x

x

Terrorismo, politiche della sicurezza, diritti fondamentali

Terrorismo, politiche della sicurezza, diritti fondamentali
Terrorismo, politiche della sicurezza, diritti fondamentali

Abstract

Nel presente articolo si dà conto degli spunti emersi in occasione del seminario organizzato da Magistratura democratica e svoltosi a Pisa, nei giorni del 12 e 13 marzo 2016, dal titolo: “Terrorismo, politiche di sicurezza, diritti fondamentali”. Il tema è, per l’appunto, quello dei diritti fondamentali: quale il loro ruolo, oggi, nel rapporto assai controverso che essi instaurano con la disciplina penale in materia di antiterrorismo? La risposta al quesito è variegata e si articola secondo una magna divisio: tra chi, dal banco dei membri della pubblica accusa, muove all’attacco – volente o nolente tacitando la mole vociante di criticità dogmatiche; e chi, invece, giuristi accademici, politologi e filosofi guardano alla filosofia e all’economia per spiegare l’“epifania” terroristica – meno curandosi delle concrete strategie giurisdizionali di azione. La chiusa è un appello ai giudici a prender posizione politica, e con inflessibile rigore difendere la frontiera dei diritti umani.

 

A Pisa si è discusso intorno al punto centrale dell’attuale fase storica: il ruolo dei diritti fondamentali nelle nostre società. Niente meno che questo è l’orizzonte più ampio in cui è possibile inscrivere i diversi interventi che si sono susseguiti: come a dire che l’obiettivo perseguito dagli organizzatori è raggiunto, seppur con alcune riserve, che presto vedremo. Di seguito alcune brevi note ad evidenziare i profili e le suggestioni che hanno destato il mio maggior interesse.

L’approccio sin da subito si rivela multidisciplinare: già il tema dei diritti fondamentali di per sé impone conoscenze trasversali e metagiuridiche; e se pure su di esso godiamo ormai di una riflessione plurisecolare, le criticità a cui la disciplina penale (e non solo) in materia di terrorismo espone le garanzie fondamentali impongono una riflessione preliminare. È sempre bene, infatti, come ci ricorda il Presidente di Magistratura democratica De Chiara, conoscere la realtà da regolare prima di effettivamente regolarla.

1. Le premesse di Ferrajoli, una critica, i giuristi togati

Possiamo indicare due ideali poli di riferimento dell’intera due-giorni: tra di essi, un continuum su cui collocare i vari interventi. Da un lato, il copiosamente citato Luigi Ferrajoli: il teorico, assente fisicamente, partecipa all’incontro per mezzo di uno scritto appositamente redatto e reperibile su www.questionegiustizia.it. In esso l’A. si muove a cavallo tra il tema della differenza tra diritto e non-diritto, tra stato e organizzazione criminale da un lato, e, dall’altro, quello dell’auspicabile monopolizzazione dell’uso della forza legittima, in qualsiasi società giuridicamente normata. La proposta di politica legislativa che in tal senso muove è quella della messa al bando generalizzata delle armi da fuoco a disposizione dei privati cittadini; ad essa si affianca quella di teoria generale del diritto, che pone le strutture in cui si organizza il terrorismo islamico come organizzazioni criminali e giammai come stati, come “avanguardia istituzionale di centinaia di milioni di credenti”.

Le teorizzazioni in questione sono care all’A.: con gli stati si fa la guerra, alle organizzazioni criminali si applica il diritto penale. Qui, infatti, insistono gli errori compiuti successivamente all’11 settembre: aver mosso guerra contro l’Afghanistan e l’Iraq non in quanto tali ma perché collegati alla rete di Al-Qaeda ha rotto l’asimmetria tra lo Stato e le organizzazioni criminali. L’esito è stato un appiattimento, un’omogeneizzazione tra la civiltà del diritto e la in-civiltà della violenza dai quali anche oggi, ancora – sostiene Ferrajoli – dobbiamo tentare di guardarci: come sostengono il Procuratore nazionale antiterrorismo, dott. Franco Roberti, ma anche il sostituto procuratore generale di Roma, dott.ssa Roberta Barberini, l’IS non è uno stato – già solo per il fatto che esso stesso rivendica tale qualifica, mostrando di desiderarla – ma sfrutta l’armamentario tipico delle organizzazioni criminali, come tale dovendosi qualificare.

Prestando ossequio agli strumenti più essenziali del costituzionalista, l’A. ravvisa in questa violenza recrudescente il “sintomo perverso” di “tremendi problemi”, tali perché non affrontati per mezzo (degli strumenti) della democrazia: solo essa, infatti, postula un “nesso biunivoco” con la pace. Così, primariamente, occorre porre i suoi presupposti: quel monopolio dell’uso legittimo della forza che – evidentemente – è ancora obiettivo non conseguito, segno di una “non compiuta civilizzazione”; e che, allo stesso tempo, va perseguito oggi con ancor maggiore determinazione, se è vero che nel “feticismo delle armi” sta uno dei tratti più caratteristici del terrorismo jhiadista e che non esiste una produzione di armi locale rispetto ai teatri di conflitto, tutta riconducendosi ai grandi oligopoli occidentali.

