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La responsabilità amministrativa degli enti: prospettive di mediazione penale o restorative justice?

La responsabilità amministrativa degli enti: prospettive di mediazione penale o restorative justice?
La responsabilità amministrativa degli enti: prospettive di mediazione penale o restorative justice?

Abstract: l’elaborato vuole far luce sul carattere sui generis della responsabilità amministrativa dipendente dal reato. Nello specifico si va ad inquadrare la normativa nell’ambito giuridico della Restorative Justice: una forma alternativa di giustizia, ove il reato viene considerato, non tanto come violazione delle norme penali, sulla quale lo Stato vanta la sua pretesa, quanto in termini di danno alla persona offesa da risarcire. Gli interpreti hanno provato a qualificare la normativa nel contesto della mediazione penale, ma tale inquadramento non ha raggiunto il risultato sperato per  una serie di ragioni che verranno affrontate in modo dettagliato e soprattutto perché in questo procedimento non è ammessa la costituzione di parte civile.

 

Con il Decreto Legislativo 231/2001, l’ordinamento fa dietro front dal brocardo latino “societas delinquere non potest”, andando a prevedere un’ipotesi di responsabilità delle persone giuridiche “mista”: la responsabilità amministrativa dipendente da reato.

La responsabilità dell’ente si determina nei casi in cui venga commesso uno dei reati elencati nel Decreto Legislativo 231/2001 e tale illecito sia stato posto in essere da un soggetto appartenente all’ente, in posizione apicale o dipendente nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica.

Nel presente paragrafo non ci soffermeremo sugli aspetti sostanziali e processuali della responsabilità amministrativa dipendente da reato, ma esclusivamente su quelle peculiarità del processo agli enti che permettono di individuare un fil rouge con il processo minorile e, soprattutto, con il processo davanti al giudice di pace: l’attenzione verso forme alternative di giustizia e l’uso di strumenti apparenti alla Restorative Justice.

Per poter comprendere appieno la struttura del procedimento nei confronti delle persone giuridiche non si può prescindere dagli scopi che hanno spinto il legislatore italiano all’introduzione della normativa 231/2000. La finalità legislativa non è la punizione dell’ente, anzi la pena deve fungere da deterrente per ottenere il massimo rendimento: il ritorno dell’ente nei parametri della legalità. Proprio per questo la normativa permette alla persona giuridica, in tutte le fasi processuali, di attivarsi per contrastare il reato e fuoriuscire dal processo indenne.

È doveroso partire dal dettato dell’articolo 6, in cui si stabilisce che, anche in presenza di un reato commesso da persone in posizione apicale, l’ente non risponde se riesce a dimostrare di aver adottato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire i reati della specie di quelli verificatosi e di aver predisposto un organo di vigilanza, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, con il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli organizzativi.

È sufficiente, quindi, che l’ente dia la prova dell’adozione e dell’efficace attuazione di un modello organizzativo, che rispetti i canoni del comma 2 dell’articolo 6, e la prova del rispetto dell’obbligo di vigilanza per impedire la prosecuzione del procedimento nei confronti dell’ente; perché sono i presupposti per ritenere che il soggetto collettivo abbia perseguito la legalità e che la commissione del reato sia dipesa dall’elusione fraudolenta di tale modello, ad opera della persona fisica. Anche l’articolo 7, in relazione al reato commesso da un dipendente, individua, come prova liberatoria, l’adozione del modello organizzativo di gestione e controllo, perché è la misura idonea a “garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”.

Vi è piena convergenza fra l’articolo 6, in relazione al reato commesso dai soggetti in posizione apicale, e l’articolo 7, in relazione all’illecito commesso dai dipendenti dell’impresa, con l’unica divergenza in merito all’onere probatorio. Nel caso dell’articolo 6, l’onere della prova è sicuramente in capo all’ente, perché espressamente stabilito dalla norma con consistente violazione della presunzione di innocenza e del diritto di difesa; nel caso dell’articolo 7, invece, non essendovi alcun chiaro riferimento nel disposto legislativo, è discusso se la prova liberatoria debba essere presentata dall’imputato o dalla Pubblica Accusa, ma la dottrina maggioritaria sostiene questa seconda ipotesi.

