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Il risarcimento di danno da licenziamento illegittimo

Il risarcimento di danno da licenziamento illegittimo
Il risarcimento di danno da licenziamento illegittimo

Abstract: nel regime caratterizzato dalla stabilità reale del rapporto di lavoro, che concerne i lavoratori a tempo indeterminato per i quali l’annullamento giudiziale del licenziamento illegittimo comporta l’applicabilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (cioè la reintegrazione o l’opzione del prestatore per l’indennità sostitutiva forfettariamente individuata in 15 mensilità), l’autore evidenzia, con il supporto del consolidato orientamento della Suprema corte, l’erroneità di quella marginale giurisprudenza di merito (cfr. recentissimamente Corte Appello Bari n. 977 del 14/4/2016, inedita allo stato) che ritiene che il raggiungimento -  nel corso del giudizio d’annullamento del licenziamento -  dell’età pensionabile dei 65 anni con la connessa fruizione dei  ratei pensionistici per necessaria sussistenza (stante la privazione dello stipendio in dipendenza dell’illegittimo licenziamento giudizialmente acclarato), costituisca automaticamente e di per se sopravvenuta causale idonea ad arrestare a quella età  la misura del risarcimento del danno spettante al lavoratore, di regola fino alla data posteriore della sentenza di annullamento del licenziamento illegittimo.

1. Autonomia tra tutela risarcitoria per licenziamento invalido e tutela reale (o reintegratoria)

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – con le modifiche successivamente introdotte dal 1970 in poi – ha travagliato non poco dottrina e giurisprudenza e non si può ancora dire che si sia giunti a soluzioni definitive ed univoche, anche se si è consolidato – sulle principali questioni controverse – un orientamento prevalente che, in queste note, passeremo in esame.

La prima questione che si è posta è stata quella della subordinazione o connessione - ovvero, all’opposto dell’autonomia - della tutela risarcitoria (conseguente al licenziamento invalido o illegittimo che dir si voglia) dalla sussistenza e persistenza della tutela reintegratoria. Si sosteneva in epoca non recente, che al lavoratore non spettasse il risarcimento del danno di cui al comma 4 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, qualora non fosse più attuale la tutela reintegratoria (ad es., perché l’azienda, nelle more del giudizio, aveva riammesso il lavoratore in azienda, revocando concludentemente il precedente licenziamento, ovvero perché il lavoratore aveva, sempre nelle more del giudizio, reperito un’altra occupazione, ovvero perché il lavoratore versava in stato di sopravvenuta inabilità psico-fisica alla riammissione al lavoro, ovvero perché deceduto nel frattempo, o perché l’azienda aveva nel frattempo cessato l’attività, ecc.). Risarcimento notoriamente fissato nella misura minima di 5 mensilità della retribuzione globale di fatto, con connesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, parametrato al periodo (necessariamente non retribuito) decorrente dalla data del licenziamento di cui era stata accertata giudizialmente l’invalidità e fino a “quello dell’effettiva reintegrazione”. Questa tesi faceva leva, in particolare, sulla carenza o impossibilità del verificarsi della condizione della “effettiva reintegrazione”.

A togliere qualsiasi dubbio sull’inconsistenza della tesi sopra riferita intervenne – dopo oscillante giurisprudenza – la Corte di cassazione a sezioni unite n. 3957 del 23 aprile 1987, la quale stabilì a chiare note che: «La tutela cosiddetta risarcitoria, accordata dall’articolo 18…della Legge del 20 maggio 1970, n. 300 in favore del lavoratore, il cui licenziamento risulti invalido od inefficace (nella misura non inferiore a 5 mensilità della retribuzione), ha carattere autonomo rispetto alla tutela cosiddetta ripristinatoria contemplata dal primo comma della medesima norma, in quanto configura sanzione a carico del datore di lavoro non derivante dall’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, bensì direttamente discendente da detta invalidità od inefficacia del licenziamento. L’indicato risarcimento, pertanto, deve essere riconosciuto anche al dipendente illegittimamente licenziato che non voglia o non possa chiedere la suddetta reintegrazione (ivi inclusa l’ipotesi in cui sia sopravvenuta revoca del licenziamento e riammissione al lavoro)». Ed in motivazione le stesse sezioni unite chiarirono – a scanso di equivoci – che la collocazione dell’ordine di reintegrazione al primo comma dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori  non significava affatto che tutta la normativa fosse «preordinata allo specifico scopo primario della reintegrazione nel posto di lavoro e che, pertanto, il lavoratore possa avvalersi della normativa stessa, in punto di risarcimento, solo nel caso in cui debba (o possa) domandare la reintegrazione. Tale conclusione è testualmente smentita dalla prima parte del secondo comma (nel vecchio testo ed ora 4° comma, n.d.r.) della disposizione, che espressamente ricollega il diritto al risarcimento del danno all’inefficacia o alla invalidità del licenziamento, non già all’ordine di reintegrazione, con ciò attribuendo piena autonomia alla tutela risarcitoria».

Ne consegue (come è stato confermato da successiva giurisprudenza della Suprema corte, conformatasi all’orientamento sopra riferito delle Sezioni unite) che sussiste “interesse ad agire” ex art. 100 codice di procedura civile da parte del lavoratore – impossibilitato o non interessato ad essere riammesso in servizio nell’azienda che gli ha comminato il licenziamento, rivelatosi poi invalido – per la rivendicazione del solo risarcimento di danno (nella misura ex articolo 18, 4 comma, Statuto dei lavoratori), in quanto l’indennizzo (invero a carattere retributivo a tutti gli effetti) costituisce una forma di riparazione (e nello stesso tempo “sanzione” o “penale”, a carico dell’azienda) per un atto offensivo della dignità del lavoratore medesimo. Indennizzo che colma il vuoto delle retribuzioni perdute e che trova la sua radice in un atto sostanzialmente ingiurioso che, avendo fatto venir meno nel lavoratore l’interesse alla reintegrazione - per perdita della reciproca fiducia fra le parti, per l’ipotetica ostilità ambientale che una riammissione comporterebbe, per l’avvertita difficoltà di reinserimento in un’organizzazione del lavoro immutata, ecc. –, può indurre successivamente, quand’anche emesso l’ordine di reintegrazione, il lavoratore a preferire l’alternativa economica forfettaria delle 15 mensilità (di cui parleremo infra).

1 a) Conferme giurisprudenziali

Il principio di diritto in ordine alla “autonomia” fra tutela risarcitoria ex articolo 18, comma 4, Statuto dei lavoratori e tutela reintegratoria, è stato poi ripreso da tutta la giurisprudenza successiva della Suprema corte,  tra le molte, da Corte di cassazione n. 9464/1998, che ha definito la misura indennitaria ex articolo 18, comma 4, Statuto dei lavoratori, come «assimilabile ad una sorta di penale avente la sua radice nel rischio d’impresa e può assumere la funzione di assegno di tipo, in senso lato, assistenziale in caso di assenza di una responsabilità di tipo soggettivo in capo al datore di lavoro» (in fattispecie indotto al licenziamento da certificazioni delle strutture sanitarie pubbliche attestanti l’inidoneità fisica al lavoro del prestatore).

Tale principio è stato altresì riconfermato dalla stessa Corte costituzionale nella decisione n. 420 del 23 dicembre 1998, che ha dichiarato che il risarcimento nella misura minima di 5 mensilità (incrementabile in relazione alle maggiori mensilità di retribuzione perduta) spetta anche nel caso di licenziamento invalido per assenza di colpa del datore di lavoro (anche in questa fattispecie indotto dalla certificazione, ex articolo 5 Statuto dei lavoratori, di inidoneità del lavoratore, rivelatasi poi insussistente a seguito di Consulenza tecnica d’ufficio sanitaria), trovando la sua radice nel “rischio d’impresa” ovverosia nel rischio cui va incontro l’imprenditore che adotta un provvedimento espulsivo rivelatosi poi invalido (aderendo, in sostanza, alla stessa impostazione di Corte di cassazione n. 9464/1998, cit.).

L’obbligo di corrispondere la retribuzione – in forma indennitaria, nel caso – peraltro non potrebbe venire meno in ragione dell’intervenuta sospensione della prestazione del lavoratore, invero indotta dal provvedimento di licenziamento (invalido), poiché, in tal caso, l’inadempimento del dipendente trova la sua causa nel rifiuto di ricevere la prestazione da parte del datore di lavoro (che lo ha estromesso illegittimamente dall’azienda), il quale resterà obbligato, ex articolo 1206 e 1207 codice civile, ad eseguire la prestazione corrispettiva, ovverosia quella retributiva.

2. Ordine di reintegra e opzione per l’ alternativa economica

Altra problematica, dibattuta e finalmente risolta, è stata quella afferente alla natura dell’ordine di reintegra, in dipendenza ed in correlazione alla previsione – di cui al comma 5 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori – del poter essere la ripresa del servizio sostituita, su opzione del lavoratore, dalla percezione dell’indennità economica forfettariamente prevista in 15 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Stabilisce il comma 5 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori (introdotto dall’articolo 1, comma 5, Legge n. 108/1990) che: “Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al comma 4, al prestatore di lavoro è data facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto”.

Tramite l’indennità in parola, il legislatore - consapevole della non coercibilità dell’obbligo di reintegra, quale obbligazione di fare, e della discussa applicabilità all’inottemperanza datoriale della tutela penale ex articolo 388, comma 2, codice penale (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento cautelare del giudice) e articolo 650 codice penale (inosservanza dei provvedimenti dell’autorità) nonché dei tentativi elusivi ed ostruzionistici datorialmente posti in essere nei fatti a fronte della pronunzia giudiziale - ha reso “pesante” e “gravosa” per l’imprenditore la scelta spesso obbligata del lavoratore di non aderire all’invito alla ripresa del servizio.

La ricusazione dell’invito rivolto al lavoratore dall’azienda per il rientro in servizio, a seguito dell’ordine giudiziale di reintegra, ha occasionato numerosi rilievi di costituzionalità, e proprio grazie alle dichiarazioni di infondatezza da parte della Corte costituzionale nn. 81, 160 e 426,  è stata chiarita la natura del rapporto giuridico complesso costituito dall’obbligo di reintegra congiunto alla facoltà, da parte lavoratrice, di monetizzazione della rinunzia alla riammissione in servizio.

La Corte costituzionale nella decisione n. 81/1992 - tramite cui sono stati dichiarati infondati gli addebiti rivolti all’articolo 18, comma 5, di attribuire al lavoratore un privilegio ingiustificato, consistente nel diritto di dimissioni in tronco, con indennizzo (asserito) esorbitante rispetto a quello normalmente accordato dall’ articolo 2119 codice civile, dimissioni fondate su una causa già rimossa dalla sentenza che, dichiarando l’illegittimità del licenziamento, abbia ordinato la reintegrazione del lavoratore e condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno – ha asserito che non solo “l’alternativa economica” ma più globalmente che “l’ordine di reintegrazione accompagnato dall’alternativa economica” configura «un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore». «Anziché la prestazione dovuta in via principale, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, il creditore (lavoratore, n.d.r.) ha facoltà di pretendere una prestazione diversa di natura pecuniaria, che è dovuta solo in quanto dichiari di preferirla, e il cui adempimento produce, insieme con l’estinzione dell’obbligazione di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, la cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta mancanza di scopo». Proseguiva la sentenza asserendo che: «Il rapporto non cessa per effetto della dichiarazione di scelta del lavoratore, come si dovrebbe pensare se essa avesse la valenza di dichiarazione di recesso, bensì solo al momento del pagamento dell’indennità sostitutiva»; impostazione, quest’ultima, che ha retto per circa il ventennio successivo, fino a che Corte di cassazione, Sezioni unite, n. 18353 del 27/8/2014 (e successive conformi, n. 25679/2014 e n. 9765/2015) non hanno mutato orientamento, ritenendo più convincente la tesi secondo cui l’opzione del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegra, comunicata al datore di lavoro, estingue alla data della scelta il rapporto di lavoro e che, all’eventuale mancato o  ritardato pagamento delle 15 mensilità, si applica la disciplina  della mora debendi propria delle obbligazioni pecuniarie del datore di lavoro, con ricorso all’articolo 429, 3 comma, codice di procedura civile.

