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L’esercizio indiretto dell’attività di impresa e la c.d. teoria dell’imprenditore occulto

L’esercizio indiretto dell’attività di impresa e la c.d. teoria dell’imprenditore occulto
L’esercizio indiretto dell’attività di impresa e la c.d. teoria dell’imprenditore occulto

Abstract

L’autore descrive la c.d. teoria dell’imprenditore occulto e ne analizza gli sviluppi dottrinali anche alla luce delle innovazioni normative. Lo scopo è fornire nuovi spunti per un più deciso sostegno tanto alla tutela della causale giuspolitica del far credito all’investimento produttivo quanto ad una effettiva sanzione per chi elude il diritto, precipuo strumento di libertà sociale, in un contesto in cui va preso atto che, se iustitiam colimus, ogni contemperamento di interessi comporta sacrifici mai del tutto giustificabili. Sarebbe, forse, arrivato il momento di ritenere esistente nel nostro ordinamento un principio di ordine pubblico economico, ossia l’affermazione che la responsabilità di impresa (rectius per i debiti della stessa) colpisce e deve colpire sempre i soggetti che la gestiscono, superando qualsiasi barriera formale, anche se ispirata da diverse e pur meritevoli logiche giuridiche.

 

SOMMARIO: 1. L’esercizio indiretto dell’attività di impresa - 2. La strada del mandato senza rappresentanza - 3. Il problema dell’insolvenza dell’impresa - 4. La teoria dell’imprenditore occulto - 5. L’articolo 2267 del Codice Civile e l’articolo 147 della Legge Fallimentare - 6. Nuovi spunti per la c.d. teoria dell’imprenditore occulto: il comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare

1. L’esercizio indiretto dell’attività di impresa

Si ritiene, tradizionalmente, che il criterio (unico) di selezione della figura soggettiva destinataria della disciplina di impresa sia la c.d. spendita del nome, ossia quello che individua il centro di imputazione dei singoli atti compiuti nel soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico. Sorge, tuttavia, un dubbio. Davvero il nostro sistema ritiene giuridicamente irrilevante la figura del reale interessato all’esercizio dell’attività imprenditoriale, titolare effettivo del governo dell’iniziativa economica? E, in alcuni casi, tale quesito sveste i panni della mera dissertazione teorica. Nella realtà economica, infatti, potremmo assistere ad una dissociazione, nel compimento degli atti di impresa, tra il soggetto che compie gli stessi in proprio nome e quello che impartisce le direttive,  fornisce i capitali occorrenti ed incamera i profitti senza, tuttavia, palesarsi ai terzi. In questo fenomeno di esercizio indiretto dell’attività di impresa ci troveremo di fronte, allora, rispettivamente, ad un imprenditore palese (o prestanome) e ad un dominus indiretto, occulto. Le ragioni per cui tale dominus si astiene dall’esercitare personalmente un’impresa possono essere varie. Può trattarsi, in effetti, di un pubblico dipendente che, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 53 del Decreto Legislativo 30 Marzo 2001 n. 165 e dell’art. 60 del Decreto del Presidente della Repubblica 10 Gennaio 1957 n. 3 (c.d. Testo Unico sugli impiegati civili dello Stato), non può esercitare un’impresa commerciale né assumere cariche in società costituite a fine di lucro. Oppure, può trattarsi di un libero professionista iscritto all’albo che soffre una specifica inibizione, come un avvocato, un dottore commercialista o un esperto contabile, dati gli appositi regimi di incompatibilità previsti, per il primo, dagli articoli 18 e 19 della Legge 31 Dicembre 2012 n. 247 e, per gli altri due, dall’articolo 4 del Decreto Legislativo 28 Giugno 2005 n. 139. O, ancora, può accadere che sul soggetto insista un vincolo di non concorrenza, legale (come, ad esempio, quello previsto dall’articolo 2301 del Codice Civile per il socio di una società in nome collettivo) o contrattuale (ai sensi dell’articolo 2596 del Codice Civile, di cui, a ben vedere, sono manifestazioni gli articoli 2125 e 1751 bis).  Ma, più di frequente, l’esercizio dell’attività per interposta persona è sorretto dall’intento di sottrarsi ai rischi di impresa. Accade, infatti, che il dominus occulto continui ad immettere il capitale necessario all’impresa fin quando la stessa viene esercitata con profitto e gli affari prosperano; quando, poi, invece, l’esercizio cessa di essere lucrativo, smette di essere un buon affare, si sospende persino l’erogazione dei fondi, lasciando il prestanome, probabilmente una persona fisica nullatenente od una s.p.a. o s.r.l. con capitale sociale irrisorio (c.d. società di comodo o etichetta), nell’impossibilità di onorare i debiti contratti.

2. La strada del mandato senza rappresentanza

Secondo la dottrina più tradizionalista (Trabucchi, Lamanna Di Salvo), il rapporto tra dominus occulto e prestanome potrebbe qualificarsi come un mandato senza rappresentanza. Cerchiamo di capire la ragione di codesta equiparazione. Mediante il mandato, si destinano al mandante i risultati economico-sociali (i vantaggi e gli svantaggi dell’operazione) degli atti posti in essere dal mandatario. Il mandatario, allora, può rappresentare un’utile figura di collaboratore dell’impresa nello svolgimento dell’attività, anche se, a differenza degli institori, dei procuratori e dei commessi, i quali sono alle dipendenze dell’imprenditore, il mandatario sarà un ausiliare autonomo dello stesso. In questa situazione, il dominus dell’attività economica che intende apparire all’esterno e divenire parte del contratto da concludere, conferirà al mandatario anche una procura (mandato con rappresentanza), mentre, invece, funzionale a chi non ha intenzione di manifestarsi agli occhi della controparte contrattuale, ed è questo il ponte dell’equiparazione con la fattispecie dell’esercizio occulto di impresa, è un contratto di mandato senza rappresentanza (previsto dall’articolo 1705 del Codice Civile). Importante, ai nostri fini, sono proprio gli effetti di questa seconda opzione. Sarà il mandatario, e non il mandante, ad acquistare diritti ed obblighi nei confronti dei terzi. Risulterà, poi, essere onere del primo, nei rapporti interni con il mandante, trasferire gli effetti dal suo patrimonio a quello del rappresentato per mezzo di un autonomo negozio giuridico. Da ciò consegue che sarebbe solo il mandatario, ossia il prestanome, in virtù dell’equiparazione di cui è qui parola, l’unico responsabile degli atti di impresa compiuti con i terzi, mentre il mandante, ossia il dominus occulto, non potrà essere considerato loro debitore.