Se gli articoli 6 e 7 richiedono l’attivazione dell’ente ancor prima della commissione del reato, gli articoli 12 e 17 permettono alla persona giuridica di tutelarsi successivamente alla commissione dell’illecito. L’articolo 12 prevede la riduzione della sanzione pecuniaria, se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso e se è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire i delitti della specie di quelli verificatesi. L’articolo 17, invece, opera sul piano delle sanzioni interdittive, che non verranno applicate nei casi in cui l’ente abbia provveduto alla riparazione delle conseguenze del reato.

Alla riparazione concorrono tre condizioni: l’ente deve aver risarcito il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose ovvero deve essersi adoperato in tal senso; deve aver eliminato le carenze organizzative che hanno permesso la commissione del reato, mediante l’adozione di un modello organizzativo autonomo; da ultimo l’ente deve aver messo a disposizione il profitto conseguito, ai fini della confisca.

Quest’ultima disposizione ricorda l’articolo 35 del Decreto Legislativo 274/2000, a norma del quale, come noto il reato verrà dichiarato estinto, se l’imputato dimostra di aver riparato il danno cagionato, mediante il risarcimento o le restituzioni, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose dell’illecito. Vi è, però, una differenza con la disposizione del processo agli enti: non si ha l’estinzione del reato, ma l’esclusione dell’applicabilità delle sanzioni interdittive, che sono sicuramente le più temute dal soggetto collettivo.

Proprio come stabilito dall’articolo 35, anche il Decreto Legislativo 231/2001, prevede, all’articolo 65, la possibilità di sospendere il procedimento penale, se la persona giuridica chiede di provvedere a norma dell’articolo 17 e dimostri di essere stata nell’impossibilità di provvedere alle condotte riparatorie in precedenza.

L’articolo 49, invece, opera in relazione al procedimento cautelare, consentendo la possibilità di sospendere le misure cautelari, coincidenti con le misure interdittive, quando l’ente imputato si è attivato per realizzare gli adempimenti richiesti dall’articolo 17. Sempre in relazione alle misure cautelari, l’articolo 68 dispone la cessazione delle stesse, quando il giudice pronuncia la sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente, a norma dell’articolo 66, e la sentenza di non doversi procedere, a norma dell’articolo 67; poiché non sussistono più i gravi indizi di responsabilità ovvero il pericolo della commissione degli illeciti della stessa indole di quello per cui si è proceduto, quali presupposti per l’applicazione delle misure cautelari.

Dall’esame degli istituti si può facilmente comprendere come il legislatore abbia voluto facilitare la rapida fuoriuscita della persona giuridica dal contesto penalistico e come quest’intenzione sia ancora più pregante rispetto al procedimento dinanzi al giudice di pace. Questa politica legislativa può essere ricondotta nell’alveo della Restorative Justice, ovvero di quella forma di giustizia che considera il reato, non tanto come violazione delle norme penali quanto in termini di danno alla persona offesa che va risarcito. Nel momento in cui l’imputato si attiva per rimediare all’illecito commesso, viene meno la pretesa punitiva dello Stato, che rinuncerà alla prosecuzione del procedimento penale.

La normativa, nel parlare di riparazione del danno, si concentra soprattutto nell’adozione di un modello organizzativo idoneo a prevenire i reati della specie di quelli commessi e nell’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose dell’illecito.

