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Brevi note a margine della dichiarazione di incostituzionalità della recidiva obbligatoria: una nuova battuta d’arresto per il diritto penale d’autore

Corte Costituzionale, Sentenza 23 luglio 2015, n. 185
Brevi note a margine della dichiarazione di incostituzionalità della recidiva obbligatoria: una nuova battuta d’arresto per il diritto penale d’autore
Brevi note a margine della dichiarazione di incostituzionalità della recidiva obbligatoria: una nuova battuta d’arresto per il diritto penale d’autore

Abstract: Con la pronuncia in esame la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittima la c.d. “recidiva obbligatoria”, istituto giuridico emblematico di un diritto penale “d’autore” da sempre contrapposto ad un ben più garantista diritto penale “del fatto” di matrice liberal-illuminista.

Sommario: 1. Breve ricostruzione dell’istituto; 2. I dubbi di legittimità costituzionale e la recente pronuncia demolitoria della Consulta; 3. La costante riemersione delle logiche d’autore nel diritto penale moderno.

 

1. Breve ricostruzione dell’istituto

Il termine recidiva sta ad indicare la condizione di chi, dopo essere stato già condannato in via definitiva per un delitto non colposo, ne commette un altro parimenti non colposo.

Con riferimento alla disciplina codicistica di tale istituto, contenuta negli artt. 99 e 101 c.p., occorre evidenziare come essa sia il frutto di numerosi interventi normativi tra i quali va segnalato, da ultimo, la legge n. 251/2005 [recante “Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione”]. Quest’ultima, in una logica diametralmente opposta a quella del legislatore del 1974, che attenuò la disciplina della recidiva contenuta nel codice, ha innalzato gli aumenti di pena previsti dall’art. 99 c.p. e determinato un generale inasprimento delle conseguenze penalistiche ricollegate alla dichiarazione di recidiva.

Attualmente l’art. 99 c.p. distingue tre diverse forme di recidiva: semplice, aggravata e reiterata.

Si ha recidiva semplice, ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p., nel caso in cui un soggetto, dopo essere stato condannato con una sentenza passata in giudicato per un precedente delitto non colposo, ne commette un altro ugualmente non colposo.

In tal caso è previsto un aumento di pena fino ad un terzo.

La recidiva aggravata, invece, disciplinata all’art. 99, co. 2, c.p., si configura quando il nuovo delitto non colposo:

  1. è della stessa indole di quello precedentemente commesso (c.d. “recidiva specifica”). A tal proposito bisogna tener presente che, secondo quanto disposto dall’art. 101 c.p., “agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo preveduti da disposizioni diverse di questo codice ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinano, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni”;
  2. è stato commesso entro cinque anni dalla condotta precedente (c.d. “recidiva infraquinquennale”);
  3. è stato realizzato dopo o durante l’esecuzione della pena (c.d. “recidiva vera”);
  4. è stato realizzato durante il tempo in cui il condannato si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena stessa (c.d. “recidiva finta”).

In tutte queste ipotesi la pena può essere aumentata “fino alla metà” se sussiste soltanto una delle circostanze appena menzionate; l’aggravio, invece, è “della metà” se ne ricorrono due o più di due.

Si parla, poi, di recidiva reiterata, ai sensi dell’art. 99, co. 4, c.p., qualora il nuovo delitto non colposo sia commesso da chi è già recidivo. In questa fattispecie l’inasprimento sanzionatorio varia a seconda del tipo di recidiva che si è precedentemente configurata. L’aumento, infatti, è della metà in caso di recidiva semplice; di due terzi, in  presenza di recidiva aggravata.

Infine, all’art. 99, co. 5, c.p., viene disciplinata la c.d. “recidiva obbligatoria”, la quale si configura allorquando il nuovo delitto non colposo rientri tra uno di quelli indicati nell’art. 407, co. 2, lett. a), del codice di rito (tra i quali sono ricompresi, ad esempio, l’associazione mafiosa, i delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, il traffico di stupefacenti, la strage, l’omicidio doloso, la rapina aggravata, l’estorsione aggravata).