2 a) La reintegrazione quale obbligazione semplice con facoltà alternativa da parte del lavoratore - creditore

Come è stato chiarito «l’obbligazione con facoltà alternativa, o facoltativa dal lato del creditore, va distinta dall’obbligazione alternativa: nella prima, la prestazione dovuta è una sola, l’obbligazione è cioè semplice: solo su richiesta di una delle parti è prevista una prestazione subordinata diversa da quella principale, con effetti parimenti liberatori (una res in obligatione, duae autem in facultate solutionis); nella seconda (cioè alternativa, n.d.r.) due sono le prestazioni dovute, dedotte in modo disgiunto e paritario, ma il debitore si libera eseguendone una sola (duae res in obligatione, una autem in solutione)» [così Tatarelli, L’opzione in sostituzione della reintegrazione, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1997, 685 ed ivi 686, nota 7].

La reintegrazione – disposta giudizialmente a seguito dell’invalidità del licenziamento – in congiunzione con l’opzione economica da parte del lavoratore, si configura quindi, come una “obbligazione semplice con facoltà alternativa” da parte del lavoratore-creditore, che potrà estinguere l’obbligazione principale datoriale (quella della riammissione nel posto di lavoro) con la scelta a favore dell’obbligazione secondaria, subordinata e alternativa, costituita dall’indennità economica, risaltante per il prestatore d’opera in forma di un vero e proprio diritto potestativo. Asserisce, in senso confermativo, Corte costituzionale n. 291/1996 – trattando della natura dell’indennità sostitutiva opzionale delle 15 mensilità – che «secondo la giurisprudenza di questa Corte (n. 81 del 1992, ordinanze nn. 160 del 92 e 77 del 1996) l’indennità di cui si controverte non ha una funzione di risarcimento aggiuntivo a quello previsto dal precedente comma 4, ma, in connessione col diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, si inserisce in un rapporto obbligatorio avente la struttura di un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, essendo attribuita al prestatore la facoltà insindacabile di ‘monetizzare’ il diritto alla reintegrazione in una prestazione pecuniaria di ammontare fisso, pari a 15 mensilità di retribuzione». Lo stesso concetto è ripreso pedissequamente da Corte di cassazione n. 12366 del 5 dicembre 1997 e successive – ed in precedenza da Corte di cassazione 21 dicembre 1995, n. 13047 - la prima delle quali giunse ad asserire un’opinione oramai consolidata, secondo cui «una volta affermata la piena autonomia tra i regimi sanzionatori previsti dall’articolo 18, non vi è ragione di escludere che già nell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione del licenziamento il lavoratore eserciti l’opzione per l’indennità sostitutiva ex articolo 18». A sostegno della tesi argomentando che: «se l’attribuzione di tale prestazione, al pari di quella risarcitoria prevista nei precedenti commi di tale disposizione, è collegata in via esclusiva all’illegittimità del recesso, appare del tutto incongruo, invero, che questi richieda, quale mezzo al fine, la condanna del datore ad una reintegrazione cui egli abbia già deciso di rinunciare e che entrambe le parti siano tenute, inoltre ad attendere la conclusione dell’iter giudiziario, nonché del successivo ‘procedimento’ previsto dall’articolo 18 (l’invito del datore a riprendere servizio, ecc.). Incongruenza che si coglie con maggiore evidenza ove si tenga presente che sussiste in detta ipotesi la possibilità di delineare ab initio l’effettivo oggetto della controversia, con la conseguente facoltà, da parte del datore stesso, di liberarsi da ogni obbligazione a suo carico ove riconosca l’illegittimità del licenziamento da lui intimato».

3. Conseguenze dell’inattualità dell’ordine di reintegra sull’opzione economica

Prendendo spunto da talune affermazioni giurisprudenziali, secondo cui la configurazione del rapporto giuridico obbligatorio - nel quale si inserisce la facoltà del lavoratore di optare per l’alternativa economica in connessione con il diritto (obbligo datoriale) alla reintegrazione – si caratterizza quale “obbligazione semplice con facoltà alternativa dal lato del creditore/lavoratore” ed implica che «il venir meno della prestazione principale (la reintegra) preclude la possibilità di ottenere in luogo della stessa la prestazione sostitutiva (l’indennità economica)», in dottrina e da taluna giurisprudenza  venne elaborata la tesi della non spettanza dell’indennità  sostitutiva in carenza di “attualità” della reintegra (o dell’ordine di reintegra) [Così Corte di cassazione  21 dicembre 1995, n. 13047 e 4 novembre 2000, n. 14426].

Va subito detto che la prevalenza dei casi decisi in giurisprudenza – implicanti la non “attualità” dell’ordine di reintegra e quindi l’impossibilità da parte del lavoratore di effettuare una rinunzia al bene dell’occupazione con l’opzione per l’alternativa economica – erano costituiti dalla revoca datoriale del licenziamento, nelle more del giudizio di accertamento dell’invalidità del medesimo, seguita da ripresa spontanea del servizio da parte del lavoratore.

Tuttavia non si è mancato in dottrina e talora, isolatamente, anche in giurisprudenza, di operare una ricerca sulle ipotizzate causali addizionali all’avvenuta reintegra spontanea, presunte confliggenti con la nozione di “attualità” (e quindi preclusive dell’ emissione od operatività dell’ordine giudiziale di reintegra). Vennero individuate nelle seguenti: a) nella morte del lavoratore, sopravvenuta nelle more del giudizio; b) nella cessazione totale dell’attività aziendale, sempre sopravvenuta nelle more del giudizio; c) nell’impossibilità sopravvenuta (nelle more del giudizio) della prestazione lavorativa per inidoneità permanente e totale al lavoro del prestatore, non imputabile al datore di lavoro; d) nel raggiungimento, sempre nelle more del giudizio, dei requisiti di maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, al compimento dei 65 anni [Su queste causali s’ intrattengono, Pizzoferrato, Indennità sostitutive della reintegrazione: funzione giuridica e momento genetico, in Riv. it. dir. lav. 1995, II, 398, ed ivi 406 e 409 e Dell’Olio, Reintegrazione nel posto di lavoro e “alternativa” economica, in Giur. cost. 1992, 3153 ed ivi 3157].

Al riguardo va detto con chiarezza che due soltanto sono le causali che “privano di scopo” l’opzione per l’indennità sostitutiva ex articolo 18, 5° comma, Statuto dei lavoratori e determinano la “inattualità” (o non operatività) della reintegra:

1) l’avvenuta, spontanea, ripresa del servizio da parte del lavoratore, nelle more del giudizio, a seguito di revoca o “ravvedimento operoso” del datore di lavoro che abbia riconosciuto l’illegittimità del proprio comportamento espulsivo;

2) la morte sopravvenuta, nelle more, del lavoratore che, nel nostro diritto del lavoro privato, costituisce la sola causale di risoluzione automatica (“ipso iure”) del rapporto medesimo, verificandosi la quale spetteranno agli eredi le mensilità di risarcimento di danno per il licenziamento illegittimo, di cui al 4° comma, articolo 18, decorrenti dalla data dello stesso fino a quella di morte del lavoratore, preclusa restando l’opzione per l’indennità sostitutiva del bene dell’occupazione non più attuale.

3 a) Inesistenza di sopravvenute causali estintive automatiche

Tutte le altre causali che scarsissima dottrina ed estremamente esigua giurisprudenza - nell’errata convinzione che costituissero sopravvenute cause di automatica risoluzione del rapporto di lavoro - hanno ritenuto di accomunare tra quelle determinanti l’inattualità dell’ordine di reintegra (individuate cioè nella sopravvenuta cessazione dell’attività dell’azienda; nell’inidoneità psico-fisica sopravvenuta, per causa non imputabile al datore di lavoro, di riprendere il servizio; nel sopravvenuto raggiungimento dei requisiti di età per la pensione di vecchiaia), non sono affatto causali giuridiche di estinzione automatica di un rapporto di lavoro, ma solo eventi o accadimenti non idonei di per se a precludere l’emissione dell’ordine di reintegra, necessariamente conseguente al riscontro giudiziale di invalidità del licenziamento. Tali eventi sopravvenuti nel corso di un rapporto sospeso e quiescente in attesa della sentenza di annullamento del presunto licenziamento illegittimo, possono - come la Cassazione ha ammesso - essere posti a fondamento per l’adozione di un nuovo licenziamento  valido, in quanto per causale diversa dal licenziamento originario sub iudice, peraltro destinato a spiegare effetti rescissori solo sul rapporto ricostituito dalla sentenza invalidante il licenziamento originario, quindi dopo la data di emissione della stessa.

3 b) La tassatività delle causali risolutorie dei rapporti di lavoro di diritto privato

Il nostro diritto del lavoro privato è caratterizzato - a differenza dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni disciplinati dal Decreto legislativo n. 165/2001 - dalla tipicità e tassatività delle cause di estinzione del rapporto di lavoro [così espressamente Corte di cassazione 17 aprile 2015 n. 7899] che, tra l’altro, escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età, ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici, risultando legittimate solo quelle clausole contrattuali di risoluzione automatica assicuranti al tempo stesso una stabilità convenzionale fino ad un’età massima con sottrazione al datore di lavoro del potere di recedere unilateralmente e discrezionalmente ex art. 2118 codice civile, quando e per quelle categorie di lavoratori cui tale beneficio non sia già assicurato dalle norme sulla stabilità reale.  

Tali causali sono riassumibili in esclusiva nelle seguenti:

1. a) se ad iniziativa del datore di lavoro,

- nel licenziamento per giusta causa e giustificato motivo; nel licenziamento ad nutum dei dirigenti ed ultrasessantenni in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia;

2. b) se ad iniziativa del lavoratore,

 - nelle dimissioni;

3. c) nonché nella risoluzione consensuale, nella morte del lavoratore, nella sopravvenuta inidoneità permanente al lavoro non imputabile al datore di lavoro.

Quindi, come già anticipato, le presunte causali addizionali in precedenza menzionate, rifluiscono soltanto ed esclusivamente in “causali” per una eventuale nuova e legittima manifestazione datoriale estintiva del rapporto di lavoro (licenziamento), e tra queste si colloca la sopravvenuta cessazione dell’attività dell’azienda determinata da decisione datoriale, piuttosto che da caso fortuito o forza maggiore atteggiantesi a causali rescissorie automatiche (quali l’incendio, l’ìnondazione, un imprevedibile e incolpevole provvedimento dell’autorità).

In presenza di tali presunte causali (rectius, accadimenti o eventi fattuali, non giuridicamente connotati), obiettivamente riscontrate nel corso del giudizio di verifica dell’illegittimità del licenziamento originario, il giudice non si può esimere (al riscontro dell’invalidità del licenziamento) dall’emettere un ordine di ripristino ex tunc del rapporto di lavoro con effetto di reintegra. L’ordine di reintegra - si noti bene per l’epoca successiva alla ricostituzione giudiziale ex tunc del rapporto quiescente - una volta disposto, potrà essere reso inoperante dal datore, come già detto, solo mediante una nuova e valida iniziativa datoriale estintiva (licenziamento), la cui giusta causa o giustificato motivo obiettivo, sia strutturata dagli eventi o accadimenti sopravvenuti (cessazione dell’attività aziendale, inidoneità sopravvenuta del lavoratore, non riconducibile a responsabilità datoriale) ovvero tramite recesso ad nutum con preavviso, dispiegabile verso coloro per i quali, nelle more del giudizio, sia venuto meno  il regime della stabilità reale (lavoratori ultrasessantenni che abbiano maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia). Salvo che il lavoratore – com’è presumibile, ben edotto dei termini delle varie situazioni di fatto – non vanifichi egli stesso, con l’antecedente opzione per l’indennità sostitutiva, gli effetti preclusivi della reintegra cui sono indirizzati e finalizzati i “nuovi” e finalmente “validi” provvedimenti estintivi datoriali, che sarebbero stati, comunque, operativi sul rapporto di lavoro ricostituito dopo la sentenza invalidante il primo licenziamento.

Nel nostro stesso senso si è espressa, in precedenza, autorevole dottrina [Dell’ Olio, in Reintegrazione nel posto di lavoro e “alternativa” economica, Giur. cost. 1992, 3153 ed ivi 3157], la quale ha così asserito: «Malgrado la suggestione esercitata dalla configurazione della reintegrazione come prestazione ‘dovuta in via principale’, non è tanto all’impossibilità di questa…quanto all’estinzione del rapporto di lavoro, a sua volta derivante ipso iure, secondo la disciplina generale del lavoro privato, pressoché soltanto dalla morte del prestatore, che deve collegarsi l’estinzione o preclusione anche all’esercizio della facoltà alternativa, anzi ogni pretesa all’indennità. Per contro eventi come il raggiungimento dell’età pensionabile, la perdita dell’idoneità al lavoro, la stessa cessazione dell’impresa, di per sé, legittimano solo il licenziamento, a sua volta non possibile se non dopo la reintegrazione (cfr. Cass. 2.10.1987, n. 7368), cui perciò il lavoratore può sempre preferire l’indennità».

