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La responsabilità civile scaturente dalle obbligazioni dovuta all’inadempimento

I rimedi esperibili, l’onere della prova ed in particolare la causalità prevista all’articolo 1227, 1 e 2 comma, oltre alla posizione empirica della giurisprudenza
La responsabilità civile scaturente dalle obbligazioni dovuta all’inadempimento
La responsabilità civile scaturente dalle obbligazioni dovuta all’inadempimento

Indice/ Abstract:

1) L’inadempimento. Nozione e distinzione tra inadempimento imputabile, fonte di responsabilità contrattuale e inadempimento non imputabile, causa di esonero del debitore da responsabilità e fatto estintivo dell’obbligazione. Il fondamento della responsabilità da inadempimento.

2) La teoria oggettiva. La teoria soggettiva. La tesi mediana. La posizione della giurisprudenza. I rimedi all’inadempimento.

3) Concorso tra azione di inadempimento e azione di risoluzione ( mutatio libelli) in caso di preventiva proposizione dell’azione di adempimento. Insussistenza nell’ordinamento di un principio di esatto adempimento. Deroghe settoriali. Il carattere sussidiario o autonomo dell’azione risarcitoria: divisioni dottrinarie e posizione della giurisprudenza a favore del carattere autonomo.

4) La questione dell’ammissibilità del risarcimento in forma specifica nell’ambito contrattuale.

Differenze di disciplina tra i due tipi di responsabilità. Concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. I criteri di determinazione del danno.

5) La nozione di danno. La risarcibilità del danno non patrimoniale. Il concorso del fatto colposo del creditore. Interpretazione del canone di diligenza secondo l’articolo 1227 del codice civile 1 e 2 comma. La funzione “sociale” del concorso di colpa del creditore. Caratteri strutturali dell’articolo 1227 del codice civile.

6) La sentenza n. 1667 dell’11.3.2015 sulla responsabilità ed il concorso di colpa del danneggiato.

 

1) L’inadempimento. Nozione e distinzione tra inadempimento imputabile, fonte di responsabilità contrattuale e inadempimento non imputabile, causa di esonero del debitore da responsabilità e fatto estintivo dell’obbligazione. Il fondamento della responsabilità da inadempimento

La responsabilità è, in linea generale, la sanzione per l’inosservanza di un dovere giuridico.

L’area della responsabilità del debitore è regolata dall’articolo 1218 del codice civile che eccede l’inadempimento delle obbligazioni contrattuali.

Nelle decisioni giurisprudenziali, i confini della responsabilità contrattuale rispetto alla responsabilità aquilana non sempre sono individuabili in modo univoco.

La responsabilità contrattuale o da inadempimento si distingue dalla responsabilità extracontrattuale o aquilana a seconda del dovere giuridico violato.

Incorre in responsabilità aquilana il soggetto che viola il dovere generico di non ledere l’altrui sfera giuridica (neminem laedere), dovere che ciascuno è tenuto a rispettare nei confronti della generalità dei consociati.

La responsabilità contrattuale deriva invece dalla violazione di un obbligo specifico- e qualunque sia la sua fonte- contratto, illecito o altro fatto idonei.

Sono dunque assai diverse le ragioni dell’antigiuridicità.

 Mentre nella responsabilità contrattuale si crea un vincolo obbligatorio per il risarcimento del danno che discende dalla violazione di un obbligo preesistente (c.d. perpetuatio obligationis), la responsabilità aquilana sanziona i comportamenti illeciti che incidono nella sfera giuridica di soggetti cui l’agente non solo riparatoria, ma anche preventiva e sanzionatoria.

Esaminati molto brevemente i rapporti tra responsabilità contrattuale e responsabilità aquilana   occorre chiarire quali sono i criteri di imputazione della responsabilità contrattuale.

La norma fondamentale al riguardo è quella di cui all’articolo 1218 del codice civile secondo cui “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenutola risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

L’articolo 1218 contiene la regola generale in materia di responsabilità del debitore, preferibilmente definita “contrattuale” dalla dottrina per il prevalere delle obbligazioni derivanti da contratto, ancorché più esattamente deve parlarsi di responsabilità da inadempimento dell’obbligazione, quale che sia la sua fonte ( articolo 1173 del codice civile).

Il legislatore ha tentato di riassumere in una disciplina uniforme una casistica molto varia a causa della diversa natura dei contratti e dei diversi modi di inadempimento.

Presupposto dell’inadempimento è l’esistenza di un’obbligazione, in senso tecnico, in forza del quale un soggetto, detto debitore, è tenuto a eseguire una determinata prestazione in favore di un soggetto, detto creditore.

Ai sensi dell’articolo 1218 del codice civile l’inadempimento, l’adempimento inesatto, il ritardo qualificato (mora debendi) obbligano il debitore a risarcire i danno causati al creditore.

Il debitore deve risarcire questi danni solo fino al limite della possibilità di adempiere e anche al di là di questo limite se l’impossibilità è dovuta ad una causa a lui non imputabile.

In altri termini, posto che per inadempimento si intende la mancata esecuzione della prestazione nel tempo e nel luogo dovuto e secondo le modalità convenute, il mancato o inesatto adempimento può dipendere da cause imputabili al debitore; nel qual caso costui è tenuto a risarcire il danno al creditore; ovvero da cause non imputabili nel qual caso il debitore è esonerato da responsabilità e l’obbligazione si estingue per impossibilità sopravvenuta (1256 del codice civile).

Controversi in dottrina e giurisprudenza sia il fondamento che i limiti della responsabilità contrattuale.

Il problema nasce da un’apparente antinomia tra il criterio di imputazione sancito nell’articolo 1218 del codice civile ed il canone di diligenza di cui all’articolo 1176 del codice civile.  Quest’ultimo prevede una norma di condotta per cui adempie bene il debitore chi si comporta diligentemente.

Il 1218 del codice civile impone una prova più difficile e cioè che l’inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile.

 

2) La teoria oggettiva. La teoria soggettiva. La tesi mediana. La posizione della giurisprudenza. I rimedi all’inadempimento

Il codice civile del 1942 al fine di assicurare una maggior sicurezza ai traffici economici ha accolto nell’articolo appena citato una concezione rigidamente oggettiva della responsabilità contrattuale, aderendo così alla teoria di G. Osti per cui l’inadempimento sussiste per il solo che la prestazione dovuta sia rimasta ineseguita.

Il debitore può liberarsi da  responsabilità solo provando l’oggettiva impossibilità della prestazione.

L’articolo 1176 prevede soltanto una regola di condotta per cui dolo o colpa attengono alla imputazione dell’impossibilità sopravvenute e non già direttamente all’inadempimento.

L’articolo 1176, comma 1 fornisce l’ambito e la portata degli obblighi assunti, precisa e definisce il contenuto delle obbligazioni non sufficientemente determinate; segnatamente quelle di mezzi. Il secondo co. dell’articolo 1176, con riferimento alla attività professionale, consente di ricostruire o di valutare il contenuto delle prestazioni svolte dal debitore soprattutto sotto il profilo dell’esattezza dell’adempimento. Questo vale in particolare per le obbligazioni di fare.

Il debitore inadempiente del 1218 del codice civile può, nel riferimento alla diligenza, trovare il criterio per ricostruire la tipologia, la portata, lo stesso contenuto della prestazione cui si è obbligato, col risultato di poter delimitare anche gli eventuali confini di esigibilità della prestazione.

L’impossibilità è assoluta quando l’impedimento non può essere rimosso con nessuna intensità di sforzo; è oggettiva quando riguarda la prestazione in sé considerata.

Deve risultare impossibile per chiunque eseguire quella prestazione e non solo per il debitore.

L’impossibilità di cui all’articolo 1218 del codice civile va intesa in senso oggettivo e assoluto e la causa non imputabile deve consistere in un impedimento estraneo, sempre sul piano oggettivo, alla sfera del debitore, cioè tale che egli non avrebbe potuto in alcun modo prevedere e controllare.