Dunque, a differenza delle ipotesi di recidiva disciplinate nei commi da uno a quattro dell’art. 99 c.p., in cui l’aggravamento di pena previsto dal legislatore resta facoltativo per il giudice, nella recidiva obbligatoria l’aumento sanzionatorio è, invece, automatico e prescinde da qualsiasi accertamento in concreto da parte dell’interprete.

2. I dubbi di legittimità costituzionale e la recente pronuncia demolitoria della Consulta

Proprio quest’ultima peculiare figura di recidiva, introdotta con la riforma del 2005, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Consulta nella recente pronuncia del 23 luglio 2015, n. 185.

L’iniziativa in tal senso è stata adottata dalla Corte di cassazione, quinta sezione penale, che con ordinanza del 10 settembre 2014 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, co. 5, c.p. (così come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005,  n. 251) in riferimento agli artt. 3 e 27, co. 3, Cost. [anche la Corte d’appello di Napoli, terza sezione penale, con ordinanza del 19 novembre 2014 ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale, richiamando interamente il contenuto dell’ordinanza emessa dalla quinta sezione della Suprema Corte].

Più nello specifico, i giudici remittenti hanno evidenziato la violazione, da parte dell’istituto in esame, dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della manifesta irragionevolezza del parametro utilizzato dal legislatore per giustificare l’obbligatorietà dell’aumento di pena di cui all’art. 99, co. 5, c.p., ossia il mero richiamo ad uno dei delitti previsti all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p.

Difatti, per consolidata giurisprudenza costituzionale [cfr. Corte Cost., ord. n. 193/1990; Corte Cost., ord. n. 409/2007; Corte Cost., ord. n. 33/2008], l’applicabilità della recidiva presuppone – o almeno dovrebbe – un accertamento in concreto da parte dell’interprete effettuato sulla base di una serie di criteri elaborati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, tra i quali: la natura dei reati posti in essere, il tipo di devianza di cui sono il segno, la qualità dei comportamenti, il margine di offensività delle condotte, e ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza. Nell’istituto censurato, invece, tale verifica viene del tutto esclusa e l’applicazione della recidiva si fonda sul mero riscontro formale dell’esistenza di determinati precedenti penali.

I giudici a quo, poi, hanno denunciato anche la violazione dell’art. 27, co. 3, Cost., in quanto la preclusione dell’accertamento avente ad oggetto la sussistenza delle condizioni “sostanziali” legittimanti l’aggravio sanzionatorio della recidiva, renderebbe la pena “già a livello di comminatoria legislativa astratta” palesemente sproporzionata e inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone ogni finalità rieducativa.

Dinanzi alle censure appena richiamate, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «è obbligatorio e,»”.

La Corte ha rilevato, in primo luogo, il contrasto con l’art. 3 Cost. sottolineando che la scelta di ricollegare l’aumento di pena della recidiva esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso determina la configurazione di un automatismo sanzionatorio assolutamente privo di ragionevolezza. Tale conclusione appare tanto più condivisibile laddove si consideri che il richiamo all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. concerne reati tra loro assolutamente eterogenei, considerati unitariamente dal legislatore per mere esigenze processuali relative al termine massimo di durata delle indagini preliminari.

La Consulta ha poi riconosciuto anche la violazione dell’art. 27, co. 3, Cost. sostenendo che l’assenza di un accertamento volto a riscontrare una più accentuata colpevolezza o una maggiore pericolosità sociale del reo nelle ipotesi di recidiva obbligatoria rende la pena inevitabilmente sproporzionata, vanificandone irrimediabilmente la finalità rieducativa prevista dall’art. 27, co. 3, Cost.