Ferrajoli propone così di mettere al bando tutte le armi ad uso privato, come “beni illeciti”: una sorta di sistematica e – a giudicar secondo i nostri canoni – progressista operazione di prevenzione primaria che tolga ai potenziali delinquenti – perché è dal rigoroso ricorso a una prospettiva di diritto criminale che muove il discorso – gli strumenti per delinquere.

Tuttavia, delle due, l’una: o i fatti di terrorismo sono criminali – a prescindere dall’efficacia delle misure di prevenzione a cui si ricorra, anche nei termini di inedite politiche industriali – oppure sono fatti politici e metagiuridici – stante che il monopolio dell’uso legittimo della forza può esser forse proto-democratico ma primariamente si pone come primo vero concetto secolarizzato del potere politico. Per dirla in altri  termini: Ferrajoli, forte di secoli di lotte e di conquiste della civiltà occidentale, pone l’equazione tra democrazia e pace; per parte sua, il mondo musulmano eguaglia la pace alla sottomissione: è noto il significato di “Islam”, “sottomissione”, come è noto il saluto arabo che centinaia di milioni di persone si scambiano decine di volte al giorno: salam aleikum, “pace su di te/su di voi”.

Affermare la meta-storicità del processo di secolarizzazione del potere politico che ha conosciuto la civiltà occidentale è questione dibattuta ma che personalmente non condivido. Il carattere intimamente autoritario della normativa (soprattutto) penale in materia di antiterrorismo mostra quanto sia effimero e precario l’equilibrio liberale e democratico, e quanto possa essere illusorio rimettersi alla rassicurante civiltà del diritto laddove questo si converta in arma rivolta contro un nemico.

Più interessante, dunque, si rivela l’approccio del dott. Giovanni Salvi, Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma: il suo intervento è appassionato ed essenziale poiché si limita ad evidenziare l’assoluta specificità del fenomeno che fronteggiamo. L’invito, reiterato, che rivolge alla platea è a concedersi un profondo momento di riflessione, che ponga in dialogo il profilo politico con quello religioso, che sublimi i nostri sensi di colpa e così eviti il rischio di ricostruire un Islam di maniera, fatto su misura rispetto alle presupposte istanze di diritto penale cui si intende por mano; ancora, il dialogo deve coinvolgere primariamente l’argomento della libertà personale e di circolazione, ossia i grandi assenti – come si sa, almeno con riguardo alla libertà personale – nel discorso inerente la legittimità costituzionale delle norme penali.

È arduo oggi rivendicare l’efficacia o anche solo l’opportunità degli interventi militari in Medio-oriente: tanto si è scritto sugli effetti di paradossale legittimazione delle organizzazioni terroristiche e delegittimazione delle statualità (occidentali e non solo) che con esse sono entrate in relazione. Coglie il punto, in questo senso, l’analisi di Ferrajoli; manca invece, a mio giudizio, la consapevolezza che invece Salvi mostra della caratura inedita e tutta politica della fenomenologia terroristica dell’IS. La comparsa dei cd. “lupi solitari”, l’esercizio di una sovranità politica su porzioni consistenti di territorio, l’innegabile conquista di una storicità che si candida a un riconoscimento giuridico sono elementi inediti su cui la riflessione politologica e giuspubblicistica si articola con esiti assai incerti ma certo problematizzanti.

In fondo non sorprende ma colpisce l’approccio repressivo su cui si schierano gli esponenti della pubblica accusa (eccezion fatta per il dott. Salvi): gli altri due, già citati, ospiti risolvono apoditticamente le aporie che costellano la materia – sul piano, ad esempio, del confine tra esercizio diritto all’autodeterminazione e atto criminale e terroristico. Ad esempio, la dott. ssa Barberini individua nella violenza contro chi non è armato il requisito cardine dell’atto terroristico, a distinguerlo da quello belligerante – come se non fosse proprio lo status di belligerante ad essere quanto mai controverso. Il dott. Roberti evidenzia la nota problematica inerente l’assenza di una definizione di terrorismo: la conseguenza, però, è che occorre quietarsi con una definizione di “condotte con finalità di terrorismo”, come ai sensi dell’art. 270-sexies c.p.. Sfugge, ad onor del vero, la risolutività della soluzione; come, del resto, evidenzia il dott. Luigi Marini, consigliere legale della missione permanente dell’Italia presso le Nazioni Unite: il suo intervento esalta il valore della cultura giuridica europea nella costruzione di un sistema che contemperi la difesa contro il terrorismo con le esigenze di garanzia di uno stato di diritto. Le criticità sono molte, sebbene a seguito delle sentenze Kadi significativi progressi sono stati ottenuti: al fondo, però, permane il carattere asfittico del processo con cui un certo soggetto viene qualificato come “terrorista”, un processo con basi del tutto pragmatiche ed emergenziali. Ferrajoli, per parte sua, biasima le campagne militari – in violazione dei principi base del diritto internazionale, come ci ricorda il dott. Guglielmo Taffini, dell’Università di Brussel – ed auspica “azioni di polizia sul terreno” come se si potesse soprassedere sugli ultimi ritrovati in materia di droni e strategia militare e, soprattutto, sul fatto che quel terreno, con ogni probabilità, è soggetto all’esercizio di una sovranità politica nemica.