3. Il problema dell’insolvenza dell’impresa

Il fenomeno dell’esercizio indiretto dell’attività di impresa non crea problemi fino a quando l’attività è fiorente. Tuttavia, nella malaugurata ipotesi in cui gli affari vadano a rotoli, si profilano gravi situazioni. Di sicuro, i creditori dell’impresa potranno determinare il fallimento del prestanome, in quanto, avendo questi speso il proprio nome, ha acquisito la qualità di imprenditore commerciale (se l’oggetto dell’attività svolta è commerciale, s’intende). Peccato solo che, probabilmente, se l’operazione è stata veramente dettata dall’intento di eludere i rischi di impresa,  si arriverà a gestire la procedura fallimentare di un paravento nullatenente e tali creditori non troveranno adeguato soddisfacimento dal concorso paritetico sui risultati delle operazioni liquidatorie dei beni, anche personali, del primo. Ora, se si ammette sul serio che il dominus occulto è un mandante che (a parte l’impossibilità di qualificarlo imprenditore, essendo mancata la spendita del nome) non può essere considerato debitore di coloro che sono venuti a contatto con l’impresa, secondo lo schema del mandato senza rappresentanza, costui non può fallire. Ecco, dunque, che il rischio derivante dall’esercizio dell’attività economica verrebbe trasferito su coloro che hanno dato fiducia all’insolvente, senza aver avuto l’accortezza di farsi garantire personalmente dal dominus i debiti contratti in proprio nome dall’imprenditore palese: finanziatori che non potranno tornare in possesso dei fondi erogati, fornitori che non otterranno il corrispettivo delle forniture effettuate, dipendenti dell’impresa che non riceveranno la retribuzione per il proprio lavoro. Conseguenze, queste, decisamente esiziali per i creditori più deboli, come piccoli fornitori, lavoratori ed enti previdenziali, col pericolo che si verifichino dissesti economici a catena.

È più che lecito, allora, farsi investire da perplessità. Davvero la disciplina dell’impresa ed il regime della sua crisi non lasciano intravedere una soluzione diversa? È sul serio impedito un atteggiamento più sensibile e consapevole delle ripercussioni che l’esercizio d’impresa per interposta persona causa nella realtà economica e sociale? Proprio per rispondere a questi interrogativi, un giurista, dotato di notevole propensione critica e costruttiva, del pari attento ai problemi della prassi e a quelli della pura teoria, nella metà degli anni ’50 del secolo scorso, andava elaborando la tesi dell’esistenza, nel nostro panorama legislativo, di un ulteriore criterio attributivo della qualifica di imprenditore. Walter Bigiavi formulava, così, la c.d. teoria dell’imprenditore occulto, un’impostazione dottrinale particolarmente rispettosa della sostanza delle cose, che ancora oggi raccoglie le energie, spesso critiche, della scienza del diritto commerciale.

4. La teoria dell’imprenditore occulto

Croce e delizia della c.d. teoria dell’imprenditore occulto è la dimostrazione che il criterio della c.d. spendita del nome non costituisce requisito necessario ai fini della imputazione della responsabilità per debiti di impresa. In sostanza, si tratta di vedere se, allo scopo di attribuire la qualifica di imprenditore, il nostro legislatore richieda sempre un elemento formale, qual è lo spendere il proprio nome nel traffico giuridico, o se, piuttosto, egli non si accontenti, almeno talvolta, di un elemento sostanziale. Il quesito scientifico acquista vitalità proprio grazie all’entrata in vigore del Codice Civile. L’abrogato Codice di Commercio, infatti, rendeva assurda la possibilità di concepire la figura di un (imprenditore ovvero) commerciante “occulto”, dato che considerava unica figura di imputazione soggettiva dell’attività economica il soggetto nel cui nome erano abitualmente compiuti determinati atti negoziali di commercio. Dimostrazione ne era l’articolo 865 n. 3, il quale puniva con la reclusione fino a cinque anni coloro che si rendevano “colpevoli dei fatti indicati nell’articolo 860, esercitando il commercio sotto altrui nome o sotto nome simulato”, applicando la stessa pena al “commerciante che scientemente prestò il nome”. La norma, allora, definendo chiaramente commerciante colui che “scientemente prestò il nome”, rendeva facile superare il dubbio in merito a se, figura rilevante ai fini dell’attività di commercio, fosse anche chi avesse esercitato personalmente il commercio ovvero unicamente il soggetto che avesse consentito a costui l’uso del proprio nome. Ecco perché, nel tentativo di non voler contraddire il sistema e, al tempo stesso, di impedire gli scandali prodotti dall’esercitare il commercio sotto la guida apparente del c.d. uomo di paglia, la disposizione colpiva solo indirettamente, con la scure della responsabilità penale, chi avesse avuto la principale ingerenza nelle operazioni, ma che, non avendo esposto il proprio nome, non sarebbe potuto essere qualificato commerciante e sanzionato in via diretta, ossia mediante il fallimento. Il legislatore storico del ’42, però, muta le carte in tavola. Ora, forse, per l’esercizio dell’attività di impresa opererebbero principi parzialmente diversi rispetto al mandato senza rappresentanza, mediante i quali sarebbe possibile, nei confronti del dominus, non solo attribuirgli la responsabilità dei debiti contratti e non onorati, ma persino trascinarlo nelle procedure concorsuali. Secondo Walter Bigiavi, la nostra legge avrebbe definitivamente accolto (anche) la c.d. dottrina della sovranità, per la quale sono imprenditori, e, perciò, dell’attività esercitata responsabili, coloro che dell’impresa detengono l’interesse e l’iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. In altri termini, sebbene la soluzione contraria all’esistenza giuridicamente rilevante della figura dell’imprenditore occulto sia una scelta plausibile, il sistema successivo all’unificazione dei codici avrebbe, invece, preferito l’altra soluzione, quella favorevole, anch’essa lecita, optando, al fine di attribuire lo status di imprenditore, piuttosto che per un utilizzo esclusivo del criterio formale, anche per un criterio economico-sostanziale, quantomeno nella normalità dei casi. Dunque, normalmente, l’ascrizione della qualifica e del regime di imprenditore deriverebbe da due criteri di imputazione: la spesa del proprio nome nel contrattare, nell’interesse dell’impresa, con i terzi e l’appartenenza del potere direttivo dell’attività economica esercitata. Così, ove quest’ultimo presupposto, in concreto, non concorra in capo al medesimo soggetto nel cui nome sono compiuti gli atti pertinenti, si assisterebbe ad una duplicazione della qualifica soggettiva di imprenditore, con contestuale attribuzione della stessa a due diversi soggetti, ossia all’imprenditore palese e al dominus occulto (che a questo punto possiamo anche definire imprenditore tout court) in virtù di due diversi criteri giuridici.

