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L'insostenibile lontananza di Strasburgo

L'insostenibile lontananza di Strasburgo
L'insostenibile lontananza di Strasburgo

Abstract

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo opera in Italia da 60 anni ma i suoi effetti tardano a manifestarsi per intero: il legislatore si adegua tardivamente ai suoi principi, la giurisprudenza è restia a cedere una parte della sua "sovranità" in favore delle pronunce della Corte dei diritti umani di Strasburgo, gli avvocati non sempre riescono nel loro compito di intermediazione tra valori europei e prassi applicative interne.

Premessa

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito CEDU), istituita a Roma il 4 novembre 1950, entrò in vigore in Italia il 26 ottobre 1955 allorché fu ratificata dalla Legge 4 agosto 1955 n. 848.

Sono passati sessant’anni da allora, un periodo più che sufficiente per assicurarne la piena operatività nel nostro Paese e renderla materia viva nei rapporti tra i cittadini e i poteri pubblici.

Senza poi dimenticare che l’Italia fu tra i dieci firmatari originari del Trattato di Londra del 5 maggio 1949 che diede vita al Consiglio d’Europa, organo cui si deve la redazione e l’adozione della CEDU.

E senza neanche omettere che la CEDU si inseriva dichiaratamente nel solco della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e presentava un impianto per molti versi affine o addirittura sovrapponibile a quello della nostra coeva Costituzione repubblicana.

Ciò nonostante, contro ogni auspicio e previsione, la penetrazione di questo fondamentale trattato nel nostro tessuto normativo, giurisprudenziale e sociale è avvenuta assai lentamente e faticosamente al punto da spingere l’Italia nei bassifondi della classifica degli Stati membri per quantità e qualità delle infrazioni alle sue norme.

È utile allora riflettere su questi ritardi e lentezze e sulle ragioni che li hanno provocati.

Il rango riconosciuto alla CEDU nell’ordinamento interno: la controversa soluzione individuata dalla Corte costituzionale

Qualunque riflessione si voglia intraprendere sull’effettività di un trattato internazionale, il primo passo da compiere è la verifica del suo rapporto con l’ordinamento giuridico del Paese che lo accoglie, vale a dire del rango nella gerarchia delle  fonti normative che questo è disposto a riconoscergli.

Come spesso accade nel nostro sistema, la relazione di cui si parla ha generato un lungo e faticoso dibattito.

Se ne analizzano adesso le tappe più significative.

Il punto di partenza obbligato è costituito dalle cosiddette sentenze gemelle, precisamente le decisioni nn. 348 e 349 del 2007, non a caso successive alla riforma del Titolo V della Costituzione operata dalla Legge costituzionale 3/2001, attraverso le quali la Consulta mise a punto il manifesto ideologico e, al tempo stesso, il vademecum operativo in tema di rapporti tra la nostra Carta e quella europea.

La sentenza n. 348 individuò la norma regolatrice  del rapporto, identificandola nell’articolo 117 comma 1 Costituzione

Non dunque l’articolo 11 che, consentendo le limitazioni di sovranità nazionale conseguenti alla partecipazione del nostro Paese ad organizzazioni internazionali volte ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni, ammette l’ingresso diretto e senza filtri delle norme di provenienza comunitaria dotate di immediata esecutività ma non si estende invece alle norme di diritto internazionale pattizio sprovviste di tale caratteristica.

E neanche l’articolo 10 comma 1, il quale, riferendosi alle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, rimanda chiaramente al diritto internazionale consuetudinario, categoria cui le norme CEDU sono, ad avviso della Corte costituzionale, naturalmente estranee.

Fu invece ritenuto pertinente il richiamo all’articolo 117 comma 1 il quale distingue chiaramente tra vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e vincoli derivanti da obblighi internazionali.

Quindi, secondo i giudici costituzionali, l’adesione dell’Italia ai Trattati comunitari ha comportato il suo ingresso in un ordinamento sovranazionale e la cessione di una parte di sovranità legislativa, fatto salvo il limite invalicabile del rispetto dei principi e diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. La CEDU, invece, non ha creato un ordinamento di tal genere e non è quindi in grado di generare norme immediatamente applicabili.

Tuttavia, proprio in virtù del citato articolo 117, il nostro Paese ha l’obbligo di legiferare in conformità alle norme CEDU, le quali assumono nella gerarchia delle fonti  un rango intermedio tra la Costituzione e la legge ordinaria e si configurano per ciò stesso come un parametro subcostituzionale.

Nella visione della Consulta ciò significa che quelle norme, per come interpretate dalla Corte di Strasburgo, possono operare in Italia solo in quanto conformi alla Costituzione ma, al tempo stesso, fungono da parametro interposto di riferimento per l’interpretazione delle norme di diritto interno. I giudici italiani sono quindi tenuti ad interpretare la nostra legislazione in modo convenzionalmente orientato, cioè conforme ai dettami delle norme CEDU. Se questa conformità risultasse impossibile, spetta ai giudici sollevare questione di legittimità costituzionale.

È quindi esclusa la possibilità di disapplicare direttamente la norma di diritto interno che appare contrastante con una norma CEDU.

La sentenza n. 349 ribadì ovviamente l’impianto concettuale della sentenza n. 348.

Vi si osservò anzitutto che le disposizioni CEDU, rese esecutive nell’ordinamento italiano con legge ordinaria, mutuavano il medesimo rango della fonte di adattamento.

Si escluse che l’articolo 11 Costituzione potesse essere invocato in via indiretta per effetto della qualificazione dei diritti di fonte CEDU come principi generali del diritto unionale, osservandosi che il Consiglio d’Europa dà vita ad un sistema giuridico, funzionale ed istituzionale ben distinto da quello proprio dell’UE.

Si affermò nuovamente che l’incompatibilità delle norme interne con le disposizioni CEDU non poteva essere rimediata in via diretta con la disapplicazione giudiziale delle prime, ostando il fatto che i diritti riconosciuti dalla stessa CEDU sono stati attribuiti ai singoli individui non attraverso la creazione di un ordinamento sovranazionale ma in virtù della legge ordinaria che ha autorizzato la ratifica del Trattato di Roma.

Con la sentenza in commento, infine, la Consulta colse l’occasione per rimarcare il proprio ruolo in materia e la sua autonomia rispetto a quello spettante alla Corte di Strasburgo. Mentre quest’ultima ha il compito di assicurare in via esclusiva l’interpretazione uniforme della Convenzione e dei suoi protocolli aggiuntivi, spetta alla Corte costituzionale, allorché sia chiamata in causa con la proposizione di una questione di costituzionalità, accertare il contrasto tra la norma interna e quella di fonte CEDU e, in caso affermativo, verificare ulteriormente se quest’ultima garantisce una tutela fondamentale di livello superiore rispetto a quella assicurata dalla legislazione italiana. Ove ricorrano entrambe le condizioni, non resterà che dichiarare l’illegittimità della norma interna.

È davvero e interamente condivisibile questa posizione?

In dottrina non sono mancati interventi autorevoli che hanno espresso ed argomentato critiche di notevole spessore.

Qui si preferisce proporre un unico rilievo.

È vero che la CEDU, in quanto un trattato internazionale, è una fonte di diritto pattizio. Non si può dimenticare però che le sue norme e protocolli aggiuntivi tutelano diritti umani, materia unanimemente posta sotto la tutela del diritto internazionale consuetudinario.

Sicché, il loro canale costituzionale di ingresso nel nostro ordinamento ben poteva essere individuato nell’articolo 10 comma 1 piuttosto che nell’articolo 117 comma 1.

Comunque sia, la Consulta ha proseguito la sua opera di sistematizzazione con ulteriori pronunce tra le quali è degna di nota la sentenza 264/2012, riguardante il cosiddetto caso delle pensioni svizzere.

L’oggetto della pronuncia fu la legge di interpretazione autentica n. 296/2006 che correggeva, in senso meno favorevole per gli interessati e nella prospettiva di un riequilibrio dei conti pensionistici, un indirizzo giurisprudenziale applicato alla determinazione del trattamento spettante ai lavoratori che avevano versato contributi all’estero (i quali, in sostanza, versavano meno contributi rispetto a coloro che lavoravano in Italia).

Nel 2011 i giudici di Strasburgo, con la sentenza Maggio c. Italia, ritennero che l’applicazione retroattiva della Legge 296 ai processi in corso violasse i principi dell’equo processo ex articolo 6 CEDU. Ciò perché, pur essendo possibile per i legislatori statali disciplinare retroattivamente diritti vigenti, l’influenza delle disposizioni retroattive sulle procedure giudiziarie in corso poteva avvenire solo per ragioni di interesse generale che in quel caso non ricorrevano.

La Corte EDU affermò quindi che la norma italiana di interpretazione autentica confliggesse con gli obblighi assunti dal nostro Paese in forza dell’articolo 6.

La nostra Corte costituzionale, adita sulla medesima questione in conseguenza della pronuncia di Strasburgo, si pronunciò nel senso dell’infondatezza.

La Consulta osservò che la legge n. 296 aveva lo scopo di assicurare la corrispondenza tra risorse disponibili e prestazioni erogate e realizzava in tal modo il precetto dell’articolo 81 comma 4 Costituzione oltre che il rispetto dei principi di uguaglianza e solidarietà.

Il risultato fu la disapplicazione della pronuncia CEDU sul presupposto che, ove ne fosse stato consentito l’ingresso nel nostro ordinamento, si sarebbe verificata una diminuzione di tutela rispetto a quelle disponibili in Italia.

L’aspetto più interessante è che la Consulta arrivò a questa conclusione non in riferimento al singolo diritto fondamentale oggetto diretto del giudizio, cioè quello dei lavoratori all’equità del processo in cui si verteva del loro trattamento pensionistico, ma prendendo in considerazione tutti i diritti, principi ed interessi tutelati dalla Costituzione (tra i quali era compresa la parità di trattamento tra i titolari di trattamenti pensionistici).

La Corte Costituzionale precisò nell’occasione di considerarsi titolare di un margine di apprezzamento, istituto la cui esistenza è stata elaborata dalla giurisprudenza di Strasburgo, cioè  una facoltà di temperamento alla rigidità dei principi formulati in sede europea, utile per evitare potenziali conflitti tra ordinamenti.

Non sfugge però che in questo sforzo ecumenico la Consulta finì per riservare al diritto all’equo processo una tutela assai inferiore non solo rispetto a quella standard ma anche a quella minima.

Merita infine una specifica menzione la recente sentenza 49/2015.

La questione di fondo verteva sulla speciale ipotesi di confisca prevista dall’articolo 44 comma 2 Decreto Presidente della Repubblica n. 380/2001 allorché una sentenza definitiva del giudice penale abbia accertato l’esistenza di una lottizzazione abusiva.

Un consolidato indirizzo di legittimità attribuiva a tale istituto la natura di sanzione amministrativa reale, ritenendo che il giudice penale dovesse applicarla in conseguenza del semplice accertamento della materialità dell’illecito. In questa visione, la confisca rimaneva quindi doverosa anche se il procedimento penale si fosse concluso con pronuncia di prescrizione.

La Corte EDU non ha tuttavia condiviso questo modo di vedere. Attenti come sono più ai profili sostanziali che a quelli formali, e non tenendo in particolare conto le definizioni e classificazioni proprie delle legislazioni statali, i giudici di Strasburgo, a partire dalla sentenza Sud Fondi c. Italia, hanno elaborato un ben diverso indirizzo il quale, attribuendo natura sostanzialmente penale alla sanzione della confisca, escludeva che la sua irrogazione potesse essere disposta senza un previo giudizio di colpevolezza conseguente all’imputazione soggettiva del fatto.

L’orientamento appena segnalato è stato rafforzato ed esteso con la sentenza Varvara c. Italia.

L’indirizzo della Corte EDU è legato a due precise direttrici.

La prima è l’applicazione dei cosiddetti criteri Engel (così denominati in quanto affermati nella sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976) i quali identificano un’accusa penale tutte le volte in cui ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:

  • l’illecito contestato sia qualificato come penale dal sistema giuridico dello Stato interessato;
  • esso accordi tutela erga omnes a beni giuridici della collettività;
  • sia punito con una sanzione particolarmente afflittiva e grave, tale da incidere profondamente nella sfera giuridica dell’accusato.

La seconda direttrice attiene alla concezione del diritto di proprietà che nella visione della Corte EDU è fondamentale ed assoluto mentre nella previsione costituzionale italiana è soggetto ai limiti che ne assicurano la funzione sociale.

Si scontrano allora due visioni profondamente contrastanti.

La nostra Corte di Cassazione, precisamente la Terza sezione penale, ha avvertito di conseguenza la necessità di sottoporre la questione alla Consulta sulla base di un preciso presupposto: la sentenza Varvara avrebbe modificato il contenuto del citato articolo 44 comma 2, attribuendogli un significato differente da quello consolidato nella giurisprudenza interna e lo avrebbe in tal modo reso illegittimo per contrasto con le norme costituzionali poste a tutela di beni primari quali il paesaggio, l’ambiente e la salute.

Nel medesimo contesto si è inserito anche il Tribunale di Teramo che però si è mosso secondo una prospettiva completamente differente, chiedendo alla Consulta di adeguare la previsione dell’articolo 44 alla sentenza Varvara nel senso di escludere che possa farsi luogo a confisca allorchè il reato di lottizzazione abusiva sia dichiarato estinto per prescrizione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 49/2015, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni, sfruttando l’occasione per ribadire e rafforzare la propria visione sui rapporti tra l’ordinamento italiano e quello che ruota attorno alla CEDU.

Il giudice delle leggi ha richiamato anzitutto l’obbligo dei giudici interni di tentare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme nazionali. Ha tuttavia chiarito che tale obbligo vale soltanto in riferimento alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, venendo invece meno per le pronunce isolate o comunque espressive di orientamenti ancora ondivaghi.

Se dunque il giudice interno ritiene di aderire a pronunce europee non consolidate, rimane privo della possibilità di eccepire l’incostituzionalità della norma interna contrastante poiché il parametro di riferimento, cioè la disposizione CEDU per come interpretata dalla Corte di Strasburgo, non ha la consistenza necessaria per sovrastare la legislazione statale.

Il che è come dire che, a fronte di indirizzi europei privi di adeguato consolidamento, il giudice interno farebbe bene ad affidarsi ai principi costituzionali che, comunque, prevalgono sulla CEDU.

Se invece il contrasto avviene tra una norma interna e un’interpretazione consolidata di disposizioni CEDU, la via obbligata è quella del ricorso alla Corte costituzionale per contrasto con l’articolo 117 comma 1. La questione così sollevata consentirà alla Corte l’espunzione della norma interna contrastante.

Se, infine, il contrasto chiamasse in causa una norma CEDU contraria alla Costituzione, il giudice interno sarebbe tenuto a impugnare la legge di adattamento della CEDU nella parte in cui ha consentito appunto l’ingresso di una norma siffatta.

Quanto poi alla pronuncia strasburghese sulla confisca urbanistica, la Corte l’ha facilmente liquidata osservando che si tratta di una decisione non espressiva di un indirizzo consolidato, con tutto ciò che ne consegue nei termini già chiariti.

Con buona pace, viene da dire, del principio di presunzione di innocenza sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione e dall’articolo 6 § 2 della CEDU.

Così esposta, in modo piuttosto sommario, la dottrina della Consulta, pare di potere affermare che tale organo, pur aprendo qualche varco alla penetrazione del diritto di Strasburgo, abbia comunque privilegiato e realizzato un sistema tale da frenare considerevolmente la portata del fenomeno e rafforzare il proprio ruolo di difensore di ultima istanza della sovranità nazionale.

Difficile dire, quantomeno in termini perentori, se un simile atteggiamento sia un bene o un male, un esercizio di saggezza istituzionale o un irragionevole attaccamento a principi e valori ormai superati.

Certo è che la prospettiva di un inasprimento dei rapporti tra la Corte Costituzionale e la Corte europea, già in qualche modo manifestatosi in occasione della sentenza 264/2012, appare tutt’altro che teorica.

Il bipolarismo della giurisprudenza italiana

È adesso il momento di dare uno sguardo alla visione che i giudici del nostro Paese esprimono quotidianamente con le loro decisioni.

Contravvenendo all’ottima regola per la quale i giudizi dovrebbero seguire ai fatti, si anticipa che la giurisprudenza italiana mostra in più casi un atteggiamento bipolare nei confronti non solo della CEDU ma della più estesa necessità di un’effettiva apertura a sensibilità giuridiche differenti da quella interna.

Si coglie da un lato un complesso di slogan che, tutti insieme considerati, compongono una sorta di manifesto del “giuridicamente corretto” e suggeriscono un ossequio formale all’idea di un ordinamento comune europeo fondato su tutele avanzate, su standard garantistici addirittura sofisticati e sulla priorità assoluta ed indiscutibile da riconoscere ai diritti umani.

Dall’altro si percepisce invece una costante e piuttosto ostinata ritrosia a creare le condizioni necessarie a trasformare quegli slogan in diritto vissuto e praticato.

È come se, in altri termini, i nostri giudici faticassero ad accettare anche la semplice eventualità che il loro modo di interpretare ed applicare i precetti legislativi non sia il migliore possibile e gli sia quindi utile giovarsi di apporti esterni.

È come se la cessione di una parte anche minima della “sovranità giurisprudenziale” nostrana non faccia minimamente parte dell’agenda della magistratura italiana.

È bene adesso giustificare concretamente il giudizio appena espresso.

Lo si farà partendo non da una singola decisione o un indirizzo interpretativo ma da un accordo protocollare.

L’11 dicembre 2015 si sono incontrati a Strasburgo Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione, e Guido Raimondi, presidente della Corte EDU.

Nell’occasione è stato stipulato un protocollo di intesa finalizzato a diffondere e favorire lo scambio della giurisprudenza anche ai fini di una migliore e costante attuazione della  CEDU e una più agevole inclusione della giurisprudenza della Corte dei diritti umani nell’ordinamento nazionale.

Programma lodevole e tale da sottolineare la convinta vocazione europeista della nostra più alta istanza giudiziaria e, a cascata, dell’intera magistratura italiana.

La stessa prospettiva è dato cogliere allorché si esaminino le periodiche relazioni sullo stato dell’arte emesse dalla stessa Corte di Cassazione, mediante il suo Ufficio del Massimario.

Tra le tante, si è ritenuto di scegliere, per i toni ispirati, quella di fine 2011, esplicitamente dedicata all’analisi del rapporto tra la nostra giurisprudenza di legittimità e quella della Corte EDU.

Vi si legge tra l’altro che “Un continuo intrecciarsi di “rimandi” interni sembra connotare, in particolare, i rapporti fra la Corte Suprema di Cassazione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, alimentandone così intensamente le possibilità di “dialogo”, sino a ritenere oramai non più revocabile in dubbio “che sia patrimonio comune della scienza giuridica, della giurisprudenza costituzionale e di legittimità la “forza vincolante” delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo, sancita dall’articolo 46 della Convenzione, là dove prevede che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”.

Questo è l’immagine che la nostra magistratura di vertice offre di sé alla quale, per la verità - sarebbe ingeneroso e scorretto negarlo - corrisponde in più casi uno sforzo di adattamento e di comprensione che ha portato ad un effettivo avvicinamento tra le due realtà giuridiche a confronto.

Eppure - anche questo deve essere chiaro - sullo sfondo rimangono numerosi nodi irrisolti e prassi applicative che spesso risultano in aperta contraddizione con i principi europei.

Si preferisce in questo caso argomentare non soltanto su pronunce ed indirizzi effettivi ma anche su ciò che i nostri giudici dovrebbero dire, ove fossero realmente ispirati dai principi della CEDU, e che invece non dicono.

Non si procederà secondo un rigido ordine sistematico ma saltando qua e là, giusto per dare un’idea di ciò che si intende.

Un primo terreno di riscontro può essere agevolmente individuato nell’essenziale materia della libertà personale e delle sue possibili limitazioni.

Le pertinenti disposizioni CEDU sono contenute negli artt. 5 § 3 e 6.

Nella sua incessante produzione giurisprudenziale, la Corte di Strasburgo ha reso chiarissimo che in un sistema realmente rispettoso dei diritti umani la detenzione preventiva è uno strumento eccezionale, cui ricorrere solo a fronte della dimostrata inadeguatezza di misure meno afflittive e comunque sulla base di ragioni massimamente concrete ed argomentate in modo convincente ed effettivo.

I giudici dei diritti umani hanno dunque precisato che:

  • la protrazione della detenzione, anche di quella inizialmente legittima, è ammissibile solo in presenza di elementi concreti che ne rivelino un’effettiva necessità di interesse pubblico (Contrada c. Italia, 24 agosto 1999) poiché, in caso contrario, diventa lo strumento per un’inammissibile anticipazione dell’espiazione della pena (Khudobin c. Russia, 26 ottobre 2006);
  • la motivazione della detenzione deve essere particolarmente penetrante riguardo all’effettiva esistenza di ragioni sufficienti e rilevanti (Gerard Bernard c. Francia, 26 settembre 2006), non deve limitarsi ad argomenti generali e astratti (Clooth c. Belgio, 12 dicembre 1991) né essere fondata su formule stereotipate o sommarie (Solmaz c. Turchia, 16 gennaio 2007) né consistere nella mera ripetizione dei criteri previsti dalla legge (Smatana c. Repubblica Ceca, 27 settembre 2007); questi obblighi motivazionali esistono anche in presenza di presunzioni normative di pericolosità sociale come quella contenuta nell’articolo 275 comma 3 codice di procedura penale (Labita c. Italia, 6 aprile 2000);
  • quanto alle specifiche esigenze cautelari, il pericolo di sviluppo dell’attività criminosa deve essere desunto da elementi concreti quali, ad esempio, la continuazione prolungata degli illeciti, l’entità dei danni causati alla vittima, la pericolosità dell’imputato (Dumont Maliverg c. Francia, 31 maggio 2005) o i suoi precedenti specifici (Clooth c. Belgio, citata);
  • a sua volta, il pericolo di interferenze con il corso della giustizia è concepibile all’inizio dell’attività investigativa ma è poi destinato a svanire quando il procedimento prosegua e la raccolta delle prove si avvicina al termine (Nevmerzhitsky c. Ucraina, 5 aprile 2005); anche tale pericolo deve essere comunque fondato su elementi concreti, non può essere proclamato solo in astratto (Becciev c. Moldavia, 4 ottobre 2005) e deve andare ben oltre la semplice possibilità teorica (Klamecky c. Polonia, 3 aprile 2003).

Principi chiari, saldamente ancorati al buon senso e ad una visione sostanziale delle garanzie spettanti a chi subisce un procedimento penale.

Si potrebbe dire a prima vista che la visione della Corte EDU non contenga nulla di nuovo e diverso rispetto alle disposizioni ed agli indirizzi interpretativi del nostro ordinamento.

A prima vista, appunto, ma le prassi applicative ed ancor prima le norme vigenti, ove esaminate al di là dell’apparenza formale, dimostrano una diversità sostanziale.

Si consideri anzitutto l’articolo 303 codice di procedura penale cioè la norma che disciplina i termini di durata massima della custodia cautelare. Sembrerebbe avere essenzialmente una funzione di limite nel senso che, stabilendo termini invalicabili per ciascuna fase procedimentale, può essere considerata come un argine all’arbitrio giudiziario. In realtà, se pure questa funzione ha una sua qualche consistenza, la stessa logica della norma risulta contraddittoria con i principi affermati in sede europea. Si vuole intendere che la riconosciuta ammissibilità di una detenzione preventiva che si protragga per la durata dell’intero processo è già di per se stessa profondamente incoerente con l’esigenza di non trasformare le misure cautelari detentive in una modalità di espiazione della pena.

Quest’impressione di incoerenza aumenta se si considera che, sempre ai sensi dell’articolo 303, la durata complessiva della custodia cautelare può arrivare a sei anni per i delitti puniti più gravemente.

La distanza diventa infine siderale allorché si prenda in considerazione il successivo articolo 304 il quale, ammettendo a fronte di determinate evenienze e necessità procedurali, la sospensione dei termini previsti dall’articolo 303, ne consente esplicitamente il raddoppio, sia pure introducendo una clausola generale di salvaguardia in virtù della quale la custodia cautelare non può in nessun caso superare i due terzi del massimo della pena  prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza.

Non occorrono calcoli aritmetici perché sia evidente che il nostro ordinamento consente detenzioni preventive spaventosamente lunghe e ne legittima la protrazione per l’intero giudizio.

Si potrebbe obiettare che l’incoerenza di cui si parla è un fatto interamente imputabile al legislatore e al quale i giudici sono estranei. Le prassi applicative e i consolidati indirizzi giurisprudenziali dimostrano tuttavia che la nostra magistratura opera spesso in modo da potenziare quell’incoerenza e portarla ai suoi massimi limiti.

Ancora una volta si preferisce evitare una rassegna sistematica e si ricorre ad un unico esempio, quello del cosiddetto giudicato cautelare. L’espressione, di creazione giurisprudenziale, si riferisce alla condizione di chi abbia esperito (o abbia scelto di non esperire, facendo decorrere infruttuosamente i termini previsti) tutte le reazioni consentite dal diritto nazionale contro provvedimenti che abbiano inciso sulla sua libertà personale.

Si crea in tal modo una situazione di tendenziale immutabilità dello status libertatis dell’interessato che può essere rimossa solo in presenza di eventi nuovi, tali da mutare significativamente lo status quo ante.

A cosa serva il giudicato cautelare lo chiarisce benissimo una pronuncia della quinta sezione penale della Corte di Cassazione del 2 ottobre 2014. Vi si afferma che “L’operazione risponde a chiara necessità di economia processuale: si vuole evitare la riproposizione di istanze aventi ad oggetto una stessa misura cautelare, fondate sugli stessi presupposti già vagliati dal giudice dell’impugnazione e respinte. In altre parole la preclusione endoprocessuale è finalizzata ad evitare ulteriori interventi giudiziari, in assenza di una modifica della situazione di riferimento, rendendo inammissibili istanze fondate su motivi che hanno già formato oggetto di apposita valutazione”.

Il giudicato cautelare è quindi uno strumento di sbarramento che ha l’unico scopo di salvaguardare i giudici dalla necessità di pronunciarsi nuovamente su questioni cautelari già trattate e respinte. Gli è perciò estranea qualsiasi funzione di garanzia, anzi ne è l’antitesi.

Certo, si potrebbe astrattamente provare a presentare una nuova istanza fondata sul decorso del tempo, da considerarsi, soprattutto a fronte di lunghi periodi, come un evento nuovo, idoneo a rimuovere il giudicato cautelare.

Si potrebbe, altroché. Ma la risposta più probabile (si veda, tra le altre, Cassazione penale Sezione 2^, 30.11.2011, n. 47416) sarebbe che “Il mero decorso del tempo non è elemento rilevante perché la sua valenza si esaurisce nell’ambito della disciplina dei termini di durata massima della custodia stessa, e quindi necessita di essere considerato unitamente ad altri elementi idonei a suffragare la tesi dell’affievolimento delle esigenze cautelari

Si potrebbe fare riferimento al tempo trascorso dalla commissione del presunto reato. Ma il giudice direbbe che tale periodo, se deve essere preso in considerazione all’atto dell’emissione dell’ordinanza cautelare, perde ogni rilevanza ai fini della revoca o della sostituzione della misura (sentenza n. 47416 citata).

Un’altra possibile carta potrebbe essere quella della pregressa incensuratezza dell’istante ma la risposta sarebbe che non si tratta di un elemento nuovo, poiché già esistente all’atto dell’emissione della misura.

Un lampo di gioia potrebbe illuminare il volto del difensore all’idea di potere utilizzare il buon comportamento carcerario tenuto dal suo assistito. E tuttavia, per Cassazione penale Sezione 3^, 8 gennaio 2015 n. 257, “l’osservanza delle prescrizioni connesse al regime custodiale è, a ben vedere, il minimo che ci si possa attendere da parte di chi vi è sottoposto sì da non poter essere segnalato come se si trattasse di condotta eccezionale”.

Si potrebbe infine far leva, se si ha la fortuna di disporne, su ragioni che all’uomo della strada sembrerebbero eccezionali, come ad esempio la condizione di un detenuto che sia genitore di un figlio minore il quale, in sua assenza ed in assenza dell’altro genitore, finisca in stato di abbandono. Eppure, anche in questo caso, la Corte di Cassazione (stessa pronuncia n. 257), concedendosi argomentazioni sociologiche o comunque metagiuridiche, osserverebbe che “si rende comunque necessaria una dimostrazione specifica del preteso stato di “abbandono” ove si verifichi una contestuale assenza dell’altro genitore (posto che, a ben vedere, la condizione di affidamento di un minore ad uno solo dei genitori è ormai quasi fisiologica in una società come quella attuale ove sono molti i genitori separati o addirittura “single” – per non esservi stato mai, ab initio, per le più varie ragioni, il secondo genitore). Nello specifico, quindi, e’ del tutto assertiva la frase del ricorrente secondo cui, “sussistendo l’impossibilita’ della madre di prestare assistenza al minore”, conclusione inevitabile dovrebbe essere quella di trasformare l’attuale stato custodiale in carcere con quello agli arresti domiciliari”.

Non deve allora stupire se, secondo stime ufficiali del Ministero dell’Economia, l’Italia è stata costretta a corrispondere tra il 1991 e il 2012 la somma complessiva di circa 600 milioni di euro a titolo di riparazione per decine di migliaia di casi di ingiusta detenzione.

Né deve sorprendere il cronico sovraffollamento dei nostri istituti di pena cui periodicamente si tenta di ovviare con pezze più o meno riuscite.

Un altro punto di frizione tra i principi CEDU e la giurisprudenza nostrana è quello della corrispondenza tra la contestazione e la pronuncia. È un tema essenziale dell’equo processo, avendo strettamente a che fare con la possibilità per l’accusato di difendersi consapevolmente senza dover temere strategie devianti da parte della pubblica accusa.

Anche per questo aspetto le garanzie riconosciute dalla nostra legislazione, costituzionale e ordinaria, non hanno nulla da invidiare a quelle contenute nell’articolo 6 § 3 lettera a) CEDU e richiedono particolare rigore sulle regole da osservare per informare le persone delle accuse penali mosse a loro carico e assicurare la corrispondenza tra accusa e sentenza.

Eppure, ancora una volta, la nostra giurisprudenza, ivi compresa quella costituzionale, è stata capace di inventare dal nulla espressioni, concetti e prassi applicative che contraddicono quella disciplina.

Si ricorre, come di consueto, ad un esempio concreto, scelto tra i tanti possibili.

L’articolo 516 codice di procedura penale, coerentemente all’architettura processuale che privilegia il dibattimento come luogo di emersione dei fatti e di acquisizione delle prove, consente al Pubblico Ministero di mutare l’accusa in corso d’opera ma – è qui il punto – solo se l’istruttoria dibattimentale abbia fatto emergere un fatto diverso da quello contestato inizialmente e se tale diversità non fosse conosciuta in precedenza.

Con altrettanta coerenza, il successivo articolo 522 codice di procedura penale dispone che la sentenza di condanna pronunciata per un fatto nuovo in violazione della regola contenuta nell’articolo 516 è nulla.

Sembrerebbe una regolamentazione chiara, così chiara da non potere dare adito a dubbi e incertezze applicative. Eppure non è così.

La giurisprudenza italiana è stata infatti capace di coniare il concetto di contestazioni tardive con il quale è stato legittimato il comportamento del Pubblico Ministero che modifichi l’imputazione dopo l’emissione del decreto di citazione a giudizio sulla base di elementi di fatto che gli erano noti fin dalla fase istruttoria.

In questi casi, per una sorta di ipocrita pudore, si ammette l’imputato ad interloquire sul mutamento e, ove lo ritenga, a presentare richieste istruttorie che devono comunque sottostare al filtro di ammissibilità del giudice che procede. Ognuno può giudicare da sé il peso specifico di questa interlocuzione e la sua idoneità a ripristinare l’equilibrio violato.

Dal canto suo, la Corte Costituzionale italiana ha assimilato le contestazioni tardive ad un fenomeno patologico e, con la sentenza 333/2009, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 516 codice di procedura penale nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere il giudizio abbreviato per il fatto diverso contestatogli tardivamente.

Ci si limita ad osservare che la possibilità introdotta dalla Corte Costituzionale non è affatto risolutiva poiché non ripristina il diritto dell’imputato ad un contraddittorio pieno sul fatto diverso, dal momento che il giudizio abbreviato si svolge essenzialmente sul materiale probatorio raccolto dal Pubblico Ministero.

Si è quindi in presenza di indirizzi interpretativi che attribuiscono all’accusa pubblica poteri esorbitanti e indeboliscono o annullano garanzie difensive essenziali.

Di ben diversa portata è la giurisprudenza della Corte EDU la quale ha ripetutamente affermato (si vedano tra le altre le pronunce Mattei c. Francia del 19 dicembre 2006 e Papalia c. Italia del 23 giugno 2005) che l’accusato ha diritto di essere immediatamente informato in modo dettagliato dei fatti materiali posti  a suo carico e della qualificazione giuridica loro attribuita.

Nella pronuncia Mattei si chiarisce in particolare che l’informazione dettagliata è una condizione essenziale dell’equità della procedura in quanto funzionale al diritto dell’imputato di preparare la propria difesa.

Beninteso, il portato di questo indirizzo europeo è che l’indebito mutamento dell’accusa fa venir meno l’equo processo ed implica una grave violazione dell’articolo 6.

Si chiude questo paragrafo con qualche riflessione sulla recente pronuncia n. 31617/2015 delle Sezioni unite penali.

La si cita non solo per l’interesse che ha di per se stessa ma anche in quanto “figlia” della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale commentata in precedenza, il che consente di comprendere in modo più approfondito e sinottico il peso che la giurisdizione italiana attribuisce ai principi affermati a Strasburgo.

L’oggetto della questione era costituito dalla confisca del prezzo o del profitto del reato, occorrendo stabilire se si trattasse o no di una sanzione penale alla stregua dei parametri indicati dalla Corte EDU.

Le Sezioni unite hanno attribuito all’istituto la natura di misura di sicurezza.

Hanno ritenuto che per la sua applicazione non sia sufficiente un accertamento incidentale della responsabilità del destinatario poiché, se così fosse, la confisca si trasformerebbe indebitamente in un’actio in rem.

Hanno quindi affermato che “l’accertamento della responsabilità deve confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo o il profitto del reato steso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”.

La confisca può infine essere disposta anche nel caso in cui sia intervenuta una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ma quest’ultima “deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per “confermare” la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva, a ben guardare, non dissimile da quella tracciata dall’articolo 578 del codice di rito in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione”.

Le Sezioni unite hanno ulteriormente precisato, rifacendosi alle linee guida tracciate dalla Corte costituzionale nella sentenza 49/2015, che, a proposito di prescrizione, “L’obbligo della relativa immediata declaratoria, infatti, lungi dallo stemperare il “già accertato”, ne cristallizza gli esiti “sostanziali”, sia pure nella circoscritta e peculiare dimensione della confisca del prezzo del reato, dal momento che – altrimenti – al giudice incomberebbe un onere di “conformazione costituzionale” della interpretazione, attenta a salvaguardare anche i “controlimiti” che la pronuncia della Corte costituzionale ha implicitamente, ma chiaramente, evocato. In altri termini, l’opposta tesi dovrebbe fare i conti con la gamma non evanescente di valori costituzionali che verrebbero ad essere ineluttabilmente coinvolti da un sistema che, dopo aver accertato la sussistenza del reato, la responsabilità del suo autore e la percezione da parte di questi di una somma come prezzo del reato, non consentisse l’ablazione di tale prezzo, esclusivamente per l’intervento della prescrizione che giustifica “l’oblio” ai fini della applicazione della  pena, ma non impone certo la inapplicabilità della misura di sicurezza patrimoniale”.

Così richiamati i punti essenziali della pronuncia 31617/2015, pare chiaro che il profilo di maggiore interesse e novità è l’affermazione del concetto di “condanna in senso sostanziale” ed il suo utilizzo come grimaldello per legittimare una confisca altrimenti impossibile.

Le conseguenze davvero importanti e – va aggiunto - pericolosissime di questa novità, che potrebbe abbastanza agevolmente essere estesa a tutte le situazioni giuridiche negative il cui presupposto sia una condanna penale, rendono quantomai necessaria la verifica della sua tenuta giuridica e logica.

C’è anzitutto un dato normativo di cui tenere conto ed è quello contenuto nel primo comma dell’articolo 240 codice penale il quale affida al giudice il potere discrezionale di disporre la confisca delle cose “che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.

Questo potere è esercitabile – premette la norma – solo nel caso di condanna.

Si è consapevoli che l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative è, per dirla con le parole usate dalla Consulta nella sentenza 1/2013, un “metodo primitivo sempre”.

È vero, il tenore letterale non è di per se stesso sufficiente ma ciò non significa che se ne possa prescindere.

Bisogna allora chiedersi quale sia il significato più corretto da attribuire al termine “condanna” usato dal legislatore codicistico.

Si potrebbe iniziare rilevando che mai nessuno finora, ivi comprese le stesse Sezioni unite in precedenti pronunce sulle medesime questioni, aveva inteso quell’espressione in modo diverso da giudicato formale di condanna. Questa prospettiva non porterebbe però molto lontano perché il suo presupposto logico sarebbe che chi dice qualcosa mai detto prima ha sempre torto. Anche questo sarebbe un metodo primitivo e quindi lo si scarta a priori.

È invece imprescindibile il confronto con l’articolo 27 comma 2 Costituzione ed il principio di presunzione di innocenza, o meglio di non colpevolezza, ivi contenuto.

Il Costituente non si è accontentato di affermarlo ma ha inteso dargli la massima ampiezza, estendendolo fino al momento della condanna definitiva.

La previsione in esame va letta in modo congiunto con quella contenuta nell’articolo 24 comma 2 la quale, attribuendo alla difesa la natura di diritto inviolabile, lo riferisce esplicitamente ad “ogni stato e grado del procedimento” e con l’ulteriore previsione dell’articolo 111 comma 7 che ammette il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale.

La Costituzione considera dunque un’imprescindibile garanzia, ancorché affidata all’iniziativa delle parti, la possibilità di dar vita ad un giudizio scandito in gradi, ognuno dei quali necessario ma non sufficiente per il risultato finale.

In piena coerenza con questo postulato, chi subisce da accusato un procedimento penale ha il diritto di non essere considerato colpevole fino a che il mosaico complessivo delineato dalla Costituzione non si compone per intero.

Sicché, qualunque lettura che pretenda di anticipare a momenti processuali precedenti al giudicato l’affermazione della responsabilità, e ne tragga per di più spunto per l’irrogazione di sanzioni che presuppongono tale affermazione, viola palesemente la lettera e la ratio del principio di non colpevolezza.

Esposto questo primo e imprescindibile passaggio, già sufficiente a dimostrare l’erroneità della decisione delle Sezioni unite, occorre adesso soffermarsi sulla natura dell’istituto della prescrizione e sul modo in cui si esso incrocia con il processo e il giudizio.

È nella consapevolezza pressoché unanime che la prescrizione appartiene all’ambito del diritto penale sostanziale e trova la sua ragion d’essere nell’esaurimento, una volta decorso un prefissato periodo di tempo, dell’interesse repressivo dello Stato riguardo ad un determinato fatto – reato.

L’effetto della prescrizione è chiaramente esplicitato nel primo comma dell’articolo 157 codice penale e consiste nell’estinzione del reato.

La prescrizione, a differenza delle cause di estinzione della pena, rende quindi definitivamente impossibile l’emissione della sentenza di condanna, facendo mancare il suo necessario presupposto cioè l’esistenza giuridica di un reato.

Proprio per questa ragione ed ai sensi dell’articolo 129 codice di procedura penale, una volta che sia verificata la causa estintiva, il giudice, in qualunque stato e grado del processo, è tenuto a riconoscerne d’ufficio l’esistenza con una sentenza dichiarativa.

L’unica possibilità alternativa a questo epilogo è la sentenza di assoluzione o non luogo a procedere se gli atti processuali già disponibili rendono evidente la ricorrenza di una ragione assolutoria di merito.

Lo stesso obbligo è posto a carico del giudice dall’articolo 531 codice di procedura penale, per di più esteso anche ai casi in cui vi sia il semplice dubbio dell’esistenza di una causa di estinzione.

È una regolamentazione chiara che è il frutto di una altrettanto chiara volontà legislativa, realizzatrice di una finalità di indubbia ragionevolezza, tra l’altro fortemente collegata al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena.

Emerge anche per questa via la vistosa forzatura logica in cui sono incorse le Sezioni unite.

In altri termini: collegare, anche in presenza di un epilogo prescrittivo, l’accertamento definitivo della responsabilità all’emissione di una sentenza di condanna non smentita da successive pronunce assolutorie, è come dimenticare che la prescrizione funziona esattamente nel senso di porre nel nulla accertamenti di merito già compiuti ed impedire analoghi accertamenti futuri.

Non si tratta dunque di “un’anodina formula terminativa del giudizio” e non può essere affatto utilizzata come conferma della pronuncia di condanna.

La prescrizione determina al contrario una sorta di cessazione della materia del contendere, conseguente ad un’esplicita rinuncia statale alla pretesa punitiva, che nessun giudice può ignorare a pena di farsi indebitamente legislatore.

Ci sono infine tre rilievi da formulare.

Il primo: la possibilità di far luogo alla confisca anche in caso di prescrizione poggia, secondo il ragionamento delle Sezioni unite, sulla disponibilità di un accertamento di responsabilità il quale a sua volta presuppone una cognizione piena del merito.

Questa eventualità è chiaramente impossibile nelle situazioni regolate dall’articolo 129 codice di procedura penale il quale, non a caso, titola “Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”. Il giudice che si confronti con evenienze del genere non può e non deve quindi compiere alcun accertamento di merito.

Potrebbe tuttavia capitare che la prescrizione si maturi dopo il primo grado di giudizio, ad esempio in appello, quando cioè una prima delibazione di condanna nel merito è già disponibile.

È evidente che in un caso del genere, e sempre che non vi sia stata espressa e preventiva rinuncia alla prescrizione, il giudice dell’impugnazione non potrebbe che prendere atto della causa estintiva e dichiararla.

Si cristallizzerebbe in tal modo la valutazione del merito contestata con l’impugnazione senza che le contestazioni possano dipanarsi e, in ipotesi,  produrre effetti positivi a favore dell’appellante.

Dunque, prescrizione in entrambi i casi ma, secondo le Sezioni unite, confisca possibile solo nel secondo. E non per una qualche apprezzabile ragione ma solo per un accidente legato al momento processuale in cui matura la prescrizione. Sarebbe ragionevole questa diseguaglianza o violerebbe l’articolo 3 comma 1 Costituzione?

Il secondo rilievo: le Sezioni unite hanno introdotto un concetto, quello di “condanna sostanziale”, sconosciuto alla legge ed alla nostra civiltà giuridica e lo hanno usato in malam partem. È possibile questo, è consentito alla luce dei principi costituzionali e generali dell’ordinamento che sono stati illustrati in precedenza?

Il  terzo: le Sezioni unite, pur così attente alle ramificazioni degli ordinamenti sovranazionali nella materia trattata, sembrano non avere tenuto in considerazione la Direttiva 2014/42/UE emessa dal Parlamento europeo e dal Consiglio.

Il provvedimento è stato assunto sulla base degli artt. 82 § 2 e 83 § 1 TFUE i quali legittimano il Parlamento e il Consiglio ad istituire norme finalizzate ad agevolare la cooperazione penale o reprimere reati transnazionali di elevata gravità.

I primi articoli sono destinati alla definizione degli istituti. La confisca, contemplata nell’articolo 2 comma 1 - 4, è definita come una “privazione definitiva di un bene ordinata da un’autorità giudiziaria in relazione ad un reato” e si applica a tutti i reati previsti dall’articolo 3 o, in assenza di altri strumenti giuridici di attuazione, a tutti i reati puniti con una pena il cui massimo edittale sia non inferiore a quattro anni.

Entro il 4 ottobre 2016 gli Stati membri dell’UE, ai sensi dell’articolo 4 comma 1, sono tenuti ad adottare "le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia”.

Il provvedimento brevemente commentato è una direttiva e pone quindi a carico degli Stati membri un’obbligazione di risultato senza tuttavia essere direttamente applicabile nei loro ordinamenti.

Tuttavia, si tratta pur sempre di un atto che dovrà essere presto tradotto in norme nazionali ed è difficile immaginare che tale traduzione avverrà prescindendo dal requisito della condanna penale definitiva o attribuendogli un significato sostanziale e non formale.

Per di più, la direttiva 42 risale al 3 aprile 2014 ed era dunque ben nota quando le Sezioni unite vararono il principio che si sta commentando senza darle il minimo rilievo.

In conclusione, una pronuncia sicuramente innovativa ma se ne sarebbe volentieri fatto a meno.

Si può a questo punto concludere sul punto e lo si fa limitandosi a richiamare il giudizio di partenza. Alla grande apertura formale accordata al diritto di Strasburgo non pare corrispondere altrettanta accoglienza concreta. Visioni distanti, profonde differenze nella percezione di ciò che va garantito ove si voglia davvero proteggere i diritti umani. Insomma, mondi diversi, a dispetto di qualsiasi protocollo d’intesa.

La timidezza dell’avvocatura

La giurisdizione è, o almeno dovrebbe essere, un fatto corale. Ogni decisione dovrebbe infatti essere assunta a conclusione di una procedura in cui le parti hanno svolto correttamente il loro compito, hanno messo a punto le migliori argomentazioni possibili, hanno contribuito consapevolmente alla formazione delle prove, hanno indicato possibilità interpretative plausibili e coerenti alle caratteristiche della vicenda sub judice.

Queste coordinate, poste in relazione alle disposizioni ed ai principi CEDU, dovrebbero manifestarsi in due direzioni, l’una legata alla giurisdizione interna, l’altra alla giurisdizione europea.

Posta questa premessa, si desidera adesso esaminare la questione nella prospettiva delle attività difensive così da verificare il contributo che l’avvocatura italiana sta dando alla conformazione del nostro sistema giuridico alle regole CEDU.

Prima ancora però, serve dare un’occhiata alle statistiche che danno conto, con la fredda e imparziale logica dei numeri, di quanto avviene realmente a Strasburgo.

Nel 2015 sono stati depositati 40.650 nuovi ricorsi, sono stati dichiarati inammissibili 43.145 ricorsi, sono state emesse 823 sentenze.

Alla fine del medesimo anno risultano pendenti 64.850 ricorsi.

Tra i ricorsi depositati nel 2015, 1.935 chiamano in causa l’Italia la quale si colloca al settimo posto degli Stati – parte in questa particolare classifica dopo Ucraina (6.010), Russia (6.009), Romania (4.606), Ungheria (4.235), Turchia (2.208) e Polonia (2.182).

Quanto alla sorte destinata ai ricorsi contro il nostro Paese negli ultimi anni, risulta che nel 2013 ne sono stati depositati 3.180, 2.872 sono stati dichiarati inammissibili e 78 sono stati definiti con sentenza. Nel 2014 sono stati depositati 5.490 ricorsi, 9.625 sono stati dichiarati inammissibili e 145 sono stati definiti con sentenza. Nel 2015 sono stati depositati 1.935 ricorsi, 4.438 sono stati dichiarati inammissibili e 25 sono stati definiti con sentenza.

È interessante infine notare che, in via generale, a fronte dei ricorsi dichiarati ammissibili, la Corte accerta una violazione nell’82% dei casi. La metà delle violazioni accertate riguarda l’articolo 6 CEDU in tema di equo processo o l’articolo 3 che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti.

Questi dati, ancorché assai stringati, consentono già più di una riflessione.

La tendenza a ricorrere alla Corte di Strasburgo, e prima ancora la percezione che la giurisdizione di tale Corte sia un’occasione effettiva di tutela delle violazioni dei diritti umani, è ben radicata ed alimentata da un elevato numero di ricorsi.

È estremamente elevato lo scarto tra i ricorsi depositati e quelli dichiarati ammissibili, questi ultimi rappresentando una percentuale bassissima dei primi. Nondimeno, i ricorsi che riescono a superare il vaglio preliminare di ammissibilità, sono accolti nella maggior parte dei casi.

Le sentenze di condanna riguardano in una percentuale estremamente significativa violazioni dei principi dell’equo processo oppure hanno a che fare con trattamenti inumani o degradanti, assai spesso connessi alla condizione carceraria dei ricorrenti.

In questo contesto, la domanda di giustizia contro il nostro Paese è quantomai significativa ma non riesce a sottrarsi al destino generale sicché solo in rarissimi casi supera lo sbarramento preliminare.

Questo stato di cose chiama pesantemente in ballo l’avvocatura, o meglio la sua parte che assicura stabilmente o saltuariamente assistenza tecnica agli individui che intendono ricorrere a Strasburgo adducendo violazioni dei loro diritti umani.

Un numero così elevato di dichiarazioni di inammissibilità significa infatti che il professionista legale chiamato a confrontarsi con i riti procedurali europei non riesce ad assicurare gli elevati standard di competenza ed esperienza che la giurisdizione CEDU richiede in modo ineludibile.

Quelle percentuali significano infatti che l’avvocato non ha compiuto una corretta valutazione sulla fondatezza effettiva della questione sottoposta alla sua attenzione oppure non è riuscito a rappresentarla nei modi richiesti o non ha prestato sufficiente attenzione ai rigorosi parametri richiesti per l’ammissibilità o infine non ha saputo districarsi nelle maglie di una procedura che, al pari di ogni altra, ha i suoi tecnicismi.

Non solo. È piuttosto evidente, e la stessa Corte non manca di sottolinearlo nelle istruzioni emanate periodicamente per diffondere la migliore conoscenza delle regole procedurali per il giudizio di sua spettanza, che il buon esito del ricorso a Strasburgo richiede una preparazione da iniziare già durante il  corso delle procedure nazionali.

Il difensore che ritenga violata una disposizione CEDU dovrebbe farlo rilevare già ai giudici interni, richiamando esplicitamente le norme di riferimento  e la giurisprudenza che invoca a sostegno delle sue affermazioni. Le reazioni formali agli atti lesivi dovrebbero dunque contenere motivi di doglianza specificamente conformati a questa esigenza e tali, in caso di esito negativo, da essere agevolmente richiamati e fatti valere nella successiva sede europea.

Di più. Il professionista interessato dovrebbe essere capace, già mentre opera nell’ambito della giurisdizione interna, di sottrarsi alla tirannia delle sue formule, dei suoi contenuti e dei suoi indirizzi e, con uno sforzo di pensiero laterale, impostare le difese necessarie attingendo al patrimonio normativo e giurisprudenziale europeo, da utilizzare in modo congiunto e sinergico rispetto a quello nazionale.

Emerge in tal modo la necessità di una nuova e più avanzata cultura professionale che contenga in sé, in modo immanente, la sensibilità ai valori umani ispirata dalla Convenzione e dalla Corte EDU che ne è l’unica ed autorevole interprete.

È un compito non facile e neanche scontato, che richiede un elevato sforzo di rinnovamento ed un’apertura intellettuale spiccata. Ma è questa l’unica strada, non ce ne sono altre.

Conclusione

Le considerazioni fin qui formulate, prive di qualsiasi pretesa sistematica, hanno il semplice scopo di offrire un contributo se si vuole riflettere su uno dei tanti paradossi italiani: la bizzarria di un grande Paese, cui si può riconoscere senza fatica un ruolo pionieristico nel processo di costruzione dell’identità e della integrazione europea, che tuttavia si identifica solo in parte ed a fatica nei valori che ha contribuito a creare.

Un paradosso - è giusto riconoscerlo - alimentato da vari protagonisti: il legislatore, che solo raramente e tardivamente mostra sintonia verso la sensibilità europea; la magistratura, anche costituzionale, che si arrocca a difesa di un sistema interamente costruito su logiche ed esigenze interne e che mal tollera, a dispetto di un atteggiamento formale di grande apertura, ingerenze e commistioni provenienti dalla grande base giuridica europea; la classe forense, probabilmente troppo appiattita sulle medesime logiche della magistratura e per ciò stesso scarsamente attenta a quanto avviene fuori dei confini nazionali.  

Si paga per questo un prezzo piuttosto salato. Mentre altrove la cultura dei diritti umani si consolida e progredisce, il nostro Paese si segnala per ritardi sistematici che finiscono per negare alla sua comunità la modernità e l’accuratezza di garanzie e tutele di cui ha bisogno.

Volgendo poi uno sguardo specifico ai temi della giurisdizione, è impossibile negare l’esistenza di problemi strutturali tali da rendere insoddisfacente la risposta che il nostro sistema giudiziario è in grado di offrire ai bisogni manifestati dagli utenti. La cartina di tornasole è rappresentata dalla congerie di condanne subite dall’Italia in sede europea, dagli altrettanto numerosi warning che le istituzioni sovranazionali ci indirizzano periodicamente nel tentativo di stimolare le necessarie riforme di sistema, dai ripetuti, sempre tardivi e non sempre illuminati sforzi di porre riparo ai guasti di cui tanti sono vittime.

La situazione diventa ancora più pesante se si considera che questi costi incidono in misura prevalente su gruppi particolarmente deboli e vulnerabili (detenuti, immigrati etc.)  il che li rende ancora più odiosi e irragionevoli.

Ed allora pare davvero arrivato il momento di riflettere sul serio sul gap di cui si è detto e creare le condizioni per colmarlo.

Abstract

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo opera in Italia da 60 anni ma i suoi effetti tardano a manifestarsi per intero: il legislatore si adegua tardivamente ai suoi principi, la giurisprudenza è restia a cedere una parte della sua "sovranità" in favore delle pronunce della Corte dei diritti umani di Strasburgo, gli avvocati non sempre riescono nel loro compito di intermediazione tra valori europei e prassi applicative interne.

Premessa

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito CEDU), istituita a Roma il 4 novembre 1950, entrò in vigore in Italia il 26 ottobre 1955 allorché fu ratificata dalla Legge 4 agosto 1955 n. 848.

Sono passati sessant’anni da allora, un periodo più che sufficiente per assicurarne la piena operatività nel nostro Paese e renderla materia viva nei rapporti tra i cittadini e i poteri pubblici.

Senza poi dimenticare che l’Italia fu tra i dieci firmatari originari del Trattato di Londra del 5 maggio 1949 che diede vita al Consiglio d’Europa, organo cui si deve la redazione e l’adozione della CEDU.

E senza neanche omettere che la CEDU si inseriva dichiaratamente nel solco della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e presentava un impianto per molti versi affine o addirittura sovrapponibile a quello della nostra coeva Costituzione repubblicana.

Ciò nonostante, contro ogni auspicio e previsione, la penetrazione di questo fondamentale trattato nel nostro tessuto normativo, giurisprudenziale e sociale è avvenuta assai lentamente e faticosamente al punto da spingere l’Italia nei bassifondi della classifica degli Stati membri per quantità e qualità delle infrazioni alle sue norme.

È utile allora riflettere su questi ritardi e lentezze e sulle ragioni che li hanno provocati.

Il rango riconosciuto alla CEDU nell’ordinamento interno: la controversa soluzione individuata dalla Corte costituzionale

Qualunque riflessione si voglia intraprendere sull’effettività di un trattato internazionale, il primo passo da compiere è la verifica del suo rapporto con l’ordinamento giuridico del Paese che lo accoglie, vale a dire del rango nella gerarchia delle  fonti normative che questo è disposto a riconoscergli.

Come spesso accade nel nostro sistema, la relazione di cui si parla ha generato un lungo e faticoso dibattito.

Se ne analizzano adesso le tappe più significative.

Il punto di partenza obbligato è costituito dalle cosiddette sentenze gemelle, precisamente le decisioni nn. 348 e 349 del 2007, non a caso successive alla riforma del Titolo V della Costituzione operata dalla Legge costituzionale 3/2001, attraverso le quali la Consulta mise a punto il manifesto ideologico e, al tempo stesso, il vademecum operativo in tema di rapporti tra la nostra Carta e quella europea.

La sentenza n. 348 individuò la norma regolatrice  del rapporto, identificandola nell’articolo 117 comma 1 Costituzione

Non dunque l’articolo 11 che, consentendo le limitazioni di sovranità nazionale conseguenti alla partecipazione del nostro Paese ad organizzazioni internazionali volte ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni, ammette l’ingresso diretto e senza filtri delle norme di provenienza comunitaria dotate di immediata esecutività ma non si estende invece alle norme di diritto internazionale pattizio sprovviste di tale caratteristica.

E neanche l’articolo 10 comma 1, il quale, riferendosi alle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, rimanda chiaramente al diritto internazionale consuetudinario, categoria cui le norme CEDU sono, ad avviso della Corte costituzionale, naturalmente estranee.

Fu invece ritenuto pertinente il richiamo all’articolo 117 comma 1 il quale distingue chiaramente tra vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e vincoli derivanti da obblighi internazionali.

Quindi, secondo i giudici costituzionali, l’adesione dell’Italia ai Trattati comunitari ha comportato il suo ingresso in un ordinamento sovranazionale e la cessione di una parte di sovranità legislativa, fatto salvo il limite invalicabile del rispetto dei principi e diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. La CEDU, invece, non ha creato un ordinamento di tal genere e non è quindi in grado di generare norme immediatamente applicabili.

Tuttavia, proprio in virtù del citato articolo 117, il nostro Paese ha l’obbligo di legiferare in conformità alle norme CEDU, le quali assumono nella gerarchia delle fonti  un rango intermedio tra la Costituzione e la legge ordinaria e si configurano per ciò stesso come un parametro subcostituzionale.

Nella visione della Consulta ciò significa che quelle norme, per come interpretate dalla Corte di Strasburgo, possono operare in Italia solo in quanto conformi alla Costituzione ma, al tempo stesso, fungono da parametro interposto di riferimento per l’interpretazione delle norme di diritto interno. I giudici italiani sono quindi tenuti ad interpretare la nostra legislazione in modo convenzionalmente orientato, cioè conforme ai dettami delle norme CEDU. Se questa conformità risultasse impossibile, spetta ai giudici sollevare questione di legittimità costituzionale.

È quindi esclusa la possibilità di disapplicare direttamente la norma di diritto interno che appare contrastante con una norma CEDU.

La sentenza n. 349 ribadì ovviamente l’impianto concettuale della sentenza n. 348.

Vi si osservò anzitutto che le disposizioni CEDU, rese esecutive nell’ordinamento italiano con legge ordinaria, mutuavano il medesimo rango della fonte di adattamento.

Si escluse che l’articolo 11 Costituzione potesse essere invocato in via indiretta per effetto della qualificazione dei diritti di fonte CEDU come principi generali del diritto unionale, osservandosi che il Consiglio d’Europa dà vita ad un sistema giuridico, funzionale ed istituzionale ben distinto da quello proprio dell’UE.

Si affermò nuovamente che l’incompatibilità delle norme interne con le disposizioni CEDU non poteva essere rimediata in via diretta con la disapplicazione giudiziale delle prime, ostando il fatto che i diritti riconosciuti dalla stessa CEDU sono stati attribuiti ai singoli individui non attraverso la creazione di un ordinamento sovranazionale ma in virtù della legge ordinaria che ha autorizzato la ratifica del Trattato di Roma.

Con la sentenza in commento, infine, la Consulta colse l’occasione per rimarcare il proprio ruolo in materia e la sua autonomia rispetto a quello spettante alla Corte di Strasburgo. Mentre quest’ultima ha il compito di assicurare in via esclusiva l’interpretazione uniforme della Convenzione e dei suoi protocolli aggiuntivi, spetta alla Corte costituzionale, allorché sia chiamata in causa con la proposizione di una questione di costituzionalità, accertare il contrasto tra la norma interna e quella di fonte CEDU e, in caso affermativo, verificare ulteriormente se quest’ultima garantisce una tutela fondamentale di livello superiore rispetto a quella assicurata dalla legislazione italiana. Ove ricorrano entrambe le condizioni, non resterà che dichiarare l’illegittimità della norma interna.

È davvero e interamente condivisibile questa posizione?

In dottrina non sono mancati interventi autorevoli che hanno espresso ed argomentato critiche di notevole spessore.

Qui si preferisce proporre un unico rilievo.

È vero che la CEDU, in quanto un trattato internazionale, è una fonte di diritto pattizio. Non si può dimenticare però che le sue norme e protocolli aggiuntivi tutelano diritti umani, materia unanimemente posta sotto la tutela del diritto internazionale consuetudinario.

Sicché, il loro canale costituzionale di ingresso nel nostro ordinamento ben poteva essere individuato nell’articolo 10 comma 1 piuttosto che nell’articolo 117 comma 1.

Comunque sia, la Consulta ha proseguito la sua opera di sistematizzazione con ulteriori pronunce tra le quali è degna di nota la sentenza 264/2012, riguardante il cosiddetto caso delle pensioni svizzere.

L’oggetto della pronuncia fu la legge di interpretazione autentica n. 296/2006 che correggeva, in senso meno favorevole per gli interessati e nella prospettiva di un riequilibrio dei conti pensionistici, un indirizzo giurisprudenziale applicato alla determinazione del trattamento spettante ai lavoratori che avevano versato contributi all’estero (i quali, in sostanza, versavano meno contributi rispetto a coloro che lavoravano in Italia).

Nel 2011 i giudici di Strasburgo, con la sentenza Maggio c. Italia, ritennero che l’applicazione retroattiva della Legge 296 ai processi in corso violasse i principi dell’equo processo ex articolo 6 CEDU. Ciò perché, pur essendo possibile per i legislatori statali disciplinare retroattivamente diritti vigenti, l’influenza delle disposizioni retroattive sulle procedure giudiziarie in corso poteva avvenire solo per ragioni di interesse generale che in quel caso non ricorrevano.

La Corte EDU affermò quindi che la norma italiana di interpretazione autentica confliggesse con gli obblighi assunti dal nostro Paese in forza dell’articolo 6.

La nostra Corte costituzionale, adita sulla medesima questione in conseguenza della pronuncia di Strasburgo, si pronunciò nel senso dell’infondatezza.

La Consulta osservò che la legge n. 296 aveva lo scopo di assicurare la corrispondenza tra risorse disponibili e prestazioni erogate e realizzava in tal modo il precetto dell’articolo 81 comma 4 Costituzione oltre che il rispetto dei principi di uguaglianza e solidarietà.

Il risultato fu la disapplicazione della pronuncia CEDU sul presupposto che, ove ne fosse stato consentito l’ingresso nel nostro ordinamento, si sarebbe verificata una diminuzione di tutela rispetto a quelle disponibili in Italia.

L’aspetto più interessante è che la Consulta arrivò a questa conclusione non in riferimento al singolo diritto fondamentale oggetto diretto del giudizio, cioè quello dei lavoratori all’equità del processo in cui si verteva del loro trattamento pensionistico, ma prendendo in considerazione tutti i diritti, principi ed interessi tutelati dalla Costituzione (tra i quali era compresa la parità di trattamento tra i titolari di trattamenti pensionistici).

La Corte Costituzionale precisò nell’occasione di considerarsi titolare di un margine di apprezzamento, istituto la cui esistenza è stata elaborata dalla giurisprudenza di Strasburgo, cioè  una facoltà di temperamento alla rigidità dei principi formulati in sede europea, utile per evitare potenziali conflitti tra ordinamenti.

Non sfugge però che in questo sforzo ecumenico la Consulta finì per riservare al diritto all’equo processo una tutela assai inferiore non solo rispetto a quella standard ma anche a quella minima.

Merita infine una specifica menzione la recente sentenza 49/2015.

La questione di fondo verteva sulla speciale ipotesi di confisca prevista dall’articolo 44 comma 2 Decreto Presidente della Repubblica n. 380/2001 allorché una sentenza definitiva del giudice penale abbia accertato l’esistenza di una lottizzazione abusiva.

Un consolidato indirizzo di legittimità attribuiva a tale istituto la natura di sanzione amministrativa reale, ritenendo che il giudice penale dovesse applicarla in conseguenza del semplice accertamento della materialità dell’illecito. In questa visione, la confisca rimaneva quindi doverosa anche se il procedimento penale si fosse concluso con pronuncia di prescrizione.

La Corte EDU non ha tuttavia condiviso questo modo di vedere. Attenti come sono più ai profili sostanziali che a quelli formali, e non tenendo in particolare conto le definizioni e classificazioni proprie delle legislazioni statali, i giudici di Strasburgo, a partire dalla sentenza Sud Fondi c. Italia, hanno elaborato un ben diverso indirizzo il quale, attribuendo natura sostanzialmente penale alla sanzione della confisca, escludeva che la sua irrogazione potesse essere disposta senza un previo giudizio di colpevolezza conseguente all’imputazione soggettiva del fatto.

L’orientamento appena segnalato è stato rafforzato ed esteso con la sentenza Varvara c. Italia.

L’indirizzo della Corte EDU è legato a due precise direttrici.

La prima è l’applicazione dei cosiddetti criteri Engel (così denominati in quanto affermati nella sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976) i quali identificano un’accusa penale tutte le volte in cui ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:

  • l’illecito contestato sia qualificato come penale dal sistema giuridico dello Stato interessato;
  • esso accordi tutela erga omnes a beni giuridici della collettività;
  • sia punito con una sanzione particolarmente afflittiva e grave, tale da incidere profondamente nella sfera giuridica dell’accusato.

La seconda direttrice attiene alla concezione del diritto di proprietà che nella visione della Corte EDU è fondamentale ed assoluto mentre nella previsione costituzionale italiana è soggetto ai limiti che ne assicurano la funzione sociale.

Si scontrano allora due visioni profondamente contrastanti.

La nostra Corte di Cassazione, precisamente la Terza sezione penale, ha avvertito di conseguenza la necessità di sottoporre la questione alla Consulta sulla base di un preciso presupposto: la sentenza Varvara avrebbe modificato il contenuto del citato articolo 44 comma 2, attribuendogli un significato differente da quello consolidato nella giurisprudenza interna e lo avrebbe in tal modo reso illegittimo per contrasto con le norme costituzionali poste a tutela di beni primari quali il paesaggio, l’ambiente e la salute.

Nel medesimo contesto si è inserito anche il Tribunale di Teramo che però si è mosso secondo una prospettiva completamente differente, chiedendo alla Consulta di adeguare la previsione dell’articolo 44 alla sentenza Varvara nel senso di escludere che possa farsi luogo a confisca allorchè il reato di lottizzazione abusiva sia dichiarato estinto per prescrizione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 49/2015, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni, sfruttando l’occasione per ribadire e rafforzare la propria visione sui rapporti tra l’ordinamento italiano e quello che ruota attorno alla CEDU.

Il giudice delle leggi ha richiamato anzitutto l’obbligo dei giudici interni di tentare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme nazionali. Ha tuttavia chiarito che tale obbligo vale soltanto in riferimento alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, venendo invece meno per le pronunce isolate o comunque espressive di orientamenti ancora ondivaghi.

Se dunque il giudice interno ritiene di aderire a pronunce europee non consolidate, rimane privo della possibilità di eccepire l’incostituzionalità della norma interna contrastante poiché il parametro di riferimento, cioè la disposizione CEDU per come interpretata dalla Corte di Strasburgo, non ha la consistenza necessaria per sovrastare la legislazione statale.

Il che è come dire che, a fronte di indirizzi europei privi di adeguato consolidamento, il giudice interno farebbe bene ad affidarsi ai principi costituzionali che, comunque, prevalgono sulla CEDU.

Se invece il contrasto avviene tra una norma interna e un’interpretazione consolidata di disposizioni CEDU, la via obbligata è quella del ricorso alla Corte costituzionale per contrasto con l’articolo 117 comma 1. La questione così sollevata consentirà alla Corte l’espunzione della norma interna contrastante.

Se, infine, il contrasto chiamasse in causa una norma CEDU contraria alla Costituzione, il giudice interno sarebbe tenuto a impugnare la legge di adattamento della CEDU nella parte in cui ha consentito appunto l’ingresso di una norma siffatta.

Quanto poi alla pronuncia strasburghese sulla confisca urbanistica, la Corte l’ha facilmente liquidata osservando che si tratta di una decisione non espressiva di un indirizzo consolidato, con tutto ciò che ne consegue nei termini già chiariti.

Con buona pace, viene da dire, del principio di presunzione di innocenza sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione e dall’articolo 6 § 2 della CEDU.

Così esposta, in modo piuttosto sommario, la dottrina della Consulta, pare di potere affermare che tale organo, pur aprendo qualche varco alla penetrazione del diritto di Strasburgo, abbia comunque privilegiato e realizzato un sistema tale da frenare considerevolmente la portata del fenomeno e rafforzare il proprio ruolo di difensore di ultima istanza della sovranità nazionale.

Difficile dire, quantomeno in termini perentori, se un simile atteggiamento sia un bene o un male, un esercizio di saggezza istituzionale o un irragionevole attaccamento a principi e valori ormai superati.

Certo è che la prospettiva di un inasprimento dei rapporti tra la Corte Costituzionale e la Corte europea, già in qualche modo manifestatosi in occasione della sentenza 264/2012, appare tutt’altro che teorica.

Il bipolarismo della giurisprudenza italiana

È adesso il momento di dare uno sguardo alla visione che i giudici del nostro Paese esprimono quotidianamente con le loro decisioni.

Contravvenendo all’ottima regola per la quale i giudizi dovrebbero seguire ai fatti, si anticipa che la giurisprudenza italiana mostra in più casi un atteggiamento bipolare nei confronti non solo della CEDU ma della più estesa necessità di un’effettiva apertura a sensibilità giuridiche differenti da quella interna.

Si coglie da un lato un complesso di slogan che, tutti insieme considerati, compongono una sorta di manifesto del “giuridicamente corretto” e suggeriscono un ossequio formale all’idea di un ordinamento comune europeo fondato su tutele avanzate, su standard garantistici addirittura sofisticati e sulla priorità assoluta ed indiscutibile da riconoscere ai diritti umani.

Dall’altro si percepisce invece una costante e piuttosto ostinata ritrosia a creare le condizioni necessarie a trasformare quegli slogan in diritto vissuto e praticato.

È come se, in altri termini, i nostri giudici faticassero ad accettare anche la semplice eventualità che il loro modo di interpretare ed applicare i precetti legislativi non sia il migliore possibile e gli sia quindi utile giovarsi di apporti esterni.

È come se la cessione di una parte anche minima della “sovranità giurisprudenziale” nostrana non faccia minimamente parte dell’agenda della magistratura italiana.

È bene adesso giustificare concretamente il giudizio appena espresso.

Lo si farà partendo non da una singola decisione o un indirizzo interpretativo ma da un accordo protocollare.

L’11 dicembre 2015 si sono incontrati a Strasburgo Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione, e Guido Raimondi, presidente della Corte EDU.

Nell’occasione è stato stipulato un protocollo di intesa finalizzato a diffondere e favorire lo scambio della giurisprudenza anche ai fini di una migliore e costante attuazione della  CEDU e una più agevole inclusione della giurisprudenza della Corte dei diritti umani nell’ordinamento nazionale.

Programma lodevole e tale da sottolineare la convinta vocazione europeista della nostra più alta istanza giudiziaria e, a cascata, dell’intera magistratura italiana.

La stessa prospettiva è dato cogliere allorché si esaminino le periodiche relazioni sullo stato dell’arte emesse dalla stessa Corte di Cassazione, mediante il suo Ufficio del Massimario.

Tra le tante, si è ritenuto di scegliere, per i toni ispirati, quella di fine 2011, esplicitamente dedicata all’analisi del rapporto tra la nostra giurisprudenza di legittimità e quella della Corte EDU.

Vi si legge tra l’altro che “Un continuo intrecciarsi di “rimandi” interni sembra connotare, in particolare, i rapporti fra la Corte Suprema di Cassazione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, alimentandone così intensamente le possibilità di “dialogo”, sino a ritenere oramai non più revocabile in dubbio “che sia patrimonio comune della scienza giuridica, della giurisprudenza costituzionale e di legittimità la “forza vincolante” delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo, sancita dall’articolo 46 della Convenzione, là dove prevede che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”.

Questo è l’immagine che la nostra magistratura di vertice offre di sé alla quale, per la verità - sarebbe ingeneroso e scorretto negarlo - corrisponde in più casi uno sforzo di adattamento e di comprensione che ha portato ad un effettivo avvicinamento tra le due realtà giuridiche a confronto.

Eppure - anche questo deve essere chiaro - sullo sfondo rimangono numerosi nodi irrisolti e prassi applicative che spesso risultano in aperta contraddizione con i principi europei.

Si preferisce in questo caso argomentare non soltanto su pronunce ed indirizzi effettivi ma anche su ciò che i nostri giudici dovrebbero dire, ove fossero realmente ispirati dai principi della CEDU, e che invece non dicono.

Non si procederà secondo un rigido ordine sistematico ma saltando qua e là, giusto per dare un’idea di ciò che si intende.

Un primo terreno di riscontro può essere agevolmente individuato nell’essenziale materia della libertà personale e delle sue possibili limitazioni.

Le pertinenti disposizioni CEDU sono contenute negli artt. 5 § 3 e 6.

Nella sua incessante produzione giurisprudenziale, la Corte di Strasburgo ha reso chiarissimo che in un sistema realmente rispettoso dei diritti umani la detenzione preventiva è uno strumento eccezionale, cui ricorrere solo a fronte della dimostrata inadeguatezza di misure meno afflittive e comunque sulla base di ragioni massimamente concrete ed argomentate in modo convincente ed effettivo.

I giudici dei diritti umani hanno dunque precisato che:

  • la protrazione della detenzione, anche di quella inizialmente legittima, è ammissibile solo in presenza di elementi concreti che ne rivelino un’effettiva necessità di interesse pubblico (Contrada c. Italia, 24 agosto 1999) poiché, in caso contrario, diventa lo strumento per un’inammissibile anticipazione dell’espiazione della pena (Khudobin c. Russia, 26 ottobre 2006);
  • la motivazione della detenzione deve essere particolarmente penetrante riguardo all’effettiva esistenza di ragioni sufficienti e rilevanti (Gerard Bernard c. Francia, 26 settembre 2006), non deve limitarsi ad argomenti generali e astratti (Clooth c. Belgio, 12 dicembre 1991) né essere fondata su formule stereotipate o sommarie (Solmaz c. Turchia, 16 gennaio 2007) né consistere nella mera ripetizione dei criteri previsti dalla legge (Smatana c. Repubblica Ceca, 27 settembre 2007); questi obblighi motivazionali esistono anche in presenza di presunzioni normative di pericolosità sociale come quella contenuta nell’articolo 275 comma 3 codice di procedura penale (Labita c. Italia, 6 aprile 2000);
  • quanto alle specifiche esigenze cautelari, il pericolo di sviluppo dell’attività criminosa deve essere desunto da elementi concreti quali, ad esempio, la continuazione prolungata degli illeciti, l’entità dei danni causati alla vittima, la pericolosità dell’imputato (Dumont Maliverg c. Francia, 31 maggio 2005) o i suoi precedenti specifici (Clooth c. Belgio, citata);
  • a sua volta, il pericolo di interferenze con il corso della giustizia è concepibile all’inizio dell’attività investigativa ma è poi destinato a svanire quando il procedimento prosegua e la raccolta delle prove si avvicina al termine (Nevmerzhitsky c. Ucraina, 5 aprile 2005); anche tale pericolo deve essere comunque fondato su elementi concreti, non può essere proclamato solo in astratto (Becciev c. Moldavia, 4 ottobre 2005) e deve andare ben oltre la semplice possibilità teorica (Klamecky c. Polonia, 3 aprile 2003).

Principi chiari, saldamente ancorati al buon senso e ad una visione sostanziale delle garanzie spettanti a chi subisce un procedimento penale.

Si potrebbe dire a prima vista che la visione della Corte EDU non contenga nulla di nuovo e diverso rispetto alle disposizioni ed agli indirizzi interpretativi del nostro ordinamento.

A prima vista, appunto, ma le prassi applicative ed ancor prima le norme vigenti, ove esaminate al di là dell’apparenza formale, dimostrano una diversità sostanziale.

Si consideri anzitutto l’articolo 303 codice di procedura penale cioè la norma che disciplina i termini di durata massima della custodia cautelare. Sembrerebbe avere essenzialmente una funzione di limite nel senso che, stabilendo termini invalicabili per ciascuna fase procedimentale, può essere considerata come un argine all’arbitrio giudiziario. In realtà, se pure questa funzione ha una sua qualche consistenza, la stessa logica della norma risulta contraddittoria con i principi affermati in sede europea. Si vuole intendere che la riconosciuta ammissibilità di una detenzione preventiva che si protragga per la durata dell’intero processo è già di per se stessa profondamente incoerente con l’esigenza di non trasformare le misure cautelari detentive in una modalità di espiazione della pena.

Quest’impressione di incoerenza aumenta se si considera che, sempre ai sensi dell’articolo 303, la durata complessiva della custodia cautelare può arrivare a sei anni per i delitti puniti più gravemente.

La distanza diventa infine siderale allorché si prenda in considerazione il successivo articolo 304 il quale, ammettendo a fronte di determinate evenienze e necessità procedurali, la sospensione dei termini previsti dall’articolo 303, ne consente esplicitamente il raddoppio, sia pure introducendo una clausola generale di salvaguardia in virtù della quale la custodia cautelare non può in nessun caso superare i due terzi del massimo della pena  prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza.

Non occorrono calcoli aritmetici perché sia evidente che il nostro ordinamento consente detenzioni preventive spaventosamente lunghe e ne legittima la protrazione per l’intero giudizio.

Si potrebbe obiettare che l’incoerenza di cui si parla è un fatto interamente imputabile al legislatore e al quale i giudici sono estranei. Le prassi applicative e i consolidati indirizzi giurisprudenziali dimostrano tuttavia che la nostra magistratura opera spesso in modo da potenziare quell’incoerenza e portarla ai suoi massimi limiti.

Ancora una volta si preferisce evitare una rassegna sistematica e si ricorre ad un unico esempio, quello del cosiddetto giudicato cautelare. L’espressione, di creazione giurisprudenziale, si riferisce alla condizione di chi abbia esperito (o abbia scelto di non esperire, facendo decorrere infruttuosamente i termini previsti) tutte le reazioni consentite dal diritto nazionale contro provvedimenti che abbiano inciso sulla sua libertà personale.

Si crea in tal modo una situazione di tendenziale immutabilità dello status libertatis dell’interessato che può essere rimossa solo in presenza di eventi nuovi, tali da mutare significativamente lo status quo ante.

A cosa serva il giudicato cautelare lo chiarisce benissimo una pronuncia della quinta sezione penale della Corte di Cassazione del 2 ottobre 2014. Vi si afferma che “L’operazione risponde a chiara necessità di economia processuale: si vuole evitare la riproposizione di istanze aventi ad oggetto una stessa misura cautelare, fondate sugli stessi presupposti già vagliati dal giudice dell’impugnazione e respinte. In altre parole la preclusione endoprocessuale è finalizzata ad evitare ulteriori interventi giudiziari, in assenza di una modifica della situazione di riferimento, rendendo inammissibili istanze fondate su motivi che hanno già formato oggetto di apposita valutazione”.

Il giudicato cautelare è quindi uno strumento di sbarramento che ha l’unico scopo di salvaguardare i giudici dalla necessità di pronunciarsi nuovamente su questioni cautelari già trattate e respinte. Gli è perciò estranea qualsiasi funzione di garanzia, anzi ne è l’antitesi.

Certo, si potrebbe astrattamente provare a presentare una nuova istanza fondata sul decorso del tempo, da considerarsi, soprattutto a fronte di lunghi periodi, come un evento nuovo, idoneo a rimuovere il giudicato cautelare.

Si potrebbe, altroché. Ma la risposta più probabile (si veda, tra le altre, Cassazione penale Sezione 2^, 30.11.2011, n. 47416) sarebbe che “Il mero decorso del tempo non è elemento rilevante perché la sua valenza si esaurisce nell’ambito della disciplina dei termini di durata massima della custodia stessa, e quindi necessita di essere considerato unitamente ad altri elementi idonei a suffragare la tesi dell’affievolimento delle esigenze cautelari

Si potrebbe fare riferimento al tempo trascorso dalla commissione del presunto reato. Ma il giudice direbbe che tale periodo, se deve essere preso in considerazione all’atto dell’emissione dell’ordinanza cautelare, perde ogni rilevanza ai fini della revoca o della sostituzione della misura (sentenza n. 47416 citata).

Un’altra possibile carta potrebbe essere quella della pregressa incensuratezza dell’istante ma la risposta sarebbe che non si tratta di un elemento nuovo, poiché già esistente all’atto dell’emissione della misura.

Un lampo di gioia potrebbe illuminare il volto del difensore all’idea di potere utilizzare il buon comportamento carcerario tenuto dal suo assistito. E tuttavia, per Cassazione penale Sezione 3^, 8 gennaio 2015 n. 257, “l’osservanza delle prescrizioni connesse al regime custodiale è, a ben vedere, il minimo che ci si possa attendere da parte di chi vi è sottoposto sì da non poter essere segnalato come se si trattasse di condotta eccezionale”.

Si potrebbe infine far leva, se si ha la fortuna di disporne, su ragioni che all’uomo della strada sembrerebbero eccezionali, come ad esempio la condizione di un detenuto che sia genitore di un figlio minore il quale, in sua assenza ed in assenza dell’altro genitore, finisca in stato di abbandono. Eppure, anche in questo caso, la Corte di Cassazione (stessa pronuncia n. 257), concedendosi argomentazioni sociologiche o comunque metagiuridiche, osserverebbe che “si rende comunque necessaria una dimostrazione specifica del preteso stato di “abbandono” ove si verifichi una contestuale assenza dell’altro genitore (posto che, a ben vedere, la condizione di affidamento di un minore ad uno solo dei genitori è ormai quasi fisiologica in una società come quella attuale ove sono molti i genitori separati o addirittura “single” – per non esservi stato mai, ab initio, per le più varie ragioni, il secondo genitore). Nello specifico, quindi, e’ del tutto assertiva la frase del ricorrente secondo cui, “sussistendo l’impossibilita’ della madre di prestare assistenza al minore”, conclusione inevitabile dovrebbe essere quella di trasformare l’attuale stato custodiale in carcere con quello agli arresti domiciliari”.

Non deve allora stupire se, secondo stime ufficiali del Ministero dell’Economia, l’Italia è stata costretta a corrispondere tra il 1991 e il 2012 la somma complessiva di circa 600 milioni di euro a titolo di riparazione per decine di migliaia di casi di ingiusta detenzione.

Né deve sorprendere il cronico sovraffollamento dei nostri istituti di pena cui periodicamente si tenta di ovviare con pezze più o meno riuscite.

Un altro punto di frizione tra i principi CEDU e la giurisprudenza nostrana è quello della corrispondenza tra la contestazione e la pronuncia. È un tema essenziale dell’equo processo, avendo strettamente a che fare con la possibilità per l’accusato di difendersi consapevolmente senza dover temere strategie devianti da parte della pubblica accusa.

Anche per questo aspetto le garanzie riconosciute dalla nostra legislazione, costituzionale e ordinaria, non hanno nulla da invidiare a quelle contenute nell’articolo 6 § 3 lettera a) CEDU e richiedono particolare rigore sulle regole da osservare per informare le persone delle accuse penali mosse a loro carico e assicurare la corrispondenza tra accusa e sentenza.

Eppure, ancora una volta, la nostra giurisprudenza, ivi compresa quella costituzionale, è stata capace di inventare dal nulla espressioni, concetti e prassi applicative che contraddicono quella disciplina.

Si ricorre, come di consueto, ad un esempio concreto, scelto tra i tanti possibili.

L’articolo 516 codice di procedura penale, coerentemente all’architettura processuale che privilegia il dibattimento come luogo di emersione dei fatti e di acquisizione delle prove, consente al Pubblico Ministero di mutare l’accusa in corso d’opera ma – è qui il punto – solo se l’istruttoria dibattimentale abbia fatto emergere un fatto diverso da quello contestato inizialmente e se tale diversità non fosse conosciuta in precedenza.

Con altrettanta coerenza, il successivo articolo 522 codice di procedura penale dispone che la sentenza di condanna pronunciata per un fatto nuovo in violazione della regola contenuta nell’articolo 516 è nulla.

Sembrerebbe una regolamentazione chiara, così chiara da non potere dare adito a dubbi e incertezze applicative. Eppure non è così.

La giurisprudenza italiana è stata infatti capace di coniare il concetto di contestazioni tardive con il quale è stato legittimato il comportamento del Pubblico Ministero che modifichi l’imputazione dopo l’emissione del decreto di citazione a giudizio sulla base di elementi di fatto che gli erano noti fin dalla fase istruttoria.

In questi casi, per una sorta di ipocrita pudore, si ammette l’imputato ad interloquire sul mutamento e, ove lo ritenga, a presentare richieste istruttorie che devono comunque sottostare al filtro di ammissibilità del giudice che procede. Ognuno può giudicare da sé il peso specifico di questa interlocuzione e la sua idoneità a ripristinare l’equilibrio violato.

Dal canto suo, la Corte Costituzionale italiana ha assimilato le contestazioni tardive ad un fenomeno patologico e, con la sentenza 333/2009, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 516 codice di procedura penale nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere il giudizio abbreviato per il fatto diverso contestatogli tardivamente.

Ci si limita ad osservare che la possibilità introdotta dalla Corte Costituzionale non è affatto risolutiva poiché non ripristina il diritto dell’imputato ad un contraddittorio pieno sul fatto diverso, dal momento che il giudizio abbreviato si svolge essenzialmente sul materiale probatorio raccolto dal Pubblico Ministero.

Si è quindi in presenza di indirizzi interpretativi che attribuiscono all’accusa pubblica poteri esorbitanti e indeboliscono o annullano garanzie difensive essenziali.

Di ben diversa portata è la giurisprudenza della Corte EDU la quale ha ripetutamente affermato (si vedano tra le altre le pronunce Mattei c. Francia del 19 dicembre 2006 e Papalia c. Italia del 23 giugno 2005) che l’accusato ha diritto di essere immediatamente informato in modo dettagliato dei fatti materiali posti  a suo carico e della qualificazione giuridica loro attribuita.

Nella pronuncia Mattei si chiarisce in particolare che l’informazione dettagliata è una condizione essenziale dell’equità della procedura in quanto funzionale al diritto dell’imputato di preparare la propria difesa.

Beninteso, il portato di questo indirizzo europeo è che l’indebito mutamento dell’accusa fa venir meno l’equo processo ed implica una grave violazione dell’articolo 6.

Si chiude questo paragrafo con qualche riflessione sulla recente pronuncia n. 31617/2015 delle Sezioni unite penali.

La si cita non solo per l’interesse che ha di per se stessa ma anche in quanto “figlia” della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale commentata in precedenza, il che consente di comprendere in modo più approfondito e sinottico il peso che la giurisdizione italiana attribuisce ai principi affermati a Strasburgo.

L’oggetto della questione era costituito dalla confisca del prezzo o del profitto del reato, occorrendo stabilire se si trattasse o no di una sanzione penale alla stregua dei parametri indicati dalla Corte EDU.

Le Sezioni unite hanno attribuito all’istituto la natura di misura di sicurezza.

Hanno ritenuto che per la sua applicazione non sia sufficiente un accertamento incidentale della responsabilità del destinatario poiché, se così fosse, la confisca si trasformerebbe indebitamente in un’actio in rem.

Hanno quindi affermato che “l’accertamento della responsabilità deve confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo o il profitto del reato steso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”.

La confisca può infine essere disposta anche nel caso in cui sia intervenuta una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ma quest’ultima “deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per “confermare” la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva, a ben guardare, non dissimile da quella tracciata dall’articolo 578 del codice di rito in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione”.

Le Sezioni unite hanno ulteriormente precisato, rifacendosi alle linee guida tracciate dalla Corte costituzionale nella sentenza 49/2015, che, a proposito di prescrizione, “L’obbligo della relativa immediata declaratoria, infatti, lungi dallo stemperare il “già accertato”, ne cristallizza gli esiti “sostanziali”, sia pure nella circoscritta e peculiare dimensione della confisca del prezzo del reato, dal momento che – altrimenti – al giudice incomberebbe un onere di “conformazione costituzionale” della interpretazione, attenta a salvaguardare anche i “controlimiti” che la pronuncia della Corte costituzionale ha implicitamente, ma chiaramente, evocato. In altri termini, l’opposta tesi dovrebbe fare i conti con la gamma non evanescente di valori costituzionali che verrebbero ad essere ineluttabilmente coinvolti da un sistema che, dopo aver accertato la sussistenza del reato, la responsabilità del suo autore e la percezione da parte di questi di una somma come prezzo del reato, non consentisse l’ablazione di tale prezzo, esclusivamente per l’intervento della prescrizione che giustifica “l’oblio” ai fini della applicazione della  pena, ma non impone certo la inapplicabilità della misura di sicurezza patrimoniale”.

Così richiamati i punti essenziali della pronuncia 31617/2015, pare chiaro che il profilo di maggiore interesse e novità è l’affermazione del concetto di “condanna in senso sostanziale” ed il suo utilizzo come grimaldello per legittimare una confisca altrimenti impossibile.

Le conseguenze davvero importanti e – va aggiunto - pericolosissime di questa novità, che potrebbe abbastanza agevolmente essere estesa a tutte le situazioni giuridiche negative il cui presupposto sia una condanna penale, rendono quantomai necessaria la verifica della sua tenuta giuridica e logica.

C’è anzitutto un dato normativo di cui tenere conto ed è quello contenuto nel primo comma dell’articolo 240 codice penale il quale affida al giudice il potere discrezionale di disporre la confisca delle cose “che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.

Questo potere è esercitabile – premette la norma – solo nel caso di condanna.

Si è consapevoli che l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative è, per dirla con le parole usate dalla Consulta nella sentenza 1/2013, un “metodo primitivo sempre”.

È vero, il tenore letterale non è di per se stesso sufficiente ma ciò non significa che se ne possa prescindere.

Bisogna allora chiedersi quale sia il significato più corretto da attribuire al termine “condanna” usato dal legislatore codicistico.

Si potrebbe iniziare rilevando che mai nessuno finora, ivi comprese le stesse Sezioni unite in precedenti pronunce sulle medesime questioni, aveva inteso quell’espressione in modo diverso da giudicato formale di condanna. Questa prospettiva non porterebbe però molto lontano perché il suo presupposto logico sarebbe che chi dice qualcosa mai detto prima ha sempre torto. Anche questo sarebbe un metodo primitivo e quindi lo si scarta a priori.

È invece imprescindibile il confronto con l’articolo 27 comma 2 Costituzione ed il principio di presunzione di innocenza, o meglio di non colpevolezza, ivi contenuto.

Il Costituente non si è accontentato di affermarlo ma ha inteso dargli la massima ampiezza, estendendolo fino al momento della condanna definitiva.

La previsione in esame va letta in modo congiunto con quella contenuta nell’articolo 24 comma 2 la quale, attribuendo alla difesa la natura di diritto inviolabile, lo riferisce esplicitamente ad “ogni stato e grado del procedimento” e con l’ulteriore previsione dell’articolo 111 comma 7 che ammette il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale.

La Costituzione considera dunque un’imprescindibile garanzia, ancorché affidata all’iniziativa delle parti, la possibilità di dar vita ad un giudizio scandito in gradi, ognuno dei quali necessario ma non sufficiente per il risultato finale.

In piena coerenza con questo postulato, chi subisce da accusato un procedimento penale ha il diritto di non essere considerato colpevole fino a che il mosaico complessivo delineato dalla Costituzione non si compone per intero.

Sicché, qualunque lettura che pretenda di anticipare a momenti processuali precedenti al giudicato l’affermazione della responsabilità, e ne tragga per di più spunto per l’irrogazione di sanzioni che presuppongono tale affermazione, viola palesemente la lettera e la ratio del principio di non colpevolezza.

Esposto questo primo e imprescindibile passaggio, già sufficiente a dimostrare l’erroneità della decisione delle Sezioni unite, occorre adesso soffermarsi sulla natura dell’istituto della prescrizione e sul modo in cui si esso incrocia con il processo e il giudizio.

È nella consapevolezza pressoché unanime che la prescrizione appartiene all’ambito del diritto penale sostanziale e trova la sua ragion d’essere nell’esaurimento, una volta decorso un prefissato periodo di tempo, dell’interesse repressivo dello Stato riguardo ad un determinato fatto – reato.

L’effetto della prescrizione è chiaramente esplicitato nel primo comma dell’articolo 157 codice penale e consiste nell’estinzione del reato.

La prescrizione, a differenza delle cause di estinzione della pena, rende quindi definitivamente impossibile l’emissione della sentenza di condanna, facendo mancare il suo necessario presupposto cioè l’esistenza giuridica di un reato.

Proprio per questa ragione ed ai sensi dell’articolo 129 codice di procedura penale, una volta che sia verificata la causa estintiva, il giudice, in qualunque stato e grado del processo, è tenuto a riconoscerne d’ufficio l’esistenza con una sentenza dichiarativa.

L’unica possibilità alternativa a questo epilogo è la sentenza di assoluzione o non luogo a procedere se gli atti processuali già disponibili rendono evidente la ricorrenza di una ragione assolutoria di merito.

Lo stesso obbligo è posto a carico del giudice dall’articolo 531 codice di procedura penale, per di più esteso anche ai casi in cui vi sia il semplice dubbio dell’esistenza di una causa di estinzione.

È una regolamentazione chiara che è il frutto di una altrettanto chiara volontà legislativa, realizzatrice di una finalità di indubbia ragionevolezza, tra l’altro fortemente collegata al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena.

Emerge anche per questa via la vistosa forzatura logica in cui sono incorse le Sezioni unite.

In altri termini: collegare, anche in presenza di un epilogo prescrittivo, l’accertamento definitivo della responsabilità all’emissione di una sentenza di condanna non smentita da successive pronunce assolutorie, è come dimenticare che la prescrizione funziona esattamente nel senso di porre nel nulla accertamenti di merito già compiuti ed impedire analoghi accertamenti futuri.

Non si tratta dunque di “un’anodina formula terminativa del giudizio” e non può essere affatto utilizzata come conferma della pronuncia di condanna.

La prescrizione determina al contrario una sorta di cessazione della materia del contendere, conseguente ad un’esplicita rinuncia statale alla pretesa punitiva, che nessun giudice può ignorare a pena di farsi indebitamente legislatore.

Ci sono infine tre rilievi da formulare.

Il primo: la possibilità di far luogo alla confisca anche in caso di prescrizione poggia, secondo il ragionamento delle Sezioni unite, sulla disponibilità di un accertamento di responsabilità il quale a sua volta presuppone una cognizione piena del merito.

Questa eventualità è chiaramente impossibile nelle situazioni regolate dall’articolo 129 codice di procedura penale il quale, non a caso, titola “Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”. Il giudice che si confronti con evenienze del genere non può e non deve quindi compiere alcun accertamento di merito.

Potrebbe tuttavia capitare che la prescrizione si maturi dopo il primo grado di giudizio, ad esempio in appello, quando cioè una prima delibazione di condanna nel merito è già disponibile.

È evidente che in un caso del genere, e sempre che non vi sia stata espressa e preventiva rinuncia alla prescrizione, il giudice dell’impugnazione non potrebbe che prendere atto della causa estintiva e dichiararla.

Si cristallizzerebbe in tal modo la valutazione del merito contestata con l’impugnazione senza che le contestazioni possano dipanarsi e, in ipotesi,  produrre effetti positivi a favore dell’appellante.

Dunque, prescrizione in entrambi i casi ma, secondo le Sezioni unite, confisca possibile solo nel secondo. E non per una qualche apprezzabile ragione ma solo per un accidente legato al momento processuale in cui matura la prescrizione. Sarebbe ragionevole questa diseguaglianza o violerebbe l’articolo 3 comma 1 Costituzione?

Il secondo rilievo: le Sezioni unite hanno introdotto un concetto, quello di “condanna sostanziale”, sconosciuto alla legge ed alla nostra civiltà giuridica e lo hanno usato in malam partem. È possibile questo, è consentito alla luce dei principi costituzionali e generali dell’ordinamento che sono stati illustrati in precedenza?

Il  terzo: le Sezioni unite, pur così attente alle ramificazioni degli ordinamenti sovranazionali nella materia trattata, sembrano non avere tenuto in considerazione la Direttiva 2014/42/UE emessa dal Parlamento europeo e dal Consiglio.

Il provvedimento è stato assunto sulla base degli artt. 82 § 2 e 83 § 1 TFUE i quali legittimano il Parlamento e il Consiglio ad istituire norme finalizzate ad agevolare la cooperazione penale o reprimere reati transnazionali di elevata gravità.

I primi articoli sono destinati alla definizione degli istituti. La confisca, contemplata nell’articolo 2 comma 1 - 4, è definita come una “privazione definitiva di un bene ordinata da un’autorità giudiziaria in relazione ad un reato” e si applica a tutti i reati previsti dall’articolo 3 o, in assenza di altri strumenti giuridici di attuazione, a tutti i reati puniti con una pena il cui massimo edittale sia non inferiore a quattro anni.

Entro il 4 ottobre 2016 gli Stati membri dell’UE, ai sensi dell’articolo 4 comma 1, sono tenuti ad adottare "le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia”.

Il provvedimento brevemente commentato è una direttiva e pone quindi a carico degli Stati membri un’obbligazione di risultato senza tuttavia essere direttamente applicabile nei loro ordinamenti.

Tuttavia, si tratta pur sempre di un atto che dovrà essere presto tradotto in norme nazionali ed è difficile immaginare che tale traduzione avverrà prescindendo dal requisito della condanna penale definitiva o attribuendogli un significato sostanziale e non formale.

Per di più, la direttiva 42 risale al 3 aprile 2014 ed era dunque ben nota quando le Sezioni unite vararono il principio che si sta commentando senza darle il minimo rilievo.

In conclusione, una pronuncia sicuramente innovativa ma se ne sarebbe volentieri fatto a meno.

Si può a questo punto concludere sul punto e lo si fa limitandosi a richiamare il giudizio di partenza. Alla grande apertura formale accordata al diritto di Strasburgo non pare corrispondere altrettanta accoglienza concreta. Visioni distanti, profonde differenze nella percezione di ciò che va garantito ove si voglia davvero proteggere i diritti umani. Insomma, mondi diversi, a dispetto di qualsiasi protocollo d’intesa.

La timidezza dell’avvocatura

La giurisdizione è, o almeno dovrebbe essere, un fatto corale. Ogni decisione dovrebbe infatti essere assunta a conclusione di una procedura in cui le parti hanno svolto correttamente il loro compito, hanno messo a punto le migliori argomentazioni possibili, hanno contribuito consapevolmente alla formazione delle prove, hanno indicato possibilità interpretative plausibili e coerenti alle caratteristiche della vicenda sub judice.

Queste coordinate, poste in relazione alle disposizioni ed ai principi CEDU, dovrebbero manifestarsi in due direzioni, l’una legata alla giurisdizione interna, l’altra alla giurisdizione europea.

Posta questa premessa, si desidera adesso esaminare la questione nella prospettiva delle attività difensive così da verificare il contributo che l’avvocatura italiana sta dando alla conformazione del nostro sistema giuridico alle regole CEDU.

Prima ancora però, serve dare un’occhiata alle statistiche che danno conto, con la fredda e imparziale logica dei numeri, di quanto avviene realmente a Strasburgo.

Nel 2015 sono stati depositati 40.650 nuovi ricorsi, sono stati dichiarati inammissibili 43.145 ricorsi, sono state emesse 823 sentenze.

Alla fine del medesimo anno risultano pendenti 64.850 ricorsi.

Tra i ricorsi depositati nel 2015, 1.935 chiamano in causa l’Italia la quale si colloca al settimo posto degli Stati – parte in questa particolare classifica dopo Ucraina (6.010), Russia (6.009), Romania (4.606), Ungheria (4.235), Turchia (2.208) e Polonia (2.182).

Quanto alla sorte destinata ai ricorsi contro il nostro Paese negli ultimi anni, risulta che nel 2013 ne sono stati depositati 3.180, 2.872 sono stati dichiarati inammissibili e 78 sono stati definiti con sentenza. Nel 2014 sono stati depositati 5.490 ricorsi, 9.625 sono stati dichiarati inammissibili e 145 sono stati definiti con sentenza. Nel 2015 sono stati depositati 1.935 ricorsi, 4.438 sono stati dichiarati inammissibili e 25 sono stati definiti con sentenza.

È interessante infine notare che, in via generale, a fronte dei ricorsi dichiarati ammissibili, la Corte accerta una violazione nell’82% dei casi. La metà delle violazioni accertate riguarda l’articolo 6 CEDU in tema di equo processo o l’articolo 3 che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti.

Questi dati, ancorché assai stringati, consentono già più di una riflessione.

La tendenza a ricorrere alla Corte di Strasburgo, e prima ancora la percezione che la giurisdizione di tale Corte sia un’occasione effettiva di tutela delle violazioni dei diritti umani, è ben radicata ed alimentata da un elevato numero di ricorsi.

È estremamente elevato lo scarto tra i ricorsi depositati e quelli dichiarati ammissibili, questi ultimi rappresentando una percentuale bassissima dei primi. Nondimeno, i ricorsi che riescono a superare il vaglio preliminare di ammissibilità, sono accolti nella maggior parte dei casi.

Le sentenze di condanna riguardano in una percentuale estremamente significativa violazioni dei principi dell’equo processo oppure hanno a che fare con trattamenti inumani o degradanti, assai spesso connessi alla condizione carceraria dei ricorrenti.

In questo contesto, la domanda di giustizia contro il nostro Paese è quantomai significativa ma non riesce a sottrarsi al destino generale sicché solo in rarissimi casi supera lo sbarramento preliminare.

Questo stato di cose chiama pesantemente in ballo l’avvocatura, o meglio la sua parte che assicura stabilmente o saltuariamente assistenza tecnica agli individui che intendono ricorrere a Strasburgo adducendo violazioni dei loro diritti umani.

Un numero così elevato di dichiarazioni di inammissibilità significa infatti che il professionista legale chiamato a confrontarsi con i riti procedurali europei non riesce ad assicurare gli elevati standard di competenza ed esperienza che la giurisdizione CEDU richiede in modo ineludibile.

Quelle percentuali significano infatti che l’avvocato non ha compiuto una corretta valutazione sulla fondatezza effettiva della questione sottoposta alla sua attenzione oppure non è riuscito a rappresentarla nei modi richiesti o non ha prestato sufficiente attenzione ai rigorosi parametri richiesti per l’ammissibilità o infine non ha saputo districarsi nelle maglie di una procedura che, al pari di ogni altra, ha i suoi tecnicismi.

Non solo. È piuttosto evidente, e la stessa Corte non manca di sottolinearlo nelle istruzioni emanate periodicamente per diffondere la migliore conoscenza delle regole procedurali per il giudizio di sua spettanza, che il buon esito del ricorso a Strasburgo richiede una preparazione da iniziare già durante il  corso delle procedure nazionali.

Il difensore che ritenga violata una disposizione CEDU dovrebbe farlo rilevare già ai giudici interni, richiamando esplicitamente le norme di riferimento  e la giurisprudenza che invoca a sostegno delle sue affermazioni. Le reazioni formali agli atti lesivi dovrebbero dunque contenere motivi di doglianza specificamente conformati a questa esigenza e tali, in caso di esito negativo, da essere agevolmente richiamati e fatti valere nella successiva sede europea.

Di più. Il professionista interessato dovrebbe essere capace, già mentre opera nell’ambito della giurisdizione interna, di sottrarsi alla tirannia delle sue formule, dei suoi contenuti e dei suoi indirizzi e, con uno sforzo di pensiero laterale, impostare le difese necessarie attingendo al patrimonio normativo e giurisprudenziale europeo, da utilizzare in modo congiunto e sinergico rispetto a quello nazionale.

Emerge in tal modo la necessità di una nuova e più avanzata cultura professionale che contenga in sé, in modo immanente, la sensibilità ai valori umani ispirata dalla Convenzione e dalla Corte EDU che ne è l’unica ed autorevole interprete.

È un compito non facile e neanche scontato, che richiede un elevato sforzo di rinnovamento ed un’apertura intellettuale spiccata. Ma è questa l’unica strada, non ce ne sono altre.

Conclusione

Le considerazioni fin qui formulate, prive di qualsiasi pretesa sistematica, hanno il semplice scopo di offrire un contributo se si vuole riflettere su uno dei tanti paradossi italiani: la bizzarria di un grande Paese, cui si può riconoscere senza fatica un ruolo pionieristico nel processo di costruzione dell’identità e della integrazione europea, che tuttavia si identifica solo in parte ed a fatica nei valori che ha contribuito a creare.

Un paradosso - è giusto riconoscerlo - alimentato da vari protagonisti: il legislatore, che solo raramente e tardivamente mostra sintonia verso la sensibilità europea; la magistratura, anche costituzionale, che si arrocca a difesa di un sistema interamente costruito su logiche ed esigenze interne e che mal tollera, a dispetto di un atteggiamento formale di grande apertura, ingerenze e commistioni provenienti dalla grande base giuridica europea; la classe forense, probabilmente troppo appiattita sulle medesime logiche della magistratura e per ciò stesso scarsamente attenta a quanto avviene fuori dei confini nazionali.  

Si paga per questo un prezzo piuttosto salato. Mentre altrove la cultura dei diritti umani si consolida e progredisce, il nostro Paese si segnala per ritardi sistematici che finiscono per negare alla sua comunità la modernità e l’accuratezza di garanzie e tutele di cui ha bisogno.

Volgendo poi uno sguardo specifico ai temi della giurisdizione, è impossibile negare l’esistenza di problemi strutturali tali da rendere insoddisfacente la risposta che il nostro sistema giudiziario è in grado di offrire ai bisogni manifestati dagli utenti. La cartina di tornasole è rappresentata dalla congerie di condanne subite dall’Italia in sede europea, dagli altrettanto numerosi warning che le istituzioni sovranazionali ci indirizzano periodicamente nel tentativo di stimolare le necessarie riforme di sistema, dai ripetuti, sempre tardivi e non sempre illuminati sforzi di porre riparo ai guasti di cui tanti sono vittime.

La situazione diventa ancora più pesante se si considera che questi costi incidono in misura prevalente su gruppi particolarmente deboli e vulnerabili (detenuti, immigrati etc.)  il che li rende ancora più odiosi e irragionevoli.

Ed allora pare davvero arrivato il momento di riflettere sul serio sul gap di cui si è detto e creare le condizioni per colmarlo.