tutelati e prevalgono su tutti gli altri interessi e che b) la sperimentazione clinica deve essere progettata per generare dati affidabili e robusti.

Si tratta di principi ispiratori di rango paritetico per cui, nessuno può essere subordinato all’altro, e le norme esecutive devono necessariamente contemperare le diverse esigenze riferibili a tali principi.

Sotto il profilo strettamente politico invece, la proposta presentata nel 2012 conteneva delle affermazioni utili a comprendere gli obiettivi del legislatore europeo. In particolare il fatto che, se da un lato la precedente Direttiva aveva portato numerosi passi avanti nella sicurezza e nella validità etica delle sperimentazioni condotte in Europa, dall’altra essa era diventata “probabilmente l’atto legislativo dell’UE più aspramente criticato nel settore dei prodotti farmaceutici”. Le critiche, a detta della Commissione, provvenivano principalmente dai pazienti e dal settore della ricerca scientifica e si basavano sui dati di fatto disponibili, ossia dalla diminuzione del numero delle domande di autorizzazione, alle sperimentazioni cliniche, all’aumento dei costi di conduzione delle sperimentazioni, all’aumento dei costi del personale deputato alla ricera clinica all’interno dell’industria farmaceutica di ricerca, ma soprattutto alla crescita smisurata delle incombenze amministrative e burocratiche, nonché all’allungamento dei tempi di attesa per ottenere pareri ed autorizzazioni, sopratutto a livello locale.

In questo contesto si inserisce, e probabilmente andrebbe anche interpretato, il Regolamento in questione, a partire dalla sua struttura normativa per finire alle singole disposizioni su specifiche tematiche.

La procedura ed il ruolo della valutazione etica

Ad un primissimo esame dell’impostazione generale, il primo aspetto che emerge è il forte parallelismo tra la procedura di richiesta di autorizzazione alla sperimentazione clinica con la procedura centralizzata di autorizzazione all’immisione in commercio di un medicinale, descritta quest’ultima nella Direttiva 2001/83/EU.

Si tratta di un aspetto che rileva sotto due diversi punti di vista: il primo relativo al fatto che la procedura di autorizzazione alla sperimentazione clinica viene centralizzata sull’Agenzia Regolatoria europea, il secondo è che l’esperienza procedurale, molto positiva, maturata dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) in questi anni rappresenta un modello amministrativo senz’altro esportabile in altri settori affini a quella delle attività di registrazione di una specialità medicinale. Perlatro, trattandosi di dover modificare fortemente il regime di autorizzazione e quindi il ruolo di competenze degli Stati membri, fino ad oggi seguito, appariva naturale seguire un approcio al quale i singoli Stati membri erano già in qualche modo abituati.

In questo senso il Regolamento sancise il passaggio dal coordinamento, che ha caratterizzato il ruolo dell’Autorità Regolatoria europea ed i singoli Stati membri, all’armonizzazione, che di fatto dovrebbe chiamare i singoli Stati ad una maggiore responsabilizzazione, nella prospettiva di un puzzle di ruoli e responsabilità, destinato a comporsi nel momento in cui ogni Stato membro matura la piena consapevolezza del suo ruolo all’interno della complessa procedura autorizzativa.

Ebbene, con riferimento all’impatto nazionale italiano, uno dei primi aspetti che emerge è proprio l’assenza pressochè totale del ruolo e della regolamentazione dei Comitati Etici.

In realtà non ci troviamo dinanzi ad una totale disattenzione ai temi etici della sperimentazione clinica, anzi il Regolamento insiste notevolmente su questi aspetti, tanto è vero che già a partire dai primi articoli afferma con chiarezza che ogni sperimentazione clinica è soggetta ad una revisione scientifica ed etica. La revisione etica è svolta da un Comitato Etico, istituito e funzionante conformemente al diritto dello Stato membro. Quindi, se da un lato il Regolamento sancisce la necessità della revisione etica, dall’altra stabilisce che si tratta di una funzione che non può che essere svolta a livello locale e conformente al diritto specifico dello Stato membro.

Quest’ultimo avrà anche il compito di allineare la tempistica e le procedure per la revisione del Comitato etico con la tempistica e le procedure per la valutazione della domanda di autorizzazione ad una sperimentazione clinica, così come identificate nel regolamento. Si tratta di un aspetto cruciale: su di esso si misurerà la capacità di ogni Stato membro di non legiferare verso una deriva fuori corrente rispetto ai principi generali dell’Unione.

In un contesto economico e scientifico più generale, questo significherà non perdere l’occasione per amplificare gli effetti pro-incentivanti alla ricerca scientifica alla presenza delle componenti industriali dell’innovazione nel territorio dei singoli Stati membri, tutti aspetti che, peraltro, il Regolamento sembra voler effettivamente affermare.

In altri termini, un Promotore avrà tanto più interesse ad avviare la richiesta di autorizzazione alla sperimentazione clinica in Italia, individuando quindi lo Stato italiano quale stato membro relatore, ai sensi dell’articolo 5 del Regolamento, quanto più avrà garanzia che gli enti italiani deputati a validare gli aspetti etici e scientifici dello studio clinico siano in grado di rispondere con tempestività e con l’alto livello e rigore scientifico rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea. Anche su questo tema si svilupperà, auspicabilmente, una normale concorrenza tra gli stati dell’Unione, che potrebbe portare a valorizzare le eccellenze della ricerca scientifica farmacologica tuttora presenti nel territorio italiano. Tutto ciò solo se ci sarà il coraggio di superare provincialismi e regionalismi burocratici che fino ad oggi hanno prodotto una sopranumerazione dei Comitati etici. L’italia infatti, dopo la riforma del 2013 (una riforma che tuttavia aveva il vincolo della individuazione dei comitati etici su base regionale), può vantare n. 91 comitati etici, ancora molti per poter ovviare alle complicazioni burocratiche derivanti dalla necessità di dover chiedere un parere a più comitati etici per una stessa sperimentazione clinica.

Certamente non bisogna cadere nell’errore di credere che i problemi delle sperimentazioni cliniche, nonché l’interesse che l’Italia possa catalizzare a livello europeo, siano solo ed esclusivamente connessi alla presenza numerosa dei Comitati Etici, tuttavia appare veramente sensato sostenere che l’attuale regolamentazione in Italia rischia di non essere compatibile con l’assetto procedurale e coi tempi assegnati dal regolamento.

Al momento della domanda il richiendente deve indicare lo Stato membro relatore il quale deve accettare entro i 3 giorni successivi, fermo restando che in questo brevissimo periodo può istaurarsi una dialettica interna tra Stati membri nel caso in cui lo Stato inidcato non accetti.

Lo Stato membro relatore ha il compito di valutare la domanda secondo una serie di criteri pedissequamente indicati all’articolo 6 del Regolamento.

Al termine della valutazione viene emessa una valutazione che affermerà se la conduzione della sperimentazione è accettabile, ovvero se è accettabile ma subordinata alla conformità a determinate condizioni (che dovranno, ovviamente, essere specificate), o se invece la conduzione della sperimentazione non è accettabile. Se la sperimentazione clinica interessa più di uno Stato membro la procedura di valutazione si compone di tre fasi, la prima viene condotta dallo Stato relatore, la seconda caratterizzata da un processo di revisione che vede il coinvolgimento di tutti gli stati membri interessati ed una terza fase di consolidamento condotta dallo Stato membro relatore. Queste fasi devono svolgersi, complessivamente, in non più di 45 giorni.

La sperimentazione clinica a basso livello di intervento

Uno degli aspetti importanti oggetto della valutazione della domanda di autorizzazione da parte dello stato membro relatore è rappresentato dai rischi e dagli inconvenienti per il soggetto, aspetti che devono essere valutati tenendo conto delle caratteristiche e delle conoscenze in merito al medicinale sperimentale, delle caratteristiche dell’intervento rispetto alla normale pratica clinica, delle misure di sicurezza, incluse le disposizioni per ridurre al minimo i rischi e il rischio per la salute del soggetto, legato alla condizione clinica per la quale il medicinale sperimentale è oggetto di sperimentazione.