L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale hanno ricercato la tipizzazione della invincibilità ed inevitabilità individuandola nel caso fortuito e forza maggiore, la vis major cui resisti non potest ovvero l’evento fisico-naturale, come il ponte crollato con consegne urgenti, oppure nel fatto del terzo, come a causa di scioperi, od infine per decisione imperativa dell’autorità; c.d. factum principis, come nel caso di epidemia e la vendita di carni.

La responsabilità è fondata sulla colpa, secondo la teoria soggettiva. L’articolo 1218 del codice civile, in base alla miglior dottrina (Natoli) non precisa la misura dell’impossibilità scriminante che spetta all’interprete, per determinarsi utilizza l’articolo 1176 del codice civile con il principio del “buon padre di famiglia”  perché altrimenti dovrebbe superarlo con un impegno superiore a quello richiesto.

Il combinato disposto consente di escludere siffatta impossibilità non imputabile che costituisce il limite della responsabilità debitoria.

Dalla incolpevolezza si ha l’impossibilità soggettiva e relativa per cui il debitore non dovrà neppure indicare e provare lo specifico impedimento: l’articolo 2727 del codice civile consente al giudice di risalire ad un fatto ignoto da uno noto.

A parere dei sostenitori della tesi mediana il limite della teoria soggettiva è quello di porsi in antitesi con una concezione oggettiva di inadempimento cui il legislatore ha ispirato la norma del 1218 del codice civile secondo i lavori preparatori del codice. La teoria oggettiva  mostra eccessivo rigore nel pretendere la prova liberatoria su un’impossibilità della prestazione oggettiva e assoluta.

La tesi mediana, sostenuta dalla dottrina prevalente (Bianca), è favorevole ad una interpretazione più ampia della prova liberatoria richiesta dall’articolo 1218 del codice civile per cui il requisito della impossibilità della prestazione vada inteso in senso soggettivo e relativo in modo da rendere inesigibile, secondo buona fede, la prestazione alle condizioni originarie.

La giurisprudenza motiva con riferimento al caso concreto con il ricorso frequente alla buona fede, alla diligenza ed ai principi costituzionali od al concetto di inesigibilità della prestazione.

Il dibattito tra teoria oggettiva e soggettiva è un falso problema perché entrambe le teorie conducono a soluzioni identiche così come per le eccezioni ed i temperamenti.

La colpa contrattuale deve essere valutata in base ad un criterio rigorosamente oggettivo, commisurato all’uomo medio che va inteso in relazione alla categoria di persone cui l’agente appartiene. Il criterio soggettivo torna però operante quando l’agente sia dotato di capacità e qualità superiori alla media.

La materia della responsabilità contrattuale si presenta come un sistema aperto, un diritto di prevalente creazione giurisprudenziale, che pertanto richiede necessariamente un metodo analitico-casistico di indagine.

 

3) Concorso  tra azione di inadempimento e azione di risoluzione (mutatio libelli) in caso di preventiva proposizione dell’azione di adempimento. Insussistenza nell’ordinamento di un principio di esatto adempimento

A fronte delle situazioni giuridiche prospettate sinora si possono applicare i c.d. rimedi all’inadempimento come previsto dell’ordinamento, quali il concorso tra azione di adempimento e azione di risoluzione con possibilità di mutatio libelli in caso di preventiva proposizione dell’azione di adempimento.

 Il contraente può alternativamente agire per ottenere una sentenza (dichiarativa) di condanna all’adempimento, oppure chiedere, con obbligazioni a prestazioni corrispettive, una pronuncia (costitutiva) di risoluzione del contratto, salva, in ogni caso, l’azione di risarcimento danni.

L’azione di risoluzione, ex articolo 1453, comma 2, può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento.

La domanda di risoluzione, invece, preclude la proponibilità dell’azione di adempimento in quanto dopo la risoluzione l’inadempiente non è più tenuto alla prestazione onde il risolvente non può obbligarla nuovamente all’esecuzione. Viene stabilito un principio di ordine processuale in deroga alle disposizioni ex articolo 183 del codice di procedura civile che consentono nel corso del processo solo l’emendatio.

Ci si chiede se esiste in Italia un principio come quello inglese o tedesco della c.d. natural restitution o specific performance.

Inoltre,  ci si domanda se l’azione risarcitoria è un’azione accessoria alle due principali o può essere esercitata in via autonoma.

Deve escludersi l’esistenza nel nostro ordinamento un principio di prevalenza dell’azione di esatto adempimento ex articolo 1453 del codice civile che consente al creditore insoddisfatto di scegliere tra la risoluzione e l’esatto adempimento. Tale libera opzione, che limita la valenza del principio di conservazione del contratto, risponde all’esigenza di non pregiudicare ulteriormente il creditore che già subisce le conseguenze dell’illecito di un altro e che si troverebbe vincolato all’accordo intercorso con una condanna ad un fàcere per cose infungibili.

Così, ad esempio, con la Legge n. 69 del 2009 che ha inserito anche nell’ordinamento italiano un mezzo di coazione indiretto attraverso l’articolo 614 del codice di procedura civile, il c.d. meccanismo delle astreintes ovvero le spinte forzose indirette ad adempiere gli obblighi nell’esecuzione. Precedenti similari nella nostra legislazione li avevamo con la legge n. 39 del 2001 a tutela dei consumatori, come anche con il Decreto Legislativo 231 del 2002 ed il Decreto Legislativo n. 24 del 2002.

Secondo l’orientamento restrittivo deve ritenersi che fin quando il diritto di credito non è spento, e cioè fino a quando sia ancora possibile ottenere una tutela, la parte inadempiente dovrà avvalersi di uno dei rimedi principali, ovvero l’esatto adempimento o la risoluzione, e potrà chiedere solo in via accessoria il risarcimento del danno.

 

4. La questione dell’ammissibilità del risarcimento in forma specifica nell’ambito contrattuale. Differenze di disciplina tra i due tipi di responsabilità. Concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. I criteri di determinazione del danno

Parte della dottrina esclude l’ammissibilità del risarcimento in forma specifica nell’ambito contrattuale, perché manca una norma analoga al 2058 c.c. come per la responsabilità aquilana ed è un rimedio pleonastico poiché il ripristino dello status quo ante coincide con l’azione di esatto adempimento, potendo essere conseguito attraverso l’esecuzione forzata in forma specifica.

Per contro la dottrina prevalente è favorevole all’applicabilità della tutela reintegratoria anche alla materia contrattuale. L’omissione del legislatore non può ritenersi decisiva ed è sufficiente la previsione di cui all’articolo 1218 del codice civile.

Non sempre il ripristino può essere conseguito con l’azione di esatto adempimento, come ad esempio nelle obbligazioni negative di non costruire. L’adempimento delle obbligazione negativa diventa impossibile e la attività volta a rimuovere il manufatto abusivo costituisce una prestazione “diversa e succedanea” rispetto a quella originaria per la dottrina più recente non si può parlare, per le obbligazioni negative di esenzione in forma specifica poiché oggettivamente impossibile ed eccessivamente onerosa. Il discorso può estendersi anche alle obbligazioni diverse da quelle negative.

L’esecuzione in forma specifica è una specie del genus (mezzo di attuazione) della reintegrazione in forma specifica (2933). Quest’ultima, secondo la giurisprudenza, ha carattere generale, quantunque dettata con specifico riferimento alla responsabilità aquilana. È configurabile nel nostro ordinamento una azione generale di reintegrazione in forma specifica, fondata sul disposto dell’articolo 2058 del codice civile e distinta dalla tutela risarcitoria ex articolo 2043 del codice civile.

Si tratta di un’azione inibitoria generale e atipica esperibile a tutela di quelle situazioni per le quali non sia stato previsto un rimedio processuale ad hoc.