Mediante il criterio economico-sostanziale che attribuisce la qualifica di imprenditore anche al soggetto titolare del potere di direzione dell’attività, allora, si ricollegherebbe la responsabilità di impresa al soggetto che ne ha esercitato il potere, anche se occorre estendere al dominus occulto la procedura fallimentare, che della prima costituisce l’imprescindibile suggello.

Questa conclusione, ossia che la spendita del nome non rappresenterebbe l’unico criterio idoneo a selezionare la figura soggettiva destinataria della disciplina di impresa, si ricava da una serie di indici normativi.

In primo luogo, l’articolo 2208 del Codice Civile statuisce che, ove l’institore ometta di far conoscere al terzo che egli tratta per il preponente, il terzo può comunque agire contro quest’ultimo per gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa a cui l’institore è preposto. Da tale norma, Bigiavi desume la rilevanza giuridica, nel nostro ordinamento, della figura dell’institore segreto, essendo il terzo, quand’anche sia mancata la c.d. contemplatio domini, legittimato ad agire anche nei confronti dell’effettivo titolare dell’impresa, qualora risulti che gli atti compiuti dal prestanome siano pertinenti all’esercizio della stessa.

In secondo luogo, il comma 2 dell’articolo 2615 del Codice Civile rappresenta una notevole deroga ai principi dettati dall’articolo 1705. Mentre, in linea di massima, per le obbligazioni assunte in nome del consorzio risponde solo questo con il proprio patrimonio, la norma citata dispone che, nel caso in cui un’obbligazione del consorzio venga contratta in suo nome, ma per conto di uno o più singoli consorziati, costoro rispondono solidalmente con il primo per il relativo adempimento. In tal caso, anche se si è comunque di fronte ad un’obbligazione del consorzio, dovendo la stessa essere assunta dagli organi di questo, in nome proprio, ed adempiuta dal fondo consortile, nei confronti dei terzi risponde pure il consorziato per conto del quale l’obbligazione è stata contratta. È, allora, naturale cogliere il parallelo con la fattispecie dell’imprenditore occulto ed il sostegno alla sua teoria.

In terzo luogo, altro mattone per le fondamenta del criterio economico-sostanziale del potere di direzione è l’ultimo comma dell’articolo 2339 del Codice Civile. Secondo Bigiavi, affinché sussista la responsabilità prevista dalla disposizione, non è necessario che i terzi, per conto dei quali i promotori hanno agito, abbiano concorso alla commissione del fatto dannoso, poiché rispondono in quanto la società veniva promossa per loro conto.

In quarto luogo, va osservato che il nostro ordinamento conosce già un caso (non patologico ma) fisiologico di responsabilità patrimoniale di chi non spende il proprio nome nell’esercizio dell’impresa. Ci riferiamo alla fattispecie dell’usufruttuario o dell’affittuario d’azienda, il quale, al fine di conservare l’avviamento, “deve esercitarla (l’azienda, o meglio, l’impresa) sotto la ditta che la contraddistingue” , ai sensi del comma 1 dell’articolo 2561 del Codice Civile. Qualora l’affitto o l’usufrutto non risultino dal Registro delle imprese ed il gestore non appaia altrimenti ai terzi, magari lasciando trattare con loro il medesimo dipendente già adibito dal titolare, occorre chiedersi chi risponde dei debiti così contratti. Si ritiene (Paolo Menti) che, in conformità all’articolo 2193, risponde, innanzitutto, il titolare, salvo raggiungere la prova che il terzo conoscesse la reale situazione. Tuttavia, risponde anche il nuovo gestore, solidalmente, pur essendo rimasto ignoto ai terzi, avendo agito sotto l’antica ditta. Altra soluzione, infatti, non sarebbe pensabile, a meno che si voglia ammettere che il nostro ordinamento tolleri l’esercizio di un’impresa in regime di assoluta irresponsabilità.

5. L’articolo 2267 del Codice Civile e l’articolo 147 della Legge Fallimentare

Secondo Walter Bigiavi, comunque, il rilievo decisivo per cogliere l’opportuna scelta, da parte del legislatore del ’42, a favore della c.d. dottrina della sovranità sarebbe ravvisabile nella ratio che permea due articoli importantissimi per gli sviluppi della teoria dell’imprenditore occulto: l’articolo 2267 del Codice Civile e l’articolo 147 della Legge Fallimentare. Partiamo proprio da quest’ultimo. Il vecchio comma 1 dell’art. 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267affermava che la “sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili”. Secondo il Maestro bolognese, i soci illimitatamente responsabili di una società di persone vengono(data la palese specularità, in merito alle questioni che ci riguardano, tra il vecchio ed il nuovo articolo 147, ci permettiamo di usare il presente nei tempi verbali) sottoposti a fallimento in quanto il legislatore li considera imprenditori indiretti, ossia ritiene che, mentre l’impresa è, nella forma, gestita dalla società, nella sostanza, essa è diretta dai soci illimitatamente responsabili. Il vecchio comma 2 (fedelmente riprodotto dall’attuale comma 4 dell’articolo 147, al di là delle modifiche in tema di legittimazione a proporre l’istanza estensiva), invece, disponeva che se “dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale, su domanda del curatore o d’ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in camera di consiglio”. Ora, secondo Bigiavi, non sussisteva un’antitesi (netta) tra questi due commi dell’articolo 147. Entrambi, infatti, riguardavano una medesima categoria: gli imprenditori indiretti. Il perno intorno al quale è stato costruito tale articolo, secondo l’illustre autore, è proprio l’intento di colpire con l’estensione della procedura concorsuale di fallimento chi, indirettamente, è imprenditore. L’unica differenza è che, mentre il primo comma riguardava gli imprenditori indiretti semplici, cioè coloro che hanno assunto palesemente una posizione giuridica cui la legge ricollega la qualifica di imprenditore (indiretto), il secondo volgeva lo sguardo agli imprenditori indiretti occulti. I termini di imprenditore indiretto e di imprenditore occulto, in effetti, non possono essere ritenuti sinonimi. Imprenditore occulto in senso tecnico è colui del quale il nome non è stato speso, ragion per cui egli resta occulto anche se sia noto, nel mondo degli affari, che chi tira le fila è proprio lui. Quello di imprenditore indiretto, invece, è termine generalissimo, che comprende sia l’imprenditore indiretto del quale il nome sia stato speso mediatamente, come accade per il socio illimitatamente responsabile (imprenditore indiretto semplice), sia l’imprenditore indiretto del quale il nome non sia stato speso nemmeno mediatamente, come avviene per il socio occulto illimitatamente responsabile di una società personale (imprenditore occulto in senso tecnico). Si ricava che il principio dettato dal comma 2 si rivolgeva soltanto all’imprenditore indiretto che sia occulto in senso tecnico. Insomma, il fallimento di una società commerciale comporta (azzardiamo ancora l’uso del presente indicativo per le suddette ragioni) non solo il fallimento dei soci palesi illimitatamente responsabili di una società palese, ma anche il fallimento di quei soci illimitatamente responsabili che sono rimasti fra le quinte e dei quali si scopra più tardi l’esistenza. Il fallimento dei soci occulti di una società palese, inoltre, non rappresenterebbe il risultato di una disposizione avente carattere eccezionale, in quanto, il vecchio comma 2 costituisce un’applicazione, in tema di fallimento, del principio della responsabilità personale del socio occulto desumibile, in sede più generale, dall’articolo 2267 del Codice Civile. Quest’ultimo, infatti, estendendo, salvo patto contrario portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, la responsabilità per le obbligazioni sociali anche ai soci che non abbiano agito in nome della società e non distinguendo fra soci palesi e soci occulti, porta a ritenere che anche questi ultimi siano responsabili delle obbligazioni assunte dalla società palese. L’articolo, tuttavia, non ha quella univocità che una prima lettura potrebbe suggerire. Lo stesso Bigiavi ammette che il legislatore, nel disciplinare questa ipotesi, non abbia l’occhio rivolto ai soci occulti, bensì a quei soci palesi che non hanno agito in nome e per conto della società. È chiaro, infatti, che, se gli “altri soci” che non hanno agito sono in grado di limitare la loro responsabilità verso i terzi solo portando a conoscenza di questi ultimi il patto interno di limitazione, ciò significa che gli “altri soci” non possono essere soci occulti. In ogni caso, però, è il silenzio della disposizione che ci fa ricavare la responsabilità personale del socio occulto, ossia il fatto che essa non sia espressamente esclusa.