Se in merito alle condotte riparatorie poste in essere dinanzi al giudice di pace, la persona offesa viene quantomeno sentita; nell’articolo 17 non viene dato alcun rilievo a quest’ultima. Il motivo del “disinteresse” verso la vittima degli illeciti amministrativi commessi dall’ente va ricercata nell’assenza di una norma, nel Decreto Legislativo 231/2001, che regolamenti la costituzione di parte civile. Questa questione è stata affrontata da dottrina e giurisprudenza. Una prima tesi dottrinale, anche se minoritaria, facendo rinvio all’articolo 34 sull’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura penale “in quanto compatibili” e sostenendo la natura penalistica dell’illecito amministrativo, ritiene possibile la costituzione di parte civile, a norma dell’articolo 185 Codice Penale e dell’articolo 74 Codice di Procedura Penale. La dottrina maggioritaria, invece, esclude tale possibilità, perché non sarebbero ipotizzabili danni ulteriori rispetto a quelli già prodotti dal reato, riconducibili in via autonoma all’illecito attribuito al soggetto collettivo. Ed, inoltre, perché il danno che è chiamato a risarcire, a norma degli articoli 12 e 17, è proprio quello riconducibile al reato in senso stretto commesso dalla persona fisica. Quanto alla giurisprudenza, la Corte di Cassazione (Sentenza n. 2251 del 5 ottobre 2010), la Corte Costituzionale (Sentenza n. 210 del 9-18 luglio 2014) e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sentenza del 12 luglio 2012 C-79/11) hanno assunto una posizione preclusiva per la costituzione di parte civile.

Da quanto sopra esposto, si può desumere che difficilmente il giudice potrà disporre un contatto fra le parti in conflitto ed è per questo che, relativamente al processo agli enti, si può parlare di giustizia riparativa, ma mai di mediazione. Questo è solo uno di molti altri motivi che potrebbero essere sollevati per negare la possibilità di istaurare l’attività mediatoria, come ad esempio la necessità di individuare una persona fisica, che possa essere riconosciuta come autore di reato in nome e per conto dell’ente. Certamente la normativa 231/2001, individua quale imputato il rappresentante legale della persona giuridica, ma non essendo il reale autore di reato, va considerato il rischio di un disequilibrio. La vittima potrebbe, infatti, non riconoscere nel rappresentante dell’ente il soggetto a cui indirizzare la comunicazione della propria esperienza di vittimizzazione e sul rappresentante il racconto avrà un impatto più modesto, perché non è l’autore materiale del reato. Né è ragionevole aspettarsi un effetto di responsabilizzazione o di deterrenza nei confronti dell’ente connesso al riconoscimento del danno. Inoltre risulta particolarmente difficoltoso convincere l’ente a parteciparvi, perché, anche nell’ottica di costi-benefici, la persona giuridica difficilmente avrà interesse ad attivare la mediazione, quando può godere nelle norme processuali che gli garantiscono una rapida fuoriuscita dal processo, mediante le condotte riparatorie.

Abstract: l’elaborato vuole far luce sul carattere sui generis della responsabilità amministrativa dipendente dal reato. Nello specifico si va ad inquadrare la normativa nell’ambito giuridico della Restorative Justice: una forma alternativa di giustizia, ove il reato viene considerato, non tanto come violazione delle norme penali, sulla quale lo Stato vanta la sua pretesa, quanto in termini di danno alla persona offesa da risarcire. Gli interpreti hanno provato a qualificare la normativa nel contesto della mediazione penale, ma tale inquadramento non ha raggiunto il risultato sperato per  una serie di ragioni che verranno affrontate in modo dettagliato e soprattutto perché in questo procedimento non è ammessa la costituzione di parte civile.

 

Con il Decreto Legislativo 231/2001, l’ordinamento fa dietro front dal brocardo latino “societas delinquere non potest”, andando a prevedere un’ipotesi di responsabilità delle persone giuridiche “mista”: la responsabilità amministrativa dipendente da reato.

La responsabilità dell’ente si determina nei casi in cui venga commesso uno dei reati elencati nel Decreto Legislativo 231/2001 e tale illecito sia stato posto in essere da un soggetto appartenente all’ente, in posizione apicale o dipendente nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica.

Nel presente paragrafo non ci soffermeremo sugli aspetti sostanziali e processuali della responsabilità amministrativa dipendente da reato, ma esclusivamente su quelle peculiarità del processo agli enti che permettono di individuare un fil rouge con il processo minorile e, soprattutto, con il processo davanti al giudice di pace: l’attenzione verso forme alternative di giustizia e l’uso di strumenti apparenti alla Restorative Justice.

Per poter comprendere appieno la struttura del procedimento nei confronti delle persone giuridiche non si può prescindere dagli scopi che hanno spinto il legislatore italiano all’introduzione della normativa 231/2000. La finalità legislativa non è la punizione dell’ente, anzi la pena deve fungere da deterrente per ottenere il massimo rendimento: il ritorno dell’ente nei parametri della legalità. Proprio per questo la normativa permette alla persona giuridica, in tutte le fasi processuali, di attivarsi per contrastare il reato e fuoriuscire dal processo indenne.