3 c) Il compimento dell’età pensionabile non comporta automatica risoluzione del rapporto, necessitante invece recesso datoriale ad nutum  con preavviso

Da giurisprudenza della Corte di cassazione conforme a quanto da noi sostenuto in precedenza (cfr. Corte di cassazione 23 febbraio 1998, n. 1908, preceduta da Cass. 20.3.1995 n. 3754, seguite, in senso conforme, da Corte di cassazione n. 5635/2006, n. 2582/2007,  n. 2898/2007 ed altre fino alla recente n. 6537/2014) - la prima delle quali cassò una decisione del Tribunale di Crema che aveva ritenuto di limitare il risarcimento del danno, ex articolo 18, 4° comma, alle sole retribuzioni perdute decorrenti dalla data del licenziamento invalido a quella della maturazione dei requisiti di età per la pensione di vecchiaia (raggiunti dal lavoratore nelle more del giudizio) e non già fino alla data della reintegra, sostituita dal lavoratore con opzione per l’indennità economica – si venne ad affermare correttamente che «il compimento dell’età pensionabile, come il possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia (art. 11 l. n. 604/’66), determinano non già l’automatica estinzione del rapporto, ma solo la cessazione del regime di stabilità e della tutela prevista dalla legge richiamata, consentendo il recesso ad nutum (Cass. 6179/’94). Ne consegue che, nel caso in cui tali condizioni si perfezionino nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella della sentenza con cui venga accertata l’insussistenza di una sua idonea giustificazione, non è preclusa l’emanazione del provvedimento di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ex art. 18 S.d.l (che ha il valore di accertamento che il rapporto è continuato inalterato e che sono operative le rispettive obbligazioni), mentre il rapporto di lavoro è suscettibile di essere estinto solo per effetto di un valido (e diverso) atto di recesso (Cass. 3754 del 20.3.’95) che può essere emanato anche nelle more del giudizio».

Nel convenire con il sopracitato principio di diritto, preme sottolineare l’esigenza di una corretta interpretazione dell’enunciazione della Suprema corte in ordine alla legittimata «adozione del nuovo e valido atto di recesso anche nel corso del giudizio». Tale atto, fondato su una sopravvenuta valida causale estintiva (assunto formalmente per giusta causa, giustificato motivo ovvero in forma di recesso ad nutum  - nei confronti degli ultrasessantenni  in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia per i quali è venuto meno ex lege il regime di stabilità reale - sopravvenuta inidoneità permanente al lavoro non imputabile al datore di lavoro), possederà efficacia estintiva del rapporto, come già detto, quando questo rapporto sarà nuovamente in vita, il che si realizzerà solo a seguito e dopo la dichiarazione giudiziale di ripristino del rapporto ex tunc, sostituibile da parte del lavoratore con l’opzione per l’indennità economica delle 15 mensilità. Ma la notifica datoriale al lavoratore, in corso di giudizio, del nuovo licenziamento sempreché stavolta sia fondato su valida causale,  seppure operante solo sul rapporto ricostituito, quindi dopo l’emissione della sentenza invalidante il primo licenziamento illegittimo, non sarà inutile né improduttiva di effetti ma idonea ad arrestare la mora debendi datoriale, quindi a limitare, a beneficio del datore di lavoro, la misura del risarcimento del danno, ex articolo 18, 4° comma, spettante al lavoratore, il cui computo  si dovrà fermare alla data (anteriore) dello spiegamento del nuovo,  valido atto estintivo e non già decorrere (ai fini del calcolo delle mensilità) fino all’epoca dell’emissione dell’ordine di reintegrazione.

Qualora, invece, il datore non si sia avvalso di questa “opportunità”, cioè non abbia disposto, al sopravvenire degli accadimenti innanzi delineati nel corso del giudizio, un nuovo licenziamento, le mensilità di retribuzione globale di fatto dell’indennità risarcitoria spettante al lavoratore saranno tutte quelle maturate dalla data del licenziamento invalido alla data della sentenza che lo ha annullato ovvero alla data dell’antecedente opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra.

In sostanza – salvo le due ipotesi di ripresa spontanea del servizio e di morte del lavoratore, in cui l’ordine di reintegra è privo di scopo per essersi, nel primo caso, ricostituito il rapporto e, nel secondo, validamente risolto per evento naturale sopravvenuto e “fisicamente” estintivo – tutte le altre ipotesi determinanti (secondo un non condiviso orientamento) una presunta automatica non attualità dell’ordine di reintegra, sono del tutto irrilevanti ai fini di impedire al magistrato l’emissione di un atto necessitato dal riscontro di invalidità del recesso originario e che – come ha detto Corte di cassazione n. 1908/’98 – «ha il valore di accertamento che il rapporto è continuato e che sono operative le reciproche obbligazioni». 

3 d) Ancora sulle presunte, sopravvenute causali, giuridicamente inidonee di per se a determinare una riduzione risarcitoria a danno del lavoratore

Si potrà anche opinare che la soluzione sopra illustrata presenta aspetti di “gravosità” per la parte datoriale  – la quale ha tuttavia, in esclusiva, la responsabilità di aver innescato il procedimento giudiziario con lo spiegamento del licenziamento invalido, per cui “ubi commoda, ibi eius et incommoda” – ma la stessa dose di “gravosità” - è stato detto - è insita nell’opzione per l’alternativa economica delle 15 mensilità forfettarie, da parte del lavoratore cui «manchino pochi mesi al sicuro collocamento a riposo» [l’osservazione è di Pera, La novità della disciplina dei licenziamenti, Padova, 1993, 74, che la prospetta come emblematica del “verificarsi di ipotesi aberranti”].

D’altra parte bisogna essere coerenti nel trarre le conseguenze da un costrutto giuridicamente fondato, piuttosto che ipotizzare e tentare di accreditare, a beneficio datoriale diretto o indiretto, soluzioni - apparentemente più equitative – ma assolutamente inappaganti dal lato giuridico.

In giurisprudenza ha tentato di accreditare queste pseudo-soluzioni “mediane” o “equitative”, Corte di cassazione 13 febbraio 1993 n. 1815 (cui adde Corte di cassazione n.13297/2007 e n. 29936/2008, tutte e tre occupatesi dell’evento “cessazione dell’attività dell’azienda”, sopravvenuta nelle more del giudizio di accertamento dell’illegittimità del licenziamento),   la quale - in questa fattispecie - ha statuito, senza farsi carico di argomentare le (poco condivisibili) conclusioni raggiunte, che: « ..qualora nelle more del giudizio promosso dal lavoratore per la declaratoria d’illegittimità del licenziamento in precedenza intimatogli e per ottenere la reintegrazione ed il risarcimento del danno, sopravvenga un accadimento che renda impossibile la prestazione per causa non imputabile ad una delle parti ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c. (nella specie per avvenuta cessazione totale dell’attività aziendale), il giudice che accerti l’illegittimità del pregresso licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno con riguardo al periodo compreso fra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto».

Invero, come già evidenziato, il vizio della decisione (e di quelle altre due tanto similari quanto uniche nel panorama giurisprudenziale di legittimità), risiede nell’affermazione apodittica secondo cui la cessazione dell’attività dell’azienda su determinazione datoriale (legittimata dall’art. 41 Cost.) costituisce ipso iure una “sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto”, automaticamente operativa anche senza che su di essa il datore abbia fondato un “nuovo” e “valido” atto di recesso per giustificato motivo oggettivo, idoneo ad arrestare alla data di adozione del provvedimento la mora debendi datoriale,  limitando così la misura dell’indennità risarcitoria.

Conseguentemente, atteso che la presunta causale risolutoria ex se, si presenta del tutto estranea al novero delle rigide e tassative causali estintive del rapporto di lavoro privato  - che, come ha ricordato, a più riprese, la Corte di Cassazione (cfr. n. 1758/1999), sono soltanto: a) il licenziamento (per giusta causa, per giustificato motivo o ad nutum), b) le dimissioni; c) l’estinzione per muto consenso; d) lo spirare dei termini per la ripresa del servizio previsti dall’articolo 18, 5° comma., Legge n. 300/70 - la cessazione d’attività dell’azienda è inidonea, di per se stessa,  a ingenerare effetti riduttivi sull’indennità risarcitoria.

4. La maturazione dei requisiti per la fruizione della pensione di vecchiaia (seguita dal suo effettivo godimento nel corso del giudizio), non è configurabile quale causa sopravvenuta di risoluzione del rapporto quiescente, con pretesi effetti riduttivi dell’indennità risarcitoria e preclusivi dell’opzione per le 15 mensilità

Altra tematica su cui far chiarezza è quella del tentativo - praticato in giudizio dalle aziende che abbiano subito la sentenza di invalidazione del licenziamento ingiustificato -  di limitare il risarcimento di danno verso i lavoratori licenziati che,  per i lunghi tempi processuali, abbiano, nel corso del giudizio di accertamento dell’illegittimità del licenziamento, maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia ai 65 anni e ne siano entrati in godimento per concessione da parte dell’Inps o di altro ente erogatore.

Due sono state le strade praticate dalle aziende convenute in giudizio: a) quella di chiedere al giudice di poter portare in detrazione dall’indennità risarcitoria i ratei della pensione percepiti dall’ultrasessantenne, adducendo la compensatio lucri cum damno, per asserita riconducibilità degli stessi nell’aliunde perceptum, e b) quello di far arrestare le mensilità dell’indennità risarcitoria alla data del raggiungimento dei 65 anni, accompagnato dalla fruizione dei ratei di pensione corrisposti dall’ente erogatore dei trattamenti pensionistici.

La pretesa di cui al punto a), è stata  dichiarata infondata da numerosissime decisioni della Cassazione, tanto da strutturare un orientamento oramai consolidato.  La maturazione del diritto a pensione - hanno confermato, ex multis, Corte di cassazione n. 9992/2009 e n. 14778/2008 - non costituisce di per sé causa di cessazione del rapporto, in mancanza dell’esercizio da parte aziendale del diritto di recesso ad nutum ex articolo 2118 codice civile, con preavviso, consentito dall’essere venuto meno, per gli ultra sessantacinquenni, il regime della legislazione vincolistica di cui alla Legge n. 604/66 (nel testo modificato dalla legge n. 108/1990).

La Corte di cassazione ha  ricordato che: «le Sezioni Unite, con sentenza n. 12194/2002, - risolvendo il contrasto di giurisprudenza insorto sulla questione concernente la possibilità di una riduzione nel senso summenzionato - hanno, infatti, affermato il principio per cui, in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo a norma della L. n. 300 del 1970, art. 18, commisurato alle retribuzioni perse a seguito del licenziamento e fino alla riammissione in servizio, non debba essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della “compensatio lucri cum damno”. Tale “compensatio”, d’altra parte, non può configurarsi neanche allorché, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di lavoro, l’ammissione al trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività, né allorché il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col danno, e cioè come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore. Il cennato principio è stato successivamente condiviso da Cass. nn. 2529/2003 e 14505/2003 e merita di essere anche qui confermato: sicché deve escludersi che, nella specie, possa operare la “compensatio” tra le somme dovute dal datore di lavoro e le somme percepite dall’ente previdenziale a titolo di pensione così come erroneamente disposto nella sentenza impugnata [(salvo, ovviamente, azione che può essere esperita (ove ne ricorrano i presupposti) in diverso giudizio dall’ente previdenziale per il recupero di quanto dovutogli per effetto dell’applicazione della normativa sulla cumulabilità parziale della retribuzione del lavoratore dipendente con la pensione di vecchiaia)]».

4 a) L’ insottraibilità, quale aliunde perceptum, dei ratei pensionistici dall’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore

Ha disposto poi, nello stesso senso, Corte di cassazione 14/6/2007 n. 13871, che i ratei di pensione percepiti «non possono configurarsi come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore detraibile dall’ammontare del risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro, in quanto la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento, facendo venir meno il presupposto del pensionamento, travolge ex tunc lo stesso diritto dell’assicurato alla prestazione previdenziale e lo espone all’azione di ripetizione dell’indebito da parte del soggetto erogatore della pensione (cfr. S.U. n. 12194 del 2002, Cass. n. 1786 del 2003, Cass. n. 2529 del 2003, Cass. n. 11758 del 2003, Cass. n. 11134 del 2004, Cass. n, 2406 del 2004, ed altre conformi)».