La giurisprudenza ha fatto applicazione del principio ex articolo 2058 del codice civile anche in materia contrattuale. Il risarcimento in forma specifica sta occupando spazi sempre più ampi in aperto contrasto con le perplessità che in origine accompagnavano l’idea di una sua applicazione anche al danno ex contractu.

Quanto precede ha ottenuto l’avallo di autorevole dottrina (Betti e Castronovo), assume forme che preludono ad una evoluzione non dissimile da quella avvenuta in materia aquilana.

L’articolo 2058 del codice civile è un principio di carattere generale, applicabile anche in materia contrattuale; la tutela del credito passa anche attraverso la richiesta del creditore volta ad ottenere la medesima prestazione che intendeva assicurarsi con il contratto non solo come la liquidazione di una soma equivalente per valore.

È abitudine linguistica convenzionale distinguere tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale perché comunque dà luogo a responsabilità e risarcimento.

Entrambe conseguono un comportamento antigiuridico: nella responsabilità contrattuale si ha una violazione della preesistente obbligazione; nella responsabilità extracontrattuale risulta una violazione del citato principio del neminem laedere.

Per la responsabilità extracontrattuale è sufficiente la capacità naturale di intendere e volere;

per la responsabilità contrattuale, invece, è necessaria la capacità di obbligarsi o agire.

L’onere della prova, secondo l’articolo 2697 del codice civile, spetta al danneggiato (attore) dimostrare l’esistenza di tutti gli elementi indefettibili del fatto illecito in quella contrattuale si ha inversione.

Il legislatore ha introdotto una presunzione relativa di colpevolezza del debitore che si rende inadempiente per la responsabilità contrattuale, però si tratta di presunzione relativa per cui il debitore proverà l’assenza di colpa propria per impossibilità derivata da causa non a lui imputabile.

La distinzione tra i due tipi di responsabilità presenta confini sempre più mobili.

La tutela aquilana viene estesa a beni giuridici che storicamente ne erano esclusi; in primis l’interesse legittimo e per altro verso si assiste alla trasmigrazione nell’ambito della responsabilità contrattuale di fattispecie tradizionalmente ricondotte all’illecito extracontrattuale, come nel caso degli obblighi di protezione.

Vi sono infatti situazioni in cui il soggetto danneggiante, pur non essendo vincolato al danneggiato da un rapporto obbligatorio in senso stretto, è legato allo stesso in via di fatto da una relazione, c.d. contato sociale qualificato che espone quest’ultimo ad un rischio specifico e più intenso rispetto alla generalità dei consociati e che, pertanto viene considerato sufficiente a fondare una responsabilità di tipo contrattuale anche a prescindere dalla sussistenza di un vincolo pattizio.

A quali condizioni una relazione di fatto rilevante sul piano sociale sia tale da far sorgere doveri specifici di protezione di determinati beni giuridici, ossia a quali condizioni il contatto sociale possa dirsi “qualificato” dall’ordinamento giuridico. Funzionalmente omogenea alla categoria della responsabilità da contatto è quella degli obblighi di protezione: entrambi sarebbe illeciti aquilani, ma per fatti e comportamenti vengono assorbiti nella responsabilità contrattuale in modo da accordare una tutela specifica per certi versi più intensa di quella che spetta alla generalità dei terzi estranei.

Bisogna, a questo punto, valutare se è possibile in capo al medesimo soggetto il concorso di responsabilità contrattuale e aquilana.

 In caso di concorso c.d. improprio è senz’altro ammissibile, come ad esempio nel caso dell’alloggio per il servizio di portierato.

Si ha “concorso proprio” quando danneggiante e danneggiato coincidano con le parti del rapporto obbligatorio ed il danno è conseguenza diretta ed immediata dell’inadempimento.

Parte della dottrina esclude il concorso tra i due tipi di responsabilità perché la responsabilità contrattuale rivestirebbe carattere di specialità rispetto alla responsabilità aquilana.

Altra parte dottrina ritiene, invece, che nel caso in cui ricorrano i presupposti per l’una e l’altra azione, non vi sia alcuna ragione per eludere uno dei due rimedi ed impedire la scelta al titolare.

L’impostazione consolidatasi nel tempo, in dottrina e giurisprudenza, reputa prioritaria la garanzia più elevata possibile della posizione giuridica del soggetto leso, anche in ossequio alla nuova ottica riparatoria della responsabilità extracontrattuale.

Varie pronunce della Suprema Corte sono da interpretare in tal senso, in base alle quali il danneggiato è legittimato ad esercitare, in via alternativa o concorrente, entrambe le azioni connesse ai due tipi di responsabilità, perché ovviamente, ricorrano tutti gli elementi richiesti rispettivamente per ognuna e lo stesso fatto costituisca violazione o di un obbligo contrattuale o del principio del neminem laedere.

Sono indispensabili, in definitiva, tre condizioni: l’unicità del fatto lesivo, la coincidenza soggettiva danneggiante- debitore e danneggiato-creditore, la derivazione oggettiva del danno aquilano come conseguenza diretta dell’inadempimento dell’obbligazione.

La facoltà di cumulo delle azioni consente all’attore un aumento economico della pretesa risarcitoria, la giurisprudenza ha accordato doppio canale risarcitorio: negligente esecuzione di interventi chirurgici, lesioni causate al dipendente in violazione degli obblighi di sicurezza ex articolo 2087 del codice civile e normativa di settore.

Così anche nel caso di responsabilità da prodotti difettosi, come ad esempio l’esplosione della bottiglietta contenente una bibita gassata, per cui vi è concorso di responsabilità per violazione del contratto di mandato con deposito.

La giurisprudenza processuale ritiene che il concorso di responsabilità consente all’ attore di scegliere solo il regime giuridico applicabile alla fattispecie.

A seguito dell’inadempimento il debitore non sarà tenuto alla prestazione originaria, ma ad una nuova prestazione. Il debitore avrà l’onere di provare l’inadempimento dovuto ad impossibilità della prestazione. Il risarcimento del danno è un rimedio generale contro l’illecito, contrattuale ed extracontrattuale.

 

5. La nozione di danno. La risarcibilità del danno non patrimoniale

Il danno può essere inteso come evento lesivo, cioè come risultato materiale o giuridico in cui si concreta la lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile. Può anche essere inteso come effetto economico negativo cioè quale complessiva sofferenza patrimoniale.

In un terzo significato può essere inteso come liquidazione pecuniaria dell’effetto economico negativo.

In dottrina si distingue il danno-evento che integra l’illecito secondo il principio di imputazione ed il danno conseguenza le cui conseguenze pregiudizievoli sono rilevanti secondo il principio di causalità. Le norme non qualificano il danno come ingiusto in quanto in presenza di un vincolo obbligatorio la violazione non può che essere ontologicamente antigiuridica e come tale ha bisogno di una verifica nel  caso concreto.

In assenza di specifica disposizione di legge il danno non patrimoniale non è mai risarcibile a titolo contrattuale, dovendosi affermare il principio della necessaria patrimonialità del danno ai sensi dell’articolo 1223 del codice civile.

Al contrario, in senso positivo si è osservato che nella disciplina dell’articolo 1223 del codice civile e ss. non figura una norma come quella dell’articolo del codice civile che limita il risarcimento ai danni non patrimoniali ai casi previsti dalla legge.

La struttura stessa dell’obbligazione ai sensi del 1174 del codice civile indurrebbe a riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale in quanto solo la prestazione deve avere contenuto patrimoniale mentre l’interesse del creditore può anche essere di carattere non patrimoniale.