È doveroso partire dal dettato dell’articolo 6, in cui si stabilisce che, anche in presenza di un reato commesso da persone in posizione apicale, l’ente non risponde se riesce a dimostrare di aver adottato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire i reati della specie di quelli verificatosi e di aver predisposto un organo di vigilanza, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, con il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli organizzativi.

È sufficiente, quindi, che l’ente dia la prova dell’adozione e dell’efficace attuazione di un modello organizzativo, che rispetti i canoni del comma 2 dell’articolo 6, e la prova del rispetto dell’obbligo di vigilanza per impedire la prosecuzione del procedimento nei confronti dell’ente; perché sono i presupposti per ritenere che il soggetto collettivo abbia perseguito la legalità e che la commissione del reato sia dipesa dall’elusione fraudolenta di tale modello, ad opera della persona fisica. Anche l’articolo 7, in relazione al reato commesso da un dipendente, individua, come prova liberatoria, l’adozione del modello organizzativo di gestione e controllo, perché è la misura idonea a “garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”.

Vi è piena convergenza fra l’articolo 6, in relazione al reato commesso dai soggetti in posizione apicale, e l’articolo 7, in relazione all’illecito commesso dai dipendenti dell’impresa, con l’unica divergenza in merito all’onere probatorio. Nel caso dell’articolo 6, l’onere della prova è sicuramente in capo all’ente, perché espressamente stabilito dalla norma con consistente violazione della presunzione di innocenza e del diritto di difesa; nel caso dell’articolo 7, invece, non essendovi alcun chiaro riferimento nel disposto legislativo, è discusso se la prova liberatoria debba essere presentata dall’imputato o dalla Pubblica Accusa, ma la dottrina maggioritaria sostiene questa seconda ipotesi.

Se gli articoli 6 e 7 richiedono l’attivazione dell’ente ancor prima della commissione del reato, gli articoli 12 e 17 permettono alla persona giuridica di tutelarsi successivamente alla commissione dell’illecito. L’articolo 12 prevede la riduzione della sanzione pecuniaria, se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso e se è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire i delitti della specie di quelli verificatesi. L’articolo 17, invece, opera sul piano delle sanzioni interdittive, che non verranno applicate nei casi in cui l’ente abbia provveduto alla riparazione delle conseguenze del reato.

Alla riparazione concorrono tre condizioni: l’ente deve aver risarcito il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose ovvero deve essersi adoperato in tal senso; deve aver eliminato le carenze organizzative che hanno permesso la commissione del reato, mediante l’adozione di un modello organizzativo autonomo; da ultimo l’ente deve aver messo a disposizione il profitto conseguito, ai fini della confisca.

Quest’ultima disposizione ricorda l’articolo 35 del Decreto Legislativo 274/2000, a norma del quale, come noto il reato verrà dichiarato estinto, se l’imputato dimostra di aver riparato il danno cagionato, mediante il risarcimento o le restituzioni, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose dell’illecito. Vi è, però, una differenza con la disposizione del processo agli enti: non si ha l’estinzione del reato, ma l’esclusione dell’applicabilità delle sanzioni interdittive, che sono sicuramente le più temute dal soggetto collettivo.

Proprio come stabilito dall’articolo 35, anche il Decreto Legislativo 231/2001, prevede, all’articolo 65, la possibilità di sospendere il procedimento penale, se la persona giuridica chiede di provvedere a norma dell’articolo 17 e dimostri di essere stata nell’impossibilità di provvedere alle condotte riparatorie in precedenza.

L’articolo 49, invece, opera in relazione al procedimento cautelare, consentendo la possibilità di sospendere le misure cautelari, coincidenti con le misure interdittive, quando l’ente imputato si è attivato per realizzare gli adempimenti richiesti dall’articolo 17. Sempre in relazione alle misure cautelari, l’articolo 68 dispone la cessazione delle stesse, quando il giudice pronuncia la sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente, a norma dell’articolo 66, e la sentenza di non doversi procedere, a norma dell’articolo 67; poiché non sussistono più i gravi indizi di responsabilità ovvero il pericolo della commissione degli illeciti della stessa indole di quello per cui si è proceduto, quali presupposti per l’applicazione delle misure cautelari.