Realmente potremmo affermare che, in una sperimentazione clinica, il rischio è principalmente rappresentato dal medicinale sperimentale e che, le variabili sulle quali sarebbe possibile misurare tale rischio sono diverse: a) i risultati delle prove precliniche o delle precedenti cliniche, b) la patologia che verrebbe curata e le condizioni cliniche dei pazienti elegibili, c) la durata del trattamento, d) le sperimentazioni ove il medicinale sperimentale è usato in associazione con altri medicinali.

Molte sperimentazioni cliniche comportano solo un minimo rischio aggiuntivo rispetto a quando il medicinale sperimentale è somministrato nelle indicazioni d’uso autorizzate o nei dosaggi già conosciuti, e questo ha indotto la Commissione a rivedere i requisiti valutativi di tali tipolgie di studi clinici, evitando che inutili complicazioni burocratiche finissero per rallentare e quindi scoraggiare la ricerca clinica.

In questa direzione il Regolamento perviene ad introdurre la fattispecie di “sperimentazione clinica a basso livello di intervento”, qualificandola come una sperimentazione che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) i medicinali sperimentali, ad esclusione dei placebo, sono autorizzati; b) in base al protocollo della sperimentazione clinica, i medicinali sperimentali sono utilizzati in conformità alle condizioni dell'autorizzazione all'immissione in commercio; c) o l'impiego di medicinali sperimentali è basato su elementi di evidenza scientifica e supportato da pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza e l'efficacia di tali medicinali sperimentali in uno qualsiasi degli Stati membri interessati; e d) le procedure diagnostiche o di monitoraggio aggiuntive pongono solo rischi o oneri aggiuntivi minimi.

Nel qualificare tali tipologie di sperimentazioni cliniche come “a basso livello di intervento” il legislatore ha voluto, con molta probabilità, adottare un criterio di valutazione che fosse principalmente focalizzato sull’intervento, anzichè sul rischio. In effetti già nella fase di consultazione la Commissione Ambiente e Sanità aveva presentato una proposta di emendamento, poi disattesa, con la quale chiedeva di modificare la definzione di “sperimentazione a basso livello di intervento” in “sperimentazione a basso rischio”, facendo esplicito riferimento ad un criterio di armonizzazione, richiamando la Convenzione di Oviedo, la quale all’articolo 17 affronta proprio l’argomento di un approccio graduale e proporzionato alla valutazione del rischio, con particolare attenzione alle condizioni della persona (paziente).

In realtà sembrerebbe che parlare di sperimentazione in funzione dell’intervento anzichè in funzione del rischio, significa concentrare la valutazione sul medicinale e sul protocollo di studio, evitando una eccessiva soggettivizzazione nella valutazione e individuando una maggiore responsabilità da parte del medico o dello sponsor fin dalla fase di arruolamento del soggetto. Tutto ciò senza che se ne comporti pregiudizio alcuno per il soggetto/paziente, il quale verrà valutato sempre in relazione al protocollo di studio, con una informazione adeguata e condivisa.

In questo senso sarebbe possibile sostenere che il “rischio” è valutato in funzione prevalente del soggetto, mentre l’ “intervento” è valutato in funzione prevalente del medicinale o del Protocollo. Si tratta di due componenti che coesistono e non possono prescindere l’una dall’altra, ma focalizzare l’attenzione sull’una anzichè sull’altra significa spostare la bilancia nel senso dell’assistenza medica oppure della ricerca scientifica. Tanto è vero che, se da un lato il “rischio” avrebbe comportato una maggiore soggettività nella valutazione, l’ “intervento” consente una maggiore obiettività nella valutazione del Protocollo, una maggiore responsabilità del medico o dello Sponsor nella fase di arruolamento.

Una delle condizione per le quali la sperimentazione clinica possa definirsi a basso livello di intervento è che l’impiego del medicinale in studio si basi su elementi di evidenza scientifica, tuttavia la questione che si pone è capire che cosa si intenda per “evidenza scientifica”.

In realtà introdurre un parametro così ampio significa lasciare poi ai singoli Stati membri la possibilità di decidere con un rilevante margine di discrezionalità. Tale parametro dell’ “evidenza scientifica”, in un contesto ove la dialettica e la partecipazione degli Stati membri è un elemento caratterizzante la procedura di valutazione, rischia di frammentare l’attività valutativa e creare sostanziali differenze. Inoltre l’assenza di specifici parametri di riferimento utili a stabilire, o confermare, quando sussista una condizione di “evidenza scientifica” rischia, da un lato di attribuire agli Stati membri un aggravio di lavoro, e dall’altro di creare delle situazioni di divergenti valutazioni, in un contesto di timeline assolutamente molto contenuta. L’articolo 5 del Regolamento stabilisce infatti che il Promotore dovrà indicare come Stato membro relatore uno degli Stati (o lo Stato) in cui l’impiego del medicinale è basato su evidenze. Successivamente, entro dieci giorni dalla presentazione del fascicolo di domanda, lo Stato membro relatore convalida la domanda tenendo conto delle osservazioni espresse dagli Stati membri interessati. Inoltre gli Stati membri interessati possono comunicare allo Stato membro relatore le eventuali osservazioni di rilievo per la convalida della domanda entro sette giorni dalla presentazione del relativo fascicolo.

Rimane pertanto il fatto che non è possibile dare una risposta esauriente, ma soprattutto univoca a livello internazionale, su quando l’uso di un medicinale è basato sulle “evidenze scientifiche”.

In Italia esiste un complesso di norme che regolamentano fattispecie di impiego del medicinale in condizioni non totalmente aderenti a quelle per le quali sono stati autorizzati, ossia la Legge n. 648/96 che disciplina l’uso speciale dei farmaci nella fattispecie di cui ai medicinali da impiegare per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, nonché il Decreto Ministeriale 8 maggio 2003 che disciplina l’uso compassionevole di un medicinale.

L’articolo 1, comma 4, della Legge n. 648/1996 afferma che “qualora non esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale, a partire dal 1° gennaio 1997, i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale, i medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare per un'indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del farmaco conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa”.

Si tratta di una specifica previsione che deroga in maniera sostanziale alla disposizione di cui all’articolo 6, comma 1, del Decreto Legislativo. n. 219/06 per il quale “nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione comunitaria”, ma che è stata recentemente ampliata dal comma 4 bis del medesimo articolo, introdotto dalla Legge n. 79/2014 (legge di conversione del Decreto Legge n. 36/2014), il quale afferma che “anche se sussista altra alternativa terapeutica nell'ambito dei medicinali autorizzati, previa valutazione dell'Agenzia italiana del farmaco (AIFA), sono inseriti nell'elenco di cui al comma 4, con conseguente erogazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i medicinali che possono essere utilizzati per un'indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, purché tale indicazione sia nota e conforme a ricerche condotte nell'ambito della comunità medico-scientifica nazionale e internazionale, secondo parametri di economicità e appropriatezza. In tal caso l'AIFA attiva idonei strumenti di monitoraggio a tutela della sicurezza dei pazienti e assume tempestivamente le necessarie determinazioni”.

Nelle fattispecie di cui alla Legge n. 648/96, appena menzionata, una specialità medicinale, previa valutazione da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco, può essere autorizzata all’uso in una indicazione non autorizzata, se vi sono elementi di evidenza scientifica tali da supportarne l’uso.

L’autorizzazione all’uso avviene al termine di un procedimento di consultazione interna all’Agenzia Italiana del Farmaco, svolto dalla Commissione Tecnico Scientifica, diretto a verificare ed a valutare la fondatezza scientifica dell’uso consolidato della specialità medicinale, intendosi per “uso consolidato” l’insieme di dati derivanti dall’impiego sistematico del farmaco fuori indicazione e riportati in articoli scientifici (cd. “letteratura”).

Si tratta tuttavia di fattispecie molto ristrette e ben definite, che si possono realizzare solo al termine di un’approfondita istruttoria scientifica, che derogano inoltre alla disciplina generale per la quale, l’attività curativa del medico attraverso il farmaco può reputarsi pienamente legittima soltanto qualora il medicinale sia prescritto secondo le indicazioni terapeutiche autorizzate dall’autorità regolatoria, ossia al termine di un processo autorizzativo meticoloso nel quale il richiendente deve provare la funzionalità del farmaco con studi clinici dimostrativi condotti secondo regole internazionali (studi clinici di I, II e III fase).