Ed ancora è stato incisivamente affermato dalla recente Corte di cassazione 28/1/2014 n. 1725 che: «Se allora conseguenza diretta ed immediata della pronuncia di illegittimità del licenziamento (id est, come nello specifico, della declaratoria di nullità della clausola contrattuale risolutiva ai 65 anni) é il venir meno del titolo in base al quale l’appellato ha percepito il trattamento pensionistico, essendo stato ripristinato il rapporto lavorativo dalla cui cessazione detto trattamento aveva avuto origine, qualora tale trattamento sia divenuto una attribuzione sine titulo, il lavoratore reintegrato viene a trovarsi, relativamente ai ratei percepiti, nella posizione di un qualsiasi creditore apparente, esposto in quanto tale ad un’azione di ripetizione dell’indebito da parte dell’ente previdenziale. Così stando le cose, poco importa se al momento della pronuncia non può esservi ancora certezza della ripetizione da parte dell’ente interessato, dovendo il giudice porsi nell’ottica del rispetto della legge, secondo la quale alla pronuncia di inefficacia del licenziamento ed al conseguente ripristino del rapporto di lavoro illegittimamente interrotto non può che conseguire l’obbligo giuridico, da parte dell’istituto previdenziale erogatore, di recuperare una prestazione pensionistica divenuta ormai indebita perché priva di titolo.

É in questa prospettiva che deve escludersi la possibilità di detrarre dal risarcimento del danno il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore, non potendo ritenersi tale attribuzione acquisita, se non in modo apparente e del tutto precario, al suo patrimonio».

Aggiunge, ancora in senso conforme, Corte di cassazione 25/1/2008 n. 1670, che: «la sentenza che dichiari illegittimo il licenziamento ricostituisce con effetto retroattivo la continuità giuridica del rapporto di lavoro, sicché questo deve ritenersi mai interrotto (cfr. Cass. n. 14426/2000, Cass. n. 10515/1995, in particolare la motivazione della sentenza delle S.U. n. 12194/2002, resa in tema di indebitum perceptum e di compensatio lucri cum damno, dalla quale si evince che “la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione”). A nulla rileva in senso contrario che dopo il licenziamento non sia stata effettuata alcuna prestazione lavorativa subordinata, atteso che il recesso illegittimo comporta il rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione ma non estingue il rapporto. Né importa che il lavoratore reintegrato con sentenza passata in giudicato abbia optato per l’indennità sostitutiva di cui al quinto comma dell’articolo 18, o che la retribuzione globale di fatto costituisca mero parametro per la determinazione del risarcimento piuttosto che un corrispettivo sinallagmatico del lavoro effettivamente reso. Ciò che importa ai fini del divieto di cumulo tra pensione e retribuzione é la circostanza che il rapporto di lavoro subordinato sia da ritenere valido ed efficace al momento della domanda di pensionamento, restando irrilevante che sia mancata la prestazione per fatto addebitabile al datore di lavoro e che il lavoratore ottenga al posto della retribuzione un risarcimento a questa commisurato. Il quesito posto dal ricorrente va dunque risolto nel senso che a norma della Legge 30 aprile 1969, n. 153, articolo 22, il diritto alla pensione di anzianità (come pure per quella di vecchiaia, per entrambe le quali è richiesto il presupposto della inesistenza, in senso giuridico, di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato in atto, evidenziata insussistente nel caso di ripristino retroattivo, ndr) é escluso per coloro che a seguito di sentenza dichiarativa della illegittimità del licenziamento si vedano ricostituito ex tunc il rapporto di lavoro, pur in assenza di prestazione lavorativa e di una retribuzione in senso proprio, contando la continuità giuridica del rapporto di lavoro piuttosto che la prestazione di fatto, resa impossibile dall’illegittimo rifiuto del datore di lavoro».

4 b) Il raggiungimento dell’età pensionabile, riconferendo al datore la libera recedibilità, gli consente soltanto la sostituzione di un nuovo e valido licenziamento, al vecchio illegittimo, con effetti riduttivi dell’indennità risarcitoria

Infine Corte di cassazione 20/3/2014 n. 6537, ribadisce il sopra riferito stabile orientamento, asserendo che: «Poiché il compimento dell’età pensionabile, come il possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia (art. 11 legge n. 604/66), determinano non già l’automatica estinzione del rapporto, ma solo la cessazione del regime di stabilità e della tutela prevista dalla legge sopra richiamata, consentendo il recesso ad nutum, deve ribadirsi il principio secondo cui “nel caso in cui tali condizioni si perfezionino nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella della sentenza con cui venga accertata l’insussistenza di una sua idonea giustificazione, non è preclusa l’emanazione del provvedimento di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ex art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 (che ha il valore di un accertamento che il rapporto è continuato inalterato e che sono operative le rispettive reciproche obbligazioni), mentre il rapporto di lavoro è suscettibile di essere estinto solo per effetto di un valido (e diverso) atto di recesso (Cass. n. 3754 del 20 marzo 1995), che ben può essere emanato anche nelle more del giudizio” (cfr. Cass. n 1908/1998 nonché Cass. n 1462/2012 circa l’illegittimità della limitazione del risarcimento ex art 18 Stat. Lav. fino al compimento del 65° anno di età)».

Quanto alla pretesa datoriale di cui al punto b), di arrestare - alla data del pensionamento di vecchiaia (come d’anzianità) per raggiungimento dei 65 anni - la sommatoria delle mensilità costituenti l’indennità risarcitoria e di precludere altresì la spettanza delle 15 mensilità conseguenti ad opzione del lavoratore alternativa alla reintegra, va evidenziato come la sua erroneità emerga in tutta evidenza dal sopra riferito consolidato orientamento della Corte di cassazione, reso in relazione  alla pretesa (anch’essa infondata) di detrarre, come aliunde perceptum o per compensazione irrituale,  i ratei di pensione percepiti dal lavoratore nelle more dell’emanazione della sentenza di annullamento del licenziamento invalido.

É abbastanza frequente che i tempi di durata di un giudizio comportino, nelle more della pronuncia della sentenza, il compimento da parte del lavoratore ricorrente dei 65 anni e, quindi, avendo maturato i requisiti pensionistici, quest’ultimo presenti domanda all’ente erogatore di beneficiare della pensione, i cui ratei sostituiscono - per motivi di sussistenza personale e familiare - il carente reddito da lavoro.

Come insegna la Suprema corte, al sopraggiungere della sentenza di annullamento del licenziamento e, quindi, dell’avvenuta ricostituzione della continuità del rapporto sospeso, la dichiarazione giudiziale di illegittimità travolge ex tunc il diritto al pensionamento; ne deriva, quindi, che la domanda e la concessione della pensione risulta  tanquam non esset dal punto di vista giuridico, ed i ratei nelle more percepiti risultano acquisiti sine titulo e, pertanto, ripetibili dall’ente erogatore (Inps o altro) per indebito oggettivo.

Stando così le cose, è del tutto pacifico che - per effetto della cancellazione, ad opera della sentenza dichiarativa della continuità del rapporto sospeso, degli atti (cioè a dire la domanda di pensione) compiuti dal prestatore nella fase di sospensione del rapporto (tesi a sopperire ad un reddito di lavoro carente per licenziamento invalido) - a detta domanda non è attribuibile alcuna idoneità ad essere considerata quale sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto; sia perché non rientra tra le tassative causali di risoluzione dei rapporti di lavoro privati sia perché iniziativa assunta dal prestatore nel corso di un rapporto non estinto ma quiescente, implicante la mancanza del presupposto pensionistico della sua cessazione definitiva. Iniziativa, peraltro, determinata non già da scelta volontaria di cessare l’attività lavorativa ma indotta dalla necessità di acquisire, per ragioni di sussistenza economica, un introito monetario in ragione dell’esser venuto meno il reddito da lavoro, per evidente colpa datoriale. Talché ricostituito dalla sentenza ex tunc il rapporto quiescente, la  precedente domanda di fruizione della pensione  si vanifica e si dissolve per evidenziata carenza della cessazione di un qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, che la legge previdenziale pone a presupposto indefettibile per un valido pensionamento (di vecchiaia come d’anzianità), con la conseguenza addizionale della restituzione, a richiesta dell’ente previdenziale, dei ratei corrisposti, venuti a risultare indebiti.

5. Conclusioni

Esigue risultano, nel panorama giurisprudenziale, le decisioni [eminentemente di merito, cfr. la recente Corte appello di Bari,  14 aprile 2016 n. 977, convenuto ex Banco di Napoli, inedita allo stato] che hanno conferito - ad una domanda di pensione  del licenziato senza stipendio presentata, al compimento dei 65 anni, all’ente erogatore nel corso di un rapporto sospeso o quiescente in attesa della sentenza di annullamento del licenziamento illegittimo - l’effetto di decurtare la misura dell’indennità risarcitoria e di negare la spettanza delle cd. 15 mensilità. In ogni caso quelle decisioni sono incorse in un errore di diritto, pregiudizievole per il lavoratore, di cui quest’ultimo potrà richiedere la correzione in sede di legittimità. Ben diverso sarebbe stato il caso in cui, nelle more del giudizio, il lavoratore avesse notificato al datore un atto di dimissioni, cui non può assolutamente essere equiparata (come sembrerebbe abbiano fatto le criticate sentenze) una domanda di pensione diretta ad un soggetto terzo, quale è l’ente erogatore dei trattamenti pensionistici.

Peraltro, qualora si convenisse con l’erronea attribuzione della qualificazione di “sopravvenuta causale estintiva” per incompatibilità, ad una domanda di pensione (seguita dalla percezione dei ratei accreditati dall’ente previdenziale), si legittimerebbe, a danno del lavoratore, un doppio pregiudizio del tutto ingiustificato: quello, a) della limitazione dell’indennità risarcitoria alla data della domanda di pensione (e non già fino alla data della sentenza contenente la dichiarazione di invalidità del licenziamento, ovvero fino alla data dell’opzione per le 15 mensilità) congiunta alla preclusione per l’ottenimento delle 15 mensilità eventualmente optate, nonché quello, b) del recupero da parte dell’ente previdenziale dei ratei di pensione erogati e indebitamente percepiti per assenza del presupposto, legislativamente preteso e condizionante, della cessazione del rapporto (insussistente nella fattispecie).

Pressoché in senso analogo, seppure in tema di indetraibilità, dall’indennità risarcitoria del licenziamento illegittimo, delle indennità previdenziali (indennità di mobilità; indennità di disoccupazione, ecc.), si è espressa Corte di cassazione 29.8.2006 n. 18687, statuendo: «È decisiva in proposito la considerazione, svolta dalla giurisprudenza più recente, che le indennità previdenziali (tra cui sono riconducibili, per analogia, i ratei di pensione, ndr) una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti...Ritenere altrimenti (cioè a dire considerarle detraibili quali aliunde perceptum, ndr) significa esporre il lavoratore ad una duplice perdita, quella conseguente alla detrazione dell’importo dell’indennità (previdenziale, come dei ratei di pensione percepiti, ndr) dal risarcimento che gli spetta per la mancata reintegrazione a seguito della pronunzia che ha riconosciuto l’illegittimità del licenziamento, e quella della restituzione della somma all’istituto previdenziale».

Conclusivamente, a seguito della sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento - che ha travolto e posto nel nulla la domanda di pensione e il relativo trattamento pensionistico percepito indebitamente nelle more del giudizio, in mancanza del requisito della cessazione definitiva del rapporto che ne era il presupposto per una valida concessione, giacché la normativa previdenziale  (articolo 22, Legge n. 153/1969) prevede che i richiedenti “non prestino attività lavorativa subordinata alla data della presentazione della domanda di pensione” - il lavoratore avrà diritto all’indennità risarcitoria (mensilità della retribuzione di fatto) decorrente dalla data del licenziamento alla data dell’opzione per le 15 mensilità, nonché a dette mensilità che strutturano forfettariamente l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Negare tali spettanze significa  sottrarre il datore di lavoro dall’integrale trattamento sanzionatorio che la legge (articolo 18 Statuto dei lavoratori) gli accolla, anche in forma punitiva per l’atto illegittimo compiuto. Al tempo stesso significa ridurre indebitamente l’integrale trattamento risarcitorio (indennità risarcitoria spettante dalla data del licenziamento a quella della sentenza nonché le 15 mensilità optate) di cui deve beneficiare il lavoratore ingiustamente espulso dall’azienda; significa altresì obliterare i principi dell’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui «la pronuncia di annullamento del licenziamento adottato nell’area della stabilità reale...prescinde da ogni valutazione successiva alla data del licenziamento e al lavoratore licenziato spetta il diritto di andare indenne da tutte le conseguenze negative dell’illegittimo provvedimento risolutivo del rapporto di lavoro» (cfr. per tutte Corte di cassazione n. 6537/2014 e precedenti conformi).