L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del codice civile, avallata dalle S.U. Cassazione del 2008, consente oggi di affermare in modo incontrovertibile che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento della minima tutela costituita dal risarcimento consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

L’articolo 1227 del codice civile, sempre con riferimento ai danni risarcibili, limita il risarcimento del danno a carico del debitore inadempiente in relazione al comportamento colposo del creditore che, con la propria condotta, abbia concorso a determinare il danno; in tal caso il risarcimento del danno è diminuito nella misura determinata dalla gravità della colpa e dall’entità delle relative conseguenze.

Il comma 2 dell’articolo 1227 del codice civile stabilisce un altro limite al risarcimento del danno, nel senso che il debitore inadempiente non è tenuto a risarcire quella quota di danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza; qui il danno è eziologicamente imputabile al solo danneggiante, ma le conseguenze dannose avrebbero potuto essere impedite o attenuate da un comportamento diligente del danneggiato.

Secondo la giurisprudenza tale fattispecie configurerebbe un’eccezione processuale in senso stretto.

L’impostazione tradizionale, estremamente rigorosa è stata rivisitata dalla giurisprudenza più recente che ha accolto un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell’articolo 1227 del codice civile.
Il creditore non è gravato soltanto dall’obbligo negativo di astenersi dall’aggravare il danno, ma anche da un obbligo positivo di tenere quelle condotte, anche positive esigibili, utili e possibili rivolte a ridurre il danno.

Un orientamento del genere si fonda sulla lettura dell’articolo 1227, comma 2, effettuata alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175-1375 del codice civile in una logica di solidarietà sociale dettata dall’articolo 2 della Costituzione, interpretata come norma immediatamente precettiva, nel senso di qualificare alla stregua di una obbligazione di correttezza a carico del creditore la cooperazione alla riduzione de danno.

Il ruolo svolto dal criterio della buona fede o correttezza in quanto riferito anche al creditore, e non solo al debitore, è allora quello di fondare ex lege una serie di obblighi, integrativi del regolamento contrattuale, di protezione delle rispettive sfere giuridiche e di esercitare un controllo sulla legittimità delle pretese del creditore di fronte all’inadempimento del debitore.

L’unico limite all’obbligazione positiva del creditore ed agli sforzi da lui esigibili è rappresentato dal c.d. apprezzabile sacrificio. Il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose dal punto di vista tecnico ed economico.

Come è stato rilevato da alcuni autori, tutto ciò che può essere chiesto al creditore/danneggiato è solo uno sforzo ragionevole. Una precisazione, in tal senso, perviene da recente giurisprudenza, secondo la quale, nell’ambito della ordinaria diligenza richiesta al creditore devono essere comprese “soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionale, o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici”.

È stato osservato che, nella dinamica del rapporto obbligatorio, il tema del concorso della colpa è stato inquadrato, da parte della dottrina, nell’ambito del principio di autoresponsabilità, per il quale ognuno, deve essere garante degli atti che compie e deve comportarsi secondo regole di correttezza e buona fede.

Secondo tale orientamento l’articolo 1227 del codice civile costituisce una applicazione diretta del principio di correttezza, in quanto impone al creditore l’uso della normale diligenza del buon padre di famiglia per circoscrivere o comunque non aggravare il pregiudizio subito.

Altra parte della dottrina individua, diversamente, il fondamento della norma nel principio di causalità per cui al danneggiante non può addebitarsi quella parte di danno che non è a lui casualmente imputabile.

Le sezioni unite della Cassazione n. 24406 del 21.11.2011 hanno affrontato la questione dell’esistenza nel nostro ordinamento del principio di autoresponsabilità, ravvisando nell’articolo1227 del codice civile un corollario del principio di causalità, statuendo che la colpa, cui fa riferimento l’articolo 1227 del codice civile, va intesa nel senso di criterio di imputazione del fatto bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.

La Corte ha risolto il contrasto giurisprudenziale sorto, con riferimento al comportamento secondo correttezza e buona fede fondato sull’articolo 1175 del codice civile, ritenendo che un identico criterio deve essere utilizzato anche per valutare la condotta del danneggiato, tenuto ad adoperarsi per evitare che si verifichi un evento lesivo in suo danno, secondo i comuni principi di diligenza.

Le sezioni unite hanno respinto l’orientamento giurisprudenziale per il quale ai fini della responsabilità per danni da condotta omissiva non è sufficiente richiamarsi al principio del neminem laedere o ad una generica antidoverosità sociale dell’inerzia, ma occorre individuare un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l’evento fondato su una specifica norma di legge ovvero su una previsione contrattuale.

In una visione moderna dei rapporti sociali, la pronuncia della Corte ha l’indubbio pregio di aver collocato la previsione di cui al primo comma dell’articolo 1227 del codice civile nell’ambito del principio solidaristico, che impone ad una parte di salvaguardare la sfera giuridica dell’altra, prevedendo uno specifico dovere di cooperazione.

In tal modo la condotta del creditore-danneggiato deve essere valutata sotto il profilo soggettivo della colpa.

In altri termini le Sezioni Unite, hanno superato il principio secondo il quale per dimostrare il concorso del fatto colposo del danneggiato è necessaria la c.d. colpa specifica, per affermare che, anche un comportamento omissivo caratterizzato dalla colpa generica, è sufficiente a fondare il concorso di colpa del creditore-danneggiato.

In entrambe le ipotesi disciplinate dall’articolo 1227 del codice civile il comportamento negligente del creditore si pone in relazione con la condotta del debitore danneggiante e condiziona la misura del risarcimento dovuto, che è diminuita in proporzione della colpa del creditore.

La liquidazione del danno avviene perciò mediante una valutazione della proporzione delle rispettive colpe e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate mentre non sono risarcibili ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile i cc.dd. “danni risarcibili” ossia quelli causati esclusivamente dalla condotta del creditore che non si pongono in relazione causale con la colpa del danneggiante.

I distinti rapporti di causalità materiale e d causalità giuridica disciplinati rispettivamente dal primo e secondo comma dell’articolo 1227 del codice civile oltre che sul piano strutturale, operano diversamente anche con riferimento al piano della rilevabilità nonché dell’onere probatorio.

La giurisprudenza distingue le due ipotesi, fermo restando l’onere a carico del danneggiante di provare che il danno sia stato prodotto, almeno in parte, dal comportamento colposo del danneggiato. La prima ipotesi è rilevabile d’ufficio, sulla base delle prove comunque acquisite, mentre la seconda è eccezionale in senso stretto.

 

6) La sentenza n. 1667 dell’11.3.2015 sulla responsabilità ed il concorso di colpa del danneggiato

La posizione empirica della giurisprudenza, di recente, con sentenza n. 1667 dell’11.3.2015 della Corte d’Appello di Roma, dimostra come in una controversia in tema di specifica responsabilità di medical malpractice, che sembra rappresentare una novità assoluta, abbia deciso a favore del danneggiato nonostante che lo stesso si sia colposamente e/o volontariamente procurato le lesioni personali  rendendo necessario il trattamento diagnostico e terapeutico, rivelatosi poi eseguito non correttamente, dannoso per la salute del paziente.

La posizione assunta dai giudici capitolini sembra mostrare un atteggiamento di favore forse eccessivo nei confronti del contraente più debole ovvero il paziente insoddisfatto pur di contrastare il fenomeno della medicina difensiva, compito che dovrebbe spettare in via prioritaria al legislatore. Questi, con la cd. Legge Balduzzi, Decreto Legge n. 158 del 13.9.2012 ha cercato di contenere quell’atteggiamento di reazione alla pressione giudiziaria alla quale sono quotidianamente esposti i professionisti sanitari che finiscono per prendere decisioni che non perseguono il bene del paziente quanto piuttosto l’intento di evitare di essere coinvolti in procedimenti giudiziari a loro carico.  La responsabilità civile è notoriamente uno dei settori del diritto in cui l’apporto creativo degli interpreti assume maggior rilievo di interventi e di qualità di risultati, ma l’applicazione della regola del concorso di colpa per correggere un’interpretazione giurisprudenziale obbligata da necessità non  strettamente giuridiche rinvierà sicuramente ad ulteriori sviluppi da parte dei giudici che interverranno al riguardo.