2. I non giuristi e i giuristi accademici. E gli avvocati

Del pari, non sorprende ma colpisce il ben diverso tenore riflessivo e problematizzante di cui sono protagonisti gli invitati non giuristi e, così, anche gli studiosi costituzionalisti e penalisti. Il prof. Umberto Curi, tutt’al contrario dei suoi compagni di desco della pubblica accusa, piegati ad osservare le organizzazioni o le singole cellule in cui questa si articola, alza lo sguardo e invita a porre mente al contesto complessivo in cui si inserisce il terrorismo islamico: una situazione di drammatica sperequazione delle risorse, misurabile anche solo sull’altare dell’inadempimento dei Millennium standard goals fissati dalle Nazioni Unite; tale situazione – per cui un bimbo americano dispone delle risorse di un bimbo etiope moltiplicate per quattrocentoquarantatré volte – rivela complessivi profili causali rispetto al fenomeno terroristico. Allo stesso modo, invita a riflettere sui processi di inusitata trasformazione della guerra, che pongono i fenomeni osservati al di fuori di una certa, indiscutibile qualificazione solo criminale. Se ciò non bastasse, da filologo, il professore ripercorre il senso e l’etimo della parola “terrorismo”: entrata nella storia politica europea come terrorismo di stato, per mezzo della robespierriana Legge dei sospetti, esso storicamente denota il senso forte della politica – non qualcosa che le è alieno, semplice e atroce fenomenologia criminale. In Grecia, “demos”, “terrore”, è figlio dell’amore di Ares, dio della guerra, e Afrodite, dea della bellezza; ed è financo fratello di Armonia, che si pone, dunque, sempre come dinamico equilibrio tra amore e guerra, mai come qualcosa di conchiuso, stabile, univocamente condannabile. È con Borges, dunque, che il professore padovano invita a prendersi cura dell’anima delle parole, capaci in caso contrario di vendicarsi: la parola “terrorismo”, in questo senso, è maltrattata, abusata, stiracchiata a coprire istanze più valutative (e interessate) che descrittive.

Più politologicamente, il prof. Francesco Strazzari evidenzia la “spendibilità tecnica della sicurezza”: un profilo attorno al quale è possibile disegnare i confini di un’industria dell’homeland security. Si tratta di un business tra i più rilevanti, che sollecita grandi gruppi di interesse in un sistema di vantaggi reciproci – ampiamente studiati dalla letteratura in materia – con la classe politica. Tale settore produttivo articola le proprie analisi sulla base di calcoli statistici ma – come rapidamente evidenzia il prof. – la statistica è efficace sui grandi numeri, sbagliando invece sulle piccole quantità: la sintesi tratta dai governanti è la valorizzazione di falsi positivi che conducono a biasimabili compromessi al ribasso. Il tutto in un contesto dalla medialità imperante, che crea i propri oggetti per mezzo dell’infinita ripetizione delle stesse immagini congiunta alle speculazioni di giornali e politica sull’attentato futuro. Si produce un clima di “panico morale” che, se vogliamo, può anche esser letto come il confronto tra una guerra eroica – la loro – e una post-eroica – la nostra. Quel che è certo e che viene evidenziato anche dalle cronache più attente, è che a presentare qualche pur flebile promessa esplicativa sono esattamente le differenze, le sottili linee di faglia di un conflitto che vede il sovrapporsi dei più diversi attori e delle più diverse ragioni di scontro. Tutt’al contrario, la sfera pubblica occidentale, preda del panico morale di cui sopra, tende a classificare in modo grossolano, manicheo.

Inquieti, come si diceva, i costituzionalisti e i penalisti, di provenienza accademica; e con essi gli avvocati. Il prof. Andrea Pertici, parla nientemeno di costituzionalismo come “turboreattore del potere”, e non più come suo limite: così il richiamo va alla nota sentenza della Supreme Court USA, ex parte Milligan, del 1866 che poneva la costituzione come legge per tutti e in ogni tempo, squalificando come “falsa” la teoria della necessità come fonte del diritto. Tutt’al contrario le azioni intraprese dalla Presidenza della Repubblica francese a seguito degli attentati di novembre, con la proclamazione dell’état d’urgence: interessante notare come tra gli argomenti rilevati dal ministro degli interni a sostegno del progetto di legge di estensione dello stato di emergenza vi fosse l’ammontare di perquisizioni ed arresti che era stato possibile realizzare al di fuori di un vaglio giurisdizionale durante il primo periodo di vigenza. Oltre al dato significativo dell’annullamento giudiziale di un terzo degli arresti spiccati, giustamente il professore ha posto il quesito alla platea: è davvero un elemento di cui farsi forti quello dell’alto tasso di intrusività delle forze di polizia? Un applauso è andato alla menzione del Ministro della giustizia francese Christiane Taubira che ha rassegnato le sue dimissioni in opposizione alla decisione di prolungare di ulteriori tre mesi la condizione di emergenza.