Abstract: nel regime caratterizzato dalla stabilità reale del rapporto di lavoro, che concerne i lavoratori a tempo indeterminato per i quali l’annullamento giudiziale del licenziamento illegittimo comporta l’applicabilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (cioè la reintegrazione o l’opzione del prestatore per l’indennità sostitutiva forfettariamente individuata in 15 mensilità), l’autore evidenzia, con il supporto del consolidato orientamento della Suprema corte, l’erroneità di quella marginale giurisprudenza di merito (cfr. recentissimamente Corte Appello Bari n. 977 del 14/4/2016, inedita allo stato) che ritiene che il raggiungimento -  nel corso del giudizio d’annullamento del licenziamento -  dell’età pensionabile dei 65 anni con la connessa fruizione dei  ratei pensionistici per necessaria sussistenza (stante la privazione dello stipendio in dipendenza dell’illegittimo licenziamento giudizialmente acclarato), costituisca automaticamente e di per se sopravvenuta causale idonea ad arrestare a quella età  la misura del risarcimento del danno spettante al lavoratore, di regola fino alla data posteriore della sentenza di annullamento del licenziamento illegittimo.

1. Autonomia tra tutela risarcitoria per licenziamento invalido e tutela reale (o reintegratoria)

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – con le modifiche successivamente introdotte dal 1970 in poi – ha travagliato non poco dottrina e giurisprudenza e non si può ancora dire che si sia giunti a soluzioni definitive ed univoche, anche se si è consolidato – sulle principali questioni controverse – un orientamento prevalente che, in queste note, passeremo in esame.

La prima questione che si è posta è stata quella della subordinazione o connessione - ovvero, all’opposto dell’autonomia - della tutela risarcitoria (conseguente al licenziamento invalido o illegittimo che dir si voglia) dalla sussistenza e persistenza della tutela reintegratoria. Si sosteneva in epoca non recente, che al lavoratore non spettasse il risarcimento del danno di cui al comma 4 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, qualora non fosse più attuale la tutela reintegratoria (ad es., perché l’azienda, nelle more del giudizio, aveva riammesso il lavoratore in azienda, revocando concludentemente il precedente licenziamento, ovvero perché il lavoratore aveva, sempre nelle more del giudizio, reperito un’altra occupazione, ovvero perché il lavoratore versava in stato di sopravvenuta inabilità psico-fisica alla riammissione al lavoro, ovvero perché deceduto nel frattempo, o perché l’azienda aveva nel frattempo cessato l’attività, ecc.). Risarcimento notoriamente fissato nella misura minima di 5 mensilità della retribuzione globale di fatto, con connesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, parametrato al periodo (necessariamente non retribuito) decorrente dalla data del licenziamento di cui era stata accertata giudizialmente l’invalidità e fino a “quello dell’effettiva reintegrazione”. Questa tesi faceva leva, in particolare, sulla carenza o impossibilità del verificarsi della condizione della “effettiva reintegrazione”.

A togliere qualsiasi dubbio sull’inconsistenza della tesi sopra riferita intervenne – dopo oscillante giurisprudenza – la Corte di cassazione a sezioni unite n. 3957 del 23 aprile 1987, la quale stabilì a chiare note che: «La tutela cosiddetta risarcitoria, accordata dall’articolo 18…della Legge del 20 maggio 1970, n. 300 in favore del lavoratore, il cui licenziamento risulti invalido od inefficace (nella misura non inferiore a 5 mensilità della retribuzione), ha carattere autonomo rispetto alla tutela cosiddetta ripristinatoria contemplata dal primo comma della medesima norma, in quanto configura sanzione a carico del datore di lavoro non derivante dall’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, bensì direttamente discendente da detta invalidità od inefficacia del licenziamento. L’indicato risarcimento, pertanto, deve essere riconosciuto anche al dipendente illegittimamente licenziato che non voglia o non possa chiedere la suddetta reintegrazione (ivi inclusa l’ipotesi in cui sia sopravvenuta revoca del licenziamento e riammissione al lavoro)». Ed in motivazione le stesse sezioni unite chiarirono – a scanso di equivoci – che la collocazione dell’ordine di reintegrazione al primo comma dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori  non significava affatto che tutta la normativa fosse «preordinata allo specifico scopo primario della reintegrazione nel posto di lavoro e che, pertanto, il lavoratore possa avvalersi della normativa stessa, in punto di risarcimento, solo nel caso in cui debba (o possa) domandare la reintegrazione. Tale conclusione è testualmente smentita dalla prima parte del secondo comma (nel vecchio testo ed ora 4° comma, n.d.r.) della disposizione, che espressamente ricollega il diritto al risarcimento del danno all’inefficacia o alla invalidità del licenziamento, non già all’ordine di reintegrazione, con ciò attribuendo piena autonomia alla tutela risarcitoria».

Ne consegue (come è stato confermato da successiva giurisprudenza della Suprema corte, conformatasi all’orientamento sopra riferito delle Sezioni unite) che sussiste “interesse ad agire” ex art. 100 codice di procedura civile da parte del lavoratore – impossibilitato o non interessato ad essere riammesso in servizio nell’azienda che gli ha comminato il licenziamento, rivelatosi poi invalido – per la rivendicazione del solo risarcimento di danno (nella misura ex articolo 18, 4 comma, Statuto dei lavoratori), in quanto l’indennizzo (invero a carattere retributivo a tutti gli effetti) costituisce una forma di riparazione (e nello stesso tempo “sanzione” o “penale”, a carico dell’azienda) per un atto offensivo della dignità del lavoratore medesimo. Indennizzo che colma il vuoto delle retribuzioni perdute e che trova la sua radice in un atto sostanzialmente ingiurioso che, avendo fatto venir meno nel lavoratore l’interesse alla reintegrazione - per perdita della reciproca fiducia fra le parti, per l’ipotetica ostilità ambientale che una riammissione comporterebbe, per l’avvertita difficoltà di reinserimento in un’organizzazione del lavoro immutata, ecc. –, può indurre successivamente, quand’anche emesso l’ordine di reintegrazione, il lavoratore a preferire l’alternativa economica forfettaria delle 15 mensilità (di cui parleremo infra).

1 a) Conferme giurisprudenziali

Il principio di diritto in ordine alla “autonomia” fra tutela risarcitoria ex articolo 18, comma 4, Statuto dei lavoratori e tutela reintegratoria, è stato poi ripreso da tutta la giurisprudenza successiva della Suprema corte,  tra le molte, da Corte di cassazione n. 9464/1998, che ha definito la misura indennitaria ex articolo 18, comma 4, Statuto dei lavoratori, come «assimilabile ad una sorta di penale avente la sua radice nel rischio d’impresa e può assumere la funzione di assegno di tipo, in senso lato, assistenziale in caso di assenza di una responsabilità di tipo soggettivo in capo al datore di lavoro» (in fattispecie indotto al licenziamento da certificazioni delle strutture sanitarie pubbliche attestanti l’inidoneità fisica al lavoro del prestatore).

Tale principio è stato altresì riconfermato dalla stessa Corte costituzionale nella decisione n. 420 del 23 dicembre 1998, che ha dichiarato che il risarcimento nella misura minima di 5 mensilità (incrementabile in relazione alle maggiori mensilità di retribuzione perduta) spetta anche nel caso di licenziamento invalido per assenza di colpa del datore di lavoro (anche in questa fattispecie indotto dalla certificazione, ex articolo 5 Statuto dei lavoratori, di inidoneità del lavoratore, rivelatasi poi insussistente a seguito di Consulenza tecnica d’ufficio sanitaria), trovando la sua radice nel “rischio d’impresa” ovverosia nel rischio cui va incontro l’imprenditore che adotta un provvedimento espulsivo rivelatosi poi invalido (aderendo, in sostanza, alla stessa impostazione di Corte di cassazione n. 9464/1998, cit.).

L’obbligo di corrispondere la retribuzione – in forma indennitaria, nel caso – peraltro non potrebbe venire meno in ragione dell’intervenuta sospensione della prestazione del lavoratore, invero indotta dal provvedimento di licenziamento (invalido), poiché, in tal caso, l’inadempimento del dipendente trova la sua causa nel rifiuto di ricevere la prestazione da parte del datore di lavoro (che lo ha estromesso illegittimamente dall’azienda), il quale resterà obbligato, ex articolo 1206 e 1207 codice civile, ad eseguire la prestazione corrispettiva, ovverosia quella retributiva.

2. Ordine di reintegra e opzione per l’ alternativa economica

Altra problematica, dibattuta e finalmente risolta, è stata quella afferente alla natura dell’ordine di reintegra, in dipendenza ed in correlazione alla previsione – di cui al comma 5 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori – del poter essere la ripresa del servizio sostituita, su opzione del lavoratore, dalla percezione dell’indennità economica forfettariamente prevista in 15 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Stabilisce il comma 5 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori (introdotto dall’articolo 1, comma 5, Legge n. 108/1990) che: “Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al comma 4, al prestatore di lavoro è data facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto”.

Tramite l’indennità in parola, il legislatore - consapevole della non coercibilità dell’obbligo di reintegra, quale obbligazione di fare, e della discussa applicabilità all’inottemperanza datoriale della tutela penale ex articolo 388, comma 2, codice penale (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento cautelare del giudice) e articolo 650 codice penale (inosservanza dei provvedimenti dell’autorità) nonché dei tentativi elusivi ed ostruzionistici datorialmente posti in essere nei fatti a fronte della pronunzia giudiziale - ha reso “pesante” e “gravosa” per l’imprenditore la scelta spesso obbligata del lavoratore di non aderire all’invito alla ripresa del servizio.

La ricusazione dell’invito rivolto al lavoratore dall’azienda per il rientro in servizio, a seguito dell’ordine giudiziale di reintegra, ha occasionato numerosi rilievi di costituzionalità, e proprio grazie alle dichiarazioni di infondatezza da parte della Corte costituzionale nn. 81, 160 e 426,  è stata chiarita la natura del rapporto giuridico complesso costituito dall’obbligo di reintegra congiunto alla facoltà, da parte lavoratrice, di monetizzazione della rinunzia alla riammissione in servizio.

La Corte costituzionale nella decisione n. 81/1992 - tramite cui sono stati dichiarati infondati gli addebiti rivolti all’articolo 18, comma 5, di attribuire al lavoratore un privilegio ingiustificato, consistente nel diritto di dimissioni in tronco, con indennizzo (asserito) esorbitante rispetto a quello normalmente accordato dall’ articolo 2119 codice civile, dimissioni fondate su una causa già rimossa dalla sentenza che, dichiarando l’illegittimità del licenziamento, abbia ordinato la reintegrazione del lavoratore e condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno – ha asserito che non solo “l’alternativa economica” ma più globalmente che “l’ordine di reintegrazione accompagnato dall’alternativa economica” configura «un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore». «Anziché la prestazione dovuta in via principale, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, il creditore (lavoratore, n.d.r.) ha facoltà di pretendere una prestazione diversa di natura pecuniaria, che è dovuta solo in quanto dichiari di preferirla, e il cui adempimento produce, insieme con l’estinzione dell’obbligazione di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, la cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta mancanza di scopo». Proseguiva la sentenza asserendo che: «Il rapporto non cessa per effetto della dichiarazione di scelta del lavoratore, come si dovrebbe pensare se essa avesse la valenza di dichiarazione di recesso, bensì solo al momento del pagamento dell’indennità sostitutiva»; impostazione, quest’ultima, che ha retto per circa il ventennio successivo, fino a che Corte di cassazione, Sezioni unite, n. 18353 del 27/8/2014 (e successive conformi, n. 25679/2014 e n. 9765/2015) non hanno mutato orientamento, ritenendo più convincente la tesi secondo cui l’opzione del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegra, comunicata al datore di lavoro, estingue alla data della scelta il rapporto di lavoro e che, all’eventuale mancato o  ritardato pagamento delle 15 mensilità, si applica la disciplina  della mora debendi propria delle obbligazioni pecuniarie del datore di lavoro, con ricorso all’articolo 429, 3 comma, codice di procedura civile.

2 a) La reintegrazione quale obbligazione semplice con facoltà alternativa da parte del lavoratore - creditore

Come è stato chiarito «l’obbligazione con facoltà alternativa, o facoltativa dal lato del creditore, va distinta dall’obbligazione alternativa: nella prima, la prestazione dovuta è una sola, l’obbligazione è cioè semplice: solo su richiesta di una delle parti è prevista una prestazione subordinata diversa da quella principale, con effetti parimenti liberatori (una res in obligatione, duae autem in facultate solutionis); nella seconda (cioè alternativa, n.d.r.) due sono le prestazioni dovute, dedotte in modo disgiunto e paritario, ma il debitore si libera eseguendone una sola (duae res in obligatione, una autem in solutione)» [così Tatarelli, L’opzione in sostituzione della reintegrazione, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1997, 685 ed ivi 686, nota 7].

