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Il caso WebMindLicenses e l’ammissibilità delle prove multidisciplinari

Il caso WebMindLicenses e l’ammissibilità delle prove multidisciplinari
Il caso WebMindLicenses e l’ammissibilità delle prove multidisciplinari

Abstract

La conformità al diritto Europeo impone i canoni per l'accesso in sede tributaria di una prova raccolta nel processo penale parallelo: Il doppio vaglio come condizione di legittimità della prova.

 

Premessa

La ricerca della verità è un’aspirazione morale che coinvolge qualsiasi organo giudicante, sia che appartenga ad un sistema accusatorio, sia ad uno inquisitorio; possono però essere diverse le regole che disciplinano gli strumenti, i poteri e la posizione degli organi e delle parti nel processo penale.

Questa considerazione generale assume ancora maggior rilevanza nell’ambito del diritto delle prove. Le prove, la loro assunzione, valutazione e incisività, distinguono, evidentemente, il processo accusatorio da quello inquisitorio e tra loro diverse versioni dello stesso modello. Si definiscono così sistemi probatori radicalmente diversi tra Stato e Stato.

Altro elemento da tenere in considerazione è il passaggio dall’Ancien Régime al Diritto Moderno il quale segna la fine del sistema delle prove legali e l’inizio della libertà del giudice nel valutare le prove.

Il caso di cui tratterò concerne temi originariamente attinenti alla sovranità nazionale e le problematiche derivanti dalle dinamiche sovranazionali.

La Corte di Giustizia utilizza la propria competenza sull’IVA come mezzo per affrontare una questione apparentemente preliminare e accessoria ma in realtà di primaria attenzione: la circolazione interdisciplinare delle prove. In particolare, il Giudice europeo sfrutta l’intrinseca natura multidisciplinare degli illeciti Pif per aprire la discussione ad un problema di più ampia portata.

La questione si è posta in un caso particolare di circolazione probatoria: la società WebMindLicences (d’ora in poi WML) viene condannata nel giudizio tributario nazionale sul fondamento di una prova raccolta in sede di processo penale parallelo. È infatti raro il passaggio di una prova da un processo penale a quello tributario, più frequente invece l’accesso di una prova documentale in sede penale.

Fatto

WML è una società ungherese titolare di un know-how per l’utilizzo di un sito web che offre servizi. Essa conclude un contratto di licenza di sfruttamento del brevetto con una società portoghese. Il creatore di detto know-how, amministratore e unico azionista di quest’ultima società, esercita il proprio controllo sullo sviluppo del servizio stesso. La società WML giustifica tale necessaria influenza per motivi commerciali, tecnici ed organizzativi facenti capo al sistema bancario.

Il caso vede la società ungherese condannata nel procedimento amministrativo al pagamento dell’Iva con interessi ed un’ammenda. A questi si aggiunge la condanna in secondo grado per abuso di diritto, fondata su prove raccolte nel processo penale parallelo. La società contesta oltre all’esistenza dell’abuso di diritto, l’utilizzo di prove segretamente ottenute. Si tratta di intercettazioni di cui l’imputato non ha avuto modo di constatare l’esistenza e di sequestro di email privo di autorizzazione giudiziaria ab origine. L’accesso al fascicolo penale risulta solo parziale in quanto ancora coperto da segreto istruttorio.

A seguito del ricorso al Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest il giudice decide di rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sollevando alcune questioni pregiudiziali riguardanti la qualifica di abuso di diritto nell’ambito della Direttiva Iva (2006/112/CE) e l’ammissibilità della prova in discussione ai sensi dei principi generali del diritto dell’Unione e della Carta di Nizza.

Il giudice a quo si domanda se un contratto di licenza concluso con una società avente sede in un altro stato-membro e quindi comportante dei benefici fiscali, tragga origine da un abuso di diritto. Questa prima questione chiama in causa il criterio del luogo della prestazione. Per rispondere la Corte richiama le sentenze Halifax e Caldbury S. e C.S. Overseas, con le quali precisava che, essendo l’obiettivo della direttiva la lotta contro l’evasione fiscale, il mero beneficio di un’aliquota meno elevata in un altro stato membro non è contrario alla direttiva IVA. Sono perciò considerate fraudolente le operazioni fittizie, ovvero quelle operazioni aventi come unico obiettivo l’ottenimento di tale vantaggio.

In specie ne consegue che spetta al giudice del rinvio accertare se il contratto di licenza è fittizio in base al luogo effettivo della prestazione di servizio.

Il punto più critico è il seguente: il giudice a quo si domanda se e a quali condizioni sia possibile raccogliere e utilizzare nel processo tributario prove ottenute segretamentenel corso di un procedimento penale parallelo e non concluso, cui la società non ha avuto accesso, alla luce della discrezionalità degli Stati in materia di lotta contro la frode e l’evasione fiscale. Gli articoli 8 par. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e gli articolo 7, 8, 41, 47, 48, 51 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE costituiscono il metro di conformità.

Decisione della Corte

La Corte ammette la possibilità di utilizzare le prove provenienti da un procedimento penale parallelo ancora non concluso nel procedimento amministrativo per accertare una pratica abusiva in materia di Iva, fermo restando il rispetto dei diritti garantiti dal diritto dell’Unione e in special modo dalla Carta.

In particolare l’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE corrisponde in contenuto con il diritto previsto dall’articolo 8 della CEDU. Essi prevedono il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni, che, come tale, deve essere rispettato e bilanciato in caso di intercettazioni e sequestri. Grazie alla corrispondenza dei due articoli la Corte di Giustizia può richiamare la giurisprudenza CEDU, la cui interpretazione deve essere applicata nell’esercizio del diritto.