In ogni caso, affinche l’attività curativa e prescrittiva del medico, possa essere pienamente legittima nell’ipotesi di impiego di un farmaco al di fuori delle indicazioni autorizzate, devono quindi ricorrere due aspetti: il primo è rappresentato dalla diagnosi del medico della specifica patologia, il secondo dalla valutazione dell’AIFA che certifica l’assenza di una alternativa terapeutica già autorizzata per quella specifica patologia.

L’altra norma è rappresentata dal Decreto Ministeriale 8 maggio 2003, il quale è nato invece dall’esigenza di regolamentare in Italia il fenomeno dei cosiddetti Expanded Access, ossia protocolli di sperimenatazione clinica ad accesso allargato di derivazione internazionale, nei casi in cui per una determinata patologia non esiste una valida alternativa terapeutica.

Tale Decreto concede al medico la possibilità di chiedere, direttamente all’azienda produttrice, un farmaco per un uso al di fuori di una indicazione terapeutica al trattamento di patologie gravi, o di malattie rare, o di condizioni che pongono il paziente in pericolo di vita, qualora a) il medicinale sia già oggetto di studi sperimentali in corso o conclusi, di terza fase o nei casi in cui la malattia ponga il paziente in pericolo di vita, anche studi clinici di fase seconda, b) i dati disponibili sulle sperimentazioni siano sufficienti per formulare un favorevole giudizio sul’efficacia e la tollerabilità del medicinale richiesto.

Considerata la natura speciale ed in qualche modo anche derogatoria della “sperimentazione clinica a basso livello di intervento”, ci sarebbe da chiedersi se sia possibile individuare usi consolidati di un farmaco al di fuori delle fattispecie previste dalla legge. Una impostazione restrittiva e forse anche di natura prudenziale farebbe propendere per una risposta negativa, tuttavia le fattispecie introdotte e contemplate dalla Legge n. 648/96 potrebbero rappresentare una base sulla quale costruire il complesso di dati e di esperienze cliniche idonee a configurare l’uso consolidato previsto nel Regolamento, che consentirebbe di avviare una “sperimentazione clinica a basso livello di intervento”.

Un’altra fattispecie che è possibile intravedere all’interno del contesto normativo italiano, per la quale occorre fare qualche considerazione, è il Decreto Ministeriale 17 dicembre 2004, il decreto che ha introdotto e disciplinato in Italia i cosidetti studi clinici no-profit. Il Decreto in questione afferma che le disposizioni in esso contenute si applicano al miglioramento della pratica clinica, quale parte integrante dell'assistenza sanitaria, limitatamente alle sperimentazioni che utilizzano farmaci già autorizzati all'immissione in commercio, anche se utilizzati per diversa indicazione terapeutica, con diverso dosaggio o forma farmaceutica. In sostanza il decreto in questione prevede la possibilità di svolgere studi clinici, non finanziati da sponsor commerciali, su farmaci già autorizzati all’immissione in commercio ma per una diversa indicazione da quella approvata. Le risultanze di “evidenza scientifica” potrebbero emergere anche dalla conduzione di uno studio clinico no profit, tuttavia anche in questa caso lo Stato membro dovrebbe svolgere – al momento – della valutazione di una domanda una apposita istruttoria.

La valutazione del conflitto di interesse

L’articolo 9 del Regolamento affronta, in maniera tendenzialmente precisa ma senza disporre una regolamentazione dettagliata, la questione del conflitto di interesse tra le persone incaricate di convalidare e valutare la domanda. In defintiva il Regolamento afferma che è compito degli Stati membri garantire l’indipendenza dei soggetti, che convalidano e valutano la domanda, dal promotore, dal sito di sperimentazione clinica, dagli sperimentatori coinvolti, nonchè dai finanziatori della sperimentazione. L’indipendenza dovrà essere garantita attraverso l’elaborazione annuale, da parte dei soggetti, di una dichiarazione sui loro interessi finanziari e dalla quale non dovrà emergere, appunto, che abbiano interessi finanziari condivisi con i soggetti appena menzionati. Il Regolamento dispone altresì che non debba essere presente un conflitto personale potenzialmente in grado di inficiare l’imparzialità della valutazione della domanda di sperimentazione clinica. Tuttavia non dispone che la presenza di un eventuale interesse personale debba essere contenuto nella dichirazione annuale. Per cui, fermo restando l’indeterminatezza su cosa si debba o si possa intendere, legittimamente, come interesse personale, dal punto di vista – chiaramente – giuridico, apparirebbero altresi indeterminate le modalità con le quali tale interesse personale debba, o possa, in qualche modo emergere[2].

Probabilmente quanto appena rilevato dovrà essere implementato a livello di Stato membro ma, anche su questo aspetto, considerate le implicazioni sovranazionali che potrebbe avere una differente regolamentazione, sarebbe stato meglio che il Regolamento avesse conferito maggiori dettagli.

Il procedimento di valutazione, come prevede il Regolamento, prevede l’esame da parte di una Commissione composta da un numero ragionevole di persone con qualifiche ed esperienza necessaria al lavoro che deve essere svolto. In questa Commissione valutativa deve partecipare almeno un “non addetto ai lavori”, sebbene il Regolamento non individua quali caratteristiche e quali compiti debba avere questo soggetto.

A livello italiano, considerati peraltro i poteri ed il ruolo dell’Agenzia Italiana del Farmaco, potrebbe sicuramente rappresentare un punto di riferimento in tema di regolamentazione del conflitto di interesse il relativo Regolamento per la Disciplina del Conflitto di Interesse approvato in data 15 maggio 2015. Tale regolamentazione, seppur con i limiti derivanti dallo scopo di voler prendere in considerazione unicamente le eventuali interferenze con interessi ricollegabili all’industria farmaceutica, prevede una procedura adeguatamente dettagliata che si sviluppa sulla base di tre principi fondamentali: il principio di appartenenza, il principio di trasparenza, il principio di responsabilità.

Il principio di appartenenza consiste nel fatto che tutti coloro che hanno un rapporto di lavoro o di consulenza con l’AIFA si devono impegnare ad agire al fine di realizzare il bene comune e l’interesse generale della tutela del diritto alla salute; il principio di trasparenza consiste nel fatto che, tali soggetti legati all’AIFA, sono tenuti a comunicare annualmente qualsiasi situazione di vantaggio derivante da progetti o da azioni di competenza della stessa Agenzia; il principio di responsabilità consiste nel fatto che, tali soggetti legati ad AIFA, sono tenuti a rispondere della correttezza e dell’efficacia delle attività svolte.

Con particolare riferimento al principio di appartenenza, che rappresenta poi il principio che guida le valutazioni e le decisioni all’interno dell’Agenzia, sembrerebbe apparire non sufficiente una esclusiva focalizzazione sugli interessi derivanti, o riconducibili, al mondo dell’impresa farmaceutica, con ciò tralasciando altri e molteplici interessi non collegati al mondo profit dell’impresa. In via astratta non sarebbe possibile escludere che un interesse in conflitto, con quello portato avanti dall’Agenzia, potrebbe ben derivare dal settore delle associazioni scientifiche, o di quelle del volontariato o, addirittura, nascere e crescere all’interno della stessa pubblica amministrazione ed essere strumentalizzato per questioni di natura politica ed elettorale contingente.

La definizione di Promotore e la Co – Sponsorizzazione

Un’altro degli aspetti interessanti sui quali interviene il Regolamentoè la definizione di “sponsor” o “promotore”, nonchè la fattispecie della “cosponsorizzazione” che viene per la primissima volta regolamentata dal punto di vista legislativo.

Il Regolamento dichiara di voler mantenere lo stesso concetto di “sponsor” già contenuto nella precedente Direttiva 2001/20/CE e su questo possiamo, con certezza, affermare che la definizione di “promotore”, contenuta nel Regolamento e quella di “sponsor” contenuta nella Direttiva, sostanzialmente coincidono. Tuttavià v’è un dettaglio tra le due definizioni che farebbe pensare ad un cambiamento non poco rilevante. La Direttiva sopracitata definiva lo Sponsor come “la persona, società, istituzione oppure organismo che si assume la responsabilità di avviare, gestire e/o finanziare una sperimentazione clinica”, lasciando intendere che i requisiti per i quali un soggetto (persona fisica o persona giuridica) potesse assumere la qualità di Sponsor fossero proprio le circostanze che esso si dovesse trovare, alternativamente o contestualmente, a gestire o a finanziare una sperimentazione clinica. Il Regolamento contiene la seguente definizione di Promotore “la persona, società, istituzione oppure un organismo che si assume la responsabilità di avviare e gestire la sperimentazione clinica, curandone altresì il relativo finanziamento”, quindi la condizione per la quale un soggetto possa rivestire la qualità di Promotore (quindi “Sponsor”) è che non solo si sia assunto la responsabilità della gestione ma che provveda anche al relativo finanziamento. La messa a disposizione delle risorse economiche per lo svolgimento della attività diventa pertanto condizione determinante per il Promotore.