La reintegrazione – disposta giudizialmente a seguito dell’invalidità del licenziamento – in congiunzione con l’opzione economica da parte del lavoratore, si configura quindi, come una “obbligazione semplice con facoltà alternativa” da parte del lavoratore-creditore, che potrà estinguere l’obbligazione principale datoriale (quella della riammissione nel posto di lavoro) con la scelta a favore dell’obbligazione secondaria, subordinata e alternativa, costituita dall’indennità economica, risaltante per il prestatore d’opera in forma di un vero e proprio diritto potestativo. Asserisce, in senso confermativo, Corte costituzionale n. 291/1996 – trattando della natura dell’indennità sostitutiva opzionale delle 15 mensilità – che «secondo la giurisprudenza di questa Corte (n. 81 del 1992, ordinanze nn. 160 del 92 e 77 del 1996) l’indennità di cui si controverte non ha una funzione di risarcimento aggiuntivo a quello previsto dal precedente comma 4, ma, in connessione col diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, si inserisce in un rapporto obbligatorio avente la struttura di un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, essendo attribuita al prestatore la facoltà insindacabile di ‘monetizzare’ il diritto alla reintegrazione in una prestazione pecuniaria di ammontare fisso, pari a 15 mensilità di retribuzione». Lo stesso concetto è ripreso pedissequamente da Corte di cassazione n. 12366 del 5 dicembre 1997 e successive – ed in precedenza da Corte di cassazione 21 dicembre 1995, n. 13047 - la prima delle quali giunse ad asserire un’opinione oramai consolidata, secondo cui «una volta affermata la piena autonomia tra i regimi sanzionatori previsti dall’articolo 18, non vi è ragione di escludere che già nell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione del licenziamento il lavoratore eserciti l’opzione per l’indennità sostitutiva ex articolo 18». A sostegno della tesi argomentando che: «se l’attribuzione di tale prestazione, al pari di quella risarcitoria prevista nei precedenti commi di tale disposizione, è collegata in via esclusiva all’illegittimità del recesso, appare del tutto incongruo, invero, che questi richieda, quale mezzo al fine, la condanna del datore ad una reintegrazione cui egli abbia già deciso di rinunciare e che entrambe le parti siano tenute, inoltre ad attendere la conclusione dell’iter giudiziario, nonché del successivo ‘procedimento’ previsto dall’articolo 18 (l’invito del datore a riprendere servizio, ecc.). Incongruenza che si coglie con maggiore evidenza ove si tenga presente che sussiste in detta ipotesi la possibilità di delineare ab initio l’effettivo oggetto della controversia, con la conseguente facoltà, da parte del datore stesso, di liberarsi da ogni obbligazione a suo carico ove riconosca l’illegittimità del licenziamento da lui intimato».

3. Conseguenze dell’inattualità dell’ordine di reintegra sull’opzione economica

Prendendo spunto da talune affermazioni giurisprudenziali, secondo cui la configurazione del rapporto giuridico obbligatorio - nel quale si inserisce la facoltà del lavoratore di optare per l’alternativa economica in connessione con il diritto (obbligo datoriale) alla reintegrazione – si caratterizza quale “obbligazione semplice con facoltà alternativa dal lato del creditore/lavoratore” ed implica che «il venir meno della prestazione principale (la reintegra) preclude la possibilità di ottenere in luogo della stessa la prestazione sostitutiva (l’indennità economica)», in dottrina e da taluna giurisprudenza  venne elaborata la tesi della non spettanza dell’indennità  sostitutiva in carenza di “attualità” della reintegra (o dell’ordine di reintegra) [Così Corte di cassazione  21 dicembre 1995, n. 13047 e 4 novembre 2000, n. 14426].

Va subito detto che la prevalenza dei casi decisi in giurisprudenza – implicanti la non “attualità” dell’ordine di reintegra e quindi l’impossibilità da parte del lavoratore di effettuare una rinunzia al bene dell’occupazione con l’opzione per l’alternativa economica – erano costituiti dalla revoca datoriale del licenziamento, nelle more del giudizio di accertamento dell’invalidità del medesimo, seguita da ripresa spontanea del servizio da parte del lavoratore.

Tuttavia non si è mancato in dottrina e talora, isolatamente, anche in giurisprudenza, di operare una ricerca sulle ipotizzate causali addizionali all’avvenuta reintegra spontanea, presunte confliggenti con la nozione di “attualità” (e quindi preclusive dell’ emissione od operatività dell’ordine giudiziale di reintegra). Vennero individuate nelle seguenti: a) nella morte del lavoratore, sopravvenuta nelle more del giudizio; b) nella cessazione totale dell’attività aziendale, sempre sopravvenuta nelle more del giudizio; c) nell’impossibilità sopravvenuta (nelle more del giudizio) della prestazione lavorativa per inidoneità permanente e totale al lavoro del prestatore, non imputabile al datore di lavoro; d) nel raggiungimento, sempre nelle more del giudizio, dei requisiti di maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, al compimento dei 65 anni [Su queste causali s’ intrattengono, Pizzoferrato, Indennità sostitutive della reintegrazione: funzione giuridica e momento genetico, in Riv. it. dir. lav. 1995, II, 398, ed ivi 406 e 409 e Dell’Olio, Reintegrazione nel posto di lavoro e “alternativa” economica, in Giur. cost. 1992, 3153 ed ivi 3157].

Al riguardo va detto con chiarezza che due soltanto sono le causali che “privano di scopo” l’opzione per l’indennità sostitutiva ex articolo 18, 5° comma, Statuto dei lavoratori e determinano la “inattualità” (o non operatività) della reintegra:

1) l’avvenuta, spontanea, ripresa del servizio da parte del lavoratore, nelle more del giudizio, a seguito di revoca o “ravvedimento operoso” del datore di lavoro che abbia riconosciuto l’illegittimità del proprio comportamento espulsivo;

2) la morte sopravvenuta, nelle more, del lavoratore che, nel nostro diritto del lavoro privato, costituisce la sola causale di risoluzione automatica (“ipso iure”) del rapporto medesimo, verificandosi la quale spetteranno agli eredi le mensilità di risarcimento di danno per il licenziamento illegittimo, di cui al 4° comma, articolo 18, decorrenti dalla data dello stesso fino a quella di morte del lavoratore, preclusa restando l’opzione per l’indennità sostitutiva del bene dell’occupazione non più attuale.

3 a) Inesistenza di sopravvenute causali estintive automatiche

Tutte le altre causali che scarsissima dottrina ed estremamente esigua giurisprudenza - nell’errata convinzione che costituissero sopravvenute cause di automatica risoluzione del rapporto di lavoro - hanno ritenuto di accomunare tra quelle determinanti l’inattualità dell’ordine di reintegra (individuate cioè nella sopravvenuta cessazione dell’attività dell’azienda; nell’inidoneità psico-fisica sopravvenuta, per causa non imputabile al datore di lavoro, di riprendere il servizio; nel sopravvenuto raggiungimento dei requisiti di età per la pensione di vecchiaia), non sono affatto causali giuridiche di estinzione automatica di un rapporto di lavoro, ma solo eventi o accadimenti non idonei di per se a precludere l’emissione dell’ordine di reintegra, necessariamente conseguente al riscontro giudiziale di invalidità del licenziamento. Tali eventi sopravvenuti nel corso di un rapporto sospeso e quiescente in attesa della sentenza di annullamento del presunto licenziamento illegittimo, possono - come la Cassazione ha ammesso - essere posti a fondamento per l’adozione di un nuovo licenziamento  valido, in quanto per causale diversa dal licenziamento originario sub iudice, peraltro destinato a spiegare effetti rescissori solo sul rapporto ricostituito dalla sentenza invalidante il licenziamento originario, quindi dopo la data di emissione della stessa.

3 b) La tassatività delle causali risolutorie dei rapporti di lavoro di diritto privato

Il nostro diritto del lavoro privato è caratterizzato - a differenza dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni disciplinati dal Decreto legislativo n. 165/2001 - dalla tipicità e tassatività delle cause di estinzione del rapporto di lavoro [così espressamente Corte di cassazione 17 aprile 2015 n. 7899] che, tra l’altro, escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età, ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici, risultando legittimate solo quelle clausole contrattuali di risoluzione automatica assicuranti al tempo stesso una stabilità convenzionale fino ad un’età massima con sottrazione al datore di lavoro del potere di recedere unilateralmente e discrezionalmente ex art. 2118 codice civile, quando e per quelle categorie di lavoratori cui tale beneficio non sia già assicurato dalle norme sulla stabilità reale.  

Tali causali sono riassumibili in esclusiva nelle seguenti:

1. a) se ad iniziativa del datore di lavoro,

- nel licenziamento per giusta causa e giustificato motivo; nel licenziamento ad nutum dei dirigenti ed ultrasessantenni in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia;

2. b) se ad iniziativa del lavoratore,

 - nelle dimissioni;

3. c) nonché nella risoluzione consensuale, nella morte del lavoratore, nella sopravvenuta inidoneità permanente al lavoro non imputabile al datore di lavoro.

Quindi, come già anticipato, le presunte causali addizionali in precedenza menzionate, rifluiscono soltanto ed esclusivamente in “causali” per una eventuale nuova e legittima manifestazione datoriale estintiva del rapporto di lavoro (licenziamento), e tra queste si colloca la sopravvenuta cessazione dell’attività dell’azienda determinata da decisione datoriale, piuttosto che da caso fortuito o forza maggiore atteggiantesi a causali rescissorie automatiche (quali l’incendio, l’ìnondazione, un imprevedibile e incolpevole provvedimento dell’autorità).

In presenza di tali presunte causali (rectius, accadimenti o eventi fattuali, non giuridicamente connotati), obiettivamente riscontrate nel corso del giudizio di verifica dell’illegittimità del licenziamento originario, il giudice non si può esimere (al riscontro dell’invalidità del licenziamento) dall’emettere un ordine di ripristino ex tunc del rapporto di lavoro con effetto di reintegra. L’ordine di reintegra - si noti bene per l’epoca successiva alla ricostituzione giudiziale ex tunc del rapporto quiescente - una volta disposto, potrà essere reso inoperante dal datore, come già detto, solo mediante una nuova e valida iniziativa datoriale estintiva (licenziamento), la cui giusta causa o giustificato motivo obiettivo, sia strutturata dagli eventi o accadimenti sopravvenuti (cessazione dell’attività aziendale, inidoneità sopravvenuta del lavoratore, non riconducibile a responsabilità datoriale) ovvero tramite recesso ad nutum con preavviso, dispiegabile verso coloro per i quali, nelle more del giudizio, sia venuto meno  il regime della stabilità reale (lavoratori ultrasessantenni che abbiano maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia). Salvo che il lavoratore – com’è presumibile, ben edotto dei termini delle varie situazioni di fatto – non vanifichi egli stesso, con l’antecedente opzione per l’indennità sostitutiva, gli effetti preclusivi della reintegra cui sono indirizzati e finalizzati i “nuovi” e finalmente “validi” provvedimenti estintivi datoriali, che sarebbero stati, comunque, operativi sul rapporto di lavoro ricostituito dopo la sentenza invalidante il primo licenziamento.

Nel nostro stesso senso si è espressa, in precedenza, autorevole dottrina [Dell’ Olio, in Reintegrazione nel posto di lavoro e “alternativa” economica, Giur. cost. 1992, 3153 ed ivi 3157], la quale ha così asserito: «Malgrado la suggestione esercitata dalla configurazione della reintegrazione come prestazione ‘dovuta in via principale’, non è tanto all’impossibilità di questa…quanto all’estinzione del rapporto di lavoro, a sua volta derivante ipso iure, secondo la disciplina generale del lavoro privato, pressoché soltanto dalla morte del prestatore, che deve collegarsi l’estinzione o preclusione anche all’esercizio della facoltà alternativa, anzi ogni pretesa all’indennità. Per contro eventi come il raggiungimento dell’età pensionabile, la perdita dell’idoneità al lavoro, la stessa cessazione dell’impresa, di per sé, legittimano solo il licenziamento, a sua volta non possibile se non dopo la reintegrazione (cfr. Cass. 2.10.1987, n. 7368), cui perciò il lavoratore può sempre preferire l’indennità».

