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Brevi considerazioni sull’interesse e il vantaggio dell’ente in materia di delitti colposi

Brevi considerazioni sull’interesse e il vantaggio dell’ente in materia di delitti colposi
Brevi considerazioni sull’interesse e il vantaggio dell’ente in materia di delitti colposi

Abstract: Il presente elaborato consiste in una breve analisi avente ad oggetto la compatibilità fra l’interesse e il vantaggio dell’ente e i reati colposi, ponendo in particolare l’accento sul rapporto che intercorre fra il volontario beneficio perseguito dall’ente e il colposo evento che ne deriva. Verrà sottolineato come il cardine della responsabilità attenga all’”oggettività” della condotta e non alla “soggettività” della colpa.

Com’è noto ai sensi dell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 in tema di responsabilità penale degli enti, per poter attribuire l’illecito alla persona giuridica è necessario che questo sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso.

L’interesse o il vantaggio a cui mira l’ente si pone come presupposto indefettibile, tanto che lo stesso articolo 5 all’ultimo comma prevede che l’ente non possa subire alcuna conseguenza penale nel caso in cui l’autore materiale del reato abbia agito “nell’interesse proprio o di terzi”.

A livello terminologico è stato più volte osservato come il concetto di “interesse” indichi genericamente una connessione teleologica tra il reato e il risultato che attraverso il medesimo ci si propone di conseguire, e il “vantaggio”, invece, debba essere inteso semplicemente come il beneficio che l’ente ha direttamente o indirettamente ottenuto dalla commissione del reato.

A questo proposito può essere esplicativo richiamare la statuizione delle Sezioni Unite della Cassazione nel caso ThyssenKrupp, secondo cui: “In tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 all’«interesse o al vantaggio», sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile “ex ante”, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile “ex post”, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito”.

Tuttavia con l’entrata in vigore dell’articolo 25 septies del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 relativo ai reati di natura colposa commessi in violazione delle norme in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, sono emersi in dottrina e in giurisprudenza forti dubbi sulla materiale possibilità di coordinare l’intenzione dell’ente di cui all’articolo 5 Decreto Legislativo n. 231 del 2001 con quei reati caratterizzati proprio dalla mancanza d’intenzione.

Dunque, mentre nessuna criticità è stata mai rilevata in relazione all’ontologico legame che intercorre tra i concetti di “interesse” e di “vantaggio” e i reati presupposto di natura dolosa, non si è giunti alle stesse pacifiche conclusioni in riferimento ai reati colposi.

Ci si è chiesto, infatti, quale vantaggio può trarre un’impresa dalla morte o dalle lesioni di un proprio operaio, o addirittura quale interesse può coltivare in prospettiva della realizzazione dell’evento di danno.

Sul punto si sono succedute numerose teorie atte a determinare una plausibile congiunzione tra l’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 e l’articolo 25-septies del medesimo decreto, e la più corretta è sicuramente quella che facendo leva su un’interpretazione puramente oggettiva della norma, si è soffermata esclusivamente sull’analisi della condotta dell’agente poiché considerata unico elemento idoneo a integrare un beneficio in favore dell’ente. Viene, così, abbandonato ogni aspetto “soggettivo” che invece è tipico dei reati dolosi.

Tale tesi è sicuramente quella che ha trovato il maggior numero di consensi sia in dottrina che in giurisprudenza, in quanto riconosce effettivamente come il vantaggio ottenuto dall’ente sia esclusivamente di carattere oggettivo, consentendo pacificamente di incardinare il percorso di ascrizione della responsabilità della persona giuridica in piena conformità con l’art. 5, Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

In effetti, il richiamo preciso che l’articolo 25 septies del citato decretofa alla violazione di norme antinfortunistiche, e quindi delle regole cautelari pertinenti, impone necessariamente di considerare la predetta violazione come il fondamento della responsabilità.

In altri termini, l’interpretazione complessiva delle norme citate (art. 25-septies e art. 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001) richiede necessariamente all’interprete di concentrarsi sul vantaggio che l’ente ha tratto, non dall’evento lesioni o morte, bensì dalla violazione della disciplina antinfortunistica che ha dato causa l’evento.