Indice/ Abstract:

1) L’inadempimento. Nozione e distinzione tra inadempimento imputabile, fonte di responsabilità contrattuale e inadempimento non imputabile, causa di esonero del debitore da responsabilità e fatto estintivo dell’obbligazione. Il fondamento della responsabilità da inadempimento.

2) La teoria oggettiva. La teoria soggettiva. La tesi mediana. La posizione della giurisprudenza. I rimedi all’inadempimento.

3) Concorso tra azione di inadempimento e azione di risoluzione ( mutatio libelli) in caso di preventiva proposizione dell’azione di adempimento. Insussistenza nell’ordinamento di un principio di esatto adempimento. Deroghe settoriali. Il carattere sussidiario o autonomo dell’azione risarcitoria: divisioni dottrinarie e posizione della giurisprudenza a favore del carattere autonomo.

4) La questione dell’ammissibilità del risarcimento in forma specifica nell’ambito contrattuale.

Differenze di disciplina tra i due tipi di responsabilità. Concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. I criteri di determinazione del danno.

5) La nozione di danno. La risarcibilità del danno non patrimoniale. Il concorso del fatto colposo del creditore. Interpretazione del canone di diligenza secondo l’articolo 1227 del codice civile 1 e 2 comma. La funzione “sociale” del concorso di colpa del creditore. Caratteri strutturali dell’articolo 1227 del codice civile.

6) La sentenza n. 1667 dell’11.3.2015 sulla responsabilità ed il concorso di colpa del danneggiato.

 

1) L’inadempimento. Nozione e distinzione tra inadempimento imputabile, fonte di responsabilità contrattuale e inadempimento non imputabile, causa di esonero del debitore da responsabilità e fatto estintivo dell’obbligazione. Il fondamento della responsabilità da inadempimento

La responsabilità è, in linea generale, la sanzione per l’inosservanza di un dovere giuridico.

L’area della responsabilità del debitore è regolata dall’articolo 1218 del codice civile che eccede l’inadempimento delle obbligazioni contrattuali.

Nelle decisioni giurisprudenziali, i confini della responsabilità contrattuale rispetto alla responsabilità aquilana non sempre sono individuabili in modo univoco.

La responsabilità contrattuale o da inadempimento si distingue dalla responsabilità extracontrattuale o aquilana a seconda del dovere giuridico violato.

Incorre in responsabilità aquilana il soggetto che viola il dovere generico di non ledere l’altrui sfera giuridica (neminem laedere), dovere che ciascuno è tenuto a rispettare nei confronti della generalità dei consociati.

La responsabilità contrattuale deriva invece dalla violazione di un obbligo specifico- e qualunque sia la sua fonte- contratto, illecito o altro fatto idonei.

Sono dunque assai diverse le ragioni dell’antigiuridicità.

 Mentre nella responsabilità contrattuale si crea un vincolo obbligatorio per il risarcimento del danno che discende dalla violazione di un obbligo preesistente (c.d. perpetuatio obligationis), la responsabilità aquilana sanziona i comportamenti illeciti che incidono nella sfera giuridica di soggetti cui l’agente non solo riparatoria, ma anche preventiva e sanzionatoria.

Esaminati molto brevemente i rapporti tra responsabilità contrattuale e responsabilità aquilana   occorre chiarire quali sono i criteri di imputazione della responsabilità contrattuale.

La norma fondamentale al riguardo è quella di cui all’articolo 1218 del codice civile secondo cui “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenutola risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

L’articolo 1218 contiene la regola generale in materia di responsabilità del debitore, preferibilmente definita “contrattuale” dalla dottrina per il prevalere delle obbligazioni derivanti da contratto, ancorché più esattamente deve parlarsi di responsabilità da inadempimento dell’obbligazione, quale che sia la sua fonte ( articolo 1173 del codice civile).

Il legislatore ha tentato di riassumere in una disciplina uniforme una casistica molto varia a causa della diversa natura dei contratti e dei diversi modi di inadempimento.

Presupposto dell’inadempimento è l’esistenza di un’obbligazione, in senso tecnico, in forza del quale un soggetto, detto debitore, è tenuto a eseguire una determinata prestazione in favore di un soggetto, detto creditore.

Ai sensi dell’articolo 1218 del codice civile l’inadempimento, l’adempimento inesatto, il ritardo qualificato (mora debendi) obbligano il debitore a risarcire i danno causati al creditore.

Il debitore deve risarcire questi danni solo fino al limite della possibilità di adempiere e anche al di là di questo limite se l’impossibilità è dovuta ad una causa a lui non imputabile.

In altri termini, posto che per inadempimento si intende la mancata esecuzione della prestazione nel tempo e nel luogo dovuto e secondo le modalità convenute, il mancato o inesatto adempimento può dipendere da cause imputabili al debitore; nel qual caso costui è tenuto a risarcire il danno al creditore; ovvero da cause non imputabili nel qual caso il debitore è esonerato da responsabilità e l’obbligazione si estingue per impossibilità sopravvenuta (1256 del codice civile).

Controversi in dottrina e giurisprudenza sia il fondamento che i limiti della responsabilità contrattuale.

Il problema nasce da un’apparente antinomia tra il criterio di imputazione sancito nell’articolo 1218 del codice civile ed il canone di diligenza di cui all’articolo 1176 del codice civile.  Quest’ultimo prevede una norma di condotta per cui adempie bene il debitore chi si comporta diligentemente.

Il 1218 del codice civile impone una prova più difficile e cioè che l’inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile.

 

2) La teoria oggettiva. La teoria soggettiva. La tesi mediana. La posizione della giurisprudenza. I rimedi all’inadempimento

Il codice civile del 1942 al fine di assicurare una maggior sicurezza ai traffici economici ha accolto nell’articolo appena citato una concezione rigidamente oggettiva della responsabilità contrattuale, aderendo così alla teoria di G. Osti per cui l’inadempimento sussiste per il solo che la prestazione dovuta sia rimasta ineseguita.

Il debitore può liberarsi da  responsabilità solo provando l’oggettiva impossibilità della prestazione.

L’articolo 1176 prevede soltanto una regola di condotta per cui dolo o colpa attengono alla imputazione dell’impossibilità sopravvenute e non già direttamente all’inadempimento.

L’articolo 1176, comma 1 fornisce l’ambito e la portata degli obblighi assunti, precisa e definisce il contenuto delle obbligazioni non sufficientemente determinate; segnatamente quelle di mezzi. Il secondo co. dell’articolo 1176, con riferimento alla attività professionale, consente di ricostruire o di valutare il contenuto delle prestazioni svolte dal debitore soprattutto sotto il profilo dell’esattezza dell’adempimento. Questo vale in particolare per le obbligazioni di fare.

Il debitore inadempiente del 1218 del codice civile può, nel riferimento alla diligenza, trovare il criterio per ricostruire la tipologia, la portata, lo stesso contenuto della prestazione cui si è obbligato, col risultato di poter delimitare anche gli eventuali confini di esigibilità della prestazione.

L’impossibilità è assoluta quando l’impedimento non può essere rimosso con nessuna intensità di sforzo; è oggettiva quando riguarda la prestazione in sé considerata.

Deve risultare impossibile per chiunque eseguire quella prestazione e non solo per il debitore.

L’impossibilità di cui all’articolo 1218 del codice civile va intesa in senso oggettivo e assoluto e la causa non imputabile deve consistere in un impedimento estraneo, sempre sul piano oggettivo, alla sfera del debitore, cioè tale che egli non avrebbe potuto in alcun modo prevedere e controllare.

