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Il fenomeno della collaborazione con lo stato

La figura del “testimone di giustizia”
Il fenomeno della collaborazione con lo stato
Il fenomeno della collaborazione con lo stato

III Parte

Sul piano normativo la nuova categoria dei “testimoni di giustizia” è stata introdotta dalla legge n. 45 del 2001 al “Capo II bis”, che ne ha profondamente distinto i tratti rispetto alla figura del collaboratore.[1]

Lo status di “testimone di giustizia”  è, pertanto, riconosciuto a coloro che assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone, purché nei loro confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione, ovvero non sia in corso un procedimento di applicazione della stessa, ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, se ricorrono i presupposti per l’applicazione delle speciali misure di protezione.

È sufficiente pertanto risultare indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, nel senso e per gli effetti di cui alla legge n. 675 del 1965, per non poter assumere lo status di “testimone di giustizia”, salvo a rientrare, ricorrendo le altre condizioni in ordine al tipo ed alla qualità della collaborazione offerta, nella categoria dei collaboratori in senso stretto.

 L’unica condizione richiesta per l’adozione delle misure di protezione è costituita dalla esposizione a grave e attuale pericolo per effetto della testimonianza.

La legge 13 febbraio 2001 n. 45 dicevamo ha, dunque, introdotto nel nostro ordinamento specifiche norme a favore dei testimoni di giustizia. Le nuove disposizioni - inserite nell’impianto normativo originario del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni nella legge 15 marzo 1991, n. 82 - hanno delineato la figura del testimone di giustizia prevedendo specifiche misure di tutela e di assistenza.

Come noto, la legge n. 82 del 1991 non conteneva alcuna distinzione tra il collaboratore di giustizia proveniente da organizzazioni criminali e il testimone.

Di conseguenza, quest’ultimo veniva sottoposto alle medesime misure di assistenza e tutela previste per il collaboratore, proveniente dal mondo del crimine. L’anomalia derivante dalla sostanziale equiparazione tra coloro che provenivano dalla criminalità organizzata e i cittadini onesti, testimoni di un fatto delittuoso, ha posto questioni assai delicate e complesse, più volte sollevate nelle sedi istituzionali. 

Prima della novella del 2001, quando ancora non vi era distinzione tra le figure dei collaboratori e dei testimoni, la posizioni di questi ultimi era tutt’altro che facile. Una burocrazia inefficiente trattava cittadini esemplari alla stregua di appartenenti ad associazioni mafiose dissociatisi con il pentimento, accentuando se possibile ancora di più il disagio correlato al cambiamento del proprio stile di vita e di quello dei propri familiari.

Il legislatore del 2001 ha, dunque, voluto raccogliere tale esigenza operando una distinzione netta tra collaboratori e testimoni di giustizia sia sul piano concettuale che sul piano della gestione, nonché con la previsione di un regime giuridico diverso per le due categorie. La nuova legge di riforma ha, pertanto, inteso valorizzare il valore della «denuncia» e il contributo dato alla giustizia da tali soggetti: i testimoni di giustizia, ossia coloro che senza aver fatto parte di organizzazioni criminali hanno sentito il dovere di testimoniare per senso civico,  esponendo al contempo se stessi e le loro famiglie alle possibili rappresaglie o vendette degli accusati. Secondo l’articolo 16-bis, introdotto dalla legge n. 45 del 2001, i testimoni di giustizia in senso tecnico-giuridico sono coloro che riguardo al fatto-reato sul quale rendono dichiarazioni assumono esclusivamente il ruolo di persona offesa o di persona informata sui fatti o di testimone; nei loro confronti, peraltro, non deve essere stata disposta una misura di prevenzione, né deve essere in corso un procedimento di applicazione della stessa.

Le dichiarazioni rese da tali soggetti, così come accade per i collaboratori, devono avere carattere di “attendibilità”.

La consistenza delle dichiarazioni rese dal testimone agli organi di polizia o agli organi giudiziari può determinare uno stato di grave pericolo per l’incolumità del testimone e dei suoi familiari, tanto da richiedere l’adozione di speciali misure di protezione e il trasferimento in una località protetta. Tali misure possono estendersi alle persone che coabitano o convivono stabilmente con il testimone e a coloro che comunque risultano esposti a grave pericolo in virtù dei rapporti intrattenuti con quest’ultimo. Agli organi giudiziari inquirenti spettano poteri propositivi in tema di attivazione e revoca della protezione, mentre agli organi amministrativi appartengono funzioni decisionali ed attuative riguardanti l’ammissione, la concreta realizzazione, la cessazione delle misure di tutela e assistenza.