A questo punto, quid iuris allorché non ci sia mai stata neppure una società palese? Potrà, scoperta l’esistenza di una società occulta, dichiararsene il fallimento sebbene non siano mai state assunte obbligazioni in suo nome? Potranno quindi essere dichiarati falliti anche i soci occulti di una società occulta? L’interprete, quando manchi ogni elemento dal quale risulti che il legislatore ha voluto basarsi sul principio dell’id quod plerumque accidit, cioè imporre per ogni caso, anche diverso dal normale, la regolamentazione da lui dettata per il caso normale, non può accontentarsi della lettera della legge. Non è sempre vero, infatti, che ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, perché, continuando a ribattere in brocardi, inclusio unius non est exclusio alterius. E allora, il giurista assetato di coerenza deve enucleare la ratio della norma e trovare le soluzioni ai quesiti sulla base della stessa. Se, dunque, è certo che, in base all’articolo 147, comma 2 (vecchio), può (il lettore ci perdoni ancora l’azzardo sul tempo verbale)fallire il socio occulto di una società palese, ossia un socio sulla cui responsabilità patrimoniale i terzi possono non avere minimamente contato, non vi è ragione al mondo per cui non debba fallire anche il socio occulto di una società occulta, e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa. Immaginiamo il caso di una società palese costituita da tre soci, due dei quali soltanto, però, operano palesemente, giacché il terzo decide di rimanere nell’ombra. Coloro che entrano in contatto con la società contano unicamente sulla responsabilità patrimoniale dei due soci palesi, non certo su quella del socio occulto. Eppure, nonostante ciò, il fallimento della società si estende, come abbiamo visto, anche al socio occulto. Si supponga, adesso, una società con due soci, uno palese l’altro occulto. All’esterno apparirà un’impresa individuale, tuttavia, se, nello svolgimento dell’attività o della sua crisi, emerge la società occulta, nulla impedisce, neppure in questo caso, di estendere la responsabilità per le obbligazioni assunte dalla società anche al socio occulto. È lapalissiana, infatti, la specularità fra le due fattispecie, in quanto, né nella prima, né nella seconda, i terzi hanno minimamente contato sulla consistenza patrimoniale, e, dunque, sulla responsabilità, di chi (socio nella prima, società e socio nella seconda) a loro era ignoto. In altri termini, essendo identica la ratio nelle due ipotesi, appare giustificata l’analogia legis.

Il risultato così raggiunto, poi, può essere esteso alla figura “classica” del dominus occulto, dato che tra la stessa e la figura della società occulta esiste un’innegabile affinità. Giuridicamente, infatti, è irrilevante se chi rimane tra le quinte sia soltanto un socio di chi appare in pubblico o sia, invece, l’esclusivo titolare dell’impresa gestita dal prestanome. Né il diritto positivo, né la logica ci autorizzano a distinguere, in questo caso, fra due e tre. Ecco, dunque, che in entrambi i casi siamo al cospetto di un imprenditore occulto: nel primo, esso è una società cui partecipa anche colui che agisce con i terzi, mentre, nel secondo, è una persona (fisica o giuridica) detentrice dell’esclusiva titolarità di un’impresa, nell’ambito della quale il prestanome non ha alcuna partecipazione sociale. Allora, dato il silenzio dell’ordinamento, è lecito estendere anche a quest’ultima ipotesi il principio ricavato dal vecchio comma 2 dell’articolo 147 e quindi, questa volta per analogia iuris, proclamare l’assoggettabilità a fallimento (anche) di qualsiasi soggetto che risulti essere il dominus dell’impresa esercitata nominalmente da altri.

6. Nuovi spunti per la c.d. teoria dell’imprenditore occulto: il comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare

L’intento di valorizzare e tutelare la causale giuspolitica del far credito all’investimento produttivo, magari a discapito di chi fa credito al consumo, e di provare a sanzionare chi elude il diritto, precipuo strumento di libertà sociale, anima della c.d. teoria dell’imprenditore occulto, pare ricevere nuovi stimoli dall’attuale comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare (introdotto con la riforma avvenuta ad opera del Decreto Legislativo nr. 5 del 2006). Esso dispone che il tribunale procede all’estensione della procedura concorsuale anche “…qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile”. La disposizione, dunque, enuncia per tabulas la fallibilità di un imprenditore del quale non è mai stato speso il nome nell’esercizio dell’impresa, ossia di un imprenditore occulto, ed azzera il primo passaggio analogico della lezione di Bigiavi. La c.d. dottrina della sovranità, veementemente difesa dal Maestro bolognese sembra, dunque, aver ricevuto oggi un nuovo ed utilissimo sostegno normativo.