Anche l’avvocato Francesco Caia, membro del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza della propria categoria, si leva con eleganza e pacatezza partenopea contro la legislazione antiterrorismo: una legislazione che compromette ciò che per un avvocato non può essere compromesso, ossia il diritto di difesa. E che in diversi paesi finisce persino per esporre i legali ai rischi di incriminazioni per concorso o favoreggiamento – anche al solo denunciare le cattive condizioni di detenzione in cui versano gli assistiti. Un riferimento, ancor più grave e assai commosso, è andato allo scenario turco, con la morte violenta di Tahir Elci, l’avvocato di riferimento della comunità curda. Basti ricordare che l’avvocato era incriminato per apologia di associazione terroristica: il fatto si riteneva integrato da delle dichiarazioni pubbliche in cui il legale affermava che il PKK "è un movimento politico che ha importanti domande politiche e che gode di vasto supporto, anche se alcune sue azioni sono di natura terroristica".

Del tutto originali le riflessioni del prof. Alberto Di Martino, della Scuola Superiore Sant’Anna, che meriterebbero ben altro approfondimento: brevemente, nel sottolineare come la prevenzione del crimine non sia – soprattutto al di là di una certa soglia – questione normativa ma di dislocazione e merito delle scelte politiche, il prof. si richiama all’opportunità (provocatoria, ma forse non troppo) del ricorso al codice penale militare di guerra, articoli 167 e ss., Atti di ostilità commessi da persone diverse dai legittimi belligeranti. Nell’impossibilità di trovare compiuta disciplina – e disciplina legittima – all’interno tanto dell’ordinamento penale ordinario così come nel seno dell’ordinamento internazionale, si tenta la via propriamente bellica: una scelta di chiarezza, che prende atto della non esaustività della giurisdizione (il richiamo va al network europeo RAN, Radicalisation of Awareness Network) e della necessità di non defraudare il TULPS, come già esistente “diritto del sospetto”. L’auspicio del professore va a un meccanismo di responsabilità integrata socio-istituzionale; come a dire, una prospettiva assai vicina a quella del procuratore Salvi.

Lo stesso atteggiamento fortemente critico era ravvisabile nel prof. Luca Masera, dell’Università di Brescia. Il suo intervento si è rivolto al tema della cd. “fuga della giurisdizione”, che tanto interessa la disciplina dell’immigrazione. Il punto nodale, chiaramente, è quello dei provvedimenti di espulsione: gran parte di essi viene disposta dal ministro degli Esteri, provvedimento di forte pregnanza politica ma che ha finito per assumere caratteri di ordinarietà e di alternatività al procedimento giurisdizionale. Tramite tale valvola di sfogo la Repubblica è finita più volte dinanzi alla CEDU, che ha condannato per via di vere e proprie, deliberate e consapevoli violazioni delle garanzie fondamentali. Quella che si delinea è una prassi di polizia, sottratta al presidio giurisdizionale di un generale, universalistico habeas corpus. Ex multiis, la più recente sentenza dei giudici di Strasburgo che ha visto l’Italia soccombere è la Khlaifia e altri c. Italia: in essa il nostro Paese paga per la violazione degli artt. 3, 5, 13 CEDU e dell’art. 4 del protocollo n. 4 per il divieto di espulsioni collettive di stranieri. “Queste cose non si fanno”, suggerisce il professore, nel chiudere l’ultimo intervento del seminario prima delle conclusioni; d’altro canto, è assai recente la richiesta di archiviazione del procedimento a carico di dieci agenti penitenziari, che avrebbero usato violenza a danno di Rashid Assarag, detenuto nel carcere di Parma. L’uomo ha nascostamente registrato una conversazione con alcuni agenti in cui le violenze erano legittimate e sistematizzate: nei termini per cui il PM ritiene trattarsi di “lezioni di vita carceraria” più che di minacce stricto sensu. Ad ascoltare la registrazione pubblicata da L’Espresso, nondimeno, quel che più colpisce è la lezione di diritto costituzionale che è impartita dal detenuto extracomunitario.

3. Giudici battaglieri

Il richiamo finale del dott. Franco Ippolito, Presidente del Tribunale permanente dei Popoli, si pone in continuità con gli appelli provenienti anche dai relatori internazionali partecipanti al seminario: quel che si invoca è una rigorosa presa di posizione dei magistrati, posti sulla frontiera della difesa dei diritti fondamentali. Dai profili di asfissia finanziaria che caratterizzano la magistratura belga nella testimonianza appassionata della dott.ssa Manuela Cadelli a quelli di critica del diritto, i giudici sono invitati all’assunzione di un ruolo politico, a fare da contropotere rispetto alle derive illiberali che si assumono a livello legislativo. Si tratta di una presa di posizione assai forte, divisiva, che stride con la cultura del diritto continentale: essa postula la struttura monistica del potere statuale, comprensivo di ogni sua emanazione. Eppure, questa sì, nell’obiettiva meritevolezza delle tesi sostenute e a dar ragione ad un’opinione spesso rilanciata, sarebbe una intrigante vittoria del modello dualista anglosassone: qualora così si ritenga, il nodo centrale sta nell’elaborare una consapevolezza comune del tema e delle soluzioni. Proprio qui, dunque, le criticità di cui in apertura: il seminario ha plasticamente mostrato la frammentazione e le difficoltà di comunicazione maturate tra gli addetti ai vari settori scientifici e alle varie mansioni professionali. Non esattamente il segno di una diffusa indipendenza intellettuale.