Occorre rilevare ora come nella giurisprudenza di merito questa soluzione abbia trovato due importati arresti - entrambi di carattere assolutorio- nei quali, dopo essere stato espressamente ammessa la compatibilità tra il vantaggio o l’interesse dell’ente con i delitti colposi, è stato riconosciuto come questi debbano necessariamente rappresentarsi nel caso concreto e accertarsi attraverso un preciso riscontro fattuale e oggettivo.

In un primo caso, il Giudice per l’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Udine- Sezione Distaccata di Tolmezzo, respingendo l’impostazione accusatoria che avrebbe voluto riconoscere la sussistenza di un vantaggio per l’ente per il solo fatto di non aver adottato un modello organizzativo, ha sottolineato come l’adozione del modello da parte dell’ente abbia carattere facoltativo in quanto dotata di funzione esimente della responsabilità dell’ente; a nulla rileverebbe - conseguentemente - la sua obiettiva assenza in relazione al criterio oggettivo di ascrizione del reato commesso dall’apicale. Da tale assunto è derivato come a fronte di un generale sistema di procedure antinfortunistiche efficace, la singola violazione “decentrata ed episodica”, pur rimproverabile agli apicali come persone fisiche, non permetta “di individuare un interesse concreto e oggettivo dell’ente” così come un vantaggio, e, dunque, non consente di attribuire alla società il reato (Tribunale di Udine- Sezione distaccata di Tolmezzo, 23 gennaio 2012).

In un secondo caso è stato osservato dalla Corte d’Appello di Brescia come a differenza dei reati dolosi - in cui il fatto è sempre rivolto ad uno scopo - è ben possibile che la condotta colposa non abbia nessun preciso orientamento finalistico (non sia realizzata, cioè, “nell’interesse” né della persona fisica, né di quella giuridica), ciò nonostante è verosimile che l’ente possa comunque trarre vantaggio – ancorché indiretto-  dalla condotta colposa, in termini, ad esempio, di risparmio di spesa o di riduzione di costi di gestione (Corte d’Appello di Brescia Sezione II, 14 dicembre 2011).

Da quanto argomentato emerge chiaramente come la responsabilità penale delle persone giuridiche in tema di delitti colposi in riferimento alla tematica degli infortuni sul lavoro trovi il proprio presupposto esclusivamente nella condotta consistente nella volontaria violazione delle norme antinfortunistiche (o perché espressione di una politica di impresa o perché ha comportato un risparmio di spesa).

Tale soluzione è stata sposata anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che nel caso c.d. ThyssenKrupp hanno osservato come l’interpretazione letterale dell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, condurrebbe a dei risultati assurdi e incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, obbligando l’interprete a scegliere l’unica alternativa: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico.

Così ragionando non emerge alcuna difficoltà interpretativa: è possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio.

L’unica differenza - ricorda sempre la Corte nella pronuncia richiamata - tra la disciplina della responsabilità penale delle persone giuridiche per i reati dolosi e per i reati colposi concerne solamente l’oggetto di valutazione, che non è l’evento bensì la sola condotta, che ha dato origine alle lesioni o alla morte.

Occorre, pertanto, affermare come i delitti colposi delle persone giuridiche si connotino per una commistione fra dolo e colpa. Infatti, la violazione delle norme antinfortunistica deve essere sempre cosciente e volontaria (in caso contrario non si potrebbe determinare il perseguimento di un interesse o di un vantaggio), ma l’evento non può essere mai voluto (altrimenti il delitto sarebbe doloso). Ne deriva che si può correttamente qualificare come una sorta di “delitto aggravato dall’evento”, essendo chiaro come il fulcro della violazione stia nella condotta, non è nell’evento, ed essendo quest’ultimo solamente una - non voluta- conseguenza.

Si ritiene, infine, che ragionando in questi termini potrebbe essere esclusa la responsabilità penale dell’ente per tutti quegli infortuni che sono stati cagionati da sviste o errori, proprio per il semplice fatto che è necessario accertare nel caso concreto la coscienza e la volontà della vantaggiosa mancanza in materia antiinfortunistica.