La legge ha previsto l’istituzione di due organi principali che intervengono nel procedimento della protezione: 1) la Commissione centrale ; 2) il Servizio centrale di protezione.

La Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione è istituita - come previsto dalla normativa - con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia, sentiti i Ministri interessati ed è composta da un Sottosegretario di Stato per l’interno che la presiede, da due magistrati e cinque ufficiali e funzionari scelti tra coloro che hanno specifiche esperienze nel settore e che sono in possesso di cognizioni aggiornate sulla criminalità organizzata.

La Commissione centrale è l’organo politico-amministrativo cui spetta decidere in merito all’ammissione dei testimoni alle speciali misure di protezione e stabilire i contenuti e la durata delle stesse.

Il Servizio centrale di protezione, istituito nell’ambito del Dipartimento di pubblica sicurezza, è una struttura interforze composta da personale della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza.

Il Servizio centrale di protezione è l’organismo esecutivo, operativo e consultivo della Commissione centrale. Ha lo scopo di garantire la sicurezza del soggetto tutelato, attraverso la creazione di una condizione di «mimetizzazione» nella località protetta in cui il testimone vive. È l’organo preposto a dare attuazione allo speciale programma di protezione e provvede alla tutela, all’assistenza e a tutte le esigenze di vita delle persone sottoposte a protezione. Ha una struttura centrale, con sede a Roma, e nuclei periferici (con ambito operativo regionale o interregionale) ripartiti sul territorio, i cosiddetti Nuclei operativi di protezione (NOP) .

 I compiti di vigilanza e sicurezza in loco dei soggetti sottoposti a protezione, come gli accompagnamenti e le scorte per gli impegni giudiziari, vengono invece svolti dagli organi di polizia territoriale.

 Il Servizio centrale di protezione, in conformità alla ratio della legge n. 45 del 2001,  si articola al suo interno su due Divisioni, dotate di personale e mezzi autonomi, con competenze specifiche l’una sui collaboratori di giustizia e l’altra sui testimoni.

La legge individua la principale garanzia di sicurezza del testimone nel mantenimento dell’anonimato.

La copertura anagrafica avviene tramite il rilascio di documenti di identità con generalità fittizie, in via temporanea e al fine esclusivo di garantire la riservatezza e quindi la sicurezza, ma non per compiere atti che coinvolgano altri soggetti pubblici o privati. La validità di tali documenti di copertura è legata alla durata del programma di protezione, per cui, al termine di questo, gli stessi vengono ritirati. La documentazione di copertura, oltre alla carta d’identità e alla patente, può comprendere anche il libretto di lavoro, il libretto sanitario, il codice fiscale e altri documenti che vengono assegnati al testimone ed al suo nucleo familiare sempre che  risultino già rilasciati i corrispondenti documenti reali.

 Altra misura anagrafica finalizzata a garantire la sicurezza dei soggetti protetti: il cambio di generalità, con la creazione di una nuova posizione anagrafica nei registri di stato civile. Quando la sicurezza del soggetto è esposta ad alto rischio, tale strumento costituisce il mezzo più efficace, sia per nascondere definitivamente l’identità della persona che per il suo reinserimento sociale e lavorativo. Il beneficio del cambio di generalità è stato previsto dal legislatore solo in casi eccezionali, allorché ogni altra misura risulti inadeguata. Il cambio di generalità richiede l’attivazione di un complesso e lungo iter procedurale che si conclude con un decreto del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro della giustizia. Il numero di coloro che hanno ottenuto il cambio di generalità è molto esiguo e va detto, tuttavia, che l’impossibilità di fruire di tale beneficio limita le opportunità di reinserimento lavorativo. La documentazione di copertura non consente, ad esempio, di intraprendere un’attività commerciale.

L’articolo 16-ter, introdotto dalla legge n. 45 del 2001 riguarda, tra l’altro, il contenuto delle speciali misure di protezione. È previsto che il regime di protezione per i testimoni di giustizia debba protrarsi fino alla effettiva cessazione del pericolo, quale che sia lo stato e il grado del procedimento penale nel quale essi sono chiamati a deporre.