 

Bibliografia

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TRABUCCHI Alberto, “Istituzioni di diritto civile”, XLIV edizione (a cura di Trabucchi G.), Padova, 2009.

Abstract

L’autore descrive la c.d. teoria dell’imprenditore occulto e ne analizza gli sviluppi dottrinali anche alla luce delle innovazioni normative. Lo scopo è fornire nuovi spunti per un più deciso sostegno tanto alla tutela della causale giuspolitica del far credito all’investimento produttivo quanto ad una effettiva sanzione per chi elude il diritto, precipuo strumento di libertà sociale, in un contesto in cui va preso atto che, se iustitiam colimus, ogni contemperamento di interessi comporta sacrifici mai del tutto giustificabili. Sarebbe, forse, arrivato il momento di ritenere esistente nel nostro ordinamento un principio di ordine pubblico economico, ossia l’affermazione che la responsabilità di impresa (rectius per i debiti della stessa) colpisce e deve colpire sempre i soggetti che la gestiscono, superando qualsiasi barriera formale, anche se ispirata da diverse e pur meritevoli logiche giuridiche.

 

SOMMARIO: 1. L’esercizio indiretto dell’attività di impresa - 2. La strada del mandato senza rappresentanza - 3. Il problema dell’insolvenza dell’impresa - 4. La teoria dell’imprenditore occulto - 5. L’articolo 2267 del Codice Civile e l’articolo 147 della Legge Fallimentare - 6. Nuovi spunti per la c.d. teoria dell’imprenditore occulto: il comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare

1. L’esercizio indiretto dell’attività di impresa

Si ritiene, tradizionalmente, che il criterio (unico) di selezione della figura soggettiva destinataria della disciplina di impresa sia la c.d. spendita del nome, ossia quello che individua il centro di imputazione dei singoli atti compiuti nel soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico. Sorge, tuttavia, un dubbio. Davvero il nostro sistema ritiene giuridicamente irrilevante la figura del reale interessato all’esercizio dell’attività imprenditoriale, titolare effettivo del governo dell’iniziativa economica? E, in alcuni casi, tale quesito sveste i panni della mera dissertazione teorica. Nella realtà economica, infatti, potremmo assistere ad una dissociazione, nel compimento degli atti di impresa, tra il soggetto che compie gli stessi in proprio nome e quello che impartisce le direttive,  fornisce i capitali occorrenti ed incamera i profitti senza, tuttavia, palesarsi ai terzi. In questo fenomeno di esercizio indiretto dell’attività di impresa ci troveremo di fronte, allora, rispettivamente, ad un imprenditore palese (o prestanome) e ad un dominus indiretto, occulto. Le ragioni per cui tale dominus si astiene dall’esercitare personalmente un’impresa possono essere varie. Può trattarsi, in effetti, di un pubblico dipendente che, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 53 del Decreto Legislativo 30 Marzo 2001 n. 165 e dell’art. 60 del Decreto del Presidente della Repubblica 10 Gennaio 1957 n. 3 (c.d. Testo Unico sugli impiegati civili dello Stato), non può esercitare un’impresa commerciale né assumere cariche in società costituite a fine di lucro. Oppure, può trattarsi di un libero professionista iscritto all’albo che soffre una specifica inibizione, come un avvocato, un dottore commercialista o un esperto contabile, dati gli appositi regimi di incompatibilità previsti, per il primo, dagli articoli 18 e 19 della Legge 31 Dicembre 2012 n. 247 e, per gli altri due, dall’articolo 4 del Decreto Legislativo 28 Giugno 2005 n. 139. O, ancora, può accadere che sul soggetto insista un vincolo di non concorrenza, legale (come, ad esempio, quello previsto dall’articolo 2301 del Codice Civile per il socio di una società in nome collettivo) o contrattuale (ai sensi dell’articolo 2596 del Codice Civile, di cui, a ben vedere, sono manifestazioni gli articoli 2125 e 1751 bis).  Ma, più di frequente, l’esercizio dell’attività per interposta persona è sorretto dall’intento di sottrarsi ai rischi di impresa. Accade, infatti, che il dominus occulto continui ad immettere il capitale necessario all’impresa fin quando la stessa viene esercitata con profitto e gli affari prosperano; quando, poi, invece, l’esercizio cessa di essere lucrativo, smette di essere un buon affare, si sospende persino l’erogazione dei fondi, lasciando il prestanome, probabilmente una persona fisica nullatenente od una s.p.a. o s.r.l. con capitale sociale irrisorio (c.d. società di comodo o etichetta), nell’impossibilità di onorare i debiti contratti.

2. La strada del mandato senza rappresentanza

Secondo la dottrina più tradizionalista (Trabucchi, Lamanna Di Salvo), il rapporto tra dominus occulto e prestanome potrebbe qualificarsi come un mandato senza rappresentanza. Cerchiamo di capire la ragione di codesta equiparazione. Mediante il mandato, si destinano al mandante i risultati economico-sociali (i vantaggi e gli svantaggi dell’operazione) degli atti posti in essere dal mandatario. Il mandatario, allora, può rappresentare un’utile figura di collaboratore dell’impresa nello svolgimento dell’attività, anche se, a differenza degli institori, dei procuratori e dei commessi, i quali sono alle dipendenze dell’imprenditore, il mandatario sarà un ausiliare autonomo dello stesso. In questa situazione, il dominus dell’attività economica che intende apparire all’esterno e divenire parte del contratto da concludere, conferirà al mandatario anche una procura (mandato con rappresentanza), mentre, invece, funzionale a chi non ha intenzione di manifestarsi agli occhi della controparte contrattuale, ed è questo il ponte dell’equiparazione con la fattispecie dell’esercizio occulto di impresa, è un contratto di mandato senza rappresentanza (previsto dall’articolo 1705 del Codice Civile). Importante, ai nostri fini, sono proprio gli effetti di questa seconda opzione. Sarà il mandatario, e non il mandante, ad acquistare diritti ed obblighi nei confronti dei terzi. Risulterà, poi, essere onere del primo, nei rapporti interni con il mandante, trasferire gli effetti dal suo patrimonio a quello del rappresentato per mezzo di un autonomo negozio giuridico. Da ciò consegue che sarebbe solo il mandatario, ossia il prestanome, in virtù dell’equiparazione di cui è qui parola, l’unico responsabile degli atti di impresa compiuti con i terzi, mentre il mandante, ossia il dominus occulto, non potrà essere considerato loro debitore.

