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Gli arbitri e il giudizio di equità

Gli arbitri e il giudizio di equità
Gli arbitri e il giudizio di equità

ἡ ἕξις αὕτη ἐπιείκεια, δικαιoσὑνη τις oὖσα καὶ oὺχ ἑτέρα τις ἕξις”.

“Questa disposizione è l’equità, che è una forma speciale di giustizia e non una disposizione di genere diverso”.

Aristotele [Etica Nicomachea, V, 101138a] 

 

La disciplina che riguarda il lodo è contenuta nel libro quarto del codice di procedura civile. All’articolo 822 del codice di procedura civile è contemplata la possibilità per le parti di scegliere l’arbitrato di equità, cioè di far dirimere la propria contesa secondo equità e non con le norme giuridiche tradizionali.

Il problema che si pone è, dunque, il comprendere cosa sia il giudizio di equità.

Il giudizio di equità è il luogo dove gli arbitri, o come li chiamava il codice previgente di procedura civile “amichevoli compositori”, possono esimersi dal giudicare “secondo le norme di diritto”, ma servendosi dell’equità [Francesco Carnelutti 1946: 358]. È un giudizio che attinge dall’ordine etico e utilizzando le parole di Carnelutti [1946: 360] “si nota pertanto la formazione originaria del diritto o in altre parole, la trasformazione del principio etico in comando giuridico”.

Si potrebbe pensare che vi sia un’ampia libertà dell’arbitro ma si “lascia aperto il quesito circa l’individuazione del criterio cui lo stesso arbitro potrebbe ispirarsi” [Fiorenzo Festi 2006:145].

Fiorenzo Festi [2006: 146] rileva tre categorie a cui si possono ricondurre le teorie più diffuse in dottrina concernenti la natura del giudizio di equità:

i). la tesi soggettiva, cioè l’arbitro segue la propria coscienza in relazione al caso concreto da giudicare, quello che Festi [2006: 146] chiama “il personale senso di giustizia”;

ii). la tesi oggettiva, cioè l’arbitro si trova, così, a dover dirimere la lite secondo equità, ma bisogna sempre tener presente che non si è di fronte ad una scelta del tutto arbitraria, come ritiene Francesco Galgano [1996; cfr. Giuseppe Rebecca 2001: 9] “il giudizio secondo equità è pur sempre un giudizio secondo regole preesistenti al giudizio. La regola d’equità non è una regola creata da chi giudica, ma è una regola da questo trovata”. A questo punto ci si chiede, come si interroga Giuseppe Rebecca [2001: 9] “e dove viene trovata? Non in una fonte di diritto positivo, come accade nel giudizio secondo diritto, ma “in valori oggettivi, già emersi nel contesto sociale, ma non ancora tradotti in termini di legge scritta” [Corte di Cassazione 11 novembre 1991 n. 12014]”;

iii). la tesi riduzionista, cioè [Festi 2006: 146] “il giudice d’equità dovrebbe attenersi al diritto positivo, affinandolo e plasmandolo, quando occorra, sul caso da decidere”.

Secondo Mario Jori e Anna Pintore [2014: 247] “si fronteggiano almeno due interpretazioni” del giudizio di equità:

i). coscienza morale, cioè [Jori e Pintore 2014: 247] “i criteri del giudizio di equità sono forniti al giudice dalla propria coscienza morale, la quale sarebbe un rispecchiamento della coscienza sociale”;

ii). natura della cosa, cioè [Jori e Pintore 2014: 247] “il ricorso all’equità coinciderebbe col ricorso al criterio della natura della cosa, ossia alla regola che sarebbe desumibile dall’osservazione del caso da giudicare”.