3 c) Il compimento dell’età pensionabile non comporta automatica risoluzione del rapporto, necessitante invece recesso datoriale ad nutum  con preavviso

Da giurisprudenza della Corte di cassazione conforme a quanto da noi sostenuto in precedenza (cfr. Corte di cassazione 23 febbraio 1998, n. 1908, preceduta da Cass. 20.3.1995 n. 3754, seguite, in senso conforme, da Corte di cassazione n. 5635/2006, n. 2582/2007,  n. 2898/2007 ed altre fino alla recente n. 6537/2014) - la prima delle quali cassò una decisione del Tribunale di Crema che aveva ritenuto di limitare il risarcimento del danno, ex articolo 18, 4° comma, alle sole retribuzioni perdute decorrenti dalla data del licenziamento invalido a quella della maturazione dei requisiti di età per la pensione di vecchiaia (raggiunti dal lavoratore nelle more del giudizio) e non già fino alla data della reintegra, sostituita dal lavoratore con opzione per l’indennità economica – si venne ad affermare correttamente che «il compimento dell’età pensionabile, come il possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia (art. 11 l. n. 604/’66), determinano non già l’automatica estinzione del rapporto, ma solo la cessazione del regime di stabilità e della tutela prevista dalla legge richiamata, consentendo il recesso ad nutum (Cass. 6179/’94). Ne consegue che, nel caso in cui tali condizioni si perfezionino nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella della sentenza con cui venga accertata l’insussistenza di una sua idonea giustificazione, non è preclusa l’emanazione del provvedimento di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ex art. 18 S.d.l (che ha il valore di accertamento che il rapporto è continuato inalterato e che sono operative le rispettive obbligazioni), mentre il rapporto di lavoro è suscettibile di essere estinto solo per effetto di un valido (e diverso) atto di recesso (Cass. 3754 del 20.3.’95) che può essere emanato anche nelle more del giudizio».

Nel convenire con il sopracitato principio di diritto, preme sottolineare l’esigenza di una corretta interpretazione dell’enunciazione della Suprema corte in ordine alla legittimata «adozione del nuovo e valido atto di recesso anche nel corso del giudizio». Tale atto, fondato su una sopravvenuta valida causale estintiva (assunto formalmente per giusta causa, giustificato motivo ovvero in forma di recesso ad nutum  - nei confronti degli ultrasessantenni  in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia per i quali è venuto meno ex lege il regime di stabilità reale - sopravvenuta inidoneità permanente al lavoro non imputabile al datore di lavoro), possederà efficacia estintiva del rapporto, come già detto, quando questo rapporto sarà nuovamente in vita, il che si realizzerà solo a seguito e dopo la dichiarazione giudiziale di ripristino del rapporto ex tunc, sostituibile da parte del lavoratore con l’opzione per l’indennità economica delle 15 mensilità. Ma la notifica datoriale al lavoratore, in corso di giudizio, del nuovo licenziamento sempreché stavolta sia fondato su valida causale,  seppure operante solo sul rapporto ricostituito, quindi dopo l’emissione della sentenza invalidante il primo licenziamento illegittimo, non sarà inutile né improduttiva di effetti ma idonea ad arrestare la mora debendi datoriale, quindi a limitare, a beneficio del datore di lavoro, la misura del risarcimento del danno, ex articolo 18, 4° comma, spettante al lavoratore, il cui computo  si dovrà fermare alla data (anteriore) dello spiegamento del nuovo,  valido atto estintivo e non già decorrere (ai fini del calcolo delle mensilità) fino all’epoca dell’emissione dell’ordine di reintegrazione.

Qualora, invece, il datore non si sia avvalso di questa “opportunità”, cioè non abbia disposto, al sopravvenire degli accadimenti innanzi delineati nel corso del giudizio, un nuovo licenziamento, le mensilità di retribuzione globale di fatto dell’indennità risarcitoria spettante al lavoratore saranno tutte quelle maturate dalla data del licenziamento invalido alla data della sentenza che lo ha annullato ovvero alla data dell’antecedente opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra.

In sostanza – salvo le due ipotesi di ripresa spontanea del servizio e di morte del lavoratore, in cui l’ordine di reintegra è privo di scopo per essersi, nel primo caso, ricostituito il rapporto e, nel secondo, validamente risolto per evento naturale sopravvenuto e “fisicamente” estintivo – tutte le altre ipotesi determinanti (secondo un non condiviso orientamento) una presunta automatica non attualità dell’ordine di reintegra, sono del tutto irrilevanti ai fini di impedire al magistrato l’emissione di un atto necessitato dal riscontro di invalidità del recesso originario e che – come ha detto Corte di cassazione n. 1908/’98 – «ha il valore di accertamento che il rapporto è continuato e che sono operative le reciproche obbligazioni». 

3 d) Ancora sulle presunte, sopravvenute causali, giuridicamente inidonee di per se a determinare una riduzione risarcitoria a danno del lavoratore

Si potrà anche opinare che la soluzione sopra illustrata presenta aspetti di “gravosità” per la parte datoriale  – la quale ha tuttavia, in esclusiva, la responsabilità di aver innescato il procedimento giudiziario con lo spiegamento del licenziamento invalido, per cui “ubi commoda, ibi eius et incommoda” – ma la stessa dose di “gravosità” - è stato detto - è insita nell’opzione per l’alternativa economica delle 15 mensilità forfettarie, da parte del lavoratore cui «manchino pochi mesi al sicuro collocamento a riposo» [l’osservazione è di Pera, La novità della disciplina dei licenziamenti, Padova, 1993, 74, che la prospetta come emblematica del “verificarsi di ipotesi aberranti”].

D’altra parte bisogna essere coerenti nel trarre le conseguenze da un costrutto giuridicamente fondato, piuttosto che ipotizzare e tentare di accreditare, a beneficio datoriale diretto o indiretto, soluzioni - apparentemente più equitative – ma assolutamente inappaganti dal lato giuridico.

In giurisprudenza ha tentato di accreditare queste pseudo-soluzioni “mediane” o “equitative”, Corte di cassazione 13 febbraio 1993 n. 1815 (cui adde Corte di cassazione n.13297/2007 e n. 29936/2008, tutte e tre occupatesi dell’evento “cessazione dell’attività dell’azienda”, sopravvenuta nelle more del giudizio di accertamento dell’illegittimità del licenziamento),   la quale - in questa fattispecie - ha statuito, senza farsi carico di argomentare le (poco condivisibili) conclusioni raggiunte, che: « ..qualora nelle more del giudizio promosso dal lavoratore per la declaratoria d’illegittimità del licenziamento in precedenza intimatogli e per ottenere la reintegrazione ed il risarcimento del danno, sopravvenga un accadimento che renda impossibile la prestazione per causa non imputabile ad una delle parti ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c. (nella specie per avvenuta cessazione totale dell’attività aziendale), il giudice che accerti l’illegittimità del pregresso licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno con riguardo al periodo compreso fra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto».

Invero, come già evidenziato, il vizio della decisione (e di quelle altre due tanto similari quanto uniche nel panorama giurisprudenziale di legittimità), risiede nell’affermazione apodittica secondo cui la cessazione dell’attività dell’azienda su determinazione datoriale (legittimata dall’art. 41 Cost.) costituisce ipso iure una “sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto”, automaticamente operativa anche senza che su di essa il datore abbia fondato un “nuovo” e “valido” atto di recesso per giustificato motivo oggettivo, idoneo ad arrestare alla data di adozione del provvedimento la mora debendi datoriale,  limitando così la misura dell’indennità risarcitoria.

Conseguentemente, atteso che la presunta causale risolutoria ex se, si presenta del tutto estranea al novero delle rigide e tassative causali estintive del rapporto di lavoro privato  - che, come ha ricordato, a più riprese, la Corte di Cassazione (cfr. n. 1758/1999), sono soltanto: a) il licenziamento (per giusta causa, per giustificato motivo o ad nutum), b) le dimissioni; c) l’estinzione per muto consenso; d) lo spirare dei termini per la ripresa del servizio previsti dall’articolo 18, 5° comma., Legge n. 300/70 - la cessazione d’attività dell’azienda è inidonea, di per se stessa,  a ingenerare effetti riduttivi sull’indennità risarcitoria.

4. La maturazione dei requisiti per la fruizione della pensione di vecchiaia (seguita dal suo effettivo godimento nel corso del giudizio), non è configurabile quale causa sopravvenuta di risoluzione del rapporto quiescente, con pretesi effetti riduttivi dell’indennità risarcitoria e preclusivi dell’opzione per le 15 mensilità

Altra tematica su cui far chiarezza è quella del tentativo - praticato in giudizio dalle aziende che abbiano subito la sentenza di invalidazione del licenziamento ingiustificato -  di limitare il risarcimento di danno verso i lavoratori licenziati che,  per i lunghi tempi processuali, abbiano, nel corso del giudizio di accertamento dell’illegittimità del licenziamento, maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia ai 65 anni e ne siano entrati in godimento per concessione da parte dell’Inps o di altro ente erogatore.

Due sono state le strade praticate dalle aziende convenute in giudizio: a) quella di chiedere al giudice di poter portare in detrazione dall’indennità risarcitoria i ratei della pensione percepiti dall’ultrasessantenne, adducendo la compensatio lucri cum damno, per asserita riconducibilità degli stessi nell’aliunde perceptum, e b) quello di far arrestare le mensilità dell’indennità risarcitoria alla data del raggiungimento dei 65 anni, accompagnato dalla fruizione dei ratei di pensione corrisposti dall’ente erogatore dei trattamenti pensionistici.

La pretesa di cui al punto a), è stata  dichiarata infondata da numerosissime decisioni della Cassazione, tanto da strutturare un orientamento oramai consolidato.  La maturazione del diritto a pensione - hanno confermato, ex multis, Corte di cassazione n. 9992/2009 e n. 14778/2008 - non costituisce di per sé causa di cessazione del rapporto, in mancanza dell’esercizio da parte aziendale del diritto di recesso ad nutum ex articolo 2118 codice civile, con preavviso, consentito dall’essere venuto meno, per gli ultra sessantacinquenni, il regime della legislazione vincolistica di cui alla Legge n. 604/66 (nel testo modificato dalla legge n. 108/1990).

La Corte di cassazione ha  ricordato che: «le Sezioni Unite, con sentenza n. 12194/2002, - risolvendo il contrasto di giurisprudenza insorto sulla questione concernente la possibilità di una riduzione nel senso summenzionato - hanno, infatti, affermato il principio per cui, in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo a norma della L. n. 300 del 1970, art. 18, commisurato alle retribuzioni perse a seguito del licenziamento e fino alla riammissione in servizio, non debba essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della “compensatio lucri cum damno”. Tale “compensatio”, d’altra parte, non può configurarsi neanche allorché, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di lavoro, l’ammissione al trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività, né allorché il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col danno, e cioè come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore. Il cennato principio è stato successivamente condiviso da Cass. nn. 2529/2003 e 14505/2003 e merita di essere anche qui confermato: sicché deve escludersi che, nella specie, possa operare la “compensatio” tra le somme dovute dal datore di lavoro e le somme percepite dall’ente previdenziale a titolo di pensione così come erroneamente disposto nella sentenza impugnata [(salvo, ovviamente, azione che può essere esperita (ove ne ricorrano i presupposti) in diverso giudizio dall’ente previdenziale per il recupero di quanto dovutogli per effetto dell’applicazione della normativa sulla cumulabilità parziale della retribuzione del lavoratore dipendente con la pensione di vecchiaia)]».

4 a) L’ insottraibilità, quale aliunde perceptum, dei ratei pensionistici dall’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore

Ha disposto poi, nello stesso senso, Corte di cassazione 14/6/2007 n. 13871, che i ratei di pensione percepiti «non possono configurarsi come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore detraibile dall’ammontare del risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro, in quanto la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento, facendo venir meno il presupposto del pensionamento, travolge ex tunc lo stesso diritto dell’assicurato alla prestazione previdenziale e lo espone all’azione di ripetizione dell’indebito da parte del soggetto erogatore della pensione (cfr. S.U. n. 12194 del 2002, Cass. n. 1786 del 2003, Cass. n. 2529 del 2003, Cass. n. 11758 del 2003, Cass. n. 11134 del 2004, Cass. n, 2406 del 2004, ed altre conformi)».