3. Il problema dell’insolvenza dell’impresa

Il fenomeno dell’esercizio indiretto dell’attività di impresa non crea problemi fino a quando l’attività è fiorente. Tuttavia, nella malaugurata ipotesi in cui gli affari vadano a rotoli, si profilano gravi situazioni. Di sicuro, i creditori dell’impresa potranno determinare il fallimento del prestanome, in quanto, avendo questi speso il proprio nome, ha acquisito la qualità di imprenditore commerciale (se l’oggetto dell’attività svolta è commerciale, s’intende). Peccato solo che, probabilmente, se l’operazione è stata veramente dettata dall’intento di eludere i rischi di impresa,  si arriverà a gestire la procedura fallimentare di un paravento nullatenente e tali creditori non troveranno adeguato soddisfacimento dal concorso paritetico sui risultati delle operazioni liquidatorie dei beni, anche personali, del primo. Ora, se si ammette sul serio che il dominus occulto è un mandante che (a parte l’impossibilità di qualificarlo imprenditore, essendo mancata la spendita del nome) non può essere considerato debitore di coloro che sono venuti a contatto con l’impresa, secondo lo schema del mandato senza rappresentanza, costui non può fallire. Ecco, dunque, che il rischio derivante dall’esercizio dell’attività economica verrebbe trasferito su coloro che hanno dato fiducia all’insolvente, senza aver avuto l’accortezza di farsi garantire personalmente dal dominus i debiti contratti in proprio nome dall’imprenditore palese: finanziatori che non potranno tornare in possesso dei fondi erogati, fornitori che non otterranno il corrispettivo delle forniture effettuate, dipendenti dell’impresa che non riceveranno la retribuzione per il proprio lavoro. Conseguenze, queste, decisamente esiziali per i creditori più deboli, come piccoli fornitori, lavoratori ed enti previdenziali, col pericolo che si verifichino dissesti economici a catena.

È più che lecito, allora, farsi investire da perplessità. Davvero la disciplina dell’impresa ed il regime della sua crisi non lasciano intravedere una soluzione diversa? È sul serio impedito un atteggiamento più sensibile e consapevole delle ripercussioni che l’esercizio d’impresa per interposta persona causa nella realtà economica e sociale? Proprio per rispondere a questi interrogativi, un giurista, dotato di notevole propensione critica e costruttiva, del pari attento ai problemi della prassi e a quelli della pura teoria, nella metà degli anni ’50 del secolo scorso, andava elaborando la tesi dell’esistenza, nel nostro panorama legislativo, di un ulteriore criterio attributivo della qualifica di imprenditore. Walter Bigiavi formulava, così, la c.d. teoria dell’imprenditore occulto, un’impostazione dottrinale particolarmente rispettosa della sostanza delle cose, che ancora oggi raccoglie le energie, spesso critiche, della scienza del diritto commerciale.

4. La teoria dell’imprenditore occulto

Croce e delizia della c.d. teoria dell’imprenditore occulto è la dimostrazione che il criterio della c.d. spendita del nome non costituisce requisito necessario ai fini della imputazione della responsabilità per debiti di impresa. In sostanza, si tratta di vedere se, allo scopo di attribuire la qualifica di imprenditore, il nostro legislatore richieda sempre un elemento formale, qual è lo spendere il proprio nome nel traffico giuridico, o se, piuttosto, egli non si accontenti, almeno talvolta, di un elemento sostanziale. Il quesito scientifico acquista vitalità proprio grazie all’entrata in vigore del Codice Civile. L’abrogato Codice di Commercio, infatti, rendeva assurda la possibilità di concepire la figura di un (imprenditore ovvero) commerciante “occulto”, dato che considerava unica figura di imputazione soggettiva dell’attività economica il soggetto nel cui nome erano abitualmente compiuti determinati atti negoziali di commercio. Dimostrazione ne era l’articolo 865 n. 3, il quale puniva con la reclusione fino a cinque anni coloro che si rendevano “colpevoli dei fatti indicati nell’articolo 860, esercitando il commercio sotto altrui nome o sotto nome simulato”, applicando la stessa pena al “commerciante che scientemente prestò il nome”. La norma, allora, definendo chiaramente commerciante colui che “scientemente prestò il nome”, rendeva facile superare il dubbio in merito a se, figura rilevante ai fini dell’attività di commercio, fosse anche chi avesse esercitato personalmente il commercio ovvero unicamente il soggetto che avesse consentito a costui l’uso del proprio nome. Ecco perché, nel tentativo di non voler contraddire il sistema e, al tempo stesso, di impedire gli scandali prodotti dall’esercitare il commercio sotto la guida apparente del c.d. uomo di paglia, la disposizione colpiva solo indirettamente, con la scure della responsabilità penale, chi avesse avuto la principale ingerenza nelle operazioni, ma che, non avendo esposto il proprio nome, non sarebbe potuto essere qualificato commerciante e sanzionato in via diretta, ossia mediante il fallimento. Il legislatore storico del ’42, però, muta le carte in tavola. Ora, forse, per l’esercizio dell’attività di impresa opererebbero principi parzialmente diversi rispetto al mandato senza rappresentanza, mediante i quali sarebbe possibile, nei confronti del dominus, non solo attribuirgli la responsabilità dei debiti contratti e non onorati, ma persino trascinarlo nelle procedure concorsuali. Secondo Walter Bigiavi, la nostra legge avrebbe definitivamente accolto (anche) la c.d. dottrina della sovranità, per la quale sono imprenditori, e, perciò, dell’attività esercitata responsabili, coloro che dell’impresa detengono l’interesse e l’iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. In altri termini, sebbene la soluzione contraria all’esistenza giuridicamente rilevante della figura dell’imprenditore occulto sia una scelta plausibile, il sistema successivo all’unificazione dei codici avrebbe, invece, preferito l’altra soluzione, quella favorevole, anch’essa lecita, optando, al fine di attribuire lo status di imprenditore, piuttosto che per un utilizzo esclusivo del criterio formale, anche per un criterio economico-sostanziale, quantomeno nella normalità dei casi. Dunque, normalmente, l’ascrizione della qualifica e del regime di imprenditore deriverebbe da due criteri di imputazione: la spesa del proprio nome nel contrattare, nell’interesse dell’impresa, con i terzi e l’appartenenza del potere direttivo dell’attività economica esercitata. Così, ove quest’ultimo presupposto, in concreto, non concorra in capo al medesimo soggetto nel cui nome sono compiuti gli atti pertinenti, si assisterebbe ad una duplicazione della qualifica soggettiva di imprenditore, con contestuale attribuzione della stessa a due diversi soggetti, ossia all’imprenditore palese e al dominus occulto (che a questo punto possiamo anche definire imprenditore tout court) in virtù di due diversi criteri giuridici.

