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Rassegna giurisprudenziale del mese di giugno 2016: la cessione di azienda

Rassegna giurisprudenziale del mese di giugno 2016: la cessione di azienda

Di Danilo Sciuto

 

Abstract

L’Autore ci guida in un interessante viaggio in mezzo alle sentenze di legittimità che affrontano il tema della cessione di azienda. In questo articolo si commenta una interessantissima e innovativa ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 5876 del 13 marzo 2014; tale sentenza, affermando che non emerge alcuna plusvalenza imponibile in capo al cedente laddove non sia stato incassato il relativo corrispettivo, di fatto apre la questione della crisi di liquidità anche con riferimento alla cessione d’azienda.

Articolo

Plusvalenza tassabile anche in caso di risoluzione di contratto

In tema di imposte sui redditi, la plusvalenza fiscalmente rilevante collegata alla cessione di un’azienda si realizza al momento della conclusione del contratto, mentre non hanno rilievo alcuno le vicende successive relative all’adempimento degli obblighi contrattuali od all’estinzione dell’obbligazione per effetto di una transazione con carattere novativo, ovvero di un negozio di risoluzione del precedente contratto per mutuo dissenso, quest’ultimo essendo, per giunta, ìnopponibile, ai sensi dell’art. 1372, secondo comma, codice civile, ai terzi e, quindi, anche all’Amministrazione finanziaria.

(Cassazione, sezione V, ordinanza n. 20098/2012)

Cessione di azienda con costituzione rendita vitalizia

Secondo l’orientamento di questa Corte condiviso dal collegio, è configurabile una plusvalenza da avviamento commerciale, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 54, comma 3, anche nel caso di cessione a titolo oneroso di un’azienda il cui corrispettivo sia rappresentato dalla costituzione di una rendita vitalizia: ai fini dell’imputazione del corrispettivo, occorre infatti considerare il momento di stipulazione del contratto, ai sensi del cit. D.P.R. n. 917, art. 75, tenendo conto della natura intrinsecamente onerosa e della configurazione giuridica dell’atto traslativo, e prescindendo da clausole estranee al tipo contrattuale, senza che assuma alcun rilievo il carattere aleatorio della rendita, il cui valore è comunque determinabile sulla base delle tabelle di capitalizzazione risultanti dalla normativa fiscale; nè tale imputazione da luogo ad una doppia imposizione, in quanto il D.P.R. n. 917, art. 48, nell’assoggettare a tassazione le quote di rendita, individua forfetariamente nel 60% la componente reddituale delle stesse, in tal modo esentando dall’imposta il capitale tassato all’atto del trasferimento (Cass. 2007/10801; 2010/23874; 2011/11229).

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 19839/2012)

Confermata la tassazione della rendita vitalizia

È configurabile una plusvalenza tassabile anche nel caso di cessione di azienda (nella specie una farmacia) con costituzione di una rendita vitalizia, posto che può costituire il corrispettivo di un’alienazione patrimoniale, che – pur assicurando una utilità aleatoria quanto all’ammontare concreto delle erogazioni che in base ad essa verranno eseguite – ha un valore economico agevolmente accettabile in base a calcoli attuariali, secondo criteri riconosciuti dall’ordinamento giuridico, nè può essere considerato di ostacolo alla tassazione il rischio di una doppia imposizione, essendo la rendita vitalizia assimilabile a fini fiscali al reddito da lavoratore dipendente, in quanto il divieto di doppia imposizione scatta solo nel momento della concreta liquidazione della seconda imposta e solo nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di avere diritto a ricevere il doppio pagamento (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1175 del 27/01/2012). In relazione alla configurabilità di un’ipotesi di doppia imposizione vietata non ha alcuna rilevanza l’avvenuta corresponsione, in relazione al medesimo fatto indice di reddito, di un altro tributo, atteso che il contribuente ha l’obbligo di corrispondere il tributo previsto dalla legge (senza possibilità di “scegliere”, in alternativa, un diverso tributo), e pertanto non sono violati i principi di alternatività dell’imposta e/o del divieto di doppia imposizione allorchè l’amministrazione finanziaria richieda il versamento del tributo ritenuto dovuto, senza peraltro escludere la rimborsabilità dell’imposta erroneamente versata (v. Cass. n. 18524 del 2010, in tema di vendita di immobile non soggetta ad Iva, in cui l’amministrazione aveva ritenuto non detraibile l’Iva erroneamente versata e richiesto il pagamento dell’imposta di registro senza peraltro escludere il rimborso della suddetta Iva). Ai fini dell’imputazione del corrispettivo, occorre infatti considerare il momento di stipulazione del contratto, ai sensi del D.P.R. n. 917 cit., art. 75, tenendo conto della natura intrinsecamente onerosa e della configurazione giuridica dell’atto traslativo, e prescindendo da clausole estranee al tipo contrattuale, senza che assuma alcun rilievo il carattere aleatorio della rendita, comunque determinabile sulla base delle tabelle di capitalizzazione risultanti dalla normativa fiscale (v. Cass. n. 10801 del 2007). Va, conseguentemente, accolto il ricorso dell’Agenzia e cassata senza rinvio la sentenza impugnata.