L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale hanno ricercato la tipizzazione della invincibilità ed inevitabilità individuandola nel caso fortuito e forza maggiore, la vis major cui resisti non potest ovvero l’evento fisico-naturale, come il ponte crollato con consegne urgenti, oppure nel fatto del terzo, come a causa di scioperi, od infine per decisione imperativa dell’autorità; c.d. factum principis, come nel caso di epidemia e la vendita di carni.

La responsabilità è fondata sulla colpa, secondo la teoria soggettiva. L’articolo 1218 del codice civile, in base alla miglior dottrina (Natoli) non precisa la misura dell’impossibilità scriminante che spetta all’interprete, per determinarsi utilizza l’articolo 1176 del codice civile con il principio del “buon padre di famiglia”  perché altrimenti dovrebbe superarlo con un impegno superiore a quello richiesto.

Il combinato disposto consente di escludere siffatta impossibilità non imputabile che costituisce il limite della responsabilità debitoria.

Dalla incolpevolezza si ha l’impossibilità soggettiva e relativa per cui il debitore non dovrà neppure indicare e provare lo specifico impedimento: l’articolo 2727 del codice civile consente al giudice di risalire ad un fatto ignoto da uno noto.

A parere dei sostenitori della tesi mediana il limite della teoria soggettiva è quello di porsi in antitesi con una concezione oggettiva di inadempimento cui il legislatore ha ispirato la norma del 1218 del codice civile secondo i lavori preparatori del codice. La teoria oggettiva  mostra eccessivo rigore nel pretendere la prova liberatoria su un’impossibilità della prestazione oggettiva e assoluta.

La tesi mediana, sostenuta dalla dottrina prevalente (Bianca), è favorevole ad una interpretazione più ampia della prova liberatoria richiesta dall’articolo 1218 del codice civile per cui il requisito della impossibilità della prestazione vada inteso in senso soggettivo e relativo in modo da rendere inesigibile, secondo buona fede, la prestazione alle condizioni originarie.

La giurisprudenza motiva con riferimento al caso concreto con il ricorso frequente alla buona fede, alla diligenza ed ai principi costituzionali od al concetto di inesigibilità della prestazione.

Il dibattito tra teoria oggettiva e soggettiva è un falso problema perché entrambe le teorie conducono a soluzioni identiche così come per le eccezioni ed i temperamenti.

La colpa contrattuale deve essere valutata in base ad un criterio rigorosamente oggettivo, commisurato all’uomo medio che va inteso in relazione alla categoria di persone cui l’agente appartiene. Il criterio soggettivo torna però operante quando l’agente sia dotato di capacità e qualità superiori alla media.

La materia della responsabilità contrattuale si presenta come un sistema aperto, un diritto di prevalente creazione giurisprudenziale, che pertanto richiede necessariamente un metodo analitico-casistico di indagine.

 

3) Concorso  tra azione di inadempimento e azione di risoluzione (mutatio libelli) in caso di preventiva proposizione dell’azione di adempimento. Insussistenza nell’ordinamento di un principio di esatto adempimento

A fronte delle situazioni giuridiche prospettate sinora si possono applicare i c.d. rimedi all’inadempimento come previsto dell’ordinamento, quali il concorso tra azione di adempimento e azione di risoluzione con possibilità di mutatio libelli in caso di preventiva proposizione dell’azione di adempimento.

 Il contraente può alternativamente agire per ottenere una sentenza (dichiarativa) di condanna all’adempimento, oppure chiedere, con obbligazioni a prestazioni corrispettive, una pronuncia (costitutiva) di risoluzione del contratto, salva, in ogni caso, l’azione di risarcimento danni.

L’azione di risoluzione, ex articolo 1453, comma 2, può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento.

La domanda di risoluzione, invece, preclude la proponibilità dell’azione di adempimento in quanto dopo la risoluzione l’inadempiente non è più tenuto alla prestazione onde il risolvente non può obbligarla nuovamente all’esecuzione. Viene stabilito un principio di ordine processuale in deroga alle disposizioni ex articolo 183 del codice di procedura civile che consentono nel corso del processo solo l’emendatio.

Ci si chiede se esiste in Italia un principio come quello inglese o tedesco della c.d. natural restitution o specific performance.

Inoltre,  ci si domanda se l’azione risarcitoria è un’azione accessoria alle due principali o può essere esercitata in via autonoma.

Deve escludersi l’esistenza nel nostro ordinamento un principio di prevalenza dell’azione di esatto adempimento ex articolo 1453 del codice civile che consente al creditore insoddisfatto di scegliere tra la risoluzione e l’esatto adempimento. Tale libera opzione, che limita la valenza del principio di conservazione del contratto, risponde all’esigenza di non pregiudicare ulteriormente il creditore che già subisce le conseguenze dell’illecito di un altro e che si troverebbe vincolato all’accordo intercorso con una condanna ad un fàcere per cose infungibili.

Così, ad esempio, con la Legge n. 69 del 2009 che ha inserito anche nell’ordinamento italiano un mezzo di coazione indiretto attraverso l’articolo 614 del codice di procedura civile, il c.d. meccanismo delle astreintes ovvero le spinte forzose indirette ad adempiere gli obblighi nell’esecuzione. Precedenti similari nella nostra legislazione li avevamo con la legge n. 39 del 2001 a tutela dei consumatori, come anche con il Decreto Legislativo 231 del 2002 ed il Decreto Legislativo n. 24 del 2002.

Secondo l’orientamento restrittivo deve ritenersi che fin quando il diritto di credito non è spento, e cioè fino a quando sia ancora possibile ottenere una tutela, la parte inadempiente dovrà avvalersi di uno dei rimedi principali, ovvero l’esatto adempimento o la risoluzione, e potrà chiedere solo in via accessoria il risarcimento del danno.

 

4. La questione dell’ammissibilità del risarcimento in forma specifica nell’ambito contrattuale. Differenze di disciplina tra i due tipi di responsabilità. Concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. I criteri di determinazione del danno

Parte della dottrina esclude l’ammissibilità del risarcimento in forma specifica nell’ambito contrattuale, perché manca una norma analoga al 2058 c.c. come per la responsabilità aquilana ed è un rimedio pleonastico poiché il ripristino dello status quo ante coincide con l’azione di esatto adempimento, potendo essere conseguito attraverso l’esecuzione forzata in forma specifica.

Per contro la dottrina prevalente è favorevole all’applicabilità della tutela reintegratoria anche alla materia contrattuale. L’omissione del legislatore non può ritenersi decisiva ed è sufficiente la previsione di cui all’articolo 1218 del codice civile.

Non sempre il ripristino può essere conseguito con l’azione di esatto adempimento, come ad esempio nelle obbligazioni negative di non costruire. L’adempimento delle obbligazione negativa diventa impossibile e la attività volta a rimuovere il manufatto abusivo costituisce una prestazione “diversa e succedanea” rispetto a quella originaria per la dottrina più recente non si può parlare, per le obbligazioni negative di esenzione in forma specifica poiché oggettivamente impossibile ed eccessivamente onerosa. Il discorso può estendersi anche alle obbligazioni diverse da quelle negative.

L’esecuzione in forma specifica è una specie del genus (mezzo di attuazione) della reintegrazione in forma specifica (2933). Quest’ultima, secondo la giurisprudenza, ha carattere generale, quantunque dettata con specifico riferimento alla responsabilità aquilana. È configurabile nel nostro ordinamento una azione generale di reintegrazione in forma specifica, fondata sul disposto dell’articolo 2058 del codice civile e distinta dalla tutela risarcitoria ex articolo 2043 del codice civile.

Si tratta di un’azione inibitoria generale e atipica esperibile a tutela di quelle situazioni per le quali non sia stato previsto un rimedio processuale ad hoc.