Abstract

Nel presente articolo si dà conto degli spunti emersi in occasione del seminario organizzato da Magistratura democratica e svoltosi a Pisa, nei giorni del 12 e 13 marzo 2016, dal titolo: “Terrorismo, politiche di sicurezza, diritti fondamentali”. Il tema è, per l’appunto, quello dei diritti fondamentali: quale il loro ruolo, oggi, nel rapporto assai controverso che essi instaurano con la disciplina penale in materia di antiterrorismo? La risposta al quesito è variegata e si articola secondo una magna divisio: tra chi, dal banco dei membri della pubblica accusa, muove all’attacco – volente o nolente tacitando la mole vociante di criticità dogmatiche; e chi, invece, giuristi accademici, politologi e filosofi guardano alla filosofia e all’economia per spiegare l’“epifania” terroristica – meno curandosi delle concrete strategie giurisdizionali di azione. La chiusa è un appello ai giudici a prender posizione politica, e con inflessibile rigore difendere la frontiera dei diritti umani.

 

A Pisa si è discusso intorno al punto centrale dell’attuale fase storica: il ruolo dei diritti fondamentali nelle nostre società. Niente meno che questo è l’orizzonte più ampio in cui è possibile inscrivere i diversi interventi che si sono susseguiti: come a dire che l’obiettivo perseguito dagli organizzatori è raggiunto, seppur con alcune riserve, che presto vedremo. Di seguito alcune brevi note ad evidenziare i profili e le suggestioni che hanno destato il mio maggior interesse.

L’approccio sin da subito si rivela multidisciplinare: già il tema dei diritti fondamentali di per sé impone conoscenze trasversali e metagiuridiche; e se pure su di esso godiamo ormai di una riflessione plurisecolare, le criticità a cui la disciplina penale (e non solo) in materia di terrorismo espone le garanzie fondamentali impongono una riflessione preliminare. È sempre bene, infatti, come ci ricorda il Presidente di Magistratura democratica De Chiara, conoscere la realtà da regolare prima di effettivamente regolarla.

1. Le premesse di Ferrajoli, una critica, i giuristi togati

Possiamo indicare due ideali poli di riferimento dell’intera due-giorni: tra di essi, un continuum su cui collocare i vari interventi. Da un lato, il copiosamente citato Luigi Ferrajoli: il teorico, assente fisicamente, partecipa all’incontro per mezzo di uno scritto appositamente redatto e reperibile su www.questionegiustizia.it. In esso l’A. si muove a cavallo tra il tema della differenza tra diritto e non-diritto, tra stato e organizzazione criminale da un lato, e, dall’altro, quello dell’auspicabile monopolizzazione dell’uso della forza legittima, in qualsiasi società giuridicamente normata. La proposta di politica legislativa che in tal senso muove è quella della messa al bando generalizzata delle armi da fuoco a disposizione dei privati cittadini; ad essa si affianca quella di teoria generale del diritto, che pone le strutture in cui si organizza il terrorismo islamico come organizzazioni criminali e giammai come stati, come “avanguardia istituzionale di centinaia di milioni di credenti”.

Le teorizzazioni in questione sono care all’A.: con gli stati si fa la guerra, alle organizzazioni criminali si applica il diritto penale. Qui, infatti, insistono gli errori compiuti successivamente all’11 settembre: aver mosso guerra contro l’Afghanistan e l’Iraq non in quanto tali ma perché collegati alla rete di Al-Qaeda ha rotto l’asimmetria tra lo Stato e le organizzazioni criminali. L’esito è stato un appiattimento, un’omogeneizzazione tra la civiltà del diritto e la in-civiltà della violenza dai quali anche oggi, ancora – sostiene Ferrajoli – dobbiamo tentare di guardarci: come sostengono il Procuratore nazionale antiterrorismo, dott. Franco Roberti, ma anche il sostituto procuratore generale di Roma, dott.ssa Roberta Barberini, l’IS non è uno stato – già solo per il fatto che esso stesso rivendica tale qualifica, mostrando di desiderarla – ma sfrutta l’armamentario tipico delle organizzazioni criminali, come tale dovendosi qualificare.

Prestando ossequio agli strumenti più essenziali del costituzionalista, l’A. ravvisa in questa violenza recrudescente il “sintomo perverso” di “tremendi problemi”, tali perché non affrontati per mezzo (degli strumenti) della democrazia: solo essa, infatti, postula un “nesso biunivoco” con la pace. Così, primariamente, occorre porre i suoi presupposti: quel monopolio dell’uso legittimo della forza che – evidentemente – è ancora obiettivo non conseguito, segno di una “non compiuta civilizzazione”; e che, allo stesso tempo, va perseguito oggi con ancor maggiore determinazione, se è vero che nel “feticismo delle armi” sta uno dei tratti più caratteristici del terrorismo jhiadista e che non esiste una produzione di armi locale rispetto ai teatri di conflitto, tutta riconducendosi ai grandi oligopoli occidentali.