In definitiva, e in via di estrema sintesi, la Corte Costituzionale ha dunque ravvisato il contrasto della norma censurata sia rispetto all’art. 3 Cost., in quanto la scelta di ricollegare un aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso appare manifestamente irragionevole; sia rispetto all’art. 27, co. 3, Cost., poiché la preclusione dell’accertamento della “concreta significatività del nuovo episodio delittuoso” rende ab origine la pena sproporzionata e, in ogni caso, inefficace rispetto alla sua funzione di integrazione sociale.

3. La costante riemersione delle logiche d’autore nel diritto penale moderno

In occasione del condivisibile intervento demolitorio della Consulta, appena ricostruito nei suoi tratti essenziali, sembra opportuno sottolineare come l’istituto censurato abbia rappresentato - e la disciplina generale della recidiva continui a rappresentare - uno degli esempi più emblematici della tendenza del nostro legislatore a contraddire i principi propri di un moderno diritto penale “del fatto”, proponendo categorie concettuali tipiche di un diritto penale “d’autore”.

“É tale un diritto penale che, a scapito della necessaria centralità del fatto di reato, prospetta una colpevolezza per il carattere del reo o per la sua condotta di vita, finendo per punire l’autore del reato non per quello che ha fatto, ma per quello che è o che si è lasciato diventare” [G. Piffer, I nuovi vincoli alla discrezionalità giudiziale: la disciplina della recidiva, in Diritto Penale Contemporaneo, 30 dicembre 2010, p. 2].

Non è un caso che tale elaborazione teorica sia sorta tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta nella Germania nazionalsocialista, nella quale la dottrina di regime puntò alla sostituzione della colpevolezza per il singolo fatto delittuoso con la colpevolezza per la condotta di vita, al chiaro scopo di semplificare la repressione di qualsiasi forma più o meno esplicita di dissenso.

É così che la colpevolezza per il fatto criminoso (Einzeltatshuld) ha progressivamente ceduto il passo alla colpevolezza d’autore (Tatershuld), nelle due forme della colpevolezza “per il carattere” e “per lo stile di vita”.

“In particolare, la teoria della ‘colpevolezza per il carattere’ pretende che all’agente si possa muovere l’addebito di non aver frenato in tempo le pulsioni antisociali, in modo da formarsi un carattere meno malvagio e meno propenso a delinquere.

La teoria della ‘colpevolezza per la condotta di vita’, dal canto suo, pretende di incentrare il giudizio di disapprovazione sullo stesso modello o stile di vita e sulle scelte esistenziali del reo, che starebbero all’origine della sua inclinazione al delitto” [G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, p. 316.].

Se è vero che il nostro ordinamento penale di ispirazione liberal-illuminista, tendenzialmente proteso ai canoni dell’oggettivismo garantista, non potrà mai aderire apertamente ad una simile impostazione teorica, bisogna pur riconoscere l’esistenza di numerosi istituti ispirati alla logica della colpa d’autore. Si pensi, per la parte generale del codice, all’ubriachezza abituale (art. 94 c.p.) o alla stessa recidiva (art. 99 c.p.); per la parte speciale, alla contravvenzione di cui all’art. 707 c.p.; per la legislazione penale complementare, infine, al reato di “Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” previsto all’art. 10-bis del Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998).

É dunque impossibile negare che espressioni tipiche del diritto penale d’autore continuino a sopravvivere, spesso a stento, in numerose fattispecie astratte presenti nel nostro ordinamento penale. Tuttavia, dinanzi alla costante riemersione di simili logiche, resta ferma, oggi più che mai, la necessità di riportare il diritto penale alla sua originaria ispirazione oggettivistica. 

Tale conclusione, come evidenziato da autorevole dottrina, non implica tout court l’esclusione di qualsiasi valutazione inerente a caratteristiche personali del soggetto agente, soprattutto quando ciò avvenga in una fase diversa da quella della tipicità, come in quella dell’applicazione e dell’esecuzione della sanzione penale. In quest’ultima sede, pertanto, “non solo è possibile, ma appare addirittura necessario prendere in considerazione la disposizione, il modo di essere, le motivazioni del reo, proprio per approntare un’efficace strategia di recupero sociale” [S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 2006, p. 163].