Abstract: Il presente elaborato consiste in una breve analisi avente ad oggetto la compatibilità fra l’interesse e il vantaggio dell’ente e i reati colposi, ponendo in particolare l’accento sul rapporto che intercorre fra il volontario beneficio perseguito dall’ente e il colposo evento che ne deriva. Verrà sottolineato come il cardine della responsabilità attenga all’”oggettività” della condotta e non alla “soggettività” della colpa.

Com’è noto ai sensi dell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 in tema di responsabilità penale degli enti, per poter attribuire l’illecito alla persona giuridica è necessario che questo sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso.

L’interesse o il vantaggio a cui mira l’ente si pone come presupposto indefettibile, tanto che lo stesso articolo 5 all’ultimo comma prevede che l’ente non possa subire alcuna conseguenza penale nel caso in cui l’autore materiale del reato abbia agito “nell’interesse proprio o di terzi”.

A livello terminologico è stato più volte osservato come il concetto di “interesse” indichi genericamente una connessione teleologica tra il reato e il risultato che attraverso il medesimo ci si propone di conseguire, e il “vantaggio”, invece, debba essere inteso semplicemente come il beneficio che l’ente ha direttamente o indirettamente ottenuto dalla commissione del reato.

A questo proposito può essere esplicativo richiamare la statuizione delle Sezioni Unite della Cassazione nel caso ThyssenKrupp, secondo cui: “In tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 all’«interesse o al vantaggio», sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile “ex ante”, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile “ex post”, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito”.

Tuttavia con l’entrata in vigore dell’articolo 25 septies del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 relativo ai reati di natura colposa commessi in violazione delle norme in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, sono emersi in dottrina e in giurisprudenza forti dubbi sulla materiale possibilità di coordinare l’intenzione dell’ente di cui all’articolo 5 Decreto Legislativo n. 231 del 2001 con quei reati caratterizzati proprio dalla mancanza d’intenzione.

Dunque, mentre nessuna criticità è stata mai rilevata in relazione all’ontologico legame che intercorre tra i concetti di “interesse” e di “vantaggio” e i reati presupposto di natura dolosa, non si è giunti alle stesse pacifiche conclusioni in riferimento ai reati colposi.

Ci si è chiesto, infatti, quale vantaggio può trarre un’impresa dalla morte o dalle lesioni di un proprio operaio, o addirittura quale interesse può coltivare in prospettiva della realizzazione dell’evento di danno.

Sul punto si sono succedute numerose teorie atte a determinare una plausibile congiunzione tra l’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 e l’articolo 25-septies del medesimo decreto, e la più corretta è sicuramente quella che facendo leva su un’interpretazione puramente oggettiva della norma, si è soffermata esclusivamente sull’analisi della condotta dell’agente poiché considerata unico elemento idoneo a integrare un beneficio in favore dell’ente. Viene, così, abbandonato ogni aspetto “soggettivo” che invece è tipico dei reati dolosi.

Tale tesi è sicuramente quella che ha trovato il maggior numero di consensi sia in dottrina che in giurisprudenza, in quanto riconosce effettivamente come il vantaggio ottenuto dall’ente sia esclusivamente di carattere oggettivo, consentendo pacificamente di incardinare il percorso di ascrizione della responsabilità della persona giuridica in piena conformità con l’art. 5, Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

In effetti, il richiamo preciso che l’articolo 25 septies del citato decretofa alla violazione di norme antinfortunistiche, e quindi delle regole cautelari pertinenti, impone necessariamente di considerare la predetta violazione come il fondamento della responsabilità.

In altri termini, l’interpretazione complessiva delle norme citate (art. 25-septies e art. 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001) richiede necessariamente all’interprete di concentrarsi sul vantaggio che l’ente ha tratto, non dall’evento lesioni o morte, bensì dalla violazione della disciplina antinfortunistica che ha dato causa l’evento.