La limitazione a tale diritto per esigenze di indagini e di accertamento della verità è subordinata ai criteri ex articolo 52 par. 1 della Carta di Nizza. Detti criteri si identificano con il rispetto del principio di legalità, quello di proporzionalità e del diritto alla difesa. Quest’ultimo fa capo ai diritti processuali del due process of law e nel caso di specie si esplica nell’esercizio effettivo del diritto al contraddittorio sulle prove e al ricorso giurisdizionale effettivo. In caso di decisioni sensibili agli interessi degli individui è essenziale garantire ai soggetti coinvolti l’accesso alle prove e la possibilità di essere ascoltati sulle stesse (diritto al contraddittorio). Per rendere effettivo il diritto alla difesa è poi necessario prevedere la facoltà per gli stessi di adire un giudice abilitato alla verifica della conformità delle prove penali ai diritti garantiti dall’Unione. Se simili prerogative non sono assicurate, le prove penali non sono ammesse e la decisione deve essere annullata.

Per quanto riguarda il primo dei principi enunciati dall’articolo 52 della Carta, il test di legalità consiste nel verificare l’esistenza di una base legale sufficientemente chiara e precisa. Nel caso in esame la Corte Europea aggiunge la definizione dello standard minimo di qualità legale ovvero che sia tale da offrire al cittadino un’indicazione adeguata in ordine alle condizioni al verificarsi delle quali si esercitano le prerogative della pubblica autorità. Considerato che, in molti Paesi la normativa interna sulla circolazione della prova tra procedimenti amministrativi e penali è scarsamente sviluppata, lo standard così imposto, da una parte, offre un utile argine contro eventuali violazioni arbitrarie, d’altra parte, sollecita i legislatori nazionali a specificare la disciplina in questione. Essendo però tale disciplina il frutto di un bilanciamento da parte del legislatore nazionale, il rischio è che previsioni normative in materia di ammissione delle prove, poi soggette al sindacato di conformità al diritto UE, siano disapplicate dal giudice nazionale.

Interviene qui il principio di effettività a tutela dell’interesse all’applicazione della normativa comunitaria, temperato però a garanzia dei diritti fondamentali dal sovra-principio della proporzionalità.

Principio della proporzionalità

Venendo a questo principio fondamentale a livello europeo, esso è previsto come tale dall’articolo 5 del Trattato sull’Unione Europea, come proporzionalità fra la sanzione e il reato dall’articolo 49 comma 3 della Carta e infine, dall’articolo 52 già citato. L’articolo pone il principio di proporzionalità nella limitazione dell’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Carta.

In concreto il test di proporzionalità consiste nel verificare la conformità a tre canoni in cui si dirama il principio: l’idoneità, ovvero l’astratta capacità del mezzo di raggiungere lo scopo, la necessarietà, ovvero la verifica che non vi sia un mezzo meno invasivo nei diritti del soggetto capace di raggiungere lo stesso risultato e la proporzionalità in senso stretto, ovvero il controllo comparativo tra mezzo-scopo tale che sia giustificato dalla corrispondenza ad un interesse generale dell’Unione.

La Corte di Giustizia sottolinea come tale test debba essere effettuato all’occasione di ogni restrizione ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla Carta, e quindi in due sedi: al momento della raccolta degli elementi istruttori e al momento dell’utilizzo/ammissione in procedimento, visto come un’ulteriore e autonoma limitazione ai diritti.

Quello appena esposto è il passaggio determinante, chiarito dalla Corte nel caso WML per quanto riguarda una prova nazionale assunta nell’ambito di un processo di natura giuridica differente rispetto al processo in cui poi prodotta.

L’utilità del vaglio è evidente nel caso di circolazione diagonale della prova: infatti, gli stessi canoni potranno fornire un risultato negativo o positivo a seconda dei parametri presi in considerazione. In particolare il “fine” risulta l’elemento determinante nell’aggiornamento del vaglio, comportando la valutazione dell’intensità dell’intervento pubblico sulla sfera giuridica dell’individuo alla luce del peso specifico dell’obiettivo perseguito. Ad esempio, nel caso WML il mezzo dell’intercettazione ben può apparire proporzionato rispetto alla verifica di un’infrazione penale, ma lo stesso non è detto rispetto al mero accertamento di un mancato versamento fiscale.

La duplicazione del test, di legalità e di proporzionalità nelle due sedi, viene denominato da Tesoriero “doppio vaglio al quadrato” [1].

Ci si può chiedere ora se questo modus operandi possa funzionare nel contesto dell’assistenza internazionale e europea.

Innanzitutto si pongono delle nuove questioni di fronte alla complicazione ulteriore del quadro di riferimento: la stessa multidisciplinarietà delle prove assume un carattere diverso rispetto a quello visto finora, conseguenza dell’interazione non solo tra più settori giuridici ma anche fra ordinamenti giuridici differenti.

Nel quadro generale dello scambio internazionale delle prove troviamo innanzitutto la Convenzione europea di Strasburgo del 1959 sull’assistenza giudiziaria in materia penale che pone il principio generale per la circolazione della prova penale a livello europeo: la prova per essere ammessa deve essere conforme alle forme previste dalla legislazione della Parte richiesta (lex loci). Questa disciplina rettificata nel 1962 è quella ancora vigente in Italia.

Successivamente, a partire dal Consiglio di Tampere che combina il principio di ammissibilità richiamato con quello di compatibilità alle norme interne, si sono susseguite una serie di programmi e piani d’azione volti a raggiungere il mutuo riconoscimento anche in ambito probatorio.

Il risultato ad oggi più rilevante è la previsione dell’articolo 82 par. 2 TFUE a seguito del Trattato di Lisbona che enuncia la possibilità di stabilire, tramite direttiva, norme minime aventi ad oggetto, tra l’altro, “l’ammissibilità reciproca delle prove tra gli Stati membri”, nonché “i diritti della persona nella procedura penale” volte a facilitare la cooperazione nelle materie penali transnazionali. Aggiungendo inoltre che bisogna tener conto delle differenze tra le tradizioni giuridiche e gli ordinamenti giuridici degli stati membri e che l’adozione delle norme minime non impedisce agli Stati membri di mantenere o introdurre un livello più elevato di tutela delle persone.

Ad oggi abbiamo un’importante attuazione dell’articolo: la direttiva sull’ordine europeo d’indagine penale CE 41/2014.