Abstract: Con la pronuncia in esame la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittima la c.d. “recidiva obbligatoria”, istituto giuridico emblematico di un diritto penale “d’autore” da sempre contrapposto ad un ben più garantista diritto penale “del fatto” di matrice liberal-illuminista.

Sommario: 1. Breve ricostruzione dell’istituto; 2. I dubbi di legittimità costituzionale e la recente pronuncia demolitoria della Consulta; 3. La costante riemersione delle logiche d’autore nel diritto penale moderno.

 

1. Breve ricostruzione dell’istituto

Il termine recidiva sta ad indicare la condizione di chi, dopo essere stato già condannato in via definitiva per un delitto non colposo, ne commette un altro parimenti non colposo.

Con riferimento alla disciplina codicistica di tale istituto, contenuta negli artt. 99 e 101 c.p., occorre evidenziare come essa sia il frutto di numerosi interventi normativi tra i quali va segnalato, da ultimo, la legge n. 251/2005 [recante “Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione”]. Quest’ultima, in una logica diametralmente opposta a quella del legislatore del 1974, che attenuò la disciplina della recidiva contenuta nel codice, ha innalzato gli aumenti di pena previsti dall’art. 99 c.p. e determinato un generale inasprimento delle conseguenze penalistiche ricollegate alla dichiarazione di recidiva.

Attualmente l’art. 99 c.p. distingue tre diverse forme di recidiva: semplice, aggravata e reiterata.

Si ha recidiva semplice, ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p., nel caso in cui un soggetto, dopo essere stato condannato con una sentenza passata in giudicato per un precedente delitto non colposo, ne commette un altro ugualmente non colposo.

In tal caso è previsto un aumento di pena fino ad un terzo.

La recidiva aggravata, invece, disciplinata all’art. 99, co. 2, c.p., si configura quando il nuovo delitto non colposo:

  1. è della stessa indole di quello precedentemente commesso (c.d. “recidiva specifica”). A tal proposito bisogna tener presente che, secondo quanto disposto dall’art. 101 c.p., “agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo preveduti da disposizioni diverse di questo codice ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinano, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni”;
  2. è stato commesso entro cinque anni dalla condotta precedente (c.d. “recidiva infraquinquennale”);
  3. è stato realizzato dopo o durante l’esecuzione della pena (c.d. “recidiva vera”);
  4. è stato realizzato durante il tempo in cui il condannato si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena stessa (c.d. “recidiva finta”).

In tutte queste ipotesi la pena può essere aumentata “fino alla metà” se sussiste soltanto una delle circostanze appena menzionate; l’aggravio, invece, è “della metà” se ne ricorrono due o più di due.

Si parla, poi, di recidiva reiterata, ai sensi dell’art. 99, co. 4, c.p., qualora il nuovo delitto non colposo sia commesso da chi è già recidivo. In questa fattispecie l’inasprimento sanzionatorio varia a seconda del tipo di recidiva che si è precedentemente configurata. L’aumento, infatti, è della metà in caso di recidiva semplice; di due terzi, in  presenza di recidiva aggravata.

Infine, all’art. 99, co. 5, c.p., viene disciplinata la c.d. “recidiva obbligatoria”, la quale si configura allorquando il nuovo delitto non colposo rientri tra uno di quelli indicati nell’art. 407, co. 2, lett. a), del codice di rito (tra i quali sono ricompresi, ad esempio, l’associazione mafiosa, i delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, il traffico di stupefacenti, la strage, l’omicidio doloso, la rapina aggravata, l’estorsione aggravata).