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 5886/2013)

Plusvalenza da avviamento anche con rendita vitalizia

La rendita vitalizia può essere costituita a titolo oneroso mediante alienazione di un bene (art. 1872 c.c.), essa pertanto può costituire il corrispettivo di un’alienazione patrimoniale e quindi anche il corrispettivo di una cessione di azienda. Tale rendita, pur essendo una utilità aleatoria quanto all’ammontare concreto delle erogazioni che in base ad essa verranno eseguite o ricevute, ha un valore economico agevolmente accertabile in base a calcoli attuariali, come emergente dal fatto che le rendite vitalizie hanno un prezzo di mercato e che la capitalizzazione di esse è operazione pacificamente riconosciuta dall’ordinamento. Né può essere considerato di ostacolo alla tassazione il rischio di una doppia imposizione, essendo la rendita vitalizia assimilabile a fini fiscali al reddito da lavoratore dipendente, in quanto il divieto di doppia imposizione scatta solo nel momento della concreta liquidazione della seconda imposta e solo nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di avere diritto a ricevere il doppio pagamento. (Cassa e decide nel merito, Comm. Trib. Reg. Bologna, 15/12/2005).

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 1175/2012)

Tre anni per la decadenza del recupero dell’Iva per un atto già registrato

La Commissione condivide la decisione dei primi giudici, che hanno ritento decaduta l’azione di recupero dell’A.F. e conseguentemente nulla la rettifica, ai sensi dell’art.76 del D.P.R. n. 131 del 1986, l’Ufficio deve procedere alla rettifica degli atti presentati entro “tre anni”dalla registrazione. Infondata è inoltre la tesi dell’Ufficio che contesta la decadenza, in quanto la rettifica riguardava il recupero dell’Iva, che permette un prolungamento della scadenza dell’accertamento. Quanto sostenuto rientra nel principio di “alternatività Iva/Registro” previsto dall’art.40 D.P.R. n. 131 del 1986 cui l’ufficio può fare riferimento per individuare l’esatta natura giuridica dell’atto registrato; comunque anche il controllo idoneo a determinare e contestare, quali delle due imposte, “Iva o registro” sono da applicare, deve essere eseguito sempre entro il termine perentorio di tre anni. Le sentenze della Cassazione citate in primo grado, confermano in tema d’imposta di registro, la decadenza dell’Ufficio dalla possibilità di ottenere una revisione del titolo di tassazione, se non procede entro i tre anni dalla data di registrazione dell’atto.