Ed ancora è stato incisivamente affermato dalla recente Corte di cassazione 28/1/2014 n. 1725 che: «Se allora conseguenza diretta ed immediata della pronuncia di illegittimità del licenziamento (id est, come nello specifico, della declaratoria di nullità della clausola contrattuale risolutiva ai 65 anni) é il venir meno del titolo in base al quale l’appellato ha percepito il trattamento pensionistico, essendo stato ripristinato il rapporto lavorativo dalla cui cessazione detto trattamento aveva avuto origine, qualora tale trattamento sia divenuto una attribuzione sine titulo, il lavoratore reintegrato viene a trovarsi, relativamente ai ratei percepiti, nella posizione di un qualsiasi creditore apparente, esposto in quanto tale ad un’azione di ripetizione dell’indebito da parte dell’ente previdenziale. Così stando le cose, poco importa se al momento della pronuncia non può esservi ancora certezza della ripetizione da parte dell’ente interessato, dovendo il giudice porsi nell’ottica del rispetto della legge, secondo la quale alla pronuncia di inefficacia del licenziamento ed al conseguente ripristino del rapporto di lavoro illegittimamente interrotto non può che conseguire l’obbligo giuridico, da parte dell’istituto previdenziale erogatore, di recuperare una prestazione pensionistica divenuta ormai indebita perché priva di titolo.

É in questa prospettiva che deve escludersi la possibilità di detrarre dal risarcimento del danno il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore, non potendo ritenersi tale attribuzione acquisita, se non in modo apparente e del tutto precario, al suo patrimonio».

Aggiunge, ancora in senso conforme, Corte di cassazione 25/1/2008 n. 1670, che: «la sentenza che dichiari illegittimo il licenziamento ricostituisce con effetto retroattivo la continuità giuridica del rapporto di lavoro, sicché questo deve ritenersi mai interrotto (cfr. Cass. n. 14426/2000, Cass. n. 10515/1995, in particolare la motivazione della sentenza delle S.U. n. 12194/2002, resa in tema di indebitum perceptum e di compensatio lucri cum damno, dalla quale si evince che “la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione”). A nulla rileva in senso contrario che dopo il licenziamento non sia stata effettuata alcuna prestazione lavorativa subordinata, atteso che il recesso illegittimo comporta il rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione ma non estingue il rapporto. Né importa che il lavoratore reintegrato con sentenza passata in giudicato abbia optato per l’indennità sostitutiva di cui al quinto comma dell’articolo 18, o che la retribuzione globale di fatto costituisca mero parametro per la determinazione del risarcimento piuttosto che un corrispettivo sinallagmatico del lavoro effettivamente reso. Ciò che importa ai fini del divieto di cumulo tra pensione e retribuzione é la circostanza che il rapporto di lavoro subordinato sia da ritenere valido ed efficace al momento della domanda di pensionamento, restando irrilevante che sia mancata la prestazione per fatto addebitabile al datore di lavoro e che il lavoratore ottenga al posto della retribuzione un risarcimento a questa commisurato. Il quesito posto dal ricorrente va dunque risolto nel senso che a norma della Legge 30 aprile 1969, n. 153, articolo 22, il diritto alla pensione di anzianità (come pure per quella di vecchiaia, per entrambe le quali è richiesto il presupposto della inesistenza, in senso giuridico, di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato in atto, evidenziata insussistente nel caso di ripristino retroattivo, ndr) é escluso per coloro che a seguito di sentenza dichiarativa della illegittimità del licenziamento si vedano ricostituito ex tunc il rapporto di lavoro, pur in assenza di prestazione lavorativa e di una retribuzione in senso proprio, contando la continuità giuridica del rapporto di lavoro piuttosto che la prestazione di fatto, resa impossibile dall’illegittimo rifiuto del datore di lavoro».

4 b) Il raggiungimento dell’età pensionabile, riconferendo al datore la libera recedibilità, gli consente soltanto la sostituzione di un nuovo e valido licenziamento, al vecchio illegittimo, con effetti riduttivi dell’indennità risarcitoria

Infine Corte di cassazione 20/3/2014 n. 6537, ribadisce il sopra riferito stabile orientamento, asserendo che: «Poiché il compimento dell’età pensionabile, come il possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia (art. 11 legge n. 604/66), determinano non già l’automatica estinzione del rapporto, ma solo la cessazione del regime di stabilità e della tutela prevista dalla legge sopra richiamata, consentendo il recesso ad nutum, deve ribadirsi il principio secondo cui “nel caso in cui tali condizioni si perfezionino nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella della sentenza con cui venga accertata l’insussistenza di una sua idonea giustificazione, non è preclusa l’emanazione del provvedimento di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ex art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 (che ha il valore di un accertamento che il rapporto è continuato inalterato e che sono operative le rispettive reciproche obbligazioni), mentre il rapporto di lavoro è suscettibile di essere estinto solo per effetto di un valido (e diverso) atto di recesso (Cass. n. 3754 del 20 marzo 1995), che ben può essere emanato anche nelle more del giudizio” (cfr. Cass. n 1908/1998 nonché Cass. n 1462/2012 circa l’illegittimità della limitazione del risarcimento ex art 18 Stat. Lav. fino al compimento del 65° anno di età)».

Quanto alla pretesa datoriale di cui al punto b), di arrestare - alla data del pensionamento di vecchiaia (come d’anzianità) per raggiungimento dei 65 anni - la sommatoria delle mensilità costituenti l’indennità risarcitoria e di precludere altresì la spettanza delle 15 mensilità conseguenti ad opzione del lavoratore alternativa alla reintegra, va evidenziato come la sua erroneità emerga in tutta evidenza dal sopra riferito consolidato orientamento della Corte di cassazione, reso in relazione  alla pretesa (anch’essa infondata) di detrarre, come aliunde perceptum o per compensazione irrituale,  i ratei di pensione percepiti dal lavoratore nelle more dell’emanazione della sentenza di annullamento del licenziamento invalido.

É abbastanza frequente che i tempi di durata di un giudizio comportino, nelle more della pronuncia della sentenza, il compimento da parte del lavoratore ricorrente dei 65 anni e, quindi, avendo maturato i requisiti pensionistici, quest’ultimo presenti domanda all’ente erogatore di beneficiare della pensione, i cui ratei sostituiscono - per motivi di sussistenza personale e familiare - il carente reddito da lavoro.

Come insegna la Suprema corte, al sopraggiungere della sentenza di annullamento del licenziamento e, quindi, dell’avvenuta ricostituzione della continuità del rapporto sospeso, la dichiarazione giudiziale di illegittimità travolge ex tunc il diritto al pensionamento; ne deriva, quindi, che la domanda e la concessione della pensione risulta  tanquam non esset dal punto di vista giuridico, ed i ratei nelle more percepiti risultano acquisiti sine titulo e, pertanto, ripetibili dall’ente erogatore (Inps o altro) per indebito oggettivo.

Stando così le cose, è del tutto pacifico che - per effetto della cancellazione, ad opera della sentenza dichiarativa della continuità del rapporto sospeso, degli atti (cioè a dire la domanda di pensione) compiuti dal prestatore nella fase di sospensione del rapporto (tesi a sopperire ad un reddito di lavoro carente per licenziamento invalido) - a detta domanda non è attribuibile alcuna idoneità ad essere considerata quale sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto; sia perché non rientra tra le tassative causali di risoluzione dei rapporti di lavoro privati sia perché iniziativa assunta dal prestatore nel corso di un rapporto non estinto ma quiescente, implicante la mancanza del presupposto pensionistico della sua cessazione definitiva. Iniziativa, peraltro, determinata non già da scelta volontaria di cessare l’attività lavorativa ma indotta dalla necessità di acquisire, per ragioni di sussistenza economica, un introito monetario in ragione dell’esser venuto meno il reddito da lavoro, per evidente colpa datoriale. Talché ricostituito dalla sentenza ex tunc il rapporto quiescente, la  precedente domanda di fruizione della pensione  si vanifica e si dissolve per evidenziata carenza della cessazione di un qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, che la legge previdenziale pone a presupposto indefettibile per un valido pensionamento (di vecchiaia come d’anzianità), con la conseguenza addizionale della restituzione, a richiesta dell’ente previdenziale, dei ratei corrisposti, venuti a risultare indebiti.

5. Conclusioni

Esigue risultano, nel panorama giurisprudenziale, le decisioni [eminentemente di merito, cfr. la recente Corte appello di Bari,  14 aprile 2016 n. 977, convenuto ex Banco di Napoli, inedita allo stato] che hanno conferito - ad una domanda di pensione  del licenziato senza stipendio presentata, al compimento dei 65 anni, all’ente erogatore nel corso di un rapporto sospeso o quiescente in attesa della sentenza di annullamento del licenziamento illegittimo - l’effetto di decurtare la misura dell’indennità risarcitoria e di negare la spettanza delle cd. 15 mensilità. In ogni caso quelle decisioni sono incorse in un errore di diritto, pregiudizievole per il lavoratore, di cui quest’ultimo potrà richiedere la correzione in sede di legittimità. Ben diverso sarebbe stato il caso in cui, nelle more del giudizio, il lavoratore avesse notificato al datore un atto di dimissioni, cui non può assolutamente essere equiparata (come sembrerebbe abbiano fatto le criticate sentenze) una domanda di pensione diretta ad un soggetto terzo, quale è l’ente erogatore dei trattamenti pensionistici.

Peraltro, qualora si convenisse con l’erronea attribuzione della qualificazione di “sopravvenuta causale estintiva” per incompatibilità, ad una domanda di pensione (seguita dalla percezione dei ratei accreditati dall’ente previdenziale), si legittimerebbe, a danno del lavoratore, un doppio pregiudizio del tutto ingiustificato: quello, a) della limitazione dell’indennità risarcitoria alla data della domanda di pensione (e non già fino alla data della sentenza contenente la dichiarazione di invalidità del licenziamento, ovvero fino alla data dell’opzione per le 15 mensilità) congiunta alla preclusione per l’ottenimento delle 15 mensilità eventualmente optate, nonché quello, b) del recupero da parte dell’ente previdenziale dei ratei di pensione erogati e indebitamente percepiti per assenza del presupposto, legislativamente preteso e condizionante, della cessazione del rapporto (insussistente nella fattispecie).

Pressoché in senso analogo, seppure in tema di indetraibilità, dall’indennità risarcitoria del licenziamento illegittimo, delle indennità previdenziali (indennità di mobilità; indennità di disoccupazione, ecc.), si è espressa Corte di cassazione 29.8.2006 n. 18687, statuendo: «È decisiva in proposito la considerazione, svolta dalla giurisprudenza più recente, che le indennità previdenziali (tra cui sono riconducibili, per analogia, i ratei di pensione, ndr) una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti...Ritenere altrimenti (cioè a dire considerarle detraibili quali aliunde perceptum, ndr) significa esporre il lavoratore ad una duplice perdita, quella conseguente alla detrazione dell’importo dell’indennità (previdenziale, come dei ratei di pensione percepiti, ndr) dal risarcimento che gli spetta per la mancata reintegrazione a seguito della pronunzia che ha riconosciuto l’illegittimità del licenziamento, e quella della restituzione della somma all’istituto previdenziale».

Conclusivamente, a seguito della sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento - che ha travolto e posto nel nulla la domanda di pensione e il relativo trattamento pensionistico percepito indebitamente nelle more del giudizio, in mancanza del requisito della cessazione definitiva del rapporto che ne era il presupposto per una valida concessione, giacché la normativa previdenziale  (articolo 22, Legge n. 153/1969) prevede che i richiedenti “non prestino attività lavorativa subordinata alla data della presentazione della domanda di pensione” - il lavoratore avrà diritto all’indennità risarcitoria (mensilità della retribuzione di fatto) decorrente dalla data del licenziamento alla data dell’opzione per le 15 mensilità, nonché a dette mensilità che strutturano forfettariamente l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Negare tali spettanze significa  sottrarre il datore di lavoro dall’integrale trattamento sanzionatorio che la legge (articolo 18 Statuto dei lavoratori) gli accolla, anche in forma punitiva per l’atto illegittimo compiuto. Al tempo stesso significa ridurre indebitamente l’integrale trattamento risarcitorio (indennità risarcitoria spettante dalla data del licenziamento a quella della sentenza nonché le 15 mensilità optate) di cui deve beneficiare il lavoratore ingiustamente espulso dall’azienda; significa altresì obliterare i principi dell’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui «la pronuncia di annullamento del licenziamento adottato nell’area della stabilità reale...prescinde da ogni valutazione successiva alla data del licenziamento e al lavoratore licenziato spetta il diritto di andare indenne da tutte le conseguenze negative dell’illegittimo provvedimento risolutivo del rapporto di lavoro» (cfr. per tutte Corte di cassazione n. 6537/2014 e precedenti conformi).