Occorre rilevare ora come nella giurisprudenza di merito questa soluzione abbia trovato due importati arresti - entrambi di carattere assolutorio- nei quali, dopo essere stato espressamente ammessa la compatibilità tra il vantaggio o l’interesse dell’ente con i delitti colposi, è stato riconosciuto come questi debbano necessariamente rappresentarsi nel caso concreto e accertarsi attraverso un preciso riscontro fattuale e oggettivo.

In un primo caso, il Giudice per l’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Udine- Sezione Distaccata di Tolmezzo, respingendo l’impostazione accusatoria che avrebbe voluto riconoscere la sussistenza di un vantaggio per l’ente per il solo fatto di non aver adottato un modello organizzativo, ha sottolineato come l’adozione del modello da parte dell’ente abbia carattere facoltativo in quanto dotata di funzione esimente della responsabilità dell’ente; a nulla rileverebbe - conseguentemente - la sua obiettiva assenza in relazione al criterio oggettivo di ascrizione del reato commesso dall’apicale. Da tale assunto è derivato come a fronte di un generale sistema di procedure antinfortunistiche efficace, la singola violazione “decentrata ed episodica”, pur rimproverabile agli apicali come persone fisiche, non permetta “di individuare un interesse concreto e oggettivo dell’ente” così come un vantaggio, e, dunque, non consente di attribuire alla società il reato (Tribunale di Udine- Sezione distaccata di Tolmezzo, 23 gennaio 2012).

In un secondo caso è stato osservato dalla Corte d’Appello di Brescia come a differenza dei reati dolosi - in cui il fatto è sempre rivolto ad uno scopo - è ben possibile che la condotta colposa non abbia nessun preciso orientamento finalistico (non sia realizzata, cioè, “nell’interesse” né della persona fisica, né di quella giuridica), ciò nonostante è verosimile che l’ente possa comunque trarre vantaggio – ancorché indiretto-  dalla condotta colposa, in termini, ad esempio, di risparmio di spesa o di riduzione di costi di gestione (Corte d’Appello di Brescia Sezione II, 14 dicembre 2011).

Da quanto argomentato emerge chiaramente come la responsabilità penale delle persone giuridiche in tema di delitti colposi in riferimento alla tematica degli infortuni sul lavoro trovi il proprio presupposto esclusivamente nella condotta consistente nella volontaria violazione delle norme antinfortunistiche (o perché espressione di una politica di impresa o perché ha comportato un risparmio di spesa).

Tale soluzione è stata sposata anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che nel caso c.d. ThyssenKrupp hanno osservato come l’interpretazione letterale dell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, condurrebbe a dei risultati assurdi e incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, obbligando l’interprete a scegliere l’unica alternativa: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico.

Così ragionando non emerge alcuna difficoltà interpretativa: è possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio.

L’unica differenza - ricorda sempre la Corte nella pronuncia richiamata - tra la disciplina della responsabilità penale delle persone giuridiche per i reati dolosi e per i reati colposi concerne solamente l’oggetto di valutazione, che non è l’evento bensì la sola condotta, che ha dato origine alle lesioni o alla morte.

Occorre, pertanto, affermare come i delitti colposi delle persone giuridiche si connotino per una commistione fra dolo e colpa. Infatti, la violazione delle norme antinfortunistica deve essere sempre cosciente e volontaria (in caso contrario non si potrebbe determinare il perseguimento di un interesse o di un vantaggio), ma l’evento non può essere mai voluto (altrimenti il delitto sarebbe doloso). Ne deriva che si può correttamente qualificare come una sorta di “delitto aggravato dall’evento”, essendo chiaro come il fulcro della violazione stia nella condotta, non è nell’evento, ed essendo quest’ultimo solamente una - non voluta- conseguenza.

Si ritiene, infine, che ragionando in questi termini potrebbe essere esclusa la responsabilità penale dell’ente per tutti quegli infortuni che sono stati cagionati da sviste o errori, proprio per il semplice fatto che è necessario accertare nel caso concreto la coscienza e la volontà della vantaggiosa mancanza in materia antiinfortunistica.