Le misure assistenziali  adottate a favore del testimone sono volte a garantire il mantenimento di un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello precedente alla loro scelta collaborativa. In pratica, lo Stato si impegna a risarcire il danno che il soggetto è costretto a sopportare in conseguenza della sua disponibilità a denunciare i fatti di cui è a conoscenza e a rendere testimonianza nei processi.  Al testimone di giustizia vengono corrisposti un assegno mensile di mantenimento, il pagamento del canone di locazione e altre misure di assistenza economica. Il testimone ha diritto alla “capitalizzazione” del costo dell’assistenza; alla corresponsione di una somma a titolo di “mancato guadagno” correlato alla cessazione dell’attività lavorativa nella località di provenienza; a mutui agevolati volti al reinserimento economico-sociale proprio e dei familiari. Ed ancora  se nei confronti del testimone è stato disposto per ragioni di sicurezza un trasferimento in una località diversa da quella di origine dove deve “ricominciare una nuova vita”, lo Stato è tenuto ad acquisire, a prezzo di mercato, i beni immobili di proprietà del testimone, ubicati nella sua località di origine, e a corrispondergli l’equivalente in denaro.

La c.d. “capitalizzazione delle misure di assistenza economica” comporta l’interruzione delle misure di assistenza economica già assicurate mensilmente, avviene mediante la corresponsione di una somma di denaro pari all’importo dell’assegno di mantenimento: per i testimoni di giustizia, in presenza di un “concreto e documentato” progetto di reinserimento socio-lavorativo, può essere riferita ad un periodo anche di dieci anni.

Sin qui l’articolazione delle disposizioni di legge in materia.

In concreto, tuttavia i testimoni di giustizia, che per come riconosciuto dalla Legge 45/2001 non sono equiparabili ai collaboratori,- cioè ai pentiti di mafia, proprio perché i primi compiono una scelta preventiva di legalità, anche a costo di rischiare la pelle e perdere lavoro, casa ed affetti,- si scontrano con una realtà dura ed inaccettabile a fronte del caro prezzo pagato .

Di solito, infatti, subito dopo l’ammissione al programma di protezione di testimoni, per costoro scatta il  trasferimento in una località segreta, generalmente del Nord, e una nuova vita da “invisibili” spesso caratterizzata da difficoltà pratiche e psicologiche difficili da risolvere.

Molti di essi sono imprenditori o professionisti abituati ad avere un buon tenore di vita che all’improvviso si ritrovano senza alcuna attività  e con una qualità di vita  molto diversa da quella vissuta in precedenza.

Ad esempio parte integrante del programma di protezione è rappresentata dal rilascio dei documenti di copertura, anche questo oggetto di ricorrenti doglianze: i documento loro forniti, sono infatti provvisori e, abbiamo già detto,  non sono validi per rapportarsi con la pubblica amministrazione, che continua ad identificarli con le generalità originali. Il cambio definitivo comporta una procedura amministrativa molto complessa, per come sopra riferito, e viene dunque concessa in casi rarissimi e di estremo e perdurante pericolo per il testimone. Ma con i documenti provvisori di copertura risulta impossibile avviare una nuova attività lavorativa, iscrivere i figli a scuola, ottenere semplici certificati dalla pubblica amministrazione ed ecco allora concretizzarsi le mille difficoltà della vita di un testimone. Senza voler considerare le questioni relative alle spese sanitarie o più in genere alle difficoltà di accesso ai servizi assistenziali. Esiste, in definitiva, la percezione diffusa di un crollo verticale delle condizioni di vita, con tutte le conseguenze di carattere familiare e affettivo che tale condizione di disagio determina. A ciò si aggiunga la sensazione di indifferenza da parte degli apparati dello Stato, Commissione centrale e Servizio centrale in primis,  preposti alla gestione ma spesso sordi alle loro richieste di aiuto.

 E alla fine del periodo di protezione che può durare pochi anni o anche interi lustri, per molti testimoni spesso non c’è l’agognata ripresa dell’attività, ma il buco nero del fallimento, il rischio concreto di restare ai margini della società.