Direttiva sull’ordine europeo d’indagine penale

Si tratta di una fonte normativa improntata al reciproco riconoscimento in ambito probatorio. La critica maggiore che gli viene volta è che essa mira alla semplificazione e uniformazione della cooperazione orizzontale tra Stati in materia di prove, più che a trattare il tema delle regole comuni in materia di ammissibilità reciproca delle prove (armonizzazione in senso verticale). Uno sforzo in quest’ultima direzione sembra essere fatto limitatamente alle previsioni del Capo IV della direttiva. Qualora il campo probatorio interferisca con i diritti fondamentali, intervengono alcune disposizioni comuni per uniformare le procedure riguardanti le informazioni bancarie, quelle legate alle operazioni sotto copertura, le intercettazioni, e il trasferimento delle persone detenute al fine di poterne raccogliere le dichiarazioni.

Dal punto di vista metodologico l’OEI crea un doppio regime d’indagine transnazionale nel quale si assiste ad un avvicinamento attraverso il mutuo riconoscimento per quanto riguarda prove non richiedenti provvedimenti coattivi, rilevanti in materia di frodi fiscali (e ipotesi criminose d’impresa), e ad una riconferma della difficoltà di un pieno mutuo riconoscimento nel sistema globale. Infatti, qualora vi sia necessità di un intervento coattivo sono riprese le soluzioni tipiche della tradizionale assistenza giudiziaria.

Aspetti positivi che meritano di essere messi in evidenza sono il richiamo costante al principio di proporzionalità, dallo scrupolo per il rispetto dei diritti fondamentali e un relativo rafforzamento – benché ancora insufficiente – del diritto di difesa.

La direttiva prevede che di fronte ad una richiesta di assistenza per l’acquisizione di un atto probatorio, sia lo Stato emittente che quello di esecuzione devono porre in essere il triplice vaglio implicato dal canone di proporzione, provvedendo a consultarsi in caso di contrasto. Il vaglio deve dunque essere operato sia nella fase di emissione che in quella di attuazione, costituendo così una deroga al mutuo riconoscimento. Il Professor Caianiello considera che un simile modus operandi dovrebbe favorire il ravvicinamento e l’uniformazione applicativa di un metodo – quello implicato dal canone di proporzione – che inevitabilmente riconosce al potere giudiziario un considerevole margine discrezionale, attenuando le distanze prasseologiche tra i diversi ordinamenti nazionali.

I profili critici, invece, attengono principalmente alle clausole di rifiuto, in particolare quelle legate alla territorialità contraddicono la cooperazione giudiziaria fondata sul reciproco riconoscimento e non tengono conto di come, sempre più spesso, le vicende criminose siano transnazionali. Altro discorso meriterebbe l’asimmetria tra la posizione dell’imputato e quella delle autorità inquirenti nel quadro di un procedimento transnazionale. [2]

Prima conclusione

In conclusione ciò che risulta è un quadro in piena evoluzione in cui il ravvicinamento delle discipline legislative in materia probatoria è arduo e lo diventa ancora di più se si somma alla dimensione diagonale quella transfrontaliera.

Infatti in un quadro sovranazionale le autorità chiamate ad interloquire, pur qualificate in modo equivalente, possono essere dotate di poteri e scopi profondamente diversi.

Vediamo allora che la nozione di prova multidisciplinare è più ampia di quella presa in considerazione nel caso WML dove ci si riferiva a prove multidisciplinari in senso stretto, cioè raccolte nell’ambito di indagini parallele. Qui invece si intende ogni prodotto probatorio frutto di un’attività di assistenza internazionale – anche spontanea – svolta, a livello europeo, tra autorità appartenenti a settori differenziati. [1]

Tre sono i punti critici da prendere in considerazione:

1. La differente tutela dei diritti individuali e la connessa invasività dei mezzi utilizzabili dovuti alla diversa finalità perseguita. Infatti sebbene l’accertamento amministrativo, il cui scopo è la prevenzione, possa essere anche volto ad una sanzione, esso dovrebbe essere comunque estraneo ad una componente afflittiva, che invece caratterizza il processo penale, volto all’accertamento e alla punizione delle violazioni più gravi.

In questo senso l’ammissione in sede amministrativa dei risultati ottenuti con mezzi probatori di tipo coercitivo/penale potenzia la capacità di accertamento dell’illecito. Ma, come anticipato, si pone il problema della proporzionalità, ovvero di vedere fino a che punto tale rafforzamento sia compatibile con la finalità perseguita.

Altro problema poi è che a ciò non corrispondono garanzie dell’interessato nel procedimento amministrativo equivalenti agli standards penali.

2. Nel metodo di formazione della prova, ove dovrebbero trovare spazio le garanzie difensive del soggetto, vi è una disomogeneità sia tra amministrativo-penale che tra i vari stati-membri. Un dato, questo, che aggrava le distonie.

3. Se poi consideriamo la circolazione probatoria in senso opposto: ovvero una prova fiscale ammessa in sede penale, il problema non sono più le violazioni del caso concreto (il rispetto del diritto di difesa come nel caso WML), ma lo è lo standard garantistico inferiore già in astratto.

Quindi considerando le potenzialità espansive delle statuizioni della Corte di Giustizia nell’ambito della circolazione transnazionale della prova formata in un diverso procedimento, il doppio vaglio al quadrato potrebbe costituire un utile modo di procedere offrendo un controllo aggiornato: dello standard di legalità, tale da garantire il rispetto del diritto dell’Unione e di quello nazionale, e soprattutto di proporzionalità che funge qui da vero e proprio filtro. Questo dal punto di vista del procedimento, ma nella sostanza manca ancora una disciplina comune in grado di superare completamente gli ostacoli, quindi il risultato di queste condizioni è la responsabilizzazione attraverso la proporzionalità dell’interprete che vede attribuirsi un potere non indifferente.