Mediante il criterio economico-sostanziale che attribuisce la qualifica di imprenditore anche al soggetto titolare del potere di direzione dell’attività, allora, si ricollegherebbe la responsabilità di impresa al soggetto che ne ha esercitato il potere, anche se occorre estendere al dominus occulto la procedura fallimentare, che della prima costituisce l’imprescindibile suggello.

Questa conclusione, ossia che la spendita del nome non rappresenterebbe l’unico criterio idoneo a selezionare la figura soggettiva destinataria della disciplina di impresa, si ricava da una serie di indici normativi.

In primo luogo, l’articolo 2208 del Codice Civile statuisce che, ove l’institore ometta di far conoscere al terzo che egli tratta per il preponente, il terzo può comunque agire contro quest’ultimo per gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa a cui l’institore è preposto. Da tale norma, Bigiavi desume la rilevanza giuridica, nel nostro ordinamento, della figura dell’institore segreto, essendo il terzo, quand’anche sia mancata la c.d. contemplatio domini, legittimato ad agire anche nei confronti dell’effettivo titolare dell’impresa, qualora risulti che gli atti compiuti dal prestanome siano pertinenti all’esercizio della stessa.

In secondo luogo, il comma 2 dell’articolo 2615 del Codice Civile rappresenta una notevole deroga ai principi dettati dall’articolo 1705. Mentre, in linea di massima, per le obbligazioni assunte in nome del consorzio risponde solo questo con il proprio patrimonio, la norma citata dispone che, nel caso in cui un’obbligazione del consorzio venga contratta in suo nome, ma per conto di uno o più singoli consorziati, costoro rispondono solidalmente con il primo per il relativo adempimento. In tal caso, anche se si è comunque di fronte ad un’obbligazione del consorzio, dovendo la stessa essere assunta dagli organi di questo, in nome proprio, ed adempiuta dal fondo consortile, nei confronti dei terzi risponde pure il consorziato per conto del quale l’obbligazione è stata contratta. È, allora, naturale cogliere il parallelo con la fattispecie dell’imprenditore occulto ed il sostegno alla sua teoria.

In terzo luogo, altro mattone per le fondamenta del criterio economico-sostanziale del potere di direzione è l’ultimo comma dell’articolo 2339 del Codice Civile. Secondo Bigiavi, affinché sussista la responsabilità prevista dalla disposizione, non è necessario che i terzi, per conto dei quali i promotori hanno agito, abbiano concorso alla commissione del fatto dannoso, poiché rispondono in quanto la società veniva promossa per loro conto.

In quarto luogo, va osservato che il nostro ordinamento conosce già un caso (non patologico ma) fisiologico di responsabilità patrimoniale di chi non spende il proprio nome nell’esercizio dell’impresa. Ci riferiamo alla fattispecie dell’usufruttuario o dell’affittuario d’azienda, il quale, al fine di conservare l’avviamento, “deve esercitarla (l’azienda, o meglio, l’impresa) sotto la ditta che la contraddistingue” , ai sensi del comma 1 dell’articolo 2561 del Codice Civile. Qualora l’affitto o l’usufrutto non risultino dal Registro delle imprese ed il gestore non appaia altrimenti ai terzi, magari lasciando trattare con loro il medesimo dipendente già adibito dal titolare, occorre chiedersi chi risponde dei debiti così contratti. Si ritiene (Paolo Menti) che, in conformità all’articolo 2193, risponde, innanzitutto, il titolare, salvo raggiungere la prova che il terzo conoscesse la reale situazione. Tuttavia, risponde anche il nuovo gestore, solidalmente, pur essendo rimasto ignoto ai terzi, avendo agito sotto l’antica ditta. Altra soluzione, infatti, non sarebbe pensabile, a meno che si voglia ammettere che il nostro ordinamento tolleri l’esercizio di un’impresa in regime di assoluta irresponsabilità.

5. L’articolo 2267 del Codice Civile e l’articolo 147 della Legge Fallimentare

Secondo Walter Bigiavi, comunque, il rilievo decisivo per cogliere l’opportuna scelta, da parte del legislatore del ’42, a favore della c.d. dottrina della sovranità sarebbe ravvisabile nella ratio che permea due articoli importantissimi per gli sviluppi della teoria dell’imprenditore occulto: l’articolo 2267 del Codice Civile e l’articolo 147 della Legge Fallimentare. Partiamo proprio da quest’ultimo. Il vecchio comma 1 dell’art. 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267affermava che la “sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili”. Secondo il Maestro bolognese, i soci illimitatamente responsabili di una società di persone vengono(data la palese specularità, in merito alle questioni che ci riguardano, tra il vecchio ed il nuovo articolo 147, ci permettiamo di usare il presente nei tempi verbali) sottoposti a fallimento in quanto il legislatore li considera imprenditori indiretti, ossia ritiene che, mentre l’impresa è, nella forma, gestita dalla società, nella sostanza, essa è diretta dai soci illimitatamente responsabili. Il vecchio comma 2 (fedelmente riprodotto dall’attuale comma 4 dell’articolo 147, al di là delle modifiche in tema di legittimazione a proporre l’istanza estensiva), invece, disponeva che se “dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale, su domanda del curatore o d’ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in camera di consiglio”. Ora, secondo Bigiavi, non sussisteva un’antitesi (netta) tra questi due commi dell’articolo 147. Entrambi, infatti, riguardavano una medesima categoria: gli imprenditori indiretti. Il perno intorno al quale è stato costruito tale articolo, secondo l’illustre autore, è proprio l’intento di colpire con l’estensione della procedura concorsuale di fallimento chi, indirettamente, è imprenditore. L’unica differenza è che, mentre il primo comma riguardava gli imprenditori indiretti semplici, cioè coloro che hanno assunto palesemente una posizione giuridica cui la legge ricollega la qualifica di imprenditore (indiretto), il secondo volgeva lo sguardo agli imprenditori indiretti occulti. I termini di imprenditore indiretto e di imprenditore occulto, in effetti, non possono essere ritenuti sinonimi. Imprenditore occulto in senso tecnico è colui del quale il nome non è stato speso, ragion per cui egli resta occulto anche se sia noto, nel mondo degli affari, che chi tira le fila è proprio lui. Quello di imprenditore indiretto, invece, è termine generalissimo, che comprende sia l’imprenditore indiretto del quale il nome sia stato speso mediatamente, come accade per il socio illimitatamente responsabile (imprenditore indiretto semplice), sia l’imprenditore indiretto del quale il nome non sia stato speso nemmeno mediatamente, come avviene per il socio occulto illimitatamente responsabile di una società personale (imprenditore occulto in senso tecnico). Si ricava che il principio dettato dal comma 2 si rivolgeva soltanto all’imprenditore indiretto che sia occulto in senso tecnico. Insomma, il fallimento di una società commerciale comporta (azzardiamo ancora l’uso del presente indicativo per le suddette ragioni) non solo il fallimento dei soci palesi illimitatamente responsabili di una società palese, ma anche il fallimento di quei soci illimitatamente responsabili che sono rimasti fra le quinte e dei quali si scopra più tardi l’esistenza. Il fallimento dei soci occulti di una società palese, inoltre, non rappresenterebbe il risultato di una disposizione avente carattere eccezionale, in quanto, il vecchio comma 2 costituisce un’applicazione, in tema di fallimento, del principio della responsabilità personale del socio occulto desumibile, in sede più generale, dall’articolo 2267 del Codice Civile. Quest’ultimo, infatti, estendendo, salvo patto contrario portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, la responsabilità per le obbligazioni sociali anche ai soci che non abbiano agito in nome della società e non distinguendo fra soci palesi e soci occulti, porta a ritenere che anche questi ultimi siano responsabili delle obbligazioni assunte dalla società palese. L’articolo, tuttavia, non ha quella univocità che una prima lettura potrebbe suggerire. Lo stesso Bigiavi ammette che il legislatore, nel disciplinare questa ipotesi, non abbia l’occhio rivolto ai soci occulti, bensì a quei soci palesi che non hanno agito in nome e per conto della società. È chiaro, infatti, che, se gli “altri soci” che non hanno agito sono in grado di limitare la loro responsabilità verso i terzi solo portando a conoscenza di questi ultimi il patto interno di limitazione, ciò significa che gli “altri soci” non possono essere soci occulti. In ogni caso, però, è il silenzio della disposizione che ci fa ricavare la responsabilità personale del socio occulto, ossia il fatto che essa non sia espressamente esclusa.