La giurisprudenza ha fatto applicazione del principio ex articolo 2058 del codice civile anche in materia contrattuale. Il risarcimento in forma specifica sta occupando spazi sempre più ampi in aperto contrasto con le perplessità che in origine accompagnavano l’idea di una sua applicazione anche al danno ex contractu.

Quanto precede ha ottenuto l’avallo di autorevole dottrina (Betti e Castronovo), assume forme che preludono ad una evoluzione non dissimile da quella avvenuta in materia aquilana.

L’articolo 2058 del codice civile è un principio di carattere generale, applicabile anche in materia contrattuale; la tutela del credito passa anche attraverso la richiesta del creditore volta ad ottenere la medesima prestazione che intendeva assicurarsi con il contratto non solo come la liquidazione di una soma equivalente per valore.

È abitudine linguistica convenzionale distinguere tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale perché comunque dà luogo a responsabilità e risarcimento.

Entrambe conseguono un comportamento antigiuridico: nella responsabilità contrattuale si ha una violazione della preesistente obbligazione; nella responsabilità extracontrattuale risulta una violazione del citato principio del neminem laedere.

Per la responsabilità extracontrattuale è sufficiente la capacità naturale di intendere e volere;

per la responsabilità contrattuale, invece, è necessaria la capacità di obbligarsi o agire.

L’onere della prova, secondo l’articolo 2697 del codice civile, spetta al danneggiato (attore) dimostrare l’esistenza di tutti gli elementi indefettibili del fatto illecito in quella contrattuale si ha inversione.

Il legislatore ha introdotto una presunzione relativa di colpevolezza del debitore che si rende inadempiente per la responsabilità contrattuale, però si tratta di presunzione relativa per cui il debitore proverà l’assenza di colpa propria per impossibilità derivata da causa non a lui imputabile.

La distinzione tra i due tipi di responsabilità presenta confini sempre più mobili.

La tutela aquilana viene estesa a beni giuridici che storicamente ne erano esclusi; in primis l’interesse legittimo e per altro verso si assiste alla trasmigrazione nell’ambito della responsabilità contrattuale di fattispecie tradizionalmente ricondotte all’illecito extracontrattuale, come nel caso degli obblighi di protezione.

Vi sono infatti situazioni in cui il soggetto danneggiante, pur non essendo vincolato al danneggiato da un rapporto obbligatorio in senso stretto, è legato allo stesso in via di fatto da una relazione, c.d. contato sociale qualificato che espone quest’ultimo ad un rischio specifico e più intenso rispetto alla generalità dei consociati e che, pertanto viene considerato sufficiente a fondare una responsabilità di tipo contrattuale anche a prescindere dalla sussistenza di un vincolo pattizio.

A quali condizioni una relazione di fatto rilevante sul piano sociale sia tale da far sorgere doveri specifici di protezione di determinati beni giuridici, ossia a quali condizioni il contatto sociale possa dirsi “qualificato” dall’ordinamento giuridico. Funzionalmente omogenea alla categoria della responsabilità da contatto è quella degli obblighi di protezione: entrambi sarebbe illeciti aquilani, ma per fatti e comportamenti vengono assorbiti nella responsabilità contrattuale in modo da accordare una tutela specifica per certi versi più intensa di quella che spetta alla generalità dei terzi estranei.

Bisogna, a questo punto, valutare se è possibile in capo al medesimo soggetto il concorso di responsabilità contrattuale e aquilana.

 In caso di concorso c.d. improprio è senz’altro ammissibile, come ad esempio nel caso dell’alloggio per il servizio di portierato.

Si ha “concorso proprio” quando danneggiante e danneggiato coincidano con le parti del rapporto obbligatorio ed il danno è conseguenza diretta ed immediata dell’inadempimento.

Parte della dottrina esclude il concorso tra i due tipi di responsabilità perché la responsabilità contrattuale rivestirebbe carattere di specialità rispetto alla responsabilità aquilana.

Altra parte dottrina ritiene, invece, che nel caso in cui ricorrano i presupposti per l’una e l’altra azione, non vi sia alcuna ragione per eludere uno dei due rimedi ed impedire la scelta al titolare.

L’impostazione consolidatasi nel tempo, in dottrina e giurisprudenza, reputa prioritaria la garanzia più elevata possibile della posizione giuridica del soggetto leso, anche in ossequio alla nuova ottica riparatoria della responsabilità extracontrattuale.

Varie pronunce della Suprema Corte sono da interpretare in tal senso, in base alle quali il danneggiato è legittimato ad esercitare, in via alternativa o concorrente, entrambe le azioni connesse ai due tipi di responsabilità, perché ovviamente, ricorrano tutti gli elementi richiesti rispettivamente per ognuna e lo stesso fatto costituisca violazione o di un obbligo contrattuale o del principio del neminem laedere.

Sono indispensabili, in definitiva, tre condizioni: l’unicità del fatto lesivo, la coincidenza soggettiva danneggiante- debitore e danneggiato-creditore, la derivazione oggettiva del danno aquilano come conseguenza diretta dell’inadempimento dell’obbligazione.

La facoltà di cumulo delle azioni consente all’attore un aumento economico della pretesa risarcitoria, la giurisprudenza ha accordato doppio canale risarcitorio: negligente esecuzione di interventi chirurgici, lesioni causate al dipendente in violazione degli obblighi di sicurezza ex articolo 2087 del codice civile e normativa di settore.

Così anche nel caso di responsabilità da prodotti difettosi, come ad esempio l’esplosione della bottiglietta contenente una bibita gassata, per cui vi è concorso di responsabilità per violazione del contratto di mandato con deposito.

La giurisprudenza processuale ritiene che il concorso di responsabilità consente all’ attore di scegliere solo il regime giuridico applicabile alla fattispecie.

A seguito dell’inadempimento il debitore non sarà tenuto alla prestazione originaria, ma ad una nuova prestazione. Il debitore avrà l’onere di provare l’inadempimento dovuto ad impossibilità della prestazione. Il risarcimento del danno è un rimedio generale contro l’illecito, contrattuale ed extracontrattuale.

 

5. La nozione di danno. La risarcibilità del danno non patrimoniale

Il danno può essere inteso come evento lesivo, cioè come risultato materiale o giuridico in cui si concreta la lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile. Può anche essere inteso come effetto economico negativo cioè quale complessiva sofferenza patrimoniale.

In un terzo significato può essere inteso come liquidazione pecuniaria dell’effetto economico negativo.

In dottrina si distingue il danno-evento che integra l’illecito secondo il principio di imputazione ed il danno conseguenza le cui conseguenze pregiudizievoli sono rilevanti secondo il principio di causalità. Le norme non qualificano il danno come ingiusto in quanto in presenza di un vincolo obbligatorio la violazione non può che essere ontologicamente antigiuridica e come tale ha bisogno di una verifica nel  caso concreto.

In assenza di specifica disposizione di legge il danno non patrimoniale non è mai risarcibile a titolo contrattuale, dovendosi affermare il principio della necessaria patrimonialità del danno ai sensi dell’articolo 1223 del codice civile.

Al contrario, in senso positivo si è osservato che nella disciplina dell’articolo 1223 del codice civile e ss. non figura una norma come quella dell’articolo del codice civile che limita il risarcimento ai danni non patrimoniali ai casi previsti dalla legge.

La struttura stessa dell’obbligazione ai sensi del 1174 del codice civile indurrebbe a riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale in quanto solo la prestazione deve avere contenuto patrimoniale mentre l’interesse del creditore può anche essere di carattere non patrimoniale.

L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del codice civile, avallata dalle S.U. Cassazione del 2008, consente oggi di affermare in modo incontrovertibile che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento della minima tutela costituita dal risarcimento consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

L’articolo 1227 del codice civile, sempre con riferimento ai danni risarcibili, limita il risarcimento del danno a carico del debitore inadempiente in relazione al comportamento colposo del creditore che, con la propria condotta, abbia concorso a determinare il danno; in tal caso il risarcimento del danno è diminuito nella misura determinata dalla gravità della colpa e dall’entità delle relative conseguenze.