Un’altra soluzione presa in considerazione dalla dottrina, dal Regolamento europeo in materia di frodi agricole e doganali e da alcune iniziative legislative che non hanno mai visto la luce è il mutuo riconoscimento diagonale, intendendo così la parificazione degli elementi di prova comunitari. A mio avviso una tale ipotesi è da escludere ab origine in quanto sopprimerebbe i controlli essenziali fin qui esposti, portando ad una dinamica regressiva dal punto di vista dei diritti dell’interessato e della qualità dell’accertamento.

Ben più equilibrata ed efficace apparirebbe, al contrario, la disciplina di uno strumento omnicomprensivo della raccolta delle prove e dello scambio di informazioni valido per tutti i settori della cooperazione amministrativa ed ispirato al mutuo riconoscimento, sul modello di quanto già introdotto per la cooperazione giudiziaria in materia penale attraverso l’OEI (vedasi sopra).

Al momento l’acquis comunitario in merito offre uno strumento di cooperazione fra le autorità e alcuni vantaggi operativi per mezzo dell’OLAF.

Si tratta di un organismo indipendente interno alla Commissione, istituito con la decisione 352/1999, incaricato di eseguire indagini amministrative nel quadro del diritto comunitario su casi di frode, corruzione e altre irregolarità ai danni delle finanze dell’Unione.

Per quanto interessa in questa sede, l’indagine svolta da questo ufficio è in grado di superare i problemi rogatoriali grazie alla trasmissione diretta alle autorità giudiziarie nazionali dei documenti acquisiti. Ciò risulta particolarmente utile nelle indagini coinvolgenti paesi terzi in cui la cooperazione giudiziaria e di polizia è particolarmente difficoltosa.A questo fine l’autorità giudiziaria nazionale può sollecitarne l’intervento nei fatti rientranti nella sua competenza.

Oltre alla trasmissione diretta delle risultanze l’Olaf può emettere delle raccomandazioni sui provvedimenti del caso: recupero, azione penale, misure disciplinari o amministrative.

È importante sottolineare che le relazioni a seguito delle indagini hanno lo stesso valore di relazioni amministrative redatte dagli ispettori amministrativi nazionali. Le relazioni assumono così valenza endo-procedimentale, possono cioè essere utilizzate nella fase delle indagini preliminari dal P.M. per l’accertamento delle fattispecie penale ma anche processuale in senso stretto, potendo essere prodotti in fase dibattimentale quali documenti ex articolo 234 c.p.p.. La giurisprudenza di legittimità si è più volte pronunciata nel senso della accusabilità in dibattimento ex articolo 234 c.p.p. dei verbali di constatazione.

Seconde conclusioni

Abbiamo visto come la Corte di Giustizia nel caso WML ponga la sanzione processuale, ovvero l’invalidità della decisione come rimedio all’utilizzo di una prova non conforme al diritto europeo e in particolare ai diritti garantiti dalla Carta di Nizza. Questa soluzione è spesso adottata dal legislatore anche al di là della materia delle prove.

Ci si può allora domandare quali siano le soluzioni ai problemi irrisolti in materia di circolazione probatoria transnazionale, qui anche inter-procedimentale. Queste si possono rinvenire in squadre investigative comuni, oppure in una unità di raccordo delle autorità investigative come Eurojust. La questione porta poi a domandarsi se debbano applicarsi le regole probatorie dello stato in cui la prova si forma (lex loci), oppure quelle dello stato in cui deve essere celebrato il processo e nel quale, pertanto, la prova deve essere utilizzata (lex fori). Il primo costituisce il principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto e diverrebbe perciò il criterio generale da osservare per l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento probatorio. Si colloca in questa direzione la proposta di regolamento sull’istituzione dell’Ufficio del pubblico ministero europeo che prevede la raccolta delle prove in conformità alle regole dello Stato in cui esse vengano formate e la piena utilizzabilità delle stesse in ogni altro Stato. Si tratta di una soluzione difficilmente attuabile di fronte al divario degli ordinamenti in materia, implicante il contrasto dell’utilizzo della prova a regole di massima importanza per lo Stato in cui questa dovrebbe venire utilizzata. Sempre al giudice spetta il controllo di conformità ai principi e ai diritti costituzionali dello Stato in cui si intende far uso della prova.

In forza del diverso criterio dovrebbero invece operare unicamente le regole probatorie dello Stato in cui la prova dovrebbe essere utilizzata, sostituendo così la lex fori alla lex loci. Questo approccio mira a proteggere le esigenze dello Stato che richiede la formazione della prova all’estero e a salvaguardare le garanzie processuali previste dal medesimo. Su questo filone si collocano le ultime convenzioni in materia di assistenza giudiziaria, in particolare la previsione della Convenzione di Bruxelles del 2000, la quale dispone che «l’autorità di esecuzione si attiene alle formalità e alle procedure espressamente indicate dall’autorità di emissione», sempre che esse non si pongano in contrasto con i principi fondamentali del suo ordinamento. Questa insieme alle “buone prassi” sono il fondamento della direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, già presa in considerazione come possibile modello per la cooperazione giudiziaria anche in materia amministrativa. Come però facilmente intuibile dalla lettera della disposizione, anche il criterio della lex fori genererebbe lo stesso problema considerato per la lex loci, in quanto potrebbe presupporre l’applicazione di regole probatorie non condivise dallo Stato in cui la prova andrebbe raccolta.

Il rischio invece nell’applicazione di un doppio vaglio, in osservanza del principio di reciprocità che tradizionalmente si applica in materia di assistenza giudiziaria, è la perdita del materiale istruttorio raccolto. Tale criterio, più rispettoso della sovranità di tutti gli Stati coinvolti dalla commissione del reato, impone di rispettare le regole probatorie di più sistemi, aumentando così la probabilità di inosservanza della legge e quindi di incompatibilità della prova.