L’articolo 71 del Regolamento ammette che una sperimentazione clinica possa avere uno o più promotori e questa disposizione trova un razionale nel Considerando n. 59, laddove si fa espresso riferimento alle “reti aperte di ricercatori” o “istituti di ricerca” che conducono congiutamente una sperimentazione clinica e che, secondo il suggerimento del Regolamento, dovrebbero poter essere co – promotori di una sperimentazione clinica. La questione, tuttavia, che si pone ogni qualvolta si estendono le condizioni per le quali una medesima categoria di soggetti possa ricoprire un determinato status giuridicamente rilevante, è la misura delle responsabilità che, nel caso delle sperimentazioni cliniche, è peraltro molto complessa.

Una complessità derivante dal fatto che sono numerose le attività nelle quali un promotore può essere coinvolto. Su questo aspetto il legislatore si è preoccupato di evitare che la puntuale individuazione delle responsabilità potesse diluirsi e confondersi nella pluralità di soggetti, per cui ha introdotto un regime di responsabilità solidale per il quale “quando una sperimentazione clinica coinvolge più promotori essi dovrebbero essere tutti soggetti agli obblighi propri di un promotore a norma del presente regolamento”. A ciò aggiungendo che “tuttavia, i co-promotori dovrebbero poter ripartirsi le responsabilità del promotore sulla base di un accordo contrattuale”. A tal fine diventa fondamentale che le parti, che assumono il ruolo e lo status di promotore, regolamentino le attività e le responsabilità tra loro suddivise ma, nel contempo, non si comprende quanto o in che misura tale suddivisione possa avere una ripercussione anche nei confronti dell’autorità regolatoria, degli sperimentatori e dei soggetti che si sottopongono allo studio clinico.

Il contratto tra i co-sponsor diventa quindi l’elemento determinante e costitutivo per realizzare i rapporti tra gli sponsor. Nella redazione del contratto occorrerà focalizzare l’attenzione su quegli aspetti che maggiormente caratterizzano quella determinata colloborazione tra i vari sponsor, poichè non sarebbe possibile individuare una tipizzazione di ruoli, responsabilità ed attribuzioni unica e valida in qualsiasi situazione. Solo per citare un esempio: l’attribuzione dei diritti di proprietà intellettuale ed industriale sui risultati della sperimentazione clinica, che potrebbero trovare una diversa e poliedrica disciplina proprio in funzione delle caratteristiche di ciascuno degli sponsor (industriale o no-profit), ovvero in funzione della tipologia di sperimentazione (a seconda delle fasi, del prodotto in studio, dell’interesse specifico che può essere di pura ricerca scientifica o di natura industriale). Il contratto di co-sponsorizzazione dovrà contenere anche l’individuzione delle specifiche reponsabilità ed i ruoli, soprattutto con riferimento a quelli di interazione con l’autorità regolatoria. La prassi amministrativa dovrà poi individuare, qualora lo ritenga utile od opportuno ai fini di una maggior trasparenza di ruoli e responsabilità, la necessità che il contratto o una sintesi saliente di esso, venga inviata o depositata presso l’autorità regolatoria, nel rispetto tuttavia della confidenzialità e riservatezza dei rapporti tra privati che, in casi come quelli della ricerca scientifica e tecnologica, rappresentano una condizione necessaria e sufficiente affinchè i privati si sentano incentivati ad investire.

Vi sono altri aspetti sui quali il Regolamento interviene, ma quello che maggiormente risalta è la complessa procedura europea di autorizzazione, la tempistica molto serrata, e la collaborazione tra gli Stati membri.

L’auspicio è che ogni stakeholder svolga il suo ruolo e soprattutto che ciascuno Stato non ritardi l’implementazione della regolamentazione locale di dettaglio. Per quanto concerne l’Italia ci si aspetta che non vengano introdotte differenti regolamentazioni a livello di ciascuna Regione, ossia che non si verifichi il proliferare di Delibere regionali che, a vario titolo, restringano o aumentino il livello burocratico locale come, purtroppo, ancora accade in tema di accesso ai farmaci innovativi a livello regionale.

[1] Cfr. AIFA, 13° Rapporto nazionale sulla sperimentazione clinica dei medicinali in Italia 2014, del 29 dicembre 2014, disponibile sul sito internet istituzionale dell’Agenzia Italiana del Farmaco

[2] L’interesse personale potrebbe ben essere inteso come un interesse privato riferito alla propria persona, intendendosi per interesse privato un interesse non finalizzato al perseguimento di un interesse legittimo (pubblico)

Il nuovo Regolamento Europeo sulle sperimentazioni cliniche di medicinali ad uso umano, si inserisce all’interno di un contesto normativo europeo nel quale la Commissione Europea ha voluto dare un forte impulso alla ricerca scientifica ed al progresso industriale. Ci sono molte novità, prima fra tutte la centralizzazione della procedura di autorizzazione alla sperimentazione clinica e la gestione amministrativa attraverso il Portale UE. Inoltre, vi è la spinta verso una semplificazione delle procedure e delle operazioni burocratiche, nonchè un nuovo e più preciso approccio al rischio nelle sperimentazioni cliniche. In questo contesto non mancano le difficoltà, da un lato a livello di implementazione locale/nazionale, dall’altro sulla regolamentazione delle valutazioni etiche (Comitati Etici). Su questi aspetti si svilupperà il successo o l’insuccesso di una regolamentazione che esige dagli Stati membri un forte senso di responsabilità.

Il contesto di riferimento ed il ruolo del Regolamento europeo

Nel settore farmaceutico il percorso della ricerca scientifica, dell’innovazione tecnologia e lo scambio culturale scientifico passano attravero la ricerca clinica. In questo percorso l’Italia ha svolto un ruolo non trascurabile, che nel passato si è concretizzato col concorso di numerosi fattori quali, la presenza di eccellenze tra gli istituti di ricerca, gli investimenti delle imprese farmaceutiche e la peculiare caratteristica del Servizio Sanitario Nazionale che garantisce la tutela della salute gratuita a tutti i cittadini.

L’ultimo rapporto nazionale sulla sperimentazione clinica dei medicinali in Italia, pubblicato dall’Agenzia Italiana del Farmaco nel 2014, mette in evidenza molti dati interessanti, tra i quali la ripresa della sperimentazione clinica finanziata dall’industria farmaceutica a partire dal 2009, dopo un periodo di stasi, o addirittura di decrescita per alcuni studi clinici[1].

Parallelamente appare in sensibile decrescita la sperimentazione clinica condotta da enti no profit, ma questo è un fenomeno complesso e multifattoriale italiano, che non troverebbe corrispondenze nel contesto europeo.

Gli ultimi tre anni, a partire dal 2013, sono stati caratterizzati da un notevole fermento anche sotto il profilo legislativo e regolamentare, sia a livello europeo sia a livello italiano.

A livello italiano la Legge n. 189 del 2012 ha trasferito all’Agenzia Italiana del Farmaco le competenze in materia di sperimentazione clinica precedentemente attribuite all’Istituto Superiore della Sanità, disponendo inoltre la riorganizzazione della rete dei Comitati Etici, secondo criteri e principi stabiliti.