Ferrajoli propone così di mettere al bando tutte le armi ad uso privato, come “beni illeciti”: una sorta di sistematica e – a giudicar secondo i nostri canoni – progressista operazione di prevenzione primaria che tolga ai potenziali delinquenti – perché è dal rigoroso ricorso a una prospettiva di diritto criminale che muove il discorso – gli strumenti per delinquere.

Tuttavia, delle due, l’una: o i fatti di terrorismo sono criminali – a prescindere dall’efficacia delle misure di prevenzione a cui si ricorra, anche nei termini di inedite politiche industriali – oppure sono fatti politici e metagiuridici – stante che il monopolio dell’uso legittimo della forza può esser forse proto-democratico ma primariamente si pone come primo vero concetto secolarizzato del potere politico. Per dirla in altri  termini: Ferrajoli, forte di secoli di lotte e di conquiste della civiltà occidentale, pone l’equazione tra democrazia e pace; per parte sua, il mondo musulmano eguaglia la pace alla sottomissione: è noto il significato di “Islam”, “sottomissione”, come è noto il saluto arabo che centinaia di milioni di persone si scambiano decine di volte al giorno: salam aleikum, “pace su di te/su di voi”.

Affermare la meta-storicità del processo di secolarizzazione del potere politico che ha conosciuto la civiltà occidentale è questione dibattuta ma che personalmente non condivido. Il carattere intimamente autoritario della normativa (soprattutto) penale in materia di antiterrorismo mostra quanto sia effimero e precario l’equilibrio liberale e democratico, e quanto possa essere illusorio rimettersi alla rassicurante civiltà del diritto laddove questo si converta in arma rivolta contro un nemico.

Più interessante, dunque, si rivela l’approccio del dott. Giovanni Salvi, Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma: il suo intervento è appassionato ed essenziale poiché si limita ad evidenziare l’assoluta specificità del fenomeno che fronteggiamo. L’invito, reiterato, che rivolge alla platea è a concedersi un profondo momento di riflessione, che ponga in dialogo il profilo politico con quello religioso, che sublimi i nostri sensi di colpa e così eviti il rischio di ricostruire un Islam di maniera, fatto su misura rispetto alle presupposte istanze di diritto penale cui si intende por mano; ancora, il dialogo deve coinvolgere primariamente l’argomento della libertà personale e di circolazione, ossia i grandi assenti – come si sa, almeno con riguardo alla libertà personale – nel discorso inerente la legittimità costituzionale delle norme penali.

È arduo oggi rivendicare l’efficacia o anche solo l’opportunità degli interventi militari in Medio-oriente: tanto si è scritto sugli effetti di paradossale legittimazione delle organizzazioni terroristiche e delegittimazione delle statualità (occidentali e non solo) che con esse sono entrate in relazione. Coglie il punto, in questo senso, l’analisi di Ferrajoli; manca invece, a mio giudizio, la consapevolezza che invece Salvi mostra della caratura inedita e tutta politica della fenomenologia terroristica dell’IS. La comparsa dei cd. “lupi solitari”, l’esercizio di una sovranità politica su porzioni consistenti di territorio, l’innegabile conquista di una storicità che si candida a un riconoscimento giuridico sono elementi inediti su cui la riflessione politologica e giuspubblicistica si articola con esiti assai incerti ma certo problematizzanti.

In fondo non sorprende ma colpisce l’approccio repressivo su cui si schierano gli esponenti della pubblica accusa (eccezion fatta per il dott. Salvi): gli altri due, già citati, ospiti risolvono apoditticamente le aporie che costellano la materia – sul piano, ad esempio, del confine tra esercizio diritto all’autodeterminazione e atto criminale e terroristico. Ad esempio, la dott. ssa Barberini individua nella violenza contro chi non è armato il requisito cardine dell’atto terroristico, a distinguerlo da quello belligerante – come se non fosse proprio lo status di belligerante ad essere quanto mai controverso. Il dott. Roberti evidenzia la nota problematica inerente l’assenza di una definizione di terrorismo: la conseguenza, però, è che occorre quietarsi con una definizione di “condotte con finalità di terrorismo”, come ai sensi dell’art. 270-sexies c.p.. Sfugge, ad onor del vero, la risolutività della soluzione; come, del resto, evidenzia il dott. Luigi Marini, consigliere legale della missione permanente dell’Italia presso le Nazioni Unite: il suo intervento esalta il valore della cultura giuridica europea nella costruzione di un sistema che contemperi la difesa contro il terrorismo con le esigenze di garanzia di uno stato di diritto. Le criticità sono molte, sebbene a seguito delle sentenze Kadi significativi progressi sono stati ottenuti: al fondo, però, permane il carattere asfittico del processo con cui un certo soggetto viene qualificato come “terrorista”, un processo con basi del tutto pragmatiche ed emergenziali. Ferrajoli, per parte sua, biasima le campagne militari – in violazione dei principi base del diritto internazionale, come ci ricorda il dott. Guglielmo Taffini, dell’Università di Brussel – ed auspica “azioni di polizia sul terreno” come se si potesse soprassedere sugli ultimi ritrovati in materia di droni e strategia militare e, soprattutto, sul fatto che quel terreno, con ogni probabilità, è soggetto all’esercizio di una sovranità politica nemica.