[1] S. Tesoriero, “La prova multidisciplinare europea per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione: tra effettività e proporzionalità”, inedito 2016

[2] M. Caianiello, “La nuova direttiva UE sull’ordine europeo di indagine penale tra mutuo riconoscimento e ammissione reciproca delle prove”, Processo penale e giustizia n. 3, 2015

Abstract

La conformità al diritto Europeo impone i canoni per l'accesso in sede tributaria di una prova raccolta nel processo penale parallelo: Il doppio vaglio come condizione di legittimità della prova.

 

Premessa

La ricerca della verità è un’aspirazione morale che coinvolge qualsiasi organo giudicante, sia che appartenga ad un sistema accusatorio, sia ad uno inquisitorio; possono però essere diverse le regole che disciplinano gli strumenti, i poteri e la posizione degli organi e delle parti nel processo penale.

Questa considerazione generale assume ancora maggior rilevanza nell’ambito del diritto delle prove. Le prove, la loro assunzione, valutazione e incisività, distinguono, evidentemente, il processo accusatorio da quello inquisitorio e tra loro diverse versioni dello stesso modello. Si definiscono così sistemi probatori radicalmente diversi tra Stato e Stato.

Altro elemento da tenere in considerazione è il passaggio dall’Ancien Régime al Diritto Moderno il quale segna la fine del sistema delle prove legali e l’inizio della libertà del giudice nel valutare le prove.

Il caso di cui tratterò concerne temi originariamente attinenti alla sovranità nazionale e le problematiche derivanti dalle dinamiche sovranazionali.

La Corte di Giustizia utilizza la propria competenza sull’IVA come mezzo per affrontare una questione apparentemente preliminare e accessoria ma in realtà di primaria attenzione: la circolazione interdisciplinare delle prove. In particolare, il Giudice europeo sfrutta l’intrinseca natura multidisciplinare degli illeciti Pif per aprire la discussione ad un problema di più ampia portata.

La questione si è posta in un caso particolare di circolazione probatoria: la società WebMindLicences (d’ora in poi WML) viene condannata nel giudizio tributario nazionale sul fondamento di una prova raccolta in sede di processo penale parallelo. È infatti raro il passaggio di una prova da un processo penale a quello tributario, più frequente invece l’accesso di una prova documentale in sede penale.

Fatto

WML è una società ungherese titolare di un know-how per l’utilizzo di un sito web che offre servizi. Essa conclude un contratto di licenza di sfruttamento del brevetto con una società portoghese. Il creatore di detto know-how, amministratore e unico azionista di quest’ultima società, esercita il proprio controllo sullo sviluppo del servizio stesso. La società WML giustifica tale necessaria influenza per motivi commerciali, tecnici ed organizzativi facenti capo al sistema bancario.

Il caso vede la società ungherese condannata nel procedimento amministrativo al pagamento dell’Iva con interessi ed un’ammenda. A questi si aggiunge la condanna in secondo grado per abuso di diritto, fondata su prove raccolte nel processo penale parallelo. La società contesta oltre all’esistenza dell’abuso di diritto, l’utilizzo di prove segretamente ottenute. Si tratta di intercettazioni di cui l’imputato non ha avuto modo di constatare l’esistenza e di sequestro di email privo di autorizzazione giudiziaria ab origine. L’accesso al fascicolo penale risulta solo parziale in quanto ancora coperto da segreto istruttorio.

A seguito del ricorso al Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest il giudice decide di rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sollevando alcune questioni pregiudiziali riguardanti la qualifica di abuso di diritto nell’ambito della Direttiva Iva (2006/112/CE) e l’ammissibilità della prova in discussione ai sensi dei principi generali del diritto dell’Unione e della Carta di Nizza.

Il giudice a quo si domanda se un contratto di licenza concluso con una società avente sede in un altro stato-membro e quindi comportante dei benefici fiscali, tragga origine da un abuso di diritto. Questa prima questione chiama in causa il criterio del luogo della prestazione. Per rispondere la Corte richiama le sentenze Halifax e Caldbury S. e C.S. Overseas, con le quali precisava che, essendo l’obiettivo della direttiva la lotta contro l’evasione fiscale, il mero beneficio di un’aliquota meno elevata in un altro stato membro non è contrario alla direttiva IVA. Sono perciò considerate fraudolente le operazioni fittizie, ovvero quelle operazioni aventi come unico obiettivo l’ottenimento di tale vantaggio.

In specie ne consegue che spetta al giudice del rinvio accertare se il contratto di licenza è fittizio in base al luogo effettivo della prestazione di servizio.

Il punto più critico è il seguente: il giudice a quo si domanda se e a quali condizioni sia possibile raccogliere e utilizzare nel processo tributario prove ottenute segretamentenel corso di un procedimento penale parallelo e non concluso, cui la società non ha avuto accesso, alla luce della discrezionalità degli Stati in materia di lotta contro la frode e l’evasione fiscale. Gli articoli 8 par. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e gli articolo 7, 8, 41, 47, 48, 51 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE costituiscono il metro di conformità.

Decisione della Corte

La Corte ammette la possibilità di utilizzare le prove provenienti da un procedimento penale parallelo ancora non concluso nel procedimento amministrativo per accertare una pratica abusiva in materia di Iva, fermo restando il rispetto dei diritti garantiti dal diritto dell’Unione e in special modo dalla Carta.

In particolare l’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE corrisponde in contenuto con il diritto previsto dall’articolo 8 della CEDU. Essi prevedono il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni, che, come tale, deve essere rispettato e bilanciato in caso di intercettazioni e sequestri. Grazie alla corrispondenza dei due articoli la Corte di Giustizia può richiamare la giurisprudenza CEDU, la cui interpretazione deve essere applicata nell’esercizio del diritto.