La riforma della rete dei Comitati Etici italiani muoveva dall’intento di semplificare le procedure di richiesta e valutazione etica, nochè dall’esigenza di meglio chiarire i ruoli, gli ambiti di competenza e di funzionamento anche su base territoriale. I criteri in base ai quali veniva disposta la riforma dei Comitati Etici erano:

a) che a ciascun comitato etico fosse attribuita una competenza territoriale di una o più province, in modo da rispettare il parametro di un comitato per ogni milione di abitanti, fatta salva la possibilità di prevedere un ulteriore comitato etico, con competenza estesa a uno o più istituti di ricovero e cura a carattere scientifico;

b) che la scelta dei comitati da confermare tenesse conto del numero dei pareri unici per sperimentazione clinica di medicinali emessi nel corso dell'ultimo triennio;

c) che la competenza di ciascun comitato potesse riguardare, oltre alle sperimentazioni cliniche dei medicinali, ogni altra questione sull'uso dei medicinali e dei dispositivi medici, sull'impiego di procedure chirurgiche e cliniche o relativa allo studio di prodotti alimentari sull'uomo generalmente rimessa, per prassi internazionale, alle valutazioni dei comitati;

d) assicurare l'indipendenza di ciascun comitato e l'assenza di rapporti gerarchici tra diversi comitati.

A livello europeo, l’anno 2013 è stato caratterizzato dalla conclusione delle attività, svolte dagli Stati membri, per arrivare alla definizione del Regolamento n. 536/2014 che riscrive l’impostazione normativa degli studi clinici in Europa, con il tentativo di rispondere alle esigenze di semplificazione ed armonizzazione che già da qualche anno venivano segnalate da quasi tutti gli stakeholders (industria, ricercatori pubblici e privati, associazioni ed enti di ricerca scientifica, università, pazienti e strutture pubbliche di assistenza sanitaria).

Una iniziativa che segna un vero cambiamento di direzione a partire dallo strumento normativo adottato per veicolare le nuove norme, ossia il passaggio dalla Direttiva al Regolamento.

Il Regolamento è un atto legislativo vincolante che deve essere applicato in tutti i suoi elementi nell’intera Unione Europea, la Direttiva è un atto legislativo che stabilisce un obiettivo che tutti i paesi dell’Unione Europea devono realizzare, ciascun paese però può decidere come procedere.

Il Regolamento ha la caratteristica di essere “self executing” in quanto non necessita di alcun atto di recepimento e di attuazione a livello nazionale, che sarebbe peraltro superfluo e anzi incompatibile.

Ciò in quanto la trasposizione di un Regolamento in un atto di diritto interno finirebbe per oscurare il ruolo e la natura di diritto dell'Unione Europea, con effetti pratici processuali non indifferenti, come la possibilità di proporre rinvio pregiudiziale, anche nel contesto di una azione giurisdizionale dinanzi all’autorità nazionale.

Tuttavia, oltre all’effetto vincolante dello strumento normativo rappresentato dal Regolamento, su cui si tornerà più avanti nel presente articolo, occorre tener presente che, nel contesto del diritto dell’Unione, la procedura legislativa ordinaria è fortemenete caratterizzata dalla partecipazione attiva dei rappresentanti degli Stati membri, che pertanto hanno, in diversi momenti della procedura, la possibilità di contribuire con proposte e osservazioni sul testo proposto inizialmente. Una attività che, verosimilmente, si svolge anche per evitare che a livello dell’Unione si formino disposizioni normative nettamente in contrasto col diritto nazionale.

Il Regolamento, la cui proposta era stata presentata il 17 luglio 2012, trova la sua base giuridica negli articoli 114 e 164, paragrafo 4, del Trattato dell’Unione Europea laddove si afferma che a) diritti, la sicurezza, la dignità ed il benessere dei soggetti sono tutelati e prevalgono su tutti gli altri interessi e che b) la sperimentazione clinica deve essere progettata per generare dati affidabili e robusti.

Si tratta di principi ispiratori di rango paritetico per cui, nessuno può essere subordinato all’altro, e le norme esecutive devono necessariamente contemperare le diverse esigenze riferibili a tali principi.

Sotto il profilo strettamente politico invece, la proposta presentata nel 2012 conteneva delle affermazioni utili a comprendere gli obiettivi del legislatore europeo. In particolare il fatto che, se da un lato la precedente Direttiva aveva portato numerosi passi avanti nella sicurezza e nella validità etica delle sperimentazioni condotte in Europa, dall’altra essa era diventata “probabilmente l’atto legislativo dell’UE più aspramente criticato nel settore dei prodotti farmaceutici”. Le critiche, a detta della Commissione, provvenivano principalmente dai pazienti e dal settore della ricerca scientifica e si basavano sui dati di fatto disponibili, ossia dalla diminuzione del numero delle domande di autorizzazione, alle sperimentazioni cliniche, all’aumento dei costi di conduzione delle sperimentazioni, all’aumento dei costi del personale deputato alla ricera clinica all’interno dell’industria farmaceutica di ricerca, ma soprattutto alla crescita smisurata delle incombenze amministrative e burocratiche, nonché all’allungamento dei tempi di attesa per ottenere pareri ed autorizzazioni, sopratutto a livello locale.

In questo contesto si inserisce, e probabilmente andrebbe anche interpretato, il Regolamento in questione, a partire dalla sua struttura normativa per finire alle singole disposizioni su specifiche tematiche.

La procedura ed il ruolo della valutazione etica

Ad un primissimo esame dell’impostazione generale, il primo aspetto che emerge è il forte parallelismo tra la procedura di richiesta di autorizzazione alla sperimentazione clinica con la procedura centralizzata di autorizzazione all’immisione in commercio di un medicinale, descritta quest’ultima nella Direttiva 2001/83/EU.

Si tratta di un aspetto che rileva sotto due diversi punti di vista: il primo relativo al fatto che la procedura di autorizzazione alla sperimentazione clinica viene centralizzata sull’Agenzia Regolatoria europea, il secondo è che l’esperienza procedurale, molto positiva, maturata dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) in questi anni rappresenta un modello amministrativo senz’altro esportabile in altri settori affini a quella delle attività di registrazione di una specialità medicinale. Perlatro, trattandosi di dover modificare fortemente il regime di autorizzazione e quindi il ruolo di competenze degli Stati membri, fino ad oggi seguito, appariva naturale seguire un approcio al quale i singoli Stati membri erano già in qualche modo abituati.

In questo senso il Regolamento sancise il passaggio dal coordinamento, che ha caratterizzato il ruolo dell’Autorità Regolatoria europea ed i singoli Stati membri, all’armonizzazione, che di fatto dovrebbe chiamare i singoli Stati ad una maggiore responsabilizzazione, nella prospettiva di un puzzle di ruoli e responsabilità, destinato a comporsi nel momento in cui ogni Stato membro matura la piena consapevolezza del suo ruolo all’interno della complessa procedura autorizzativa.

Ebbene, con riferimento all’impatto nazionale italiano, uno dei primi aspetti che emerge è proprio l’assenza pressochè totale del ruolo e della regolamentazione dei Comitati Etici.

In realtà non ci troviamo dinanzi ad una totale disattenzione ai temi etici della sperimentazione clinica, anzi il Regolamento insiste notevolmente su questi aspetti, tanto è vero che già a partire dai primi articoli afferma con chiarezza che ogni sperimentazione clinica è soggetta ad una revisione scientifica ed etica. La revisione etica è svolta da un Comitato Etico, istituito e funzionante conformemente al diritto dello Stato membro. Quindi, se da un lato il Regolamento sancisce la necessità della revisione etica, dall’altra stabilisce che si tratta di una funzione che non può che essere svolta a livello locale e conformente al diritto specifico dello Stato membro.

Quest’ultimo avrà anche il compito di allineare la tempistica e le procedure per la revisione del Comitato etico con la tempistica e le procedure per la valutazione della domanda di autorizzazione ad una sperimentazione clinica, così come identificate nel regolamento. Si tratta di un aspetto cruciale: su di esso si misurerà la capacità di ogni Stato membro di non legiferare verso una deriva fuori corrente rispetto ai principi generali dell’Unione.

In un contesto economico e scientifico più generale, questo significherà non perdere l’occasione per amplificare gli effetti pro-incentivanti alla ricerca scientifica alla presenza delle componenti industriali dell’innovazione nel territorio dei singoli Stati membri, tutti aspetti che, peraltro, il Regolamento sembra voler effettivamente affermare.