2. I non giuristi e i giuristi accademici. E gli avvocati

Del pari, non sorprende ma colpisce il ben diverso tenore riflessivo e problematizzante di cui sono protagonisti gli invitati non giuristi e, così, anche gli studiosi costituzionalisti e penalisti. Il prof. Umberto Curi, tutt’al contrario dei suoi compagni di desco della pubblica accusa, piegati ad osservare le organizzazioni o le singole cellule in cui questa si articola, alza lo sguardo e invita a porre mente al contesto complessivo in cui si inserisce il terrorismo islamico: una situazione di drammatica sperequazione delle risorse, misurabile anche solo sull’altare dell’inadempimento dei Millennium standard goals fissati dalle Nazioni Unite; tale situazione – per cui un bimbo americano dispone delle risorse di un bimbo etiope moltiplicate per quattrocentoquarantatré volte – rivela complessivi profili causali rispetto al fenomeno terroristico. Allo stesso modo, invita a riflettere sui processi di inusitata trasformazione della guerra, che pongono i fenomeni osservati al di fuori di una certa, indiscutibile qualificazione solo criminale. Se ciò non bastasse, da filologo, il professore ripercorre il senso e l’etimo della parola “terrorismo”: entrata nella storia politica europea come terrorismo di stato, per mezzo della robespierriana Legge dei sospetti, esso storicamente denota il senso forte della politica – non qualcosa che le è alieno, semplice e atroce fenomenologia criminale. In Grecia, “demos”, “terrore”, è figlio dell’amore di Ares, dio della guerra, e Afrodite, dea della bellezza; ed è financo fratello di Armonia, che si pone, dunque, sempre come dinamico equilibrio tra amore e guerra, mai come qualcosa di conchiuso, stabile, univocamente condannabile. È con Borges, dunque, che il professore padovano invita a prendersi cura dell’anima delle parole, capaci in caso contrario di vendicarsi: la parola “terrorismo”, in questo senso, è maltrattata, abusata, stiracchiata a coprire istanze più valutative (e interessate) che descrittive.

Più politologicamente, il prof. Francesco Strazzari evidenzia la “spendibilità tecnica della sicurezza”: un profilo attorno al quale è possibile disegnare i confini di un’industria dell’homeland security. Si tratta di un business tra i più rilevanti, che sollecita grandi gruppi di interesse in un sistema di vantaggi reciproci – ampiamente studiati dalla letteratura in materia – con la classe politica. Tale settore produttivo articola le proprie analisi sulla base di calcoli statistici ma – come rapidamente evidenzia il prof. – la statistica è efficace sui grandi numeri, sbagliando invece sulle piccole quantità: la sintesi tratta dai governanti è la valorizzazione di falsi positivi che conducono a biasimabili compromessi al ribasso. Il tutto in un contesto dalla medialità imperante, che crea i propri oggetti per mezzo dell’infinita ripetizione delle stesse immagini congiunta alle speculazioni di giornali e politica sull’attentato futuro. Si produce un clima di “panico morale” che, se vogliamo, può anche esser letto come il confronto tra una guerra eroica – la loro – e una post-eroica – la nostra. Quel che è certo e che viene evidenziato anche dalle cronache più attente, è che a presentare qualche pur flebile promessa esplicativa sono esattamente le differenze, le sottili linee di faglia di un conflitto che vede il sovrapporsi dei più diversi attori e delle più diverse ragioni di scontro. Tutt’al contrario, la sfera pubblica occidentale, preda del panico morale di cui sopra, tende a classificare in modo grossolano, manicheo.

Inquieti, come si diceva, i costituzionalisti e i penalisti, di provenienza accademica; e con essi gli avvocati. Il prof. Andrea Pertici, parla nientemeno di costituzionalismo come “turboreattore del potere”, e non più come suo limite: così il richiamo va alla nota sentenza della Supreme Court USA, ex parte Milligan, del 1866 che poneva la costituzione come legge per tutti e in ogni tempo, squalificando come “falsa” la teoria della necessità come fonte del diritto. Tutt’al contrario le azioni intraprese dalla Presidenza della Repubblica francese a seguito degli attentati di novembre, con la proclamazione dell’état d’urgence: interessante notare come tra gli argomenti rilevati dal ministro degli interni a sostegno del progetto di legge di estensione dello stato di emergenza vi fosse l’ammontare di perquisizioni ed arresti che era stato possibile realizzare al di fuori di un vaglio giurisdizionale durante il primo periodo di vigenza. Oltre al dato significativo dell’annullamento giudiziale di un terzo degli arresti spiccati, giustamente il professore ha posto il quesito alla platea: è davvero un elemento di cui farsi forti quello dell’alto tasso di intrusività delle forze di polizia? Un applauso è andato alla menzione del Ministro della giustizia francese Christiane Taubira che ha rassegnato le sue dimissioni in opposizione alla decisione di prolungare di ulteriori tre mesi la condizione di emergenza.