(Commissione Tributaria Regionale Umbria Perugia, sentenza n. 227/I/2011)

La volontà delle parti non può, sola, configurare una cessione di ramo di azienda

La tradizionale l’interpretazione dell’art. 2555 c.c., è nel senso che possa rientrare nella fattispecie della cessione di azienda anche una sola parte dei beni ceduti che, pur non comprendendo tutti quelli che appartenevano all’azienda oggetto di cessione, abbia tuttavia mantenuto un’organizzazione autonoma idonea a consentire di esercitare un’attività d’impresa, seppur con inevitabili integrazioni che il cessionario abbia dovuto porre in essere (Cass. n. 21481 del 2009; Cass. n. 27286 del 2005). Una conforme giurisprudenza, in tema di interpretazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, si rinviene con riferimento alla distinzione tra assoggettabilità a imposta di registro della cessione d’azienda e assoggettabilità a IVA della cessione di singoli beni (Cass. n. 24913 del 2008; Cass. n. 23857 del 2007). La CTR, invece, nella sostanza, ha ritenuto che, a integrare la fattispecie della cessione dell’azienda, bastasse la semplice “volontà delle parti contraenti”, tra l’altro esclusivamente ricavata dal nomen iuris convenuto inter partes. La CTR, correttamente interpretando l’art. 2555 c.c., invece, avrebbe dovuto dire, sulla scorta degli elementi di prova in atti, se la cessione della parte di beni sub iudice aveva o no carattere autonomo idoneo a dar luogo all’esercizio di impresa, facendo da qui discendere dapprima la qualificazione contrattuale, la cui disponibilità, serve evidenziare, non appartiene alla voluntas delle parti, particolarmente in ambito fiscale, e in secondo luogo il conseguente trattamento tributario.

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 10740/2013)

Niente plusvalenza per l’incasso parziale del prezzo di cessione.

La plusvalenza fiscalmente rilevante, collegata alla cessione di un’azienda, si realizza al momento della conclusione del contratto e le vicende successive relative all’adempimento degli obblighi contrattuali od all’estinzione dell’obbligazione per effetto di una transazione con carattere novativo non hanno alcun rilievo. Compete al giudice del merito verificare la sussistenza ed effettività della plusvalenza con accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità (nella specie, il giudice di appello ha osservato che il cedente non aveva conseguito la plusvalenza non avendo incassato l’importo della cessione).

(Cassazione, sezione VI, ordinanza n. 5876/2014)

È biennale la decadenza per l’accertamento del maggior valore venale dell’azienda ceduta

L’obbligo di provvedere al pagamento dell’imposta in capo ai contribuenti è contestuale alla stipula del contratto, ed è da tale data che decorre il termine biennale per l’eventuale avviso di rettifica da parte dell’Ufficio. A nulla rileva l’eccezione dell’appellante concernente la circostanza che l’ammontare del corrispettivo fosse stato stipulato sub condizione. Infatti qualora la determinazione finale del prezzo avesse comportato modifiche a quello dichiarato nel contratto, ben potevano le parti appellate provvedere ad integrare l’imposta nel caso che il prezzo fosse risultato superiore a quello indicato e viceversa, nel caso contrario, chiedere il rimborso di quanto non dovuto. Anche l’Ufficio in questa fase successiva, fermo l’obbligo di rettifica entro i due anni dal pagamento dell’imposta sul prezzo dichiarato in contratto, aveva il potere di intervenire successivamente per l’eventuale rettifica del prezzo definitivo. Il Collegio, pertanto, conferma la decadenza dell’Ufficio dall’avviso di rettifica e liquidazione, ai sensi dell’art. 76 comma 1 bis D.P.R. n. 131 del 1986.

(Commissione Tributaria Regionale Lombardia, sentenza n. 54/XXXII/13)

I poteri dell’Amministrazione Finanziaria in caso di riqualificazione dell’atto

L’Amministrazione non si può riservare il potere discrezionale di ricondurre nell’alveo della non presentazione o nella registrazione d’ufficio con conseguente allungamento dei termini, tutti quegli atti già sottoposti alla registrazione e consolidatosi con una determinata qualificazione, ma per i quali lo strumento tassato debba essere sottoposto ad altri tipi di tassazione per una diversa “ripresa” o “nomen iuris” del negozio. Sarebbe un abuso perché comporta di fatto l’ elusione del termine ordinario dei tre anni previsto dall’art. 76, comma 2 per gli atti registrati in via tradizionale per richiedere sia l’imposta principale che l’imposta complementare e suppletiva, vanificandone in pratica il disposto e gli effetti.