Le reiterate proteste dei tanti Testimoni di giustizia evidenziano tali numerose difficoltà, vissute unitamente ai propri familiari, tanto che è oggi oramai impossibile ignorare che lo status di testimone provoca un reale disagio che se non controllato rischia di sfociare in situazioni di vera e propria alienazione. Il sentimento personale della giustizia e della legalità contrasta con la reale condizione di vita che viene vissuta dal testimone che impotente vede scorrerla davanti a sé senza poterne modificare il corso. Anche la rappresentazione etica dello Stato e il suo ruolo di tutela rischiano di essere inglobati in questo oblio di identità fino alla perdita totale di fiducia nelle sue forze istituzionali.[2] 

Occorre, dunque, un cambiamento radicale nella disciplina legislativa che sottende alla gestione dei testimoni, tale da consentire la ricerca delle soluzioni più appropriate per costruire un progetto di concreto reinserimento sociale del testimone, per ridare la speranza a quanti, coraggiosamente, hanno spezzato il loro percorso di vita con l’ingresso in un programma di protezione.[3] 

II Parte

 

BIBLIOGRAFIA

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Gennaio – 30 Giugno 1999.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Luglio – 31 Dicembre 2000.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Gennaio – 30 Giugno 2001.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Luglio – 31 Dicembre 2001.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Gennaio – 30 Giugno 2002.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Luglio – 31 Dicembre 2003.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Gennaio – 30 Giugno 2004.

- Commissione Parlamentare D’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare “Relazione annuale” – XIV Legislatura; DOC. XXIII n. 6 -.

- Commissione Parlamentare D’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare “Relazione conclusiva” – XIV Legislatura; DOC. XXIII n. 16 –.

- Commissione Parlamentare D’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare “Relazione annuale sulla ‘Ndrangheta” – XV Legislatura; DOC. XXIII n. 5 –.

- Commissione Parlamentare D’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare sui “Testimoni di Giustizia” – XV Legislatura; DOC. XXIII n. 6 –.

[1] L’attività di analisi ed approfondimento svolta nel corso delle varie legislature sui testimoni di giustizia ha rappresentato un contributo importante sul piano della revisione normativa. Infatti, la relazione sui testimoni di giustizia approvata dalla Commissione parlamentare il 30 giugno 1998, XIII legislatura, conteneva proposte poi recepite nella L. 13 febbraio 2001, n. 45.

[2] Documentazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità mafiosa o similare, Doc. n. 168/1, XV legislatura.

[3] Si veda il bilancio complessivo contenuto nella Relazione parlamentare d’inchiesta sul  fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, XV Legislatura, Doc. XXIII n. 6

III Parte

Sul piano normativo la nuova categoria dei “testimoni di giustizia” è stata introdotta dalla legge n. 45 del 2001 al “Capo II bis”, che ne ha profondamente distinto i tratti rispetto alla figura del collaboratore.[1]

Lo status di “testimone di giustizia”  è, pertanto, riconosciuto a coloro che assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone, purché nei loro confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione, ovvero non sia in corso un procedimento di applicazione della stessa, ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, se ricorrono i presupposti per l’applicazione delle speciali misure di protezione.

È sufficiente pertanto risultare indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, nel senso e per gli effetti di cui alla legge n. 675 del 1965, per non poter assumere lo status di “testimone di giustizia”, salvo a rientrare, ricorrendo le altre condizioni in ordine al tipo ed alla qualità della collaborazione offerta, nella categoria dei collaboratori in senso stretto.

 L’unica condizione richiesta per l’adozione delle misure di protezione è costituita dalla esposizione a grave e attuale pericolo per effetto della testimonianza.

La legge 13 febbraio 2001 n. 45 dicevamo ha, dunque, introdotto nel nostro ordinamento specifiche norme a favore dei testimoni di giustizia. Le nuove disposizioni - inserite nell’impianto normativo originario del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni nella legge 15 marzo 1991, n. 82 - hanno delineato la figura del testimone di giustizia prevedendo specifiche misure di tutela e di assistenza.

Come noto, la legge n. 82 del 1991 non conteneva alcuna distinzione tra il collaboratore di giustizia proveniente da organizzazioni criminali e il testimone.

Di conseguenza, quest’ultimo veniva sottoposto alle medesime misure di assistenza e tutela previste per il collaboratore, proveniente dal mondo del crimine. L’anomalia derivante dalla sostanziale equiparazione tra coloro che provenivano dalla criminalità organizzata e i cittadini onesti, testimoni di un fatto delittuoso, ha posto questioni assai delicate e complesse, più volte sollevate nelle sedi istituzionali. 