La limitazione a tale diritto per esigenze di indagini e di accertamento della verità è subordinata ai criteri ex articolo 52 par. 1 della Carta di Nizza. Detti criteri si identificano con il rispetto del principio di legalità, quello di proporzionalità e del diritto alla difesa. Quest’ultimo fa capo ai diritti processuali del due process of law e nel caso di specie si esplica nell’esercizio effettivo del diritto al contraddittorio sulle prove e al ricorso giurisdizionale effettivo. In caso di decisioni sensibili agli interessi degli individui è essenziale garantire ai soggetti coinvolti l’accesso alle prove e la possibilità di essere ascoltati sulle stesse (diritto al contraddittorio). Per rendere effettivo il diritto alla difesa è poi necessario prevedere la facoltà per gli stessi di adire un giudice abilitato alla verifica della conformità delle prove penali ai diritti garantiti dall’Unione. Se simili prerogative non sono assicurate, le prove penali non sono ammesse e la decisione deve essere annullata.

Per quanto riguarda il primo dei principi enunciati dall’articolo 52 della Carta, il test di legalità consiste nel verificare l’esistenza di una base legale sufficientemente chiara e precisa. Nel caso in esame la Corte Europea aggiunge la definizione dello standard minimo di qualità legale ovvero che sia tale da offrire al cittadino un’indicazione adeguata in ordine alle condizioni al verificarsi delle quali si esercitano le prerogative della pubblica autorità. Considerato che, in molti Paesi la normativa interna sulla circolazione della prova tra procedimenti amministrativi e penali è scarsamente sviluppata, lo standard così imposto, da una parte, offre un utile argine contro eventuali violazioni arbitrarie, d’altra parte, sollecita i legislatori nazionali a specificare la disciplina in questione. Essendo però tale disciplina il frutto di un bilanciamento da parte del legislatore nazionale, il rischio è che previsioni normative in materia di ammissione delle prove, poi soggette al sindacato di conformità al diritto UE, siano disapplicate dal giudice nazionale.

Interviene qui il principio di effettività a tutela dell’interesse all’applicazione della normativa comunitaria, temperato però a garanzia dei diritti fondamentali dal sovra-principio della proporzionalità.

Principio della proporzionalità

Venendo a questo principio fondamentale a livello europeo, esso è previsto come tale dall’articolo 5 del Trattato sull’Unione Europea, come proporzionalità fra la sanzione e il reato dall’articolo 49 comma 3 della Carta e infine, dall’articolo 52 già citato. L’articolo pone il principio di proporzionalità nella limitazione dell’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Carta.

In concreto il test di proporzionalità consiste nel verificare la conformità a tre canoni in cui si dirama il principio: l’idoneità, ovvero l’astratta capacità del mezzo di raggiungere lo scopo, la necessarietà, ovvero la verifica che non vi sia un mezzo meno invasivo nei diritti del soggetto capace di raggiungere lo stesso risultato e la proporzionalità in senso stretto, ovvero il controllo comparativo tra mezzo-scopo tale che sia giustificato dalla corrispondenza ad un interesse generale dell’Unione.

La Corte di Giustizia sottolinea come tale test debba essere effettuato all’occasione di ogni restrizione ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla Carta, e quindi in due sedi: al momento della raccolta degli elementi istruttori e al momento dell’utilizzo/ammissione in procedimento, visto come un’ulteriore e autonoma limitazione ai diritti.

Quello appena esposto è il passaggio determinante, chiarito dalla Corte nel caso WML per quanto riguarda una prova nazionale assunta nell’ambito di un processo di natura giuridica differente rispetto al processo in cui poi prodotta.

L’utilità del vaglio è evidente nel caso di circolazione diagonale della prova: infatti, gli stessi canoni potranno fornire un risultato negativo o positivo a seconda dei parametri presi in considerazione. In particolare il “fine” risulta l’elemento determinante nell’aggiornamento del vaglio, comportando la valutazione dell’intensità dell’intervento pubblico sulla sfera giuridica dell’individuo alla luce del peso specifico dell’obiettivo perseguito. Ad esempio, nel caso WML il mezzo dell’intercettazione ben può apparire proporzionato rispetto alla verifica di un’infrazione penale, ma lo stesso non è detto rispetto al mero accertamento di un mancato versamento fiscale.

La duplicazione del test, di legalità e di proporzionalità nelle due sedi, viene denominato da Tesoriero “doppio vaglio al quadrato” [1].

Ci si può chiedere ora se questo modus operandi possa funzionare nel contesto dell’assistenza internazionale e europea.

Innanzitutto si pongono delle nuove questioni di fronte alla complicazione ulteriore del quadro di riferimento: la stessa multidisciplinarietà delle prove assume un carattere diverso rispetto a quello visto finora, conseguenza dell’interazione non solo tra più settori giuridici ma anche fra ordinamenti giuridici differenti.

Nel quadro generale dello scambio internazionale delle prove troviamo innanzitutto la Convenzione europea di Strasburgo del 1959 sull’assistenza giudiziaria in materia penale che pone il principio generale per la circolazione della prova penale a livello europeo: la prova per essere ammessa deve essere conforme alle forme previste dalla legislazione della Parte richiesta (lex loci). Questa disciplina rettificata nel 1962 è quella ancora vigente in Italia.

Successivamente, a partire dal Consiglio di Tampere che combina il principio di ammissibilità richiamato con quello di compatibilità alle norme interne, si sono susseguite una serie di programmi e piani d’azione volti a raggiungere il mutuo riconoscimento anche in ambito probatorio.

Il risultato ad oggi più rilevante è la previsione dell’articolo 82 par. 2 TFUE a seguito del Trattato di Lisbona che enuncia la possibilità di stabilire, tramite direttiva, norme minime aventi ad oggetto, tra l’altro, “l’ammissibilità reciproca delle prove tra gli Stati membri”, nonché “i diritti della persona nella procedura penale” volte a facilitare la cooperazione nelle materie penali transnazionali. Aggiungendo inoltre che bisogna tener conto delle differenze tra le tradizioni giuridiche e gli ordinamenti giuridici degli stati membri e che l’adozione delle norme minime non impedisce agli Stati membri di mantenere o introdurre un livello più elevato di tutela delle persone.

Ad oggi abbiamo un’importante attuazione dell’articolo: la direttiva sull’ordine europeo d’indagine penale CE 41/2014.