In altri termini, un Promotore avrà tanto più interesse ad avviare la richiesta di autorizzazione alla sperimentazione clinica in Italia, individuando quindi lo Stato italiano quale stato membro relatore, ai sensi dell’articolo 5 del Regolamento, quanto più avrà garanzia che gli enti italiani deputati a validare gli aspetti etici e scientifici dello studio clinico siano in grado di rispondere con tempestività e con l’alto livello e rigore scientifico rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea. Anche su questo tema si svilupperà, auspicabilmente, una normale concorrenza tra gli stati dell’Unione, che potrebbe portare a valorizzare le eccellenze della ricerca scientifica farmacologica tuttora presenti nel territorio italiano. Tutto ciò solo se ci sarà il coraggio di superare provincialismi e regionalismi burocratici che fino ad oggi hanno prodotto una sopranumerazione dei Comitati etici. L’italia infatti, dopo la riforma del 2013 (una riforma che tuttavia aveva il vincolo della individuazione dei comitati etici su base regionale), può vantare n. 91 comitati etici, ancora molti per poter ovviare alle complicazioni burocratiche derivanti dalla necessità di dover chiedere un parere a più comitati etici per una stessa sperimentazione clinica.

Certamente non bisogna cadere nell’errore di credere che i problemi delle sperimentazioni cliniche, nonché l’interesse che l’Italia possa catalizzare a livello europeo, siano solo ed esclusivamente connessi alla presenza numerosa dei Comitati Etici, tuttavia appare veramente sensato sostenere che l’attuale regolamentazione in Italia rischia di non essere compatibile con l’assetto procedurale e coi tempi assegnati dal regolamento.

Al momento della domanda il richiendente deve indicare lo Stato membro relatore il quale deve accettare entro i 3 giorni successivi, fermo restando che in questo brevissimo periodo può istaurarsi una dialettica interna tra Stati membri nel caso in cui lo Stato inidcato non accetti.

Lo Stato membro relatore ha il compito di valutare la domanda secondo una serie di criteri pedissequamente indicati all’articolo 6 del Regolamento.

Al termine della valutazione viene emessa una valutazione che affermerà se la conduzione della sperimentazione è accettabile, ovvero se è accettabile ma subordinata alla conformità a determinate condizioni (che dovranno, ovviamente, essere specificate), o se invece la conduzione della sperimentazione non è accettabile. Se la sperimentazione clinica interessa più di uno Stato membro la procedura di valutazione si compone di tre fasi, la prima viene condotta dallo Stato relatore, la seconda caratterizzata da un processo di revisione che vede il coinvolgimento di tutti gli stati membri interessati ed una terza fase di consolidamento condotta dallo Stato membro relatore. Queste fasi devono svolgersi, complessivamente, in non più di 45 giorni.

La sperimentazione clinica a basso livello di intervento

Uno degli aspetti importanti oggetto della valutazione della domanda di autorizzazione da parte dello stato membro relatore è rappresentato dai rischi e dagli inconvenienti per il soggetto, aspetti che devono essere valutati tenendo conto delle caratteristiche e delle conoscenze in merito al medicinale sperimentale, delle caratteristiche dell’intervento rispetto alla normale pratica clinica, delle misure di sicurezza, incluse le disposizioni per ridurre al minimo i rischi e il rischio per la salute del soggetto, legato alla condizione clinica per la quale il medicinale sperimentale è oggetto di sperimentazione.

Realmente potremmo affermare che, in una sperimentazione clinica, il rischio è principalmente rappresentato dal medicinale sperimentale e che, le variabili sulle quali sarebbe possibile misurare tale rischio sono diverse: a) i risultati delle prove precliniche o delle precedenti cliniche, b) la patologia che verrebbe curata e le condizioni cliniche dei pazienti elegibili, c) la durata del trattamento, d) le sperimentazioni ove il medicinale sperimentale è usato in associazione con altri medicinali.

Molte sperimentazioni cliniche comportano solo un minimo rischio aggiuntivo rispetto a quando il medicinale sperimentale è somministrato nelle indicazioni d’uso autorizzate o nei dosaggi già conosciuti, e questo ha indotto la Commissione a rivedere i requisiti valutativi di tali tipolgie di studi clinici, evitando che inutili complicazioni burocratiche finissero per rallentare e quindi scoraggiare la ricerca clinica.

In questa direzione il Regolamento perviene ad introdurre la fattispecie di “sperimentazione clinica a basso livello di intervento”, qualificandola come una sperimentazione che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) i medicinali sperimentali, ad esclusione dei placebo, sono autorizzati; b) in base al protocollo della sperimentazione clinica, i medicinali sperimentali sono utilizzati in conformità alle condizioni dell'autorizzazione all'immissione in commercio; c) o l'impiego di medicinali sperimentali è basato su elementi di evidenza scientifica e supportato da pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza e l'efficacia di tali medicinali sperimentali in uno qualsiasi degli Stati membri interessati; e d) le procedure diagnostiche o di monitoraggio aggiuntive pongono solo rischi o oneri aggiuntivi minimi.

Nel qualificare tali tipologie di sperimentazioni cliniche come “a basso livello di intervento” il legislatore ha voluto, con molta probabilità, adottare un criterio di valutazione che fosse principalmente focalizzato sull’intervento, anzichè sul rischio. In effetti già nella fase di consultazione la Commissione Ambiente e Sanità aveva presentato una proposta di emendamento, poi disattesa, con la quale chiedeva di modificare la definzione di “sperimentazione a basso livello di intervento” in “sperimentazione a basso rischio”, facendo esplicito riferimento ad un criterio di armonizzazione, richiamando la Convenzione di Oviedo, la quale all’articolo 17 affronta proprio l’argomento di un approccio graduale e proporzionato alla valutazione del rischio, con particolare attenzione alle condizioni della persona (paziente).

In realtà sembrerebbe che parlare di sperimentazione in funzione dell’intervento anzichè in funzione del rischio, significa concentrare la valutazione sul medicinale e sul protocollo di studio, evitando una eccessiva soggettivizzazione nella valutazione e individuando una maggiore responsabilità da parte del medico o dello sponsor fin dalla fase di arruolamento del soggetto. Tutto ciò senza che se ne comporti pregiudizio alcuno per il soggetto/paziente, il quale verrà valutato sempre in relazione al protocollo di studio, con una informazione adeguata e condivisa.

In questo senso sarebbe possibile sostenere che il “rischio” è valutato in funzione prevalente del soggetto, mentre l’ “intervento” è valutato in funzione prevalente del medicinale o del Protocollo. Si tratta di due componenti che coesistono e non possono prescindere l’una dall’altra, ma focalizzare l’attenzione sull’una anzichè sull’altra significa spostare la bilancia nel senso dell’assistenza medica oppure della ricerca scientifica. Tanto è vero che, se da un lato il “rischio” avrebbe comportato una maggiore soggettività nella valutazione, l’ “intervento” consente una maggiore obiettività nella valutazione del Protocollo, una maggiore responsabilità del medico o dello Sponsor nella fase di arruolamento.

Una delle condizione per le quali la sperimentazione clinica possa definirsi a basso livello di intervento è che l’impiego del medicinale in studio si basi su elementi di evidenza scientifica, tuttavia la questione che si pone è capire che cosa si intenda per “evidenza scientifica”.

In realtà introdurre un parametro così ampio significa lasciare poi ai singoli Stati membri la possibilità di decidere con un rilevante margine di discrezionalità. Tale parametro dell’ “evidenza scientifica”, in un contesto ove la dialettica e la partecipazione degli Stati membri è un elemento caratterizzante la procedura di valutazione, rischia di frammentare l’attività valutativa e creare sostanziali differenze. Inoltre l’assenza di specifici parametri di riferimento utili a stabilire, o confermare, quando sussista una condizione di “evidenza scientifica” rischia, da un lato di attribuire agli Stati membri un aggravio di lavoro, e dall’altro di creare delle situazioni di divergenti valutazioni, in un contesto di timeline assolutamente molto contenuta. L’articolo 5 del Regolamento stabilisce infatti che il Promotore dovrà indicare come Stato membro relatore uno degli Stati (o lo Stato) in cui l’impiego del medicinale è basato su evidenze. Successivamente, entro dieci giorni dalla presentazione del fascicolo di domanda, lo Stato membro relatore convalida la domanda tenendo conto delle osservazioni espresse dagli Stati membri interessati. Inoltre gli Stati membri interessati possono comunicare allo Stato membro relatore le eventuali osservazioni di rilievo per la convalida della domanda entro sette giorni dalla presentazione del relativo fascicolo.