(Commissione Tributaria Provinciale Reggio Emilia, sentenza n. 131/III/14)

Niente plusvalenza in caso di cessione di licenza a familiare

Nella specie di causa il giudicante si è indotto a respingere l’appello della parte contribuente sulla scorta del puro e semplice assunto che la plusvalenza realizzata a mezzo di cessione di azienda costituisce reddito fiscalmente rilevante, senza in alcun modo avere motivato il proprio convincimento in ordine alla natura onerosa della cessione di cui trattasi, e ciò per quanto la parte appellante avesse specificamente evidenziato che la cessione è intervenuta all’interno del nucleo familiare, elemento di fatto che certo avrebbe dovuto indurre il giudicante ad una specifica attenzione alle modalità con le quali la cessione qui oggetto di esame si è concretamente realizzata. E d’altronde, non ci si può esimere dal considerare che anche in merito agli elementi presuntivi che si assumono debitamente considerati dall’Agenzia ai fini del ricorso al metodo induttivo di accertamento, la motivazione della sentenza appare apodittica ed illogica, avendo il giudicante ritenuto che la parte contribuente si sia sottratta all’onere di produrre “qualunque scritto potesse attestare il valore della transazione” ovvero “la documentazione idonea alla determinazione del corrispettivo conseguito”, così dimostrando di avere dato per implicitamente presupposta la natura onerosa della cessione, senza però esplicitare le ragioni di una tale dirimente presupposizione. Non par dubbio che siffatte motivazioni risultino apparenti più che apodittiche, e comunque insufficienti a consentire a questa Corte di assolvere al dovere di controllo della coerenza logica del provvedimento giudiziale. Pertanto, si ritiene che la controversia possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza dell’impugnazione, con conseguente restituzione della lite alla CTR Lazio in funzione di giudice del rinvio, affinchè rinnovi l’apprezzamento sulle censure di gravame.

(Cassazione, sezione VI, ordinanza n. 20533/2014)

Redatto 15 giugno 2016

Rassegna giurisprudenziale del mese di giugno 2016: la cessione di azienda

Di Danilo Sciuto

 

Abstract

L’Autore ci guida in un interessante viaggio in mezzo alle sentenze di legittimità che affrontano il tema della cessione di azienda. In questo articolo si commenta una interessantissima e innovativa ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 5876 del 13 marzo 2014; tale sentenza, affermando che non emerge alcuna plusvalenza imponibile in capo al cedente laddove non sia stato incassato il relativo corrispettivo, di fatto apre la questione della crisi di liquidità anche con riferimento alla cessione d’azienda.

Articolo

Plusvalenza tassabile anche in caso di risoluzione di contratto

In tema di imposte sui redditi, la plusvalenza fiscalmente rilevante collegata alla cessione di un’azienda si realizza al momento della conclusione del contratto, mentre non hanno rilievo alcuno le vicende successive relative all’adempimento degli obblighi contrattuali od all’estinzione dell’obbligazione per effetto di una transazione con carattere novativo, ovvero di un negozio di risoluzione del precedente contratto per mutuo dissenso, quest’ultimo essendo, per giunta, ìnopponibile, ai sensi dell’art. 1372, secondo comma, codice civile, ai terzi e, quindi, anche all’Amministrazione finanziaria.

(Cassazione, sezione V, ordinanza n. 20098/2012)

Cessione di azienda con costituzione rendita vitalizia

Secondo l’orientamento di questa Corte condiviso dal collegio, è configurabile una plusvalenza da avviamento commerciale, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 54, comma 3, anche nel caso di cessione a titolo oneroso di un’azienda il cui corrispettivo sia rappresentato dalla costituzione di una rendita vitalizia: ai fini dell’imputazione del corrispettivo, occorre infatti considerare il momento di stipulazione del contratto, ai sensi del cit. D.P.R. n. 917, art. 75, tenendo conto della natura intrinsecamente onerosa e della configurazione giuridica dell’atto traslativo, e prescindendo da clausole estranee al tipo contrattuale, senza che assuma alcun rilievo il carattere aleatorio della rendita, il cui valore è comunque determinabile sulla base delle tabelle di capitalizzazione risultanti dalla normativa fiscale; nè tale imputazione da luogo ad una doppia imposizione, in quanto il D.P.R. n. 917, art. 48, nell’assoggettare a tassazione le quote di rendita, individua forfetariamente nel 60% la componente reddituale delle stesse, in tal modo esentando dall’imposta il capitale tassato all’atto del trasferimento (Cass. 2007/10801; 2010/23874; 2011/11229).