Prima della novella del 2001, quando ancora non vi era distinzione tra le figure dei collaboratori e dei testimoni, la posizioni di questi ultimi era tutt’altro che facile. Una burocrazia inefficiente trattava cittadini esemplari alla stregua di appartenenti ad associazioni mafiose dissociatisi con il pentimento, accentuando se possibile ancora di più il disagio correlato al cambiamento del proprio stile di vita e di quello dei propri familiari.

Il legislatore del 2001 ha, dunque, voluto raccogliere tale esigenza operando una distinzione netta tra collaboratori e testimoni di giustizia sia sul piano concettuale che sul piano della gestione, nonché con la previsione di un regime giuridico diverso per le due categorie. La nuova legge di riforma ha, pertanto, inteso valorizzare il valore della «denuncia» e il contributo dato alla giustizia da tali soggetti: i testimoni di giustizia, ossia coloro che senza aver fatto parte di organizzazioni criminali hanno sentito il dovere di testimoniare per senso civico,  esponendo al contempo se stessi e le loro famiglie alle possibili rappresaglie o vendette degli accusati. Secondo l’articolo 16-bis, introdotto dalla legge n. 45 del 2001, i testimoni di giustizia in senso tecnico-giuridico sono coloro che riguardo al fatto-reato sul quale rendono dichiarazioni assumono esclusivamente il ruolo di persona offesa o di persona informata sui fatti o di testimone; nei loro confronti, peraltro, non deve essere stata disposta una misura di prevenzione, né deve essere in corso un procedimento di applicazione della stessa.

Le dichiarazioni rese da tali soggetti, così come accade per i collaboratori, devono avere carattere di “attendibilità”.

La consistenza delle dichiarazioni rese dal testimone agli organi di polizia o agli organi giudiziari può determinare uno stato di grave pericolo per l’incolumità del testimone e dei suoi familiari, tanto da richiedere l’adozione di speciali misure di protezione e il trasferimento in una località protetta. Tali misure possono estendersi alle persone che coabitano o convivono stabilmente con il testimone e a coloro che comunque risultano esposti a grave pericolo in virtù dei rapporti intrattenuti con quest’ultimo. Agli organi giudiziari inquirenti spettano poteri propositivi in tema di attivazione e revoca della protezione, mentre agli organi amministrativi appartengono funzioni decisionali ed attuative riguardanti l’ammissione, la concreta realizzazione, la cessazione delle misure di tutela e assistenza.

La legge ha previsto l’istituzione di due organi principali che intervengono nel procedimento della protezione: 1) la Commissione centrale ; 2) il Servizio centrale di protezione.

La Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione è istituita - come previsto dalla normativa - con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia, sentiti i Ministri interessati ed è composta da un Sottosegretario di Stato per l’interno che la presiede, da due magistrati e cinque ufficiali e funzionari scelti tra coloro che hanno specifiche esperienze nel settore e che sono in possesso di cognizioni aggiornate sulla criminalità organizzata.

La Commissione centrale è l’organo politico-amministrativo cui spetta decidere in merito all’ammissione dei testimoni alle speciali misure di protezione e stabilire i contenuti e la durata delle stesse.

Il Servizio centrale di protezione, istituito nell’ambito del Dipartimento di pubblica sicurezza, è una struttura interforze composta da personale della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza.

Il Servizio centrale di protezione è l’organismo esecutivo, operativo e consultivo della Commissione centrale. Ha lo scopo di garantire la sicurezza del soggetto tutelato, attraverso la creazione di una condizione di «mimetizzazione» nella località protetta in cui il testimone vive. È l’organo preposto a dare attuazione allo speciale programma di protezione e provvede alla tutela, all’assistenza e a tutte le esigenze di vita delle persone sottoposte a protezione. Ha una struttura centrale, con sede a Roma, e nuclei periferici (con ambito operativo regionale o interregionale) ripartiti sul territorio, i cosiddetti Nuclei operativi di protezione (NOP) .

 I compiti di vigilanza e sicurezza in loco dei soggetti sottoposti a protezione, come gli accompagnamenti e le scorte per gli impegni giudiziari, vengono invece svolti dagli organi di polizia territoriale.

 Il Servizio centrale di protezione, in conformità alla ratio della legge n. 45 del 2001,  si articola al suo interno su due Divisioni, dotate di personale e mezzi autonomi, con competenze specifiche l’una sui collaboratori di giustizia e l’altra sui testimoni.

La legge individua la principale garanzia di sicurezza del testimone nel mantenimento dell’anonimato.