Rimane pertanto il fatto che non è possibile dare una risposta esauriente, ma soprattutto univoca a livello internazionale, su quando l’uso di un medicinale è basato sulle “evidenze scientifiche”.

In Italia esiste un complesso di norme che regolamentano fattispecie di impiego del medicinale in condizioni non totalmente aderenti a quelle per le quali sono stati autorizzati, ossia la Legge n. 648/96 che disciplina l’uso speciale dei farmaci nella fattispecie di cui ai medicinali da impiegare per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, nonché il Decreto Ministeriale 8 maggio 2003 che disciplina l’uso compassionevole di un medicinale.

L’articolo 1, comma 4, della Legge n. 648/1996 afferma che “qualora non esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale, a partire dal 1° gennaio 1997, i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale, i medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare per un'indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del farmaco conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa”.

Si tratta di una specifica previsione che deroga in maniera sostanziale alla disposizione di cui all’articolo 6, comma 1, del Decreto Legislativo. n. 219/06 per il quale “nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione comunitaria”, ma che è stata recentemente ampliata dal comma 4 bis del medesimo articolo, introdotto dalla Legge n. 79/2014 (legge di conversione del Decreto Legge n. 36/2014), il quale afferma che “anche se sussista altra alternativa terapeutica nell'ambito dei medicinali autorizzati, previa valutazione dell'Agenzia italiana del farmaco (AIFA), sono inseriti nell'elenco di cui al comma 4, con conseguente erogazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i medicinali che possono essere utilizzati per un'indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, purché tale indicazione sia nota e conforme a ricerche condotte nell'ambito della comunità medico-scientifica nazionale e internazionale, secondo parametri di economicità e appropriatezza. In tal caso l'AIFA attiva idonei strumenti di monitoraggio a tutela della sicurezza dei pazienti e assume tempestivamente le necessarie determinazioni”.

Nelle fattispecie di cui alla Legge n. 648/96, appena menzionata, una specialità medicinale, previa valutazione da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco, può essere autorizzata all’uso in una indicazione non autorizzata, se vi sono elementi di evidenza scientifica tali da supportarne l’uso.

L’autorizzazione all’uso avviene al termine di un procedimento di consultazione interna all’Agenzia Italiana del Farmaco, svolto dalla Commissione Tecnico Scientifica, diretto a verificare ed a valutare la fondatezza scientifica dell’uso consolidato della specialità medicinale, intendosi per “uso consolidato” l’insieme di dati derivanti dall’impiego sistematico del farmaco fuori indicazione e riportati in articoli scientifici (cd. “letteratura”).

Si tratta tuttavia di fattispecie molto ristrette e ben definite, che si possono realizzare solo al termine di un’approfondita istruttoria scientifica, che derogano inoltre alla disciplina generale per la quale, l’attività curativa del medico attraverso il farmaco può reputarsi pienamente legittima soltanto qualora il medicinale sia prescritto secondo le indicazioni terapeutiche autorizzate dall’autorità regolatoria, ossia al termine di un processo autorizzativo meticoloso nel quale il richiendente deve provare la funzionalità del farmaco con studi clinici dimostrativi condotti secondo regole internazionali (studi clinici di I, II e III fase).

In ogni caso, affinche l’attività curativa e prescrittiva del medico, possa essere pienamente legittima nell’ipotesi di impiego di un farmaco al di fuori delle indicazioni autorizzate, devono quindi ricorrere due aspetti: il primo è rappresentato dalla diagnosi del medico della specifica patologia, il secondo dalla valutazione dell’AIFA che certifica l’assenza di una alternativa terapeutica già autorizzata per quella specifica patologia.

L’altra norma è rappresentata dal Decreto Ministeriale 8 maggio 2003, il quale è nato invece dall’esigenza di regolamentare in Italia il fenomeno dei cosiddetti Expanded Access, ossia protocolli di sperimenatazione clinica ad accesso allargato di derivazione internazionale, nei casi in cui per una determinata patologia non esiste una valida alternativa terapeutica.

Tale Decreto concede al medico la possibilità di chiedere, direttamente all’azienda produttrice, un farmaco per un uso al di fuori di una indicazione terapeutica al trattamento di patologie gravi, o di malattie rare, o di condizioni che pongono il paziente in pericolo di vita, qualora a) il medicinale sia già oggetto di studi sperimentali in corso o conclusi, di terza fase o nei casi in cui la malattia ponga il paziente in pericolo di vita, anche studi clinici di fase seconda, b) i dati disponibili sulle sperimentazioni siano sufficienti per formulare un favorevole giudizio sul’efficacia e la tollerabilità del medicinale richiesto.

Considerata la natura speciale ed in qualche modo anche derogatoria della “sperimentazione clinica a basso livello di intervento”, ci sarebbe da chiedersi se sia possibile individuare usi consolidati di un farmaco al di fuori delle fattispecie previste dalla legge. Una impostazione restrittiva e forse anche di natura prudenziale farebbe propendere per una risposta negativa, tuttavia le fattispecie introdotte e contemplate dalla Legge n. 648/96 potrebbero rappresentare una base sulla quale costruire il complesso di dati e di esperienze cliniche idonee a configurare l’uso consolidato previsto nel Regolamento, che consentirebbe di avviare una “sperimentazione clinica a basso livello di intervento”.

Un’altra fattispecie che è possibile intravedere all’interno del contesto normativo italiano, per la quale occorre fare qualche considerazione, è il Decreto Ministeriale 17 dicembre 2004, il decreto che ha introdotto e disciplinato in Italia i cosidetti studi clinici no-profit. Il Decreto in questione afferma che le disposizioni in esso contenute si applicano al miglioramento della pratica clinica, quale parte integrante dell'assistenza sanitaria, limitatamente alle sperimentazioni che utilizzano farmaci già autorizzati all'immissione in commercio, anche se utilizzati per diversa indicazione terapeutica, con diverso dosaggio o forma farmaceutica. In sostanza il decreto in questione prevede la possibilità di svolgere studi clinici, non finanziati da sponsor commerciali, su farmaci già autorizzati all’immissione in commercio ma per una diversa indicazione da quella approvata. Le risultanze di “evidenza scientifica” potrebbero emergere anche dalla conduzione di uno studio clinico no profit, tuttavia anche in questa caso lo Stato membro dovrebbe svolgere – al momento – della valutazione di una domanda una apposita istruttoria.

La valutazione del conflitto di interesse

L’articolo 9 del Regolamento affronta, in maniera tendenzialmente precisa ma senza disporre una regolamentazione dettagliata, la questione del conflitto di interesse tra le persone incaricate di convalidare e valutare la domanda. In defintiva il Regolamento afferma che è compito degli Stati membri garantire l’indipendenza dei soggetti, che convalidano e valutano la domanda, dal promotore, dal sito di sperimentazione clinica, dagli sperimentatori coinvolti, nonchè dai finanziatori della sperimentazione. L’indipendenza dovrà essere garantita attraverso l’elaborazione annuale, da parte dei soggetti, di una dichiarazione sui loro interessi finanziari e dalla quale non dovrà emergere, appunto, che abbiano interessi finanziari condivisi con i soggetti appena menzionati. Il Regolamento dispone altresì che non debba essere presente un conflitto personale potenzialmente in grado di inficiare l’imparzialità della valutazione della domanda di sperimentazione clinica. Tuttavia non dispone che la presenza di un eventuale interesse personale debba essere contenuto nella dichirazione annuale. Per cui, fermo restando l’indeterminatezza su cosa si debba o si possa intendere, legittimamente, come interesse personale, dal punto di vista – chiaramente – giuridico, apparirebbero altresi indeterminate le modalità con le quali tale interesse personale debba, o possa, in qualche modo emergere[2].

Probabilmente quanto appena rilevato dovrà essere implementato a livello di Stato membro ma, anche su questo aspetto, considerate le implicazioni sovranazionali che potrebbe avere una differente regolamentazione, sarebbe stato meglio che il Regolamento avesse conferito maggiori dettagli.

Il procedimento di valutazione, come prevede il Regolamento, prevede l’esame da parte di una Commissione composta da un numero ragionevole di persone con qualifiche ed esperienza necessaria al lavoro che deve essere svolto. In questa Commissione valutativa deve partecipare almeno un “non addetto ai lavori”, sebbene il Regolamento non individua quali caratteristiche e quali compiti debba avere questo soggetto.