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 19839/2012)

Confermata la tassazione della rendita vitalizia

È configurabile una plusvalenza tassabile anche nel caso di cessione di azienda (nella specie una farmacia) con costituzione di una rendita vitalizia, posto che può costituire il corrispettivo di un’alienazione patrimoniale, che – pur assicurando una utilità aleatoria quanto all’ammontare concreto delle erogazioni che in base ad essa verranno eseguite – ha un valore economico agevolmente accettabile in base a calcoli attuariali, secondo criteri riconosciuti dall’ordinamento giuridico, nè può essere considerato di ostacolo alla tassazione il rischio di una doppia imposizione, essendo la rendita vitalizia assimilabile a fini fiscali al reddito da lavoratore dipendente, in quanto il divieto di doppia imposizione scatta solo nel momento della concreta liquidazione della seconda imposta e solo nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di avere diritto a ricevere il doppio pagamento (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1175 del 27/01/2012). In relazione alla configurabilità di un’ipotesi di doppia imposizione vietata non ha alcuna rilevanza l’avvenuta corresponsione, in relazione al medesimo fatto indice di reddito, di un altro tributo, atteso che il contribuente ha l’obbligo di corrispondere il tributo previsto dalla legge (senza possibilità di “scegliere”, in alternativa, un diverso tributo), e pertanto non sono violati i principi di alternatività dell’imposta e/o del divieto di doppia imposizione allorchè l’amministrazione finanziaria richieda il versamento del tributo ritenuto dovuto, senza peraltro escludere la rimborsabilità dell’imposta erroneamente versata (v. Cass. n. 18524 del 2010, in tema di vendita di immobile non soggetta ad Iva, in cui l’amministrazione aveva ritenuto non detraibile l’Iva erroneamente versata e richiesto il pagamento dell’imposta di registro senza peraltro escludere il rimborso della suddetta Iva). Ai fini dell’imputazione del corrispettivo, occorre infatti considerare il momento di stipulazione del contratto, ai sensi del D.P.R. n. 917 cit., art. 75, tenendo conto della natura intrinsecamente onerosa e della configurazione giuridica dell’atto traslativo, e prescindendo da clausole estranee al tipo contrattuale, senza che assuma alcun rilievo il carattere aleatorio della rendita, comunque determinabile sulla base delle tabelle di capitalizzazione risultanti dalla normativa fiscale (v. Cass. n. 10801 del 2007). Va, conseguentemente, accolto il ricorso dell’Agenzia e cassata senza rinvio la sentenza impugnata.

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 5886/2013)

Plusvalenza da avviamento anche con rendita vitalizia

La rendita vitalizia può essere costituita a titolo oneroso mediante alienazione di un bene (art. 1872 c.c.), essa pertanto può costituire il corrispettivo di un’alienazione patrimoniale e quindi anche il corrispettivo di una cessione di azienda. Tale rendita, pur essendo una utilità aleatoria quanto all’ammontare concreto delle erogazioni che in base ad essa verranno eseguite o ricevute, ha un valore economico agevolmente accertabile in base a calcoli attuariali, come emergente dal fatto che le rendite vitalizie hanno un prezzo di mercato e che la capitalizzazione di esse è operazione pacificamente riconosciuta dall’ordinamento. Né può essere considerato di ostacolo alla tassazione il rischio di una doppia imposizione, essendo la rendita vitalizia assimilabile a fini fiscali al reddito da lavoratore dipendente, in quanto il divieto di doppia imposizione scatta solo nel momento della concreta liquidazione della seconda imposta e solo nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di avere diritto a ricevere il doppio pagamento. (Cassa e decide nel merito, Comm. Trib. Reg. Bologna, 15/12/2005).