Dall’esame degli istituti si può facilmente comprendere come il legislatore abbia voluto facilitare la rapida fuoriuscita della persona giuridica dal contesto penalistico e come quest’intenzione sia ancora più pregante rispetto al procedimento dinanzi al giudice di pace. Questa politica legislativa può essere ricondotta nell’alveo della Restorative Justice, ovvero di quella forma di giustizia che considera il reato, non tanto come violazione delle norme penali quanto in termini di danno alla persona offesa che va risarcito. Nel momento in cui l’imputato si attiva per rimediare all’illecito commesso, viene meno la pretesa punitiva dello Stato, che rinuncerà alla prosecuzione del procedimento penale.

La normativa, nel parlare di riparazione del danno, si concentra soprattutto nell’adozione di un modello organizzativo idoneo a prevenire i reati della specie di quelli commessi e nell’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose dell’illecito.

Se in merito alle condotte riparatorie poste in essere dinanzi al giudice di pace, la persona offesa viene quantomeno sentita; nell’articolo 17 non viene dato alcun rilievo a quest’ultima. Il motivo del “disinteresse” verso la vittima degli illeciti amministrativi commessi dall’ente va ricercata nell’assenza di una norma, nel Decreto Legislativo 231/2001, che regolamenti la costituzione di parte civile. Questa questione è stata affrontata da dottrina e giurisprudenza. Una prima tesi dottrinale, anche se minoritaria, facendo rinvio all’articolo 34 sull’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura penale “in quanto compatibili” e sostenendo la natura penalistica dell’illecito amministrativo, ritiene possibile la costituzione di parte civile, a norma dell’articolo 185 Codice Penale e dell’articolo 74 Codice di Procedura Penale. La dottrina maggioritaria, invece, esclude tale possibilità, perché non sarebbero ipotizzabili danni ulteriori rispetto a quelli già prodotti dal reato, riconducibili in via autonoma all’illecito attribuito al soggetto collettivo. Ed, inoltre, perché il danno che è chiamato a risarcire, a norma degli articoli 12 e 17, è proprio quello riconducibile al reato in senso stretto commesso dalla persona fisica. Quanto alla giurisprudenza, la Corte di Cassazione (Sentenza n. 2251 del 5 ottobre 2010), la Corte Costituzionale (Sentenza n. 210 del 9-18 luglio 2014) e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sentenza del 12 luglio 2012 C-79/11) hanno assunto una posizione preclusiva per la costituzione di parte civile.

Da quanto sopra esposto, si può desumere che difficilmente il giudice potrà disporre un contatto fra le parti in conflitto ed è per questo che, relativamente al processo agli enti, si può parlare di giustizia riparativa, ma mai di mediazione. Questo è solo uno di molti altri motivi che potrebbero essere sollevati per negare la possibilità di istaurare l’attività mediatoria, come ad esempio la necessità di individuare una persona fisica, che possa essere riconosciuta come autore di reato in nome e per conto dell’ente. Certamente la normativa 231/2001, individua quale imputato il rappresentante legale della persona giuridica, ma non essendo il reale autore di reato, va considerato il rischio di un disequilibrio. La vittima potrebbe, infatti, non riconoscere nel rappresentante dell’ente il soggetto a cui indirizzare la comunicazione della propria esperienza di vittimizzazione e sul rappresentante il racconto avrà un impatto più modesto, perché non è l’autore materiale del reato. Né è ragionevole aspettarsi un effetto di responsabilizzazione o di deterrenza nei confronti dell’ente connesso al riconoscimento del danno. Inoltre risulta particolarmente difficoltoso convincere l’ente a parteciparvi, perché, anche nell’ottica di costi-benefici, la persona giuridica difficilmente avrà interesse ad attivare la mediazione, quando può godere nelle norme processuali che gli garantiscono una rapida fuoriuscita dal processo, mediante le condotte riparatorie.