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Mal di pancia sull’ecommerce

Mal di pancia sull’ecommerce
Mal di pancia sull’ecommerce

Bologna, 9 maggio 2016

 

Uno dei miei primi post sul mio blog lo scrissi ricordando che Internet non è mai stato il far west che si sosteneva fosse. Che sia strumento neutrale o meno è altra questione (non lo è). Lo ripetevo dai miei primi seminari sugli aspetti legali del commercio elettronico, quando non erano nati Facebook e Twitter e quando Amazon non era ancora il più grande store on line che genialmente unisce logistica e cloud, e lo ripeto oggi, perché il controllo diffuso ad opera di autorità, privati e concorrenti è ancora più agevole, cresce il fatturato dell’ecommerce e la consapevolezza di imprese e consumatori su come maneggiarlo.

Nulla da aggiungere allora? Non proprio: c’è un fenomeno interessante da segnalare che in passato avevo colto in modo diverso.

Pensavo cioè che un’impresa potesse segnalare alle autorità competenti l’impresa concorrente – non mi interessa con quali intenzioni – in caso di violazioni anche banali alle norme applicabili, non di rado confuse. Per dirla con un termine molto di moda oggi, whistleblowing, non so quanto virtuoso, forse antipatico, senz’altro legittimo e anzi incentivato.

Ora il fenomeno che segnalo è parzialmente diverso. È presto riassunto nella spiazzante domanda che mi ha fatto un imprenditore: perché se un mio concorrente vende con le stesse mie modalità – evidentemente prive di alcune informazioni richieste dalla normativa dell’Unione Europea – sui grandi store non viene sanzionato e io sì (s’intende, in via amministrativa)? Premesso che non ne posso essere certo, ho però il sospetto che sia effettivamente così, per ragioni di semplicità di controlli (in questo caso ad opera delle CCIAA), spesso a campione, e di più agevole applicazione della normativa (anche perché le pagine del sito web aziendale e del relativo negozio sono “meno volatili”).

La questione non può essere liquidata dall’avvocato con una scrollata di spalle: la disparità di trattamento è un dato acquisito e ordinario (e forse confortante, perché l’alternativa sarebbe il Grande Fratello). Inoltre la legge è legge e non costituisce scusante l’argomento “fanno tutti così”. Tuttavia mi sembra interessante ragionare su due corollari, di legittimità e di merito.

Innanzitutto pur comprendendo alcune istanze di tutela dei consumatori (a mio avviso estremizzate nel mondo regolamentato sviluppato negli ultimi anni dall’Unione Europea), nei casi concreti e che non comportano un diretto rischio per la salute (e nella maggior parte dei casi è così), faccio fatica a comprendere perché invece della sanzione amministrativa l’ordinamento (nazionale e dell’Unione Europea) non contempli, di norma, l’emissione di provvedimento con ordine ad adempiere entro un determinato periodo, anche breve (diciamo sessanta giorni). Ancora: le associazioni di categoria potrebbero essere destinatarie di specifiche informative dadiffondere agli associati in merito agli adempimenti da espletare in vista di futuri controlli. Invece si privilegia la sanzione (che per quanto ridotta è di entità non indifferente per una pmi), colpendo immediatamente l’impresa (una fra le tante). Mi sembra un’ulteriore segno di contrapposizione e di ostilità al mondo produttivo, che alimenterà il refrain: “serve per fare cassa”, intonato per le sanzioni previste dal Codice della strada.

Nel merito, la questione dei grandi store apre una frontiera diversa rispetto all’istanza fiscale all’ordine del giorno (pagare le tasse in Italia). In alcuni casi si può trattare di responsabilità analoga a quella del provider, in altri di responsabilità del rivenditore, a tutti gli effetti. Va da sé che non dovrebbe esistere – non dico istituzionalmente, ma come zona franca ammessa – una categoria di rivenditori (composta da coloro che si avvalgono degli store e dagli store stessi) più uguali degli altri di fronte alla legge. Che poi la legge sia discutibile, è altro tema che mi sta a cuore sul quale tornerò.