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 1175/2012)

Tre anni per la decadenza del recupero dell’Iva per un atto già registrato

La Commissione condivide la decisione dei primi giudici, che hanno ritento decaduta l’azione di recupero dell’A.F. e conseguentemente nulla la rettifica, ai sensi dell’art.76 del D.P.R. n. 131 del 1986, l’Ufficio deve procedere alla rettifica degli atti presentati entro “tre anni”dalla registrazione. Infondata è inoltre la tesi dell’Ufficio che contesta la decadenza, in quanto la rettifica riguardava il recupero dell’Iva, che permette un prolungamento della scadenza dell’accertamento. Quanto sostenuto rientra nel principio di “alternatività Iva/Registro” previsto dall’art.40 D.P.R. n. 131 del 1986 cui l’ufficio può fare riferimento per individuare l’esatta natura giuridica dell’atto registrato; comunque anche il controllo idoneo a determinare e contestare, quali delle due imposte, “Iva o registro” sono da applicare, deve essere eseguito sempre entro il termine perentorio di tre anni. Le sentenze della Cassazione citate in primo grado, confermano in tema d’imposta di registro, la decadenza dell’Ufficio dalla possibilità di ottenere una revisione del titolo di tassazione, se non procede entro i tre anni dalla data di registrazione dell’atto.

(Commissione Tributaria Regionale Umbria Perugia, sentenza n. 227/I/2011)

La volontà delle parti non può, sola, configurare una cessione di ramo di azienda

La tradizionale l’interpretazione dell’art. 2555 c.c., è nel senso che possa rientrare nella fattispecie della cessione di azienda anche una sola parte dei beni ceduti che, pur non comprendendo tutti quelli che appartenevano all’azienda oggetto di cessione, abbia tuttavia mantenuto un’organizzazione autonoma idonea a consentire di esercitare un’attività d’impresa, seppur con inevitabili integrazioni che il cessionario abbia dovuto porre in essere (Cass. n. 21481 del 2009; Cass. n. 27286 del 2005). Una conforme giurisprudenza, in tema di interpretazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, si rinviene con riferimento alla distinzione tra assoggettabilità a imposta di registro della cessione d’azienda e assoggettabilità a IVA della cessione di singoli beni (Cass. n. 24913 del 2008; Cass. n. 23857 del 2007). La CTR, invece, nella sostanza, ha ritenuto che, a integrare la fattispecie della cessione dell’azienda, bastasse la semplice “volontà delle parti contraenti”, tra l’altro esclusivamente ricavata dal nomen iuris convenuto inter partes. La CTR, correttamente interpretando l’art. 2555 c.c., invece, avrebbe dovuto dire, sulla scorta degli elementi di prova in atti, se la cessione della parte di beni sub iudice aveva o no carattere autonomo idoneo a dar luogo all’esercizio di impresa, facendo da qui discendere dapprima la qualificazione contrattuale, la cui disponibilità, serve evidenziare, non appartiene alla voluntas delle parti, particolarmente in ambito fiscale, e in secondo luogo il conseguente trattamento tributario.

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 10740/2013)

Niente plusvalenza per l’incasso parziale del prezzo di cessione.

La plusvalenza fiscalmente rilevante, collegata alla cessione di un’azienda, si realizza al momento della conclusione del contratto e le vicende successive relative all’adempimento degli obblighi contrattuali od all’estinzione dell’obbligazione per effetto di una transazione con carattere novativo non hanno alcun rilievo. Compete al giudice del merito verificare la sussistenza ed effettività della plusvalenza con accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità (nella specie, il giudice di appello ha osservato che il cedente non aveva conseguito la plusvalenza non avendo incassato l’importo della cessione).