Direttiva sull’ordine europeo d’indagine penale

Si tratta di una fonte normativa improntata al reciproco riconoscimento in ambito probatorio. La critica maggiore che gli viene volta è che essa mira alla semplificazione e uniformazione della cooperazione orizzontale tra Stati in materia di prove, più che a trattare il tema delle regole comuni in materia di ammissibilità reciproca delle prove (armonizzazione in senso verticale). Uno sforzo in quest’ultima direzione sembra essere fatto limitatamente alle previsioni del Capo IV della direttiva. Qualora il campo probatorio interferisca con i diritti fondamentali, intervengono alcune disposizioni comuni per uniformare le procedure riguardanti le informazioni bancarie, quelle legate alle operazioni sotto copertura, le intercettazioni, e il trasferimento delle persone detenute al fine di poterne raccogliere le dichiarazioni.

Dal punto di vista metodologico l’OEI crea un doppio regime d’indagine transnazionale nel quale si assiste ad un avvicinamento attraverso il mutuo riconoscimento per quanto riguarda prove non richiedenti provvedimenti coattivi, rilevanti in materia di frodi fiscali (e ipotesi criminose d’impresa), e ad una riconferma della difficoltà di un pieno mutuo riconoscimento nel sistema globale. Infatti, qualora vi sia necessità di un intervento coattivo sono riprese le soluzioni tipiche della tradizionale assistenza giudiziaria.

Aspetti positivi che meritano di essere messi in evidenza sono il richiamo costante al principio di proporzionalità, dallo scrupolo per il rispetto dei diritti fondamentali e un relativo rafforzamento – benché ancora insufficiente – del diritto di difesa.

La direttiva prevede che di fronte ad una richiesta di assistenza per l’acquisizione di un atto probatorio, sia lo Stato emittente che quello di esecuzione devono porre in essere il triplice vaglio implicato dal canone di proporzione, provvedendo a consultarsi in caso di contrasto. Il vaglio deve dunque essere operato sia nella fase di emissione che in quella di attuazione, costituendo così una deroga al mutuo riconoscimento. Il Professor Caianiello considera che un simile modus operandi dovrebbe favorire il ravvicinamento e l’uniformazione applicativa di un metodo – quello implicato dal canone di proporzione – che inevitabilmente riconosce al potere giudiziario un considerevole margine discrezionale, attenuando le distanze prasseologiche tra i diversi ordinamenti nazionali.

I profili critici, invece, attengono principalmente alle clausole di rifiuto, in particolare quelle legate alla territorialità contraddicono la cooperazione giudiziaria fondata sul reciproco riconoscimento e non tengono conto di come, sempre più spesso, le vicende criminose siano transnazionali. Altro discorso meriterebbe l’asimmetria tra la posizione dell’imputato e quella delle autorità inquirenti nel quadro di un procedimento transnazionale. [2]

Prima conclusione

In conclusione ciò che risulta è un quadro in piena evoluzione in cui il ravvicinamento delle discipline legislative in materia probatoria è arduo e lo diventa ancora di più se si somma alla dimensione diagonale quella transfrontaliera.

Infatti in un quadro sovranazionale le autorità chiamate ad interloquire, pur qualificate in modo equivalente, possono essere dotate di poteri e scopi profondamente diversi.

Vediamo allora che la nozione di prova multidisciplinare è più ampia di quella presa in considerazione nel caso WML dove ci si riferiva a prove multidisciplinari in senso stretto, cioè raccolte nell’ambito di indagini parallele. Qui invece si intende ogni prodotto probatorio frutto di un’attività di assistenza internazionale – anche spontanea – svolta, a livello europeo, tra autorità appartenenti a settori differenziati. [1]

Tre sono i punti critici da prendere in considerazione:

1. La differente tutela dei diritti individuali e la connessa invasività dei mezzi utilizzabili dovuti alla diversa finalità perseguita. Infatti sebbene l’accertamento amministrativo, il cui scopo è la prevenzione, possa essere anche volto ad una sanzione, esso dovrebbe essere comunque estraneo ad una componente afflittiva, che invece caratterizza il processo penale, volto all’accertamento e alla punizione delle violazioni più gravi.

In questo senso l’ammissione in sede amministrativa dei risultati ottenuti con mezzi probatori di tipo coercitivo/penale potenzia la capacità di accertamento dell’illecito. Ma, come anticipato, si pone il problema della proporzionalità, ovvero di vedere fino a che punto tale rafforzamento sia compatibile con la finalità perseguita.

Altro problema poi è che a ciò non corrispondono garanzie dell’interessato nel procedimento amministrativo equivalenti agli standards penali.

2. Nel metodo di formazione della prova, ove dovrebbero trovare spazio le garanzie difensive del soggetto, vi è una disomogeneità sia tra amministrativo-penale che tra i vari stati-membri. Un dato, questo, che aggrava le distonie.

3. Se poi consideriamo la circolazione probatoria in senso opposto: ovvero una prova fiscale ammessa in sede penale, il problema non sono più le violazioni del caso concreto (il rispetto del diritto di difesa come nel caso WML), ma lo è lo standard garantistico inferiore già in astratto.

Quindi considerando le potenzialità espansive delle statuizioni della Corte di Giustizia nell’ambito della circolazione transnazionale della prova formata in un diverso procedimento, il doppio vaglio al quadrato potrebbe costituire un utile modo di procedere offrendo un controllo aggiornato: dello standard di legalità, tale da garantire il rispetto del diritto dell’Unione e di quello nazionale, e soprattutto di proporzionalità che funge qui da vero e proprio filtro. Questo dal punto di vista del procedimento, ma nella sostanza manca ancora una disciplina comune in grado di superare completamente gli ostacoli, quindi il risultato di queste condizioni è la responsabilizzazione attraverso la proporzionalità dell’interprete che vede attribuirsi un potere non indifferente.