Bologna, 9 maggio 2016

 

Uno dei miei primi post sul mio blog lo scrissi ricordando che Internet non è mai stato il far west che si sosteneva fosse. Che sia strumento neutrale o meno è altra questione (non lo è). Lo ripetevo dai miei primi seminari sugli aspetti legali del commercio elettronico, quando non erano nati Facebook e Twitter e quando Amazon non era ancora il più grande store on line che genialmente unisce logistica e cloud, e lo ripeto oggi, perché il controllo diffuso ad opera di autorità, privati e concorrenti è ancora più agevole, cresce il fatturato dell’ecommerce e la consapevolezza di imprese e consumatori su come maneggiarlo.

Nulla da aggiungere allora? Non proprio: c’è un fenomeno interessante da segnalare che in passato avevo colto in modo diverso.

Pensavo cioè che un’impresa potesse segnalare alle autorità competenti l’impresa concorrente – non mi interessa con quali intenzioni – in caso di violazioni anche banali alle norme applicabili, non di rado confuse. Per dirla con un termine molto di moda oggi, whistleblowing, non so quanto virtuoso, forse antipatico, senz’altro legittimo e anzi incentivato.

Ora il fenomeno che segnalo è parzialmente diverso. È presto riassunto nella spiazzante domanda che mi ha fatto un imprenditore: perché se un mio concorrente vende con le stesse mie modalità – evidentemente prive di alcune informazioni richieste dalla normativa dell’Unione Europea – sui grandi store non viene sanzionato e io sì (s’intende, in via amministrativa)? Premesso che non ne posso essere certo, ho però il sospetto che sia effettivamente così, per ragioni di semplicità di controlli (in questo caso ad opera delle CCIAA), spesso a campione, e di più agevole applicazione della normativa (anche perché le pagine del sito web aziendale e del relativo negozio sono “meno volatili”).

La questione non può essere liquidata dall’avvocato con una scrollata di spalle: la disparità di trattamento è un dato acquisito e ordinario (e forse confortante, perché l’alternativa sarebbe il Grande Fratello). Inoltre la legge è legge e non costituisce scusante l’argomento “fanno tutti così”. Tuttavia mi sembra interessante ragionare su due corollari, di legittimità e di merito.

Innanzitutto pur comprendendo alcune istanze di tutela dei consumatori (a mio avviso estremizzate nel mondo regolamentato sviluppato negli ultimi anni dall’Unione Europea), nei casi concreti e che non comportano un diretto rischio per la salute (e nella maggior parte dei casi è così), faccio fatica a comprendere perché invece della sanzione amministrativa l’ordinamento (nazionale e dell’Unione Europea) non contempli, di norma, l’emissione di provvedimento con ordine ad adempiere entro un determinato periodo, anche breve (diciamo sessanta giorni). Ancora: le associazioni di categoria potrebbero essere destinatarie di specifiche informative dadiffondere agli associati in merito agli adempimenti da espletare in vista di futuri controlli. Invece si privilegia la sanzione (che per quanto ridotta è di entità non indifferente per una pmi), colpendo immediatamente l’impresa (una fra le tante). Mi sembra un’ulteriore segno di contrapposizione e di ostilità al mondo produttivo, che alimenterà il refrain: “serve per fare cassa”, intonato per le sanzioni previste dal Codice della strada.

Nel merito, la questione dei grandi store apre una frontiera diversa rispetto all’istanza fiscale all’ordine del giorno (pagare le tasse in Italia). In alcuni casi si può trattare di responsabilità analoga a quella del provider, in altri di responsabilità del rivenditore, a tutti gli effetti. Va da sé che non dovrebbe esistere – non dico istituzionalmente, ma come zona franca ammessa – una categoria di rivenditori (composta da coloro che si avvalgono degli store e dagli store stessi) più uguali degli altri di fronte alla legge. Che poi la legge sia discutibile, è altro tema che mi sta a cuore sul quale tornerò.