(Cassazione, sezione VI, ordinanza n. 5876/2014)

È biennale la decadenza per l’accertamento del maggior valore venale dell’azienda ceduta

L’obbligo di provvedere al pagamento dell’imposta in capo ai contribuenti è contestuale alla stipula del contratto, ed è da tale data che decorre il termine biennale per l’eventuale avviso di rettifica da parte dell’Ufficio. A nulla rileva l’eccezione dell’appellante concernente la circostanza che l’ammontare del corrispettivo fosse stato stipulato sub condizione. Infatti qualora la determinazione finale del prezzo avesse comportato modifiche a quello dichiarato nel contratto, ben potevano le parti appellate provvedere ad integrare l’imposta nel caso che il prezzo fosse risultato superiore a quello indicato e viceversa, nel caso contrario, chiedere il rimborso di quanto non dovuto. Anche l’Ufficio in questa fase successiva, fermo l’obbligo di rettifica entro i due anni dal pagamento dell’imposta sul prezzo dichiarato in contratto, aveva il potere di intervenire successivamente per l’eventuale rettifica del prezzo definitivo. Il Collegio, pertanto, conferma la decadenza dell’Ufficio dall’avviso di rettifica e liquidazione, ai sensi dell’art. 76 comma 1 bis D.P.R. n. 131 del 1986.

(Commissione Tributaria Regionale Lombardia, sentenza n. 54/XXXII/13)

I poteri dell’Amministrazione Finanziaria in caso di riqualificazione dell’atto

L’Amministrazione non si può riservare il potere discrezionale di ricondurre nell’alveo della non presentazione o nella registrazione d’ufficio con conseguente allungamento dei termini, tutti quegli atti già sottoposti alla registrazione e consolidatosi con una determinata qualificazione, ma per i quali lo strumento tassato debba essere sottoposto ad altri tipi di tassazione per una diversa “ripresa” o “nomen iuris” del negozio. Sarebbe un abuso perché comporta di fatto l’ elusione del termine ordinario dei tre anni previsto dall’art. 76, comma 2 per gli atti registrati in via tradizionale per richiedere sia l’imposta principale che l’imposta complementare e suppletiva, vanificandone in pratica il disposto e gli effetti.

(Commissione Tributaria Provinciale Reggio Emilia, sentenza n. 131/III/14)

Niente plusvalenza in caso di cessione di licenza a familiare

Nella specie di causa il giudicante si è indotto a respingere l’appello della parte contribuente sulla scorta del puro e semplice assunto che la plusvalenza realizzata a mezzo di cessione di azienda costituisce reddito fiscalmente rilevante, senza in alcun modo avere motivato il proprio convincimento in ordine alla natura onerosa della cessione di cui trattasi, e ciò per quanto la parte appellante avesse specificamente evidenziato che la cessione è intervenuta all’interno del nucleo familiare, elemento di fatto che certo avrebbe dovuto indurre il giudicante ad una specifica attenzione alle modalità con le quali la cessione qui oggetto di esame si è concretamente realizzata. E d’altronde, non ci si può esimere dal considerare che anche in merito agli elementi presuntivi che si assumono debitamente considerati dall’Agenzia ai fini del ricorso al metodo induttivo di accertamento, la motivazione della sentenza appare apodittica ed illogica, avendo il giudicante ritenuto che la parte contribuente si sia sottratta all’onere di produrre “qualunque scritto potesse attestare il valore della transazione” ovvero “la documentazione idonea alla determinazione del corrispettivo conseguito”, così dimostrando di avere dato per implicitamente presupposta la natura onerosa della cessione, senza però esplicitare le ragioni di una tale dirimente presupposizione. Non par dubbio che siffatte motivazioni risultino apparenti più che apodittiche, e comunque insufficienti a consentire a questa Corte di assolvere al dovere di controllo della coerenza logica del provvedimento giudiziale. Pertanto, si ritiene che la controversia possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza dell’impugnazione, con conseguente restituzione della lite alla CTR Lazio in funzione di giudice del rinvio, affinchè rinnovi l’apprezzamento sulle censure di gravame.

(Cassazione, sezione VI, ordinanza n. 20533/2014)

Redatto 15 giugno 2016