Dunque, a differenza delle ipotesi di recidiva disciplinate nei commi da uno a quattro dell’art. 99 c.p., in cui l’aggravamento di pena previsto dal legislatore resta facoltativo per il giudice, nella recidiva obbligatoria l’aumento sanzionatorio è, invece, automatico e prescinde da qualsiasi accertamento in concreto da parte dell’interprete.

2. I dubbi di legittimità costituzionale e la recente pronuncia demolitoria della Consulta

Proprio quest’ultima peculiare figura di recidiva, introdotta con la riforma del 2005, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Consulta nella recente pronuncia del 23 luglio 2015, n. 185.

L’iniziativa in tal senso è stata adottata dalla Corte di cassazione, quinta sezione penale, che con ordinanza del 10 settembre 2014 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, co. 5, c.p. (così come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005,  n. 251) in riferimento agli artt. 3 e 27, co. 3, Cost. [anche la Corte d’appello di Napoli, terza sezione penale, con ordinanza del 19 novembre 2014 ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale, richiamando interamente il contenuto dell’ordinanza emessa dalla quinta sezione della Suprema Corte].

Più nello specifico, i giudici remittenti hanno evidenziato la violazione, da parte dell’istituto in esame, dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della manifesta irragionevolezza del parametro utilizzato dal legislatore per giustificare l’obbligatorietà dell’aumento di pena di cui all’art. 99, co. 5, c.p., ossia il mero richiamo ad uno dei delitti previsti all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p.

Difatti, per consolidata giurisprudenza costituzionale [cfr. Corte Cost., ord. n. 193/1990; Corte Cost., ord. n. 409/2007; Corte Cost., ord. n. 33/2008], l’applicabilità della recidiva presuppone – o almeno dovrebbe – un accertamento in concreto da parte dell’interprete effettuato sulla base di una serie di criteri elaborati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, tra i quali: la natura dei reati posti in essere, il tipo di devianza di cui sono il segno, la qualità dei comportamenti, il margine di offensività delle condotte, e ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza. Nell’istituto censurato, invece, tale verifica viene del tutto esclusa e l’applicazione della recidiva si fonda sul mero riscontro formale dell’esistenza di determinati precedenti penali.

I giudici a quo, poi, hanno denunciato anche la violazione dell’art. 27, co. 3, Cost., in quanto la preclusione dell’accertamento avente ad oggetto la sussistenza delle condizioni “sostanziali” legittimanti l’aggravio sanzionatorio della recidiva, renderebbe la pena “già a livello di comminatoria legislativa astratta” palesemente sproporzionata e inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone ogni finalità rieducativa.

Dinanzi alle censure appena richiamate, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «è obbligatorio e,»”.

La Corte ha rilevato, in primo luogo, il contrasto con l’art. 3 Cost. sottolineando che la scelta di ricollegare l’aumento di pena della recidiva esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso determina la configurazione di un automatismo sanzionatorio assolutamente privo di ragionevolezza. Tale conclusione appare tanto più condivisibile laddove si consideri che il richiamo all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. concerne reati tra loro assolutamente eterogenei, considerati unitariamente dal legislatore per mere esigenze processuali relative al termine massimo di durata delle indagini preliminari.

La Consulta ha poi riconosciuto anche la violazione dell’art. 27, co. 3, Cost. sostenendo che l’assenza di un accertamento volto a riscontrare una più accentuata colpevolezza o una maggiore pericolosità sociale del reo nelle ipotesi di recidiva obbligatoria rende la pena inevitabilmente sproporzionata, vanificandone irrimediabilmente la finalità rieducativa prevista dall’art. 27, co. 3, Cost.

In definitiva, e in via di estrema sintesi, la Corte Costituzionale ha dunque ravvisato il contrasto della norma censurata sia rispetto all’art. 3 Cost., in quanto la scelta di ricollegare un aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso appare manifestamente irragionevole; sia rispetto all’art. 27, co. 3, Cost., poiché la preclusione dell’accertamento della “concreta significatività del nuovo episodio delittuoso” rende ab origine la pena sproporzionata e, in ogni caso, inefficace rispetto alla sua funzione di integrazione sociale.