La copertura anagrafica avviene tramite il rilascio di documenti di identità con generalità fittizie, in via temporanea e al fine esclusivo di garantire la riservatezza e quindi la sicurezza, ma non per compiere atti che coinvolgano altri soggetti pubblici o privati. La validità di tali documenti di copertura è legata alla durata del programma di protezione, per cui, al termine di questo, gli stessi vengono ritirati. La documentazione di copertura, oltre alla carta d’identità e alla patente, può comprendere anche il libretto di lavoro, il libretto sanitario, il codice fiscale e altri documenti che vengono assegnati al testimone ed al suo nucleo familiare sempre che  risultino già rilasciati i corrispondenti documenti reali.

 Altra misura anagrafica finalizzata a garantire la sicurezza dei soggetti protetti: il cambio di generalità, con la creazione di una nuova posizione anagrafica nei registri di stato civile. Quando la sicurezza del soggetto è esposta ad alto rischio, tale strumento costituisce il mezzo più efficace, sia per nascondere definitivamente l’identità della persona che per il suo reinserimento sociale e lavorativo. Il beneficio del cambio di generalità è stato previsto dal legislatore solo in casi eccezionali, allorché ogni altra misura risulti inadeguata. Il cambio di generalità richiede l’attivazione di un complesso e lungo iter procedurale che si conclude con un decreto del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro della giustizia. Il numero di coloro che hanno ottenuto il cambio di generalità è molto esiguo e va detto, tuttavia, che l’impossibilità di fruire di tale beneficio limita le opportunità di reinserimento lavorativo. La documentazione di copertura non consente, ad esempio, di intraprendere un’attività commerciale.

L’articolo 16-ter, introdotto dalla legge n. 45 del 2001 riguarda, tra l’altro, il contenuto delle speciali misure di protezione. È previsto che il regime di protezione per i testimoni di giustizia debba protrarsi fino alla effettiva cessazione del pericolo, quale che sia lo stato e il grado del procedimento penale nel quale essi sono chiamati a deporre.

Le misure assistenziali  adottate a favore del testimone sono volte a garantire il mantenimento di un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello precedente alla loro scelta collaborativa. In pratica, lo Stato si impegna a risarcire il danno che il soggetto è costretto a sopportare in conseguenza della sua disponibilità a denunciare i fatti di cui è a conoscenza e a rendere testimonianza nei processi.  Al testimone di giustizia vengono corrisposti un assegno mensile di mantenimento, il pagamento del canone di locazione e altre misure di assistenza economica. Il testimone ha diritto alla “capitalizzazione” del costo dell’assistenza; alla corresponsione di una somma a titolo di “mancato guadagno” correlato alla cessazione dell’attività lavorativa nella località di provenienza; a mutui agevolati volti al reinserimento economico-sociale proprio e dei familiari. Ed ancora  se nei confronti del testimone è stato disposto per ragioni di sicurezza un trasferimento in una località diversa da quella di origine dove deve “ricominciare una nuova vita”, lo Stato è tenuto ad acquisire, a prezzo di mercato, i beni immobili di proprietà del testimone, ubicati nella sua località di origine, e a corrispondergli l’equivalente in denaro.

La c.d. “capitalizzazione delle misure di assistenza economica” comporta l’interruzione delle misure di assistenza economica già assicurate mensilmente, avviene mediante la corresponsione di una somma di denaro pari all’importo dell’assegno di mantenimento: per i testimoni di giustizia, in presenza di un “concreto e documentato” progetto di reinserimento socio-lavorativo, può essere riferita ad un periodo anche di dieci anni.

Sin qui l’articolazione delle disposizioni di legge in materia.

In concreto, tuttavia i testimoni di giustizia, che per come riconosciuto dalla Legge 45/2001 non sono equiparabili ai collaboratori,- cioè ai pentiti di mafia, proprio perché i primi compiono una scelta preventiva di legalità, anche a costo di rischiare la pelle e perdere lavoro, casa ed affetti,- si scontrano con una realtà dura ed inaccettabile a fronte del caro prezzo pagato .

Di solito, infatti, subito dopo l’ammissione al programma di protezione di testimoni, per costoro scatta il  trasferimento in una località segreta, generalmente del Nord, e una nuova vita da “invisibili” spesso caratterizzata da difficoltà pratiche e psicologiche difficili da risolvere.