Il comma 2 dell’articolo 1227 del codice civile stabilisce un altro limite al risarcimento del danno, nel senso che il debitore inadempiente non è tenuto a risarcire quella quota di danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza; qui il danno è eziologicamente imputabile al solo danneggiante, ma le conseguenze dannose avrebbero potuto essere impedite o attenuate da un comportamento diligente del danneggiato.

Secondo la giurisprudenza tale fattispecie configurerebbe un’eccezione processuale in senso stretto.

L’impostazione tradizionale, estremamente rigorosa è stata rivisitata dalla giurisprudenza più recente che ha accolto un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell’articolo 1227 del codice civile.
Il creditore non è gravato soltanto dall’obbligo negativo di astenersi dall’aggravare il danno, ma anche da un obbligo positivo di tenere quelle condotte, anche positive esigibili, utili e possibili rivolte a ridurre il danno.

Un orientamento del genere si fonda sulla lettura dell’articolo 1227, comma 2, effettuata alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175-1375 del codice civile in una logica di solidarietà sociale dettata dall’articolo 2 della Costituzione, interpretata come norma immediatamente precettiva, nel senso di qualificare alla stregua di una obbligazione di correttezza a carico del creditore la cooperazione alla riduzione de danno.

Il ruolo svolto dal criterio della buona fede o correttezza in quanto riferito anche al creditore, e non solo al debitore, è allora quello di fondare ex lege una serie di obblighi, integrativi del regolamento contrattuale, di protezione delle rispettive sfere giuridiche e di esercitare un controllo sulla legittimità delle pretese del creditore di fronte all’inadempimento del debitore.

L’unico limite all’obbligazione positiva del creditore ed agli sforzi da lui esigibili è rappresentato dal c.d. apprezzabile sacrificio. Il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose dal punto di vista tecnico ed economico.

Come è stato rilevato da alcuni autori, tutto ciò che può essere chiesto al creditore/danneggiato è solo uno sforzo ragionevole. Una precisazione, in tal senso, perviene da recente giurisprudenza, secondo la quale, nell’ambito della ordinaria diligenza richiesta al creditore devono essere comprese “soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionale, o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici”.

È stato osservato che, nella dinamica del rapporto obbligatorio, il tema del concorso della colpa è stato inquadrato, da parte della dottrina, nell’ambito del principio di autoresponsabilità, per il quale ognuno, deve essere garante degli atti che compie e deve comportarsi secondo regole di correttezza e buona fede.

Secondo tale orientamento l’articolo 1227 del codice civile costituisce una applicazione diretta del principio di correttezza, in quanto impone al creditore l’uso della normale diligenza del buon padre di famiglia per circoscrivere o comunque non aggravare il pregiudizio subito.

Altra parte della dottrina individua, diversamente, il fondamento della norma nel principio di causalità per cui al danneggiante non può addebitarsi quella parte di danno che non è a lui casualmente imputabile.

Le sezioni unite della Cassazione n. 24406 del 21.11.2011 hanno affrontato la questione dell’esistenza nel nostro ordinamento del principio di autoresponsabilità, ravvisando nell’articolo1227 del codice civile un corollario del principio di causalità, statuendo che la colpa, cui fa riferimento l’articolo 1227 del codice civile, va intesa nel senso di criterio di imputazione del fatto bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.

La Corte ha risolto il contrasto giurisprudenziale sorto, con riferimento al comportamento secondo correttezza e buona fede fondato sull’articolo 1175 del codice civile, ritenendo che un identico criterio deve essere utilizzato anche per valutare la condotta del danneggiato, tenuto ad adoperarsi per evitare che si verifichi un evento lesivo in suo danno, secondo i comuni principi di diligenza.

Le sezioni unite hanno respinto l’orientamento giurisprudenziale per il quale ai fini della responsabilità per danni da condotta omissiva non è sufficiente richiamarsi al principio del neminem laedere o ad una generica antidoverosità sociale dell’inerzia, ma occorre individuare un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l’evento fondato su una specifica norma di legge ovvero su una previsione contrattuale.

In una visione moderna dei rapporti sociali, la pronuncia della Corte ha l’indubbio pregio di aver collocato la previsione di cui al primo comma dell’articolo 1227 del codice civile nell’ambito del principio solidaristico, che impone ad una parte di salvaguardare la sfera giuridica dell’altra, prevedendo uno specifico dovere di cooperazione.

In tal modo la condotta del creditore-danneggiato deve essere valutata sotto il profilo soggettivo della colpa.

In altri termini le Sezioni Unite, hanno superato il principio secondo il quale per dimostrare il concorso del fatto colposo del danneggiato è necessaria la c.d. colpa specifica, per affermare che, anche un comportamento omissivo caratterizzato dalla colpa generica, è sufficiente a fondare il concorso di colpa del creditore-danneggiato.

In entrambe le ipotesi disciplinate dall’articolo 1227 del codice civile il comportamento negligente del creditore si pone in relazione con la condotta del debitore danneggiante e condiziona la misura del risarcimento dovuto, che è diminuita in proporzione della colpa del creditore.

La liquidazione del danno avviene perciò mediante una valutazione della proporzione delle rispettive colpe e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate mentre non sono risarcibili ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile i cc.dd. “danni risarcibili” ossia quelli causati esclusivamente dalla condotta del creditore che non si pongono in relazione causale con la colpa del danneggiante.

I distinti rapporti di causalità materiale e d causalità giuridica disciplinati rispettivamente dal primo e secondo comma dell’articolo 1227 del codice civile oltre che sul piano strutturale, operano diversamente anche con riferimento al piano della rilevabilità nonché dell’onere probatorio.

La giurisprudenza distingue le due ipotesi, fermo restando l’onere a carico del danneggiante di provare che il danno sia stato prodotto, almeno in parte, dal comportamento colposo del danneggiato. La prima ipotesi è rilevabile d’ufficio, sulla base delle prove comunque acquisite, mentre la seconda è eccezionale in senso stretto.

 

6) La sentenza n. 1667 dell’11.3.2015 sulla responsabilità ed il concorso di colpa del danneggiato

La posizione empirica della giurisprudenza, di recente, con sentenza n. 1667 dell’11.3.2015 della Corte d’Appello di Roma, dimostra come in una controversia in tema di specifica responsabilità di medical malpractice, che sembra rappresentare una novità assoluta, abbia deciso a favore del danneggiato nonostante che lo stesso si sia colposamente e/o volontariamente procurato le lesioni personali  rendendo necessario il trattamento diagnostico e terapeutico, rivelatosi poi eseguito non correttamente, dannoso per la salute del paziente.

La posizione assunta dai giudici capitolini sembra mostrare un atteggiamento di favore forse eccessivo nei confronti del contraente più debole ovvero il paziente insoddisfatto pur di contrastare il fenomeno della medicina difensiva, compito che dovrebbe spettare in via prioritaria al legislatore. Questi, con la cd. Legge Balduzzi, Decreto Legge n. 158 del 13.9.2012 ha cercato di contenere quell’atteggiamento di reazione alla pressione giudiziaria alla quale sono quotidianamente esposti i professionisti sanitari che finiscono per prendere decisioni che non perseguono il bene del paziente quanto piuttosto l’intento di evitare di essere coinvolti in procedimenti giudiziari a loro carico.  La responsabilità civile è notoriamente uno dei settori del diritto in cui l’apporto creativo degli interpreti assume maggior rilievo di interventi e di qualità di risultati, ma l’applicazione della regola del concorso di colpa per correggere un’interpretazione giurisprudenziale obbligata da necessità non  strettamente giuridiche rinvierà sicuramente ad ulteriori sviluppi da parte dei giudici che interverranno al riguardo.