3. La costante riemersione delle logiche d’autore nel diritto penale moderno

In occasione del condivisibile intervento demolitorio della Consulta, appena ricostruito nei suoi tratti essenziali, sembra opportuno sottolineare come l’istituto censurato abbia rappresentato - e la disciplina generale della recidiva continui a rappresentare - uno degli esempi più emblematici della tendenza del nostro legislatore a contraddire i principi propri di un moderno diritto penale “del fatto”, proponendo categorie concettuali tipiche di un diritto penale “d’autore”.

“É tale un diritto penale che, a scapito della necessaria centralità del fatto di reato, prospetta una colpevolezza per il carattere del reo o per la sua condotta di vita, finendo per punire l’autore del reato non per quello che ha fatto, ma per quello che è o che si è lasciato diventare” [G. Piffer, I nuovi vincoli alla discrezionalità giudiziale: la disciplina della recidiva, in Diritto Penale Contemporaneo, 30 dicembre 2010, p. 2].

Non è un caso che tale elaborazione teorica sia sorta tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta nella Germania nazionalsocialista, nella quale la dottrina di regime puntò alla sostituzione della colpevolezza per il singolo fatto delittuoso con la colpevolezza per la condotta di vita, al chiaro scopo di semplificare la repressione di qualsiasi forma più o meno esplicita di dissenso.

É così che la colpevolezza per il fatto criminoso (Einzeltatshuld) ha progressivamente ceduto il passo alla colpevolezza d’autore (Tatershuld), nelle due forme della colpevolezza “per il carattere” e “per lo stile di vita”.

“In particolare, la teoria della ‘colpevolezza per il carattere’ pretende che all’agente si possa muovere l’addebito di non aver frenato in tempo le pulsioni antisociali, in modo da formarsi un carattere meno malvagio e meno propenso a delinquere.

La teoria della ‘colpevolezza per la condotta di vita’, dal canto suo, pretende di incentrare il giudizio di disapprovazione sullo stesso modello o stile di vita e sulle scelte esistenziali del reo, che starebbero all’origine della sua inclinazione al delitto” [G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, p. 316.].

Se è vero che il nostro ordinamento penale di ispirazione liberal-illuminista, tendenzialmente proteso ai canoni dell’oggettivismo garantista, non potrà mai aderire apertamente ad una simile impostazione teorica, bisogna pur riconoscere l’esistenza di numerosi istituti ispirati alla logica della colpa d’autore. Si pensi, per la parte generale del codice, all’ubriachezza abituale (art. 94 c.p.) o alla stessa recidiva (art. 99 c.p.); per la parte speciale, alla contravvenzione di cui all’art. 707 c.p.; per la legislazione penale complementare, infine, al reato di “Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” previsto all’art. 10-bis del Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998).

É dunque impossibile negare che espressioni tipiche del diritto penale d’autore continuino a sopravvivere, spesso a stento, in numerose fattispecie astratte presenti nel nostro ordinamento penale. Tuttavia, dinanzi alla costante riemersione di simili logiche, resta ferma, oggi più che mai, la necessità di riportare il diritto penale alla sua originaria ispirazione oggettivistica. 

Tale conclusione, come evidenziato da autorevole dottrina, non implica tout court l’esclusione di qualsiasi valutazione inerente a caratteristiche personali del soggetto agente, soprattutto quando ciò avvenga in una fase diversa da quella della tipicità, come in quella dell’applicazione e dell’esecuzione della sanzione penale. In quest’ultima sede, pertanto, “non solo è possibile, ma appare addirittura necessario prendere in considerazione la disposizione, il modo di essere, le motivazioni del reo, proprio per approntare un’efficace strategia di recupero sociale” [S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 2006, p. 163].