Molti di essi sono imprenditori o professionisti abituati ad avere un buon tenore di vita che all’improvviso si ritrovano senza alcuna attività  e con una qualità di vita  molto diversa da quella vissuta in precedenza.

Ad esempio parte integrante del programma di protezione è rappresentata dal rilascio dei documenti di copertura, anche questo oggetto di ricorrenti doglianze: i documento loro forniti, sono infatti provvisori e, abbiamo già detto,  non sono validi per rapportarsi con la pubblica amministrazione, che continua ad identificarli con le generalità originali. Il cambio definitivo comporta una procedura amministrativa molto complessa, per come sopra riferito, e viene dunque concessa in casi rarissimi e di estremo e perdurante pericolo per il testimone. Ma con i documenti provvisori di copertura risulta impossibile avviare una nuova attività lavorativa, iscrivere i figli a scuola, ottenere semplici certificati dalla pubblica amministrazione ed ecco allora concretizzarsi le mille difficoltà della vita di un testimone. Senza voler considerare le questioni relative alle spese sanitarie o più in genere alle difficoltà di accesso ai servizi assistenziali. Esiste, in definitiva, la percezione diffusa di un crollo verticale delle condizioni di vita, con tutte le conseguenze di carattere familiare e affettivo che tale condizione di disagio determina. A ciò si aggiunga la sensazione di indifferenza da parte degli apparati dello Stato, Commissione centrale e Servizio centrale in primis,  preposti alla gestione ma spesso sordi alle loro richieste di aiuto.

 E alla fine del periodo di protezione che può durare pochi anni o anche interi lustri, per molti testimoni spesso non c’è l’agognata ripresa dell’attività, ma il buco nero del fallimento, il rischio concreto di restare ai margini della società.

Le reiterate proteste dei tanti Testimoni di giustizia evidenziano tali numerose difficoltà, vissute unitamente ai propri familiari, tanto che è oggi oramai impossibile ignorare che lo status di testimone provoca un reale disagio che se non controllato rischia di sfociare in situazioni di vera e propria alienazione. Il sentimento personale della giustizia e della legalità contrasta con la reale condizione di vita che viene vissuta dal testimone che impotente vede scorrerla davanti a sé senza poterne modificare il corso. Anche la rappresentazione etica dello Stato e il suo ruolo di tutela rischiano di essere inglobati in questo oblio di identità fino alla perdita totale di fiducia nelle sue forze istituzionali.[2] 

Occorre, dunque, un cambiamento radicale nella disciplina legislativa che sottende alla gestione dei testimoni, tale da consentire la ricerca delle soluzioni più appropriate per costruire un progetto di concreto reinserimento sociale del testimone, per ridare la speranza a quanti, coraggiosamente, hanno spezzato il loro percorso di vita con l’ingresso in un programma di protezione.[3] 

II Parte

 

BIBLIOGRAFIA

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Gennaio – 30 Giugno 1999.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Luglio – 31 Dicembre 2000.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Gennaio – 30 Giugno 2001.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Luglio – 31 Dicembre 2001.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Gennaio – 30 Giugno 2002.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Luglio – 31 Dicembre 2003.

- Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Relazione al Parlamento sui programmi di protezione sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, 1°Gennaio – 30 Giugno 2004.

- Commissione Parlamentare D’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare “Relazione annuale” – XIV Legislatura; DOC. XXIII n. 6 -.

- Commissione Parlamentare D’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare “Relazione conclusiva” – XIV Legislatura; DOC. XXIII n. 16 –.

- Commissione Parlamentare D’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare “Relazione annuale sulla ‘Ndrangheta” – XV Legislatura; DOC. XXIII n. 5 –.

- Commissione Parlamentare D’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare sui “Testimoni di Giustizia” – XV Legislatura; DOC. XXIII n. 6 –.

[1] L’attività di analisi ed approfondimento svolta nel corso delle varie legislature sui testimoni di giustizia ha rappresentato un contributo importante sul piano della revisione normativa. Infatti, la relazione sui testimoni di giustizia approvata dalla Commissione parlamentare il 30 giugno 1998, XIII legislatura, conteneva proposte poi recepite nella L. 13 febbraio 2001, n. 45.

[2] Documentazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità mafiosa o similare, Doc. n. 168/1, XV legislatura.

[3] Si veda il bilancio complessivo contenuto nella Relazione parlamentare d’inchiesta sul  fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, XV Legislatura, Doc. XXIII n. 6