Anche l’avvocato Francesco Caia, membro del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza della propria categoria, si leva con eleganza e pacatezza partenopea contro la legislazione antiterrorismo: una legislazione che compromette ciò che per un avvocato non può essere compromesso, ossia il diritto di difesa. E che in diversi paesi finisce persino per esporre i legali ai rischi di incriminazioni per concorso o favoreggiamento – anche al solo denunciare le cattive condizioni di detenzione in cui versano gli assistiti. Un riferimento, ancor più grave e assai commosso, è andato allo scenario turco, con la morte violenta di Tahir Elci, l’avvocato di riferimento della comunità curda. Basti ricordare che l’avvocato era incriminato per apologia di associazione terroristica: il fatto si riteneva integrato da delle dichiarazioni pubbliche in cui il legale affermava che il PKK "è un movimento politico che ha importanti domande politiche e che gode di vasto supporto, anche se alcune sue azioni sono di natura terroristica".

Del tutto originali le riflessioni del prof. Alberto Di Martino, della Scuola Superiore Sant’Anna, che meriterebbero ben altro approfondimento: brevemente, nel sottolineare come la prevenzione del crimine non sia – soprattutto al di là di una certa soglia – questione normativa ma di dislocazione e merito delle scelte politiche, il prof. si richiama all’opportunità (provocatoria, ma forse non troppo) del ricorso al codice penale militare di guerra, articoli 167 e ss., Atti di ostilità commessi da persone diverse dai legittimi belligeranti. Nell’impossibilità di trovare compiuta disciplina – e disciplina legittima – all’interno tanto dell’ordinamento penale ordinario così come nel seno dell’ordinamento internazionale, si tenta la via propriamente bellica: una scelta di chiarezza, che prende atto della non esaustività della giurisdizione (il richiamo va al network europeo RAN, Radicalisation of Awareness Network) e della necessità di non defraudare il TULPS, come già esistente “diritto del sospetto”. L’auspicio del professore va a un meccanismo di responsabilità integrata socio-istituzionale; come a dire, una prospettiva assai vicina a quella del procuratore Salvi.

Lo stesso atteggiamento fortemente critico era ravvisabile nel prof. Luca Masera, dell’Università di Brescia. Il suo intervento si è rivolto al tema della cd. “fuga della giurisdizione”, che tanto interessa la disciplina dell’immigrazione. Il punto nodale, chiaramente, è quello dei provvedimenti di espulsione: gran parte di essi viene disposta dal ministro degli Esteri, provvedimento di forte pregnanza politica ma che ha finito per assumere caratteri di ordinarietà e di alternatività al procedimento giurisdizionale. Tramite tale valvola di sfogo la Repubblica è finita più volte dinanzi alla CEDU, che ha condannato per via di vere e proprie, deliberate e consapevoli violazioni delle garanzie fondamentali. Quella che si delinea è una prassi di polizia, sottratta al presidio giurisdizionale di un generale, universalistico habeas corpus. Ex multiis, la più recente sentenza dei giudici di Strasburgo che ha visto l’Italia soccombere è la Khlaifia e altri c. Italia: in essa il nostro Paese paga per la violazione degli artt. 3, 5, 13 CEDU e dell’art. 4 del protocollo n. 4 per il divieto di espulsioni collettive di stranieri. “Queste cose non si fanno”, suggerisce il professore, nel chiudere l’ultimo intervento del seminario prima delle conclusioni; d’altro canto, è assai recente la richiesta di archiviazione del procedimento a carico di dieci agenti penitenziari, che avrebbero usato violenza a danno di Rashid Assarag, detenuto nel carcere di Parma. L’uomo ha nascostamente registrato una conversazione con alcuni agenti in cui le violenze erano legittimate e sistematizzate: nei termini per cui il PM ritiene trattarsi di “lezioni di vita carceraria” più che di minacce stricto sensu. Ad ascoltare la registrazione pubblicata da L’Espresso, nondimeno, quel che più colpisce è la lezione di diritto costituzionale che è impartita dal detenuto extracomunitario.

3. Giudici battaglieri

Il richiamo finale del dott. Franco Ippolito, Presidente del Tribunale permanente dei Popoli, si pone in continuità con gli appelli provenienti anche dai relatori internazionali partecipanti al seminario: quel che si invoca è una rigorosa presa di posizione dei magistrati, posti sulla frontiera della difesa dei diritti fondamentali. Dai profili di asfissia finanziaria che caratterizzano la magistratura belga nella testimonianza appassionata della dott.ssa Manuela Cadelli a quelli di critica del diritto, i giudici sono invitati all’assunzione di un ruolo politico, a fare da contropotere rispetto alle derive illiberali che si assumono a livello legislativo. Si tratta di una presa di posizione assai forte, divisiva, che stride con la cultura del diritto continentale: essa postula la struttura monistica del potere statuale, comprensivo di ogni sua emanazione. Eppure, questa sì, nell’obiettiva meritevolezza delle tesi sostenute e a dar ragione ad un’opinione spesso rilanciata, sarebbe una intrigante vittoria del modello dualista anglosassone: qualora così si ritenga, il nodo centrale sta nell’elaborare una consapevolezza comune del tema e delle soluzioni. Proprio qui, dunque, le criticità di cui in apertura: il seminario ha plasticamente mostrato la frammentazione e le difficoltà di comunicazione maturate tra gli addetti ai vari settori scientifici e alle varie mansioni professionali. Non esattamente il segno di una diffusa indipendenza intellettuale.