A livello italiano, considerati peraltro i poteri ed il ruolo dell’Agenzia Italiana del Farmaco, potrebbe sicuramente rappresentare un punto di riferimento in tema di regolamentazione del conflitto di interesse il relativo Regolamento per la Disciplina del Conflitto di Interesse approvato in data 15 maggio 2015. Tale regolamentazione, seppur con i limiti derivanti dallo scopo di voler prendere in considerazione unicamente le eventuali interferenze con interessi ricollegabili all’industria farmaceutica, prevede una procedura adeguatamente dettagliata che si sviluppa sulla base di tre principi fondamentali: il principio di appartenenza, il principio di trasparenza, il principio di responsabilità.

Il principio di appartenenza consiste nel fatto che tutti coloro che hanno un rapporto di lavoro o di consulenza con l’AIFA si devono impegnare ad agire al fine di realizzare il bene comune e l’interesse generale della tutela del diritto alla salute; il principio di trasparenza consiste nel fatto che, tali soggetti legati all’AIFA, sono tenuti a comunicare annualmente qualsiasi situazione di vantaggio derivante da progetti o da azioni di competenza della stessa Agenzia; il principio di responsabilità consiste nel fatto che, tali soggetti legati ad AIFA, sono tenuti a rispondere della correttezza e dell’efficacia delle attività svolte.

Con particolare riferimento al principio di appartenenza, che rappresenta poi il principio che guida le valutazioni e le decisioni all’interno dell’Agenzia, sembrerebbe apparire non sufficiente una esclusiva focalizzazione sugli interessi derivanti, o riconducibili, al mondo dell’impresa farmaceutica, con ciò tralasciando altri e molteplici interessi non collegati al mondo profit dell’impresa. In via astratta non sarebbe possibile escludere che un interesse in conflitto, con quello portato avanti dall’Agenzia, potrebbe ben derivare dal settore delle associazioni scientifiche, o di quelle del volontariato o, addirittura, nascere e crescere all’interno della stessa pubblica amministrazione ed essere strumentalizzato per questioni di natura politica ed elettorale contingente.

La definizione di Promotore e la Co – Sponsorizzazione

Un’altro degli aspetti interessanti sui quali interviene il Regolamentoè la definizione di “sponsor” o “promotore”, nonchè la fattispecie della “cosponsorizzazione” che viene per la primissima volta regolamentata dal punto di vista legislativo.

Il Regolamento dichiara di voler mantenere lo stesso concetto di “sponsor” già contenuto nella precedente Direttiva 2001/20/CE e su questo possiamo, con certezza, affermare che la definizione di “promotore”, contenuta nel Regolamento e quella di “sponsor” contenuta nella Direttiva, sostanzialmente coincidono. Tuttavià v’è un dettaglio tra le due definizioni che farebbe pensare ad un cambiamento non poco rilevante. La Direttiva sopracitata definiva lo Sponsor come “la persona, società, istituzione oppure organismo che si assume la responsabilità di avviare, gestire e/o finanziare una sperimentazione clinica”, lasciando intendere che i requisiti per i quali un soggetto (persona fisica o persona giuridica) potesse assumere la qualità di Sponsor fossero proprio le circostanze che esso si dovesse trovare, alternativamente o contestualmente, a gestire o a finanziare una sperimentazione clinica. Il Regolamento contiene la seguente definizione di Promotore “la persona, società, istituzione oppure un organismo che si assume la responsabilità di avviare e gestire la sperimentazione clinica, curandone altresì il relativo finanziamento”, quindi la condizione per la quale un soggetto possa rivestire la qualità di Promotore (quindi “Sponsor”) è che non solo si sia assunto la responsabilità della gestione ma che provveda anche al relativo finanziamento. La messa a disposizione delle risorse economiche per lo svolgimento della attività diventa pertanto condizione determinante per il Promotore.

L’articolo 71 del Regolamento ammette che una sperimentazione clinica possa avere uno o più promotori e questa disposizione trova un razionale nel Considerando n. 59, laddove si fa espresso riferimento alle “reti aperte di ricercatori” o “istituti di ricerca” che conducono congiutamente una sperimentazione clinica e che, secondo il suggerimento del Regolamento, dovrebbero poter essere co – promotori di una sperimentazione clinica. La questione, tuttavia, che si pone ogni qualvolta si estendono le condizioni per le quali una medesima categoria di soggetti possa ricoprire un determinato status giuridicamente rilevante, è la misura delle responsabilità che, nel caso delle sperimentazioni cliniche, è peraltro molto complessa.

Una complessità derivante dal fatto che sono numerose le attività nelle quali un promotore può essere coinvolto. Su questo aspetto il legislatore si è preoccupato di evitare che la puntuale individuazione delle responsabilità potesse diluirsi e confondersi nella pluralità di soggetti, per cui ha introdotto un regime di responsabilità solidale per il quale “quando una sperimentazione clinica coinvolge più promotori essi dovrebbero essere tutti soggetti agli obblighi propri di un promotore a norma del presente regolamento”. A ciò aggiungendo che “tuttavia, i co-promotori dovrebbero poter ripartirsi le responsabilità del promotore sulla base di un accordo contrattuale”. A tal fine diventa fondamentale che le parti, che assumono il ruolo e lo status di promotore, regolamentino le attività e le responsabilità tra loro suddivise ma, nel contempo, non si comprende quanto o in che misura tale suddivisione possa avere una ripercussione anche nei confronti dell’autorità regolatoria, degli sperimentatori e dei soggetti che si sottopongono allo studio clinico.

Il contratto tra i co-sponsor diventa quindi l’elemento determinante e costitutivo per realizzare i rapporti tra gli sponsor. Nella redazione del contratto occorrerà focalizzare l’attenzione su quegli aspetti che maggiormente caratterizzano quella determinata colloborazione tra i vari sponsor, poichè non sarebbe possibile individuare una tipizzazione di ruoli, responsabilità ed attribuzioni unica e valida in qualsiasi situazione. Solo per citare un esempio: l’attribuzione dei diritti di proprietà intellettuale ed industriale sui risultati della sperimentazione clinica, che potrebbero trovare una diversa e poliedrica disciplina proprio in funzione delle caratteristiche di ciascuno degli sponsor (industriale o no-profit), ovvero in funzione della tipologia di sperimentazione (a seconda delle fasi, del prodotto in studio, dell’interesse specifico che può essere di pura ricerca scientifica o di natura industriale). Il contratto di co-sponsorizzazione dovrà contenere anche l’individuzione delle specifiche reponsabilità ed i ruoli, soprattutto con riferimento a quelli di interazione con l’autorità regolatoria. La prassi amministrativa dovrà poi individuare, qualora lo ritenga utile od opportuno ai fini di una maggior trasparenza di ruoli e responsabilità, la necessità che il contratto o una sintesi saliente di esso, venga inviata o depositata presso l’autorità regolatoria, nel rispetto tuttavia della confidenzialità e riservatezza dei rapporti tra privati che, in casi come quelli della ricerca scientifica e tecnologica, rappresentano una condizione necessaria e sufficiente affinchè i privati si sentano incentivati ad investire.

Vi sono altri aspetti sui quali il Regolamento interviene, ma quello che maggiormente risalta è la complessa procedura europea di autorizzazione, la tempistica molto serrata, e la collaborazione tra gli Stati membri.

L’auspicio è che ogni stakeholder svolga il suo ruolo e soprattutto che ciascuno Stato non ritardi l’implementazione della regolamentazione locale di dettaglio. Per quanto concerne l’Italia ci si aspetta che non vengano introdotte differenti regolamentazioni a livello di ciascuna Regione, ossia che non si verifichi il proliferare di Delibere regionali che, a vario titolo, restringano o aumentino il livello burocratico locale come, purtroppo, ancora accade in tema di accesso ai farmaci innovativi a livello regionale.

[1] Cfr. AIFA, 13° Rapporto nazionale sulla sperimentazione clinica dei medicinali in Italia 2014, del 29 dicembre 2014, disponibile sul sito internet istituzionale dell’Agenzia Italiana del Farmaco

[2] L’interesse personale potrebbe ben essere inteso come un interesse privato riferito alla propria persona, intendendosi per interesse privato un interesse non finalizzato al perseguimento di un interesse legittimo (pubblico)