Francesco Carnelutti [1946: 357] contrappone il giudizio di legalità al giudizio di equità: al giudizio di legalità corrisponde “la valutazione del fatto secondo l’ordinamento giuridico”, nel giudizio di equità la valutazione del fatto viene effettuata “secondo l’ordine morale”. Carnelutti [1946: 359] sostiene che nel giudizio di equità si avrebbe l’arbitrium boni viri e non l’arbitrium merum, cioè l’agire dell’uomo governato dal buon senso o senso del bene. Quindi non si tratta di una libertà totale e soggettiva come parrebbe derivare dall’articolo 822 del codice di procedura civile, ciò trova, anche, conferma nel fatto che, come ritiene Carnelutti [1946: 358] “la questione è se fuor dalla norma del diritto il giudizio non sia altrimenti vincolato” e rileva “una disposizione sintomatica, sotto questo profilo, è quella dell’articolo 823, che impone agli arbitri, in qualunque caso, l’obbligo di fare nella sentenza “l’esposizione sommaria dei motivi” [nonostante le modifiche, in questo articolo la formulazione “l’esposizione sommaria dei motivi” è rimasta invariata]; così, la sentenza assume la forma ben nota del sillogismo”.  

Alcuni autori guardano con favore all’arbitrato secondo equità, come rilevano Jori e Pintore [2014: 247] perché “la certezza e l’uguaglianza di trattamento che si accompagnano alla normazione generale e astratta non sono ritenute sufficienti ad assicurare la giusta soluzione di ciascun caso in quanto non consentirebbero di tener conto delle peculiarità infinite dei casi reali, con l’effetto di essere spesso produttive di iniquità”. Altri autori ritengono non necessario nell’ordinamento italiano ricorrervi per tale motivo facendo leva sull’articolo 12 delle preleggi [Festi 2006: 142], che lascia spazio all’interprete. Il giudice [Festi 2006: 142] “ha senz’altro maggiori possibilità di modellare le norme scritte sul concreto caso da decidere […] con l’utilizzo delle numerose clausole generali” (ad esempio la buona fede). Carnelutti [1946: 358-359] sostiene che il “carattere concreto” del giudizio di equità è quello di essere “giustizia del caso singolo”.

Aristotele [350 a.c.: V, 10] parla di possibilità di errore nell’approssimazione poiché la legge prende in considerazione l’universale, l’errore sta nella natura della cosa e non nella legge. Aristotele ritiene che sia del tutto legittimo, quando la legge parla in universale e accade un qualcosa che sfugge alla previsione normativa, correggere l’omissione del legislatore che “ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno” perché lo stesso legislatore direbbe che, se ne avesse avuto conoscenza, avrebbe incluso il caso concreto nella legge. Cioè secondo Aristotele “l’equo è sì il giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale”.

 

Bibliografia

Aristotele, 350 a.c.. Ηϑικὰ Νικομάκεια. Traduzione italiana: Mazzarelli, Claudio (ed.), 2000. Aristotele. Etica Nicomachea. Milano: Bompiani.

Carnelutti, Francesco, 1940. Teoria generale del diritto. Roma: Il Foro italiano.

Carnelutti, Francesco, 1946. Teoria generale del diritto. Roma: Il Foro italiano.

Festi, Fiorenzo, 2006. L’arbitrato di equità. In “Contratto e impresa : dialoghi con la giurisprudenza civile e commerciale”, 1/2006: 141-165.

Galgano, Francesco 1996. Relazione tenuta il 15 novembre 1996 alla Camera Arbitrale Veneta di Padova.

Jori, Mario e Pintore, Anna, 2014. Introduzione alla filosofia del diritto. Torino: Giappichelli.

Mandrioli, Crisanto, 2009. Diritto processuale civile. Torino: Giappichelli.

Rebecca, Giuseppe,2001. L’equità nell’arbitrato. In: “Il commercialista veneto”. 139/2001: 9-10.

ἡ ἕξις αὕτη ἐπιείκεια, δικαιoσὑνη τις oὖσα καὶ oὺχ ἑτέρα τις ἕξις”.

“Questa disposizione è l’equità, che è una forma speciale di giustizia e non una disposizione di genere diverso”.

Aristotele [Etica Nicomachea, V, 101138a]