A questo punto, quid iuris allorché non ci sia mai stata neppure una società palese? Potrà, scoperta l’esistenza di una società occulta, dichiararsene il fallimento sebbene non siano mai state assunte obbligazioni in suo nome? Potranno quindi essere dichiarati falliti anche i soci occulti di una società occulta? L’interprete, quando manchi ogni elemento dal quale risulti che il legislatore ha voluto basarsi sul principio dell’id quod plerumque accidit, cioè imporre per ogni caso, anche diverso dal normale, la regolamentazione da lui dettata per il caso normale, non può accontentarsi della lettera della legge. Non è sempre vero, infatti, che ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, perché, continuando a ribattere in brocardi, inclusio unius non est exclusio alterius. E allora, il giurista assetato di coerenza deve enucleare la ratio della norma e trovare le soluzioni ai quesiti sulla base della stessa. Se, dunque, è certo che, in base all’articolo 147, comma 2 (vecchio), può (il lettore ci perdoni ancora l’azzardo sul tempo verbale)fallire il socio occulto di una società palese, ossia un socio sulla cui responsabilità patrimoniale i terzi possono non avere minimamente contato, non vi è ragione al mondo per cui non debba fallire anche il socio occulto di una società occulta, e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa. Immaginiamo il caso di una società palese costituita da tre soci, due dei quali soltanto, però, operano palesemente, giacché il terzo decide di rimanere nell’ombra. Coloro che entrano in contatto con la società contano unicamente sulla responsabilità patrimoniale dei due soci palesi, non certo su quella del socio occulto. Eppure, nonostante ciò, il fallimento della società si estende, come abbiamo visto, anche al socio occulto. Si supponga, adesso, una società con due soci, uno palese l’altro occulto. All’esterno apparirà un’impresa individuale, tuttavia, se, nello svolgimento dell’attività o della sua crisi, emerge la società occulta, nulla impedisce, neppure in questo caso, di estendere la responsabilità per le obbligazioni assunte dalla società anche al socio occulto. È lapalissiana, infatti, la specularità fra le due fattispecie, in quanto, né nella prima, né nella seconda, i terzi hanno minimamente contato sulla consistenza patrimoniale, e, dunque, sulla responsabilità, di chi (socio nella prima, società e socio nella seconda) a loro era ignoto. In altri termini, essendo identica la ratio nelle due ipotesi, appare giustificata l’analogia legis.

Il risultato così raggiunto, poi, può essere esteso alla figura “classica” del dominus occulto, dato che tra la stessa e la figura della società occulta esiste un’innegabile affinità. Giuridicamente, infatti, è irrilevante se chi rimane tra le quinte sia soltanto un socio di chi appare in pubblico o sia, invece, l’esclusivo titolare dell’impresa gestita dal prestanome. Né il diritto positivo, né la logica ci autorizzano a distinguere, in questo caso, fra due e tre. Ecco, dunque, che in entrambi i casi siamo al cospetto di un imprenditore occulto: nel primo, esso è una società cui partecipa anche colui che agisce con i terzi, mentre, nel secondo, è una persona (fisica o giuridica) detentrice dell’esclusiva titolarità di un’impresa, nell’ambito della quale il prestanome non ha alcuna partecipazione sociale. Allora, dato il silenzio dell’ordinamento, è lecito estendere anche a quest’ultima ipotesi il principio ricavato dal vecchio comma 2 dell’articolo 147 e quindi, questa volta per analogia iuris, proclamare l’assoggettabilità a fallimento (anche) di qualsiasi soggetto che risulti essere il dominus dell’impresa esercitata nominalmente da altri.

6. Nuovi spunti per la c.d. teoria dell’imprenditore occulto: il comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare

L’intento di valorizzare e tutelare la causale giuspolitica del far credito all’investimento produttivo, magari a discapito di chi fa credito al consumo, e di provare a sanzionare chi elude il diritto, precipuo strumento di libertà sociale, anima della c.d. teoria dell’imprenditore occulto, pare ricevere nuovi stimoli dall’attuale comma 5 dell’articolo 147 della Legge Fallimentare (introdotto con la riforma avvenuta ad opera del Decreto Legislativo nr. 5 del 2006). Esso dispone che il tribunale procede all’estensione della procedura concorsuale anche “…qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile”. La disposizione, dunque, enuncia per tabulas la fallibilità di un imprenditore del quale non è mai stato speso il nome nell’esercizio dell’impresa, ossia di un imprenditore occulto, ed azzera il primo passaggio analogico della lezione di Bigiavi. La c.d. dottrina della sovranità, veementemente difesa dal Maestro bolognese sembra, dunque, aver ricevuto oggi un nuovo ed utilissimo sostegno normativo.

 

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