Un’altra soluzione presa in considerazione dalla dottrina, dal Regolamento europeo in materia di frodi agricole e doganali e da alcune iniziative legislative che non hanno mai visto la luce è il mutuo riconoscimento diagonale, intendendo così la parificazione degli elementi di prova comunitari. A mio avviso una tale ipotesi è da escludere ab origine in quanto sopprimerebbe i controlli essenziali fin qui esposti, portando ad una dinamica regressiva dal punto di vista dei diritti dell’interessato e della qualità dell’accertamento.

Ben più equilibrata ed efficace apparirebbe, al contrario, la disciplina di uno strumento omnicomprensivo della raccolta delle prove e dello scambio di informazioni valido per tutti i settori della cooperazione amministrativa ed ispirato al mutuo riconoscimento, sul modello di quanto già introdotto per la cooperazione giudiziaria in materia penale attraverso l’OEI (vedasi sopra).

Al momento l’acquis comunitario in merito offre uno strumento di cooperazione fra le autorità e alcuni vantaggi operativi per mezzo dell’OLAF.

Si tratta di un organismo indipendente interno alla Commissione, istituito con la decisione 352/1999, incaricato di eseguire indagini amministrative nel quadro del diritto comunitario su casi di frode, corruzione e altre irregolarità ai danni delle finanze dell’Unione.

Per quanto interessa in questa sede, l’indagine svolta da questo ufficio è in grado di superare i problemi rogatoriali grazie alla trasmissione diretta alle autorità giudiziarie nazionali dei documenti acquisiti. Ciò risulta particolarmente utile nelle indagini coinvolgenti paesi terzi in cui la cooperazione giudiziaria e di polizia è particolarmente difficoltosa.A questo fine l’autorità giudiziaria nazionale può sollecitarne l’intervento nei fatti rientranti nella sua competenza.

Oltre alla trasmissione diretta delle risultanze l’Olaf può emettere delle raccomandazioni sui provvedimenti del caso: recupero, azione penale, misure disciplinari o amministrative.

È importante sottolineare che le relazioni a seguito delle indagini hanno lo stesso valore di relazioni amministrative redatte dagli ispettori amministrativi nazionali. Le relazioni assumono così valenza endo-procedimentale, possono cioè essere utilizzate nella fase delle indagini preliminari dal P.M. per l’accertamento delle fattispecie penale ma anche processuale in senso stretto, potendo essere prodotti in fase dibattimentale quali documenti ex articolo 234 c.p.p.. La giurisprudenza di legittimità si è più volte pronunciata nel senso della accusabilità in dibattimento ex articolo 234 c.p.p. dei verbali di constatazione.

Seconde conclusioni

Abbiamo visto come la Corte di Giustizia nel caso WML ponga la sanzione processuale, ovvero l’invalidità della decisione come rimedio all’utilizzo di una prova non conforme al diritto europeo e in particolare ai diritti garantiti dalla Carta di Nizza. Questa soluzione è spesso adottata dal legislatore anche al di là della materia delle prove.

Ci si può allora domandare quali siano le soluzioni ai problemi irrisolti in materia di circolazione probatoria transnazionale, qui anche inter-procedimentale. Queste si possono rinvenire in squadre investigative comuni, oppure in una unità di raccordo delle autorità investigative come Eurojust. La questione porta poi a domandarsi se debbano applicarsi le regole probatorie dello stato in cui la prova si forma (lex loci), oppure quelle dello stato in cui deve essere celebrato il processo e nel quale, pertanto, la prova deve essere utilizzata (lex fori). Il primo costituisce il principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto e diverrebbe perciò il criterio generale da osservare per l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento probatorio. Si colloca in questa direzione la proposta di regolamento sull’istituzione dell’Ufficio del pubblico ministero europeo che prevede la raccolta delle prove in conformità alle regole dello Stato in cui esse vengano formate e la piena utilizzabilità delle stesse in ogni altro Stato. Si tratta di una soluzione difficilmente attuabile di fronte al divario degli ordinamenti in materia, implicante il contrasto dell’utilizzo della prova a regole di massima importanza per lo Stato in cui questa dovrebbe venire utilizzata. Sempre al giudice spetta il controllo di conformità ai principi e ai diritti costituzionali dello Stato in cui si intende far uso della prova.

In forza del diverso criterio dovrebbero invece operare unicamente le regole probatorie dello Stato in cui la prova dovrebbe essere utilizzata, sostituendo così la lex fori alla lex loci. Questo approccio mira a proteggere le esigenze dello Stato che richiede la formazione della prova all’estero e a salvaguardare le garanzie processuali previste dal medesimo. Su questo filone si collocano le ultime convenzioni in materia di assistenza giudiziaria, in particolare la previsione della Convenzione di Bruxelles del 2000, la quale dispone che «l’autorità di esecuzione si attiene alle formalità e alle procedure espressamente indicate dall’autorità di emissione», sempre che esse non si pongano in contrasto con i principi fondamentali del suo ordinamento. Questa insieme alle “buone prassi” sono il fondamento della direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, già presa in considerazione come possibile modello per la cooperazione giudiziaria anche in materia amministrativa. Come però facilmente intuibile dalla lettera della disposizione, anche il criterio della lex fori genererebbe lo stesso problema considerato per la lex loci, in quanto potrebbe presupporre l’applicazione di regole probatorie non condivise dallo Stato in cui la prova andrebbe raccolta.

Il rischio invece nell’applicazione di un doppio vaglio, in osservanza del principio di reciprocità che tradizionalmente si applica in materia di assistenza giudiziaria, è la perdita del materiale istruttorio raccolto. Tale criterio, più rispettoso della sovranità di tutti gli Stati coinvolti dalla commissione del reato, impone di rispettare le regole probatorie di più sistemi, aumentando così la probabilità di inosservanza della legge e quindi di incompatibilità della prova.

[1] S. Tesoriero, “La prova multidisciplinare europea per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione: tra effettività e proporzionalità”, inedito 2016

[2] M. Caianiello, “La nuova direttiva UE sull’ordine europeo di indagine penale tra mutuo riconoscimento e ammissione reciproca delle prove”, Processo penale e giustizia n. 3, 2015