x

x

Il principio di intangibilità del giudicato e la funzione rieducativa della pena

Il principio di intangibilità del giudicato e la funzione rieducativa della pena
Il principio di intangibilità del giudicato e la funzione rieducativa della pena

Ai sensi del comma 1 dell’articolo 648 Codice Procedura Penale, sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione: si tratta dei casi in cui il legittimato abbia lasciato decorrere i relativi termini, oppure abbia esaurito i mezzi di gravame.

In tali casi, si ritiene formato il cosiddetto giudicato, ovvero una statuizione intangibile sui fatti oggetto di causa, non più controvertibile salvo che in ipotesi eccezionali.

Questo principio trova il proprio addentellato normativo essenziale e generale nell’articolo 2909 Codice Civile, ai sensi del quale la sentenza passata in giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa; esso, altresì, ha da sempre rappresentato una delle assi portanti del sistema processualpenalistico italiano, che ricollega alla formazione del giudicato talune importanti conseguenze: si pensi al superamento della presunzione di non colpevolezza, sancita dall’articolo 27 comma 2 Costituzione; oppure all’esecuzione della pena, possibile esclusivamente in seguito alla intervenuta irrevocabilità della statuizione formatasi all’esito del  processo.

Il principio di intangibilità del giudicato assolve pertanto alla funzione di operare uno sbarramento processuale, individuando un momento di stabilizzazione tendenzialmente immodificabile di quanto emerso in dibattimento e cristallizzato nella sentenza: come tale, esso assolve ad una fondamentale esigenza di certezza del diritto, riconducendosi in caso di pronuncia assolutoria al principio del ne bis in idem, ai sensi del quale non è possibile sottoporre a procedimento penale lo stesso soggetto per più di una volta con riguardo al medesimo fatto, ed in caso di pronuncia di condanna alla funzione rieducativa della pena perseguita dall’articolo 27 comma 3 Costituzione garantendo al condannato una pena giusta e proporzionata al fatto commesso per come emerso nel corso del dibattimento.

Senonché, tale principio può porsi in contrasto con altri, talvolta desumibili dalle garanzie che connotano il processo penale: ciò emerge, in particolare, in virtù dell’influenza sempre più preponderante, nel sistema penale nazionale, degli ordinamenti giuridici sovranazionali, in specie quello comunitario e quello derivante dai principi affermati dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. Essi, infatti, manifestano una decisa insofferenza verso preclusioni formalistiche all’accesso alle garanzie essenziali per l’imputato, manifestando una tendenza alla generalizzazione massima dei principi affermati anche a discapito di eventuali principi opposti frutto delle tradizioni giuridiche nazionali.

A livello comunitario v’è da dire che la Corte di Giustizia è stata sovente chiamata a pronunciarsi sul tema del rapporto tra giudicato nazionale contrastante con il diritto della Unione Europea e primazia del diritto unionale: in particolare, ci si è chiesti se il principio di cooperazione sancito dall’articolo 4 par. 3 del Trattato dell’Unione Europea imponga agli organi giurisdizionali nazionali il riesame di un provvedimento passato in giudicato qualora se ne ravvisi il contrasto con il diritto comunitario. La Corte rifiuta, in risposta a tale quesito, interpretazioni fondate sulla aprioristica affermazione della primazia del diritto unionale, salvaguardando il principio dell’intangibilità del giudicato, cui viene attribuito il fine esiziale di garantire la stabilità dei rapporti giuridici e la buona amministrazione della giustizia; pertanto, si sostiene, l’obbligo del giudice nazionale di riesaminare una decisione contrastante con i principi unionali sussiste fintanto che quest’organo disponga, in virtù del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione.

Se questo vale in termini generali, la Corte di Giustizia, nella sentenza “Lucchini” del 2007, individua una eccezione nella quale anche l’intangibilità del giudicato è destinata a soccombere di fronte all’affermazione di un principio dell’Unione con esso contrastante: allorché il principio delineato dall’articolo 2909 Codice Civile impedisca il recupero di un aiuto di stato erogato in contrasto con il diritto unionale e la cui incompatibilità con i principi del mercato comune sia stata dichiarata con decisione della Commissione UE divenuta definitiva.

Un caso, quello esaminato in questo arresto, del tutto peculiare, in cui il beneficiario dell’aiuto da parte della Commissione Europea non aveva tempestivamente impugnato la decisione che glielo concedeva, lasciando decorrere il termine all’uopo previsto, e rivolgendosi poi alla giurisdizione nazionale, ritenuta dalla Corte di Giustizia non legittimata sul punto a pronunciarsi con autorità di giudicato. A questa primigenia eccezione la Corte di Giustizia ne ha aggiunta successivamente un’altra, nell’ipotesi di giudicato formatosi in assenza del rinvio pregiudiziale alla stessa Corte, pur in presenza dei presupposti del medesimo.

Influenza ancor più dirompente nel ridisegnare i confini del principio della tendenziale intangibilità del giudicato ha assunto la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, stipulata a Roma nel 1950, nell’interpretazione fornita dalla corte edu di Strasburgo.

Preliminarmente, quanto al rango che tale fonte acquista nella gerarchia normativa interna, la Corte Costituzionale, in un fondamentale arresto del 2007, ha anzitutto escluso che la base giuridica della CEDU nell’ordinamento interno possa essere rinvenuta nell’articolo 10 Costituzione, che impone un adattamento automatico dell’ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, alludendo in tal guisa al diritto internazionale consuetudinario piuttosto che a quello pattizio.

In secondo luogo, è anche escluso che tale base giuridica possa rinvenirsi nell’articolo 11 Costituzione, a cui si fa costantemente riferimento per legittimare il ruolo del diritto UE nell’ordinamento interno: infatti, si adduce che l’adesione alla Convenzione non ha comportato per l’Italia alcun tipo di limitazione di sovranità. Pertanto, secondo la Consulta la Convenzione avrebbe un rango diverso nella gerarchia delle fonti rispetto al diritto UE: conseguentemente, il potere di disapplicazione, conferito al giudice nazionale che ravvisi un contrasto tra norma interna e norma dell’Unione, non sussiste ugualmente in caso di contrasto ravvisato tra norma interna e norma CEDU.

La base giuridica della Convenzione, prosegue la Corte Costituzionale, è da rinvenire nell’articolo 117 comma 1 Costituzione, ai sensi del quale la potestà legislativa è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: ciò vuol dire che, in caso di contrasto tra normativa interna e CEDU, il giudice nazionale è legittimato a sollevare questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’articolo 117 Costituzione; ciò purché non sia possibile seguire la via della cosiddetta interpretazione convenzionalmente orientata, ovvero procedere ad una interpretazione della norma interna che non contrasti con quella convenzionale.

Tra i principi EDU che hanno sollevato maggiori questioni interpretative, è da segnalare quello contenuto nell’articolo 7, che trova corrispondenza nel principio di legalità ex articolo 25 Costituzione, ai sensi del quale nessuno può essere condannato per un fatto che non sia previsto previamente come reato dalla legge né assoggettato a pene più gravi di quelle previste al momento della commissione del fatto: trattasi dei principi della riserva di legge e del divieto di retroattività sfavorevole.

Essi pongono la questione dell’individuazione di eventuali limiti, quale può essere quello dell’intervenuto giudicato penale: questione che può essere risolta esclusivamente tramite un bilanciamento tra i principi della riserva di legge e dell’irretroattività della norma penale sopravvenuta e quello dell’irretrattabilità del giudicato, per valutare quale debba farsi prevalere.  

È quanto avvenuto nel 2007, allorché una sentenza della Corte di Strasburgo (cd. Scoppola) ha contribuito alla perimetrazione del principio di retroazione favorevole della norma sopravvenuta, riconducendolo all’articolo 7 CEDU: ciononostante, esso è stato ritenuto da tali giudici recessivo rispetto a quello dell’intangibilità del giudicato, potendo operare esclusivamente allorchè non risulti ancora pronunciata sentenza definitiva.

Nell’ordinamento interno, la normativa di riferimento è costituita dalla disposizione dell’articolo 2 comma 2 Codice Penale, che codifica il principio della retroazione favorevole della norma abrogatrice sopravvenuta, che prevale anche sull’intervenuto giudicato; In secondo luogo, sul piano processuale, dall’articolo 673 Codice Procedura Penale, il quale, nel disciplinare le competenze del giudice dell’esecuzione, dispone che in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice egli revochi la sentenza passata in giudicato e dichiari cessati i relativi effetti penali.

Invece, quando la norma sopravvenuta non abroghi sic et simpliciter la norma preesistente alla base della sentenza passata in giudicato, ma introduca una diversa disciplina più favorevole per il reo, tale disciplina è destinata a soccombere al giudicato già intervenuto con riguardo a quella fattispecie (articolo 2 comma 4 Codice Penale). Questa disposizione ha posto la necessità di disciplinare i rapporti tra intervenuto giudicato ed intervento successivo di una disposizione penale più favorevole per il reo: la soluzione al quesito passa attraverso la ricostruzione del valore del principio in essa contenuto, se, cioè, esso abbia uno specifico addentellato costituzionale, e come tale vada ritenuto prevalente rispetto a quello dell’intangibilità del giudicato, oppure se esso sia espressione di una disposizione di rango primario, come tale destinata a soccombere a fronte di principi ed esigenze contrapposti.

L’addentellato costituzionale del principio viene dalla Consulta del 2006 rinvenuto nell’articolo 3 Costituzione: infatti, si è detto, sarebbe irragionevole sottoporre ad un trattamento diverso soggetti che abbiano commesso il medesimo fatto di reato solo sulla base di un criterio temporale, con la conseguenza che coloro i quali realizzano la condotta prima della riforma legislativa sono sottoposti ad un determinato trattamento sanzionatorio, mentre coloro i quali pongano in essere la medesima successivamente ad un altro. Pertanto, far prevalere l’intangibilità del giudicato in tali casi violerebbe il principio di uguaglianza. Senonché, secondo le indicazioni della Corte, il principio in questione non va inteso in senso assoluto ed inderogabile, bensì va bilanciato con altri, eventuali ed opposti, in attuazione del criterio di ragionevolezza desumibile dal medesimo articolo 3 Costituzione.

Limiti specifici al principio di intangibilità del giudicato sono individuati dai commi 2 e 3 dell’articolo 2 Codice Penale: oltre al caso, già analizzato, della norma sopravvenuta abolitiva del reato, vi è quello della conversione della pena detentiva originariamente prevista in pena pecuniaria.

Ci si è chiesti se lo stesso effetto di cui alla disposizione in esame possa conseguire non ad un novum legislativo, bensì ad un mutamento giurisprudenziale in senso favorevole all’imputato successivo al giudicato.

La Corte Costituzionale del 2012, sul punto, ribadendo i riferimenti costituzionali e convenzionali del principio di retroazione favorevole, nega la prevalenza del medesimo sull’intervenuto giudicato. Si adduce, in particolare, come la Corte di Strasburgo non abbia mai dato adito ad una tale interpretazione, essendosi piuttosto pronunciata sull’opposta questione della retroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole al reo, negandone l’operatività in caso di intervenuto giudicato a meno che esso non risultasse uno sviluppo ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza al momento del fatto.

Si è detto in precedenza che la disciplina di riferimento in tema di giudicato è costituita dall’articolo 2 Codice Penale, che prende espressamente in esame i casi di sopravvenuta abolitio criminis e di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, disciplinandone l’interferenza sull’intervenuto giudicato; e dall’articolo 673 Codice Procedura Penale che, invece, disciplina il diverso caso di intervenuta declaratoria d’incostituzionalità della norma incriminatrice, statuendo la revoca, in tali casi, della sentenza di condanna ad opera del giudice dell’esecuzione.

Alla luce della scarna disciplina evidenziata, ci si è chiesti quali siano i rapporti tra giudicato penale di condanna e declaratoria di incostituzionalità di una disposizione che non sia incriminatrice, ma incide comunque sul trattamento sanzionatorio, ad esempio prevedendo una circostanza aggravante.

La questione si è posta, in particolare, in riferimento al reato di cui al comma 5 dell’articolo 73 d.P.R. 309 del 1990 ( T.U. stupefacenti ), aggravato dalla circostanza di cui all’articolo 69 comma 4 Codice Penale (divieto di prevalenza dell’attenuante della lieve entità del fatto sulla recidiva aggravata reiterata) per come introdotta dall’articolo 3 della legge 5 dicembre 2005 n. 251. La disposizione in questione è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza 251 del 2012: la Corte ha infatti ritenuto che in tale caso la deroga al criterio del bilanciamento tra circostanze non fosse ragionevole, comportando una rilevante sproporzione della risposta sanzionatoria rispetto al fatto di reato effettivamente commesso.

Ciò, per l’appunto, comportava un effetto opposto a quello perseguito dalla disciplina delle circostanze, ovvero la modulazione della pena al fatto per come emerso in dibattimento e al disvalore manifestato dall’imputato: pertanto, la norma è stata espunta dall’ordinamento, in quanto ritenuta violativa dell’articolo 3 Costituzione, poiché comportava una sostanziale equiparazione del trattamento sanzionatorio del recidivo reiterato autore di un fatto “non lieve” cui fossero state riconosciute le attenuanti generiche, e il medesimo soggetto autore di un fatto di “lieve entità”; in secondo luogo, è stata riconosciuta la violazione dell’articolo 27 comma 3 Costituzione, in quanto comportava una sanzione sproporzionata rispetto al fatto commesso; infine, è stata riscontrata anche la violazione del principio della finalità rieducativa della pena nei confronti del condannato, in quanto questi, vedendosi applicare una pena assolutamente sproporzionata rispetto al fatto commesso, non poteva percepirne la giustizia e, conseguentemente, predisporsi alla rieducazione ed al reinserimento nella società.

In virtù dell’espunzione di tale disposizione dall’ordinamento, ci si è domandati in giurisprudenza se, nei casi di sentenze passate in giudicato che avessero applicato la circostanza di cui all’articolo 69, il giudice dell’esecuzione fosse o meno tenuto a procedere ad una rideterminazione della pena espungendone, se del caso, il quantum derivante dal riconoscimento della recidiva aggravata reiterata; e le soluzioni emerse non sono univoche.

Secondo un primo orientamento, in tali casi non sarebbe consentita l’esecuzione della pena inflitta in virtù della circostanza aggravante dichiarata costituzionalmente illegittima. A tal fine si richiama in primo luogo l’articolo 136 Costituzione, che nel disporre che la norma dