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La linea della palma: riflessioni sparse sullo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose

La linea della palma: riflessioni sparse sullo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose
La linea della palma: riflessioni sparse sullo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose

Premessa

Nel maggio del 2015 l’Ufficio Centrale di Statistica del Ministero dell’Interno ha pubblicato un’indagine statistica sugli enti locali sciolti nel nostro Paese nel quinquennio 2010/2014, disponibile on-line all’indirizzo web ucs.interno.gov.it.

L’elaborazione, estesa all’intero territorio nazionale, ha avuto come campo di osservazione consigli comunali e provinciali, comunità montane, consorzi, unioni di comuni e ASL.

I dati ottenuti sono di elevato interesse e offrono l’occasione per riflettere su uno strumento normativo che ha acquisito un’importanza centrale nelle strategie di contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso.

Risultati dell’indagine statistica del Viminale

Nel quinquennio 2010/2014 sono stati sciolti 852 consigli comunali, cioè l’11,5% dei 7.090 comuni italiani compresi nel territorio delle regioni interessate dal fenomeno (dalle quali risultano escluse Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna).

Quasi il 90% degli scioglimenti ha riguardato comuni con popolazione non superiore a 30.000 abitanti.

Il picco è stato raggiunto nell’anno 2013 allorché sono stati disposti 199 scioglimenti.

Quanto alla dislocazione geografica, 420 comuni sciolti sono siti nel Sud e Isole, 317 nel Nord e 115 nel Centro.

La regione maggiormente interessata è stata la Campania (142 scioglimenti), seguita da Lombardia (134), Calabria (111), Puglia (79), Piemonte (76) e Lazio (61).

Se si sposta l’attenzione sulle cause di scioglimento, quella che ha inciso maggiormente è costituita dalle dimissioni dei consiglieri (386 casi), seguita da dimissioni del sindaco (178 casi), decesso del sindaco (88 casi), decadenza del sindaco (88 casi), infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso (61 casi, pari al 7,2%), mancata approvazione tempestiva del bilancio (31 casi) e mozione di sfiducia (23 casi).

In particolare, lo scioglimento per ragioni connesse al fenomeno mafioso ha riguardato di fatto tre sole regioni, cioè la Calabria (33 casi), la Sicilia (12 casi) e la Campania (11 casi). Vi sono poi stati 2 casi in Piemonte ed uno ciascuno in Lombardia, Liguria e Puglia.

Passando adesso agli enti locali diversi dai comuni, si rileva che nel periodo di riferimento sono state sciolte 28 amministrazioni provinciali di cui 9 per decadenza del presidente, 9 per fine mandato, 8 per dimissioni del presidente, una per dimissioni dei consiglieri e una per mozione di sfiducia.

Sono state ugualmente sciolte due unioni di comuni, in entrambi i casi per mancata approvazione tempestiva del bilancio, e un’unica azienda sanitaria provinciale, precisamente quella di Vibo Valentia, per infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso.

Qualche riflessione sui numeri

Lo strumento dello scioglimento, inteso per ora nella sua accezione più generale ed estesa, ha avuto il Sud come suo destinatario privilegiato (il 50% circa dei casi).

Se poi si passa al campo specifico dello scioglimento per ragioni di tipo mafioso, la correlazione diventa pressochè esclusiva: ben 57 casi su 62 (91,93%) hanno riguardato comuni meridionali e l’unica ASP cui è stato riservato questo destino è anch’essa meridionale, calabrese per la precisione.

Si consideri adesso che, secondo la previsione dell’art. 143 del Testo unico degli enti locali, lo scioglimento per infiltrazione mafiosa può essere disposto nei soli casi in cui emergano «elementi concreti, univoci e rilevanti» tali che si possa affermare l’esistenza di collegamenti diretti o indiretti» tra gli amministratori pubblici locali e «la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare» ovvero l’esistenza di «forme di condizionamento» degli stessi amministratori «tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica».

Sicchè, una persona che avesse come sua unica fonte informativa il report del Viminale dovrebbe concludere che la mafia è un fattore eversivo in Calabria, una seria turbativa in Campania e Sicilia,  un semplice soffio di vento in Piemonte, Lombardia, Liguria e Puglia, niente di niente in tutto il resto d’Italia.

E dunque, se il nostro immaginario cittadino abitasse in un qualsiasi comune che non sia calabrese, siciliano o campano, si rallegrerebbe  con se stesso per la lungimiranza con cui ha scelto il luogo in cui vivere e mettere radici.

Lo stesso sentimento, in fondo, dovrebbero provare tutti gli italiani, essendogli stato dimostrato che la criminalità organizzata mafiosa, piuttosto che fenomeno globale, assume i più modesti contorni di un disturbo localizzato, proprio di territori in ritardo di sviluppo, lontani per ogni aspetto dalla modernità.

Davvero bello, davvero consolante. Se non fosse che, disgraziatamente, la verità raccontata dall’indagine del Ministero dell’Interno coincide ben poco con la realtà.

Basta, per rendersene conto, usare gli strumenti che ognuno ha a disposizione. Non analisi sofisticate o dati accessibili solo alle agenzie investigative, ma la semplice consultazione di quei mass media, non tantissimi e non sempre, votati all’approfondimento serio dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti.

Abbiamo perciò assunto i panni di quel cittadino, arricchendo tuttavia la sua personalità di due ulteriori caratteristiche: un’insaziabile curiosità e  una sana diffidenza verso le fonti unilaterali.

In coerenza con questa prospettiva, ci siamo avvalsi di un’inchiesta pubblicata il 2 febbraio 2015 su Repubblica.it. Per la verità le fonti disponibili sui temi in esame sono plurime. Abbiamo scelto quella appena menzionata perché ben documentata, frutto dell’impegno collettivo di giornalisti credibili ed esperti e priva di elementi che facciano dubitare della sua attendibilità.

Il titolo, “Così la mafia conquista il Nord d’Italia”, è quantomai eloquente e non è da meno il cappelletto d’apertura secondo il quale “Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli anni 80”.

Poco più avanti si inizia a giustificare la perentorietà dell’assunto di partenza riportando le parole di Giovanni Canzio, all’epoca presidente della Corte di Appello di Milano, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 2015: “La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione".

Si elencano adesso gli ulteriori passaggi significativi: “Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. 
Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti.
Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza - Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. 

Solo un problema lombardo? No, affatto: “In Piemonte  si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata … la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici”.

Quanto all’Emilia Romagna, “basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande - Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese”.

E il Centro? “Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo R. per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da G. G. (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i R., famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli R.”. 

Si potrebbe continuare ma gli esempi sono già più che sufficienti.

Il fenomeno mafioso, quantomeno secondo la fonte giornalistica che abbiamo scelto di consultare, ha risalenti e profonde ramificazioni non solo nel Meridione ma in tutte le aree più importanti del Paese.

Certo, si potrebbe dire che i dati fin qui riportati, proprio in quanto frutto di una ricostruzione giornalistica, non soggiacciono alle ben più rigide regole dimostrative proprie dei procedimenti penali o delle procedure amministrative finalizzate a scopi così invasivi come è certamente lo scioglimento di un organismo democraticamente eletto.

Questo è vero. E tuttavia, le conclusioni generali cui giunge l’inchiesta a più mani di cui ci siamo serviti sono, guarda caso, identiche alle verità affermate dalle più autorevoli agenzie nazionali di analisi tra le quali la Direzione Nazionale Antimafia che, in una sua recente relazione, attesta le”impressionanti dimensioni raggiunte dalla proliferazione del fenomeno ‘ndranghetistico nel Nord Italia, ad onta di un diffuso atteggiamento mentale che, in modo oggettivamente miope, tendeva a sminuirlo”.

Le stesse conclusioni sono state raggiunte in una congerie di processi, molti dei quali già definitivi, nei quali, sulla base di canoni interpretativi oramai piuttosto collaudati quali l’unitarietà della ndrangheta, il pieno riconoscimento in termini criminali della cosiddetta mafia silente, l’esportabilità del modello mafioso in zone diverse da quelle originarie, è stata affermata l’esistenza e l’operatività di gruppi criminali mafiosi nel Nord e nel Centro d’Italia.

Ed infine, ultimo argomento ma non in ordine di importanza, il contributo, talvolta in forma saggistica tal’altra in forma letteraria, di tanti studiosi ed intellettuali che da anni mettono in guardia sulla crescente globalizzazione del fenomeno mafioso.

Un autore, un titolo, un’immagine in rappresentanza di tutti: Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, La linea della palma (non senza doverosamente ricordare che la medesima ispirazione ha colpito, prima di noi, Antonio Balsamo e Sandra Recchione, coautori di un brillante articolo, non a caso intitolato “Mafie al Nord”, pubblicato l’anno scorso su Diritto Penale Contemporaneo): «Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma... ».

A pronunciare queste parole era il Dr. Brescianelli, amico del protagonista Cap. Parodi.

Il libro fu scritto nel 1960 e pubblicato l’anno dopo. Sciascia aveva capito già allora quello che il Ministero dell’Interno ancora non sa.

Viene da chiedersi come questo sia possibile.

Le spiegazioni possono essere tante: il Meridione è la culla della criminalità organizzata mafiosa e, ospitando ancora oggi nei suoi territori le case madri di mafia, ndrangheta e camorra, è fisiologicamente più esposto a subirne i condizionamenti, anche in direzione delle classi dirigenti politico – amministrative; la stessa ragione, cioè l’insorgenza e il consolidamento del fenomeno mafioso al Sud, provoca per così dire un’inerzia tale per cui lo sguardo delle istituzioni pubbliche competenti in materia di scioglimento degli enti locali si fissa prima, di più e con maggiore attenzione sullo stesso Sud; le classi politiche meridionali sono mediamente più compromesse, più esposte e meno dotate di anticorpi rispetto al malaffare mafioso.

Ma anche: è mediaticamente vantaggioso far passare l’idea che una parte consistente dell’Italia sa resistere alle lusinghe criminali; far credere che il problema sia concentrato al Sud consente di dargli una risposta meramente repressiva e territorialmente limitata, senza che debba venire nuovamente in ballo quella che Enrico Berlinguer, con felice intuizione, definiva la “questione morale” nazionale. E magari pure: i ceti politici settentrionali e centrali sanno proteggersi mediamente meglio di quelli meridionali, nascondono meglio le loro pulsioni e relazioni illecite.

E forse: la stampa, impietosa verso qualsiasi manifestazione criminale di stampo meridionale e pronta ad assecondare il clichè per il quale “a Sud tutto è marcio”, è di gran lunga più trattenuta quando manifestazioni di uguale contenuto si verificano altrove, essendo cioè incline a spiegarle in termini di episodi isolati piuttosto che segnali di un sistema.

Chissà. Queste spiegazioni potrebbero essere tutte giuste, tutte sbagliate, un po’ e un po’.

Certo è che nel frattempo, a prescindere da cosa ne pensi il Viminale, la linea della palma avanza.

Premessa

Nel maggio del 2015 l’Ufficio Centrale di Statistica del Ministero dell’Interno ha pubblicato un’indagine statistica sugli enti locali sciolti nel nostro Paese nel quinquennio 2010/2014, disponibile on-line all’indirizzo web ucs.interno.gov.it.

L’elaborazione, estesa all’intero territorio nazionale, ha avuto come campo di osservazione consigli comunali e provinciali, comunità montane, consorzi, unioni di comuni e ASL.

I dati ottenuti sono di elevato interesse e offrono l’occasione per riflettere su uno strumento normativo che ha acquisito un’importanza centrale nelle strategie di contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso.

Risultati dell’indagine statistica del Viminale

Nel quinquennio 2010/2014 sono stati sciolti 852 consigli comunali, cioè l’11,5% dei 7.090 comuni italiani compresi nel territorio delle regioni interessate dal fenomeno (dalle quali risultano escluse Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna).

Quasi il 90% degli scioglimenti ha riguardato comuni con popolazione non superiore a 30.000 abitanti.

Il picco è stato raggiunto nell’anno 2013 allorché sono stati disposti 199 scioglimenti.

Quanto alla dislocazione geografica, 420 comuni sciolti sono siti nel Sud e Isole, 317 nel Nord e 115 nel Centro.

La regione maggiormente interessata è stata la Campania (142 scioglimenti), seguita da Lombardia (134), Calabria (111), Puglia (79), Piemonte (76) e Lazio (61).

Se si sposta l’attenzione sulle cause di scioglimento, quella che ha inciso maggiormente è costituita dalle dimissioni dei consiglieri (386 casi), seguita da dimissioni del sindaco (178 casi), decesso del sindaco (88 casi), decadenza del sindaco (88 casi), infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso (61 casi, pari al 7,2%), mancata approvazione tempestiva del bilancio (31 casi) e mozione di sfiducia (23 casi).

In particolare, lo scioglimento per ragioni connesse al fenomeno mafioso ha riguardato di fatto tre sole regioni, cioè la Calabria (33 casi), la Sicilia (12 casi) e la Campania (11 casi). Vi sono poi stati 2 casi in Piemonte ed uno ciascuno in Lombardia, Liguria e Puglia.

Passando adesso agli enti locali diversi dai comuni, si rileva che nel periodo di riferimento sono state sciolte 28 amministrazioni provinciali di cui 9 per decadenza del presidente, 9 per fine mandato, 8 per dimissioni del presidente, una per dimissioni dei consiglieri e una per mozione di sfiducia.

Sono state ugualmente sciolte due unioni di comuni, in entrambi i casi per mancata approvazione tempestiva del bilancio, e un’unica azienda sanitaria provinciale, precisamente quella di Vibo Valentia, per infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso.

Qualche riflessione sui numeri

Lo strumento dello scioglimento, inteso per ora nella sua accezione più generale ed estesa, ha avuto il Sud come suo destinatario privilegiato (il 50% circa dei casi).

Se poi si passa al campo specifico dello scioglimento per ragioni di tipo mafioso, la correlazione diventa pressochè esclusiva: ben 57 casi su 62 (91,93%) hanno riguardato comuni meridionali e l’unica ASP cui è stato riservato questo destino è anch’essa meridionale, calabrese per la precisione.

Si consideri adesso che, secondo la previsione dell’art. 143 del Testo unico degli enti locali, lo scioglimento per infiltrazione mafiosa può essere disposto nei soli casi in cui emergano «elementi concreti, univoci e rilevanti» tali che si possa affermare l’esistenza di collegamenti diretti o indiretti» tra gli amministratori pubblici locali e «la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare» ovvero l’esistenza di «forme di condizionamento» degli stessi amministratori «tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica».

Sicchè, una persona che avesse come sua unica fonte informativa il report del Viminale dovrebbe concludere che la mafia è un fattore eversivo in Calabria, una seria turbativa in Campania e Sicilia,  un semplice soffio di vento in Piemonte, Lombardia, Liguria e Puglia, niente di niente in tutto il resto d’Italia.

E dunque, se il nostro immaginario cittadino abitasse in un qualsiasi comune che non sia calabrese, siciliano o campano, si rallegrerebbe  con se stesso per la lungimiranza con cui ha scelto il luogo in cui vivere e mettere radici.

Lo stesso sentimento, in fondo, dovrebbero provare tutti gli italiani, essendogli stato dimostrato che la criminalità organizzata mafiosa, piuttosto che fenomeno globale, assume i più modesti contorni di un disturbo localizzato, proprio di territori in ritardo di sviluppo, lontani per ogni aspetto dalla modernità.

Davvero bello, davvero consolante. Se non fosse che, disgraziatamente, la verità raccontata dall’indagine del Ministero dell’Interno coincide ben poco con la realtà.

Basta, per rendersene conto, usare gli strumenti che ognuno ha a disposizione. Non analisi sofisticate o dati accessibili solo alle agenzie investigative, ma la semplice consultazione di quei mass media, non tantissimi e non sempre, votati all’approfondimento serio dei fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti.

Abbiamo perciò assunto i panni di quel cittadino, arricchendo tuttavia la sua personalità di due ulteriori caratteristiche: un’insaziabile curiosità e  una sana diffidenza verso le fonti unilaterali.

In coerenza con questa prospettiva, ci siamo avvalsi di un’inchiesta pubblicata il 2 febbraio 2015 su Repubblica.it. Per la verità le fonti disponibili sui temi in esame sono plurime. Abbiamo scelto quella appena menzionata perché ben documentata, frutto dell’impegno collettivo di giornalisti credibili ed esperti e priva di elementi che facciano dubitare della sua attendibilità.

Il titolo, “Così la mafia conquista il Nord d’Italia”, è quantomai eloquente e non è da meno il cappelletto d’apertura secondo il quale “Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli anni 80”.

Poco più avanti si inizia a giustificare la perentorietà dell’assunto di partenza riportando le parole di Giovanni Canzio, all’epoca presidente della Corte di Appello di Milano, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 2015: “La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione".

Si elencano adesso gli ulteriori passaggi significativi: “Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. 
Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti.
Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza - Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. 

Solo un problema lombardo? No, affatto: “In Piemonte  si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata … la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici”.

Quanto all’Emilia Romagna, “basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande - Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese”.

E il Centro? “Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo R. per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da G. G. (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i R., famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli R.”. 

Si potrebbe continuare ma gli esempi sono già più che sufficienti.

Il fenomeno mafioso, quantomeno secondo la fonte giornalistica che abbiamo scelto di consultare, ha risalenti e profonde ramificazioni non solo nel Meridione ma in tutte le aree più importanti del Paese.

Certo, si potrebbe dire che i dati fin qui riportati, proprio in quanto frutto di una ricostruzione giornalistica, non soggiacciono alle ben più rigide regole dimostrative proprie dei procedimenti penali o delle procedure amministrative finalizzate a scopi così invasivi come è certamente lo scioglimento di un organismo democraticamente eletto.

Questo è vero. E tuttavia, le conclusioni generali cui giunge l’inchiesta a più mani di cui ci siamo serviti sono, guarda caso, identiche alle verità affermate dalle più autorevoli agenzie nazionali di analisi tra le quali la Direzione Nazionale Antimafia che, in una sua recente relazione, attesta le”impressionanti dimensioni raggiunte dalla proliferazione del fenomeno ‘ndranghetistico nel Nord Italia, ad onta di un diffuso atteggiamento mentale che, in modo oggettivamente miope, tendeva a sminuirlo”.

Le stesse conclusioni sono state raggiunte in una congerie di processi, molti dei quali già definitivi, nei quali, sulla base di canoni interpretativi oramai piuttosto collaudati quali l’unitarietà della ndrangheta, il pieno riconoscimento in termini criminali della cosiddetta mafia silente, l’esportabilità del modello mafioso in zone diverse da quelle originarie, è stata affermata l’esistenza e l’operatività di gruppi criminali mafiosi nel Nord e nel Centro d’Italia.

Ed infine, ultimo argomento ma non in ordine di importanza, il contributo, talvolta in forma saggistica tal’altra in forma letteraria, di tanti studiosi ed intellettuali che da anni mettono in guardia sulla crescente globalizzazione del fenomeno mafioso.

Un autore, un titolo, un’immagine in rappresentanza di tutti: Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, La linea della palma (non senza doverosamente ricordare che la medesima ispirazione ha colpito, prima di noi, Antonio Balsamo e Sandra Recchione, coautori di un brillante articolo, non a caso intitolato “Mafie al Nord”, pubblicato l’anno scorso su Diritto Penale Contemporaneo): «Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma... ».

A pronunciare queste parole era il Dr. Brescianelli, amico del protagonista Cap. Parodi.

Il libro fu scritto nel 1960 e pubblicato l’anno dopo. Sciascia aveva capito già allora quello che il Ministero dell’Interno ancora non sa.

Viene da chiedersi come questo sia possibile.

Le spiegazioni possono essere tante: il Meridione è la culla della criminalità organizzata mafiosa e, ospitando ancora oggi nei suoi territori le case madri di mafia, ndrangheta e camorra, è fisiologicamente più esposto a subirne i condizionamenti, anche in direzione delle classi dirigenti politico – amministrative; la stessa ragione, cioè l’insorgenza e il consolidamento del fenomeno mafioso al Sud, provoca per così dire un’inerzia tale per cui lo sguardo delle istituzioni pubbliche competenti in materia di scioglimento degli enti locali si fissa prima, di più e con maggiore attenzione sullo stesso Sud; le classi politiche meridionali sono mediamente più compromesse, più esposte e meno dotate di anticorpi rispetto al malaffare mafioso.

Ma anche: è mediaticamente vantaggioso far passare l’idea che una parte consistente dell’Italia sa resistere alle lusinghe criminali; far credere che il problema sia concentrato al Sud consente di dargli una risposta meramente repressiva e territorialmente limitata, senza che debba venire nuovamente in ballo quella che Enrico Berlinguer, con felice intuizione, definiva la “questione morale” nazionale. E magari pure: i ceti politici settentrionali e centrali sanno proteggersi mediamente meglio di quelli meridionali, nascondono meglio le loro pulsioni e relazioni illecite.

E forse: la stampa, impietosa verso qualsiasi manifestazione criminale di stampo meridionale e pronta ad assecondare il clichè per il quale “a Sud tutto è marcio”, è di gran lunga più trattenuta quando manifestazioni di uguale contenuto si verificano altrove, essendo cioè incline a spiegarle in termini di episodi isolati piuttosto che segnali di un sistema.

Chissà. Queste spiegazioni potrebbero essere tutte giuste, tutte sbagliate, un po’ e un po’.

Certo è che nel frattempo, a prescindere da cosa ne pensi il Viminale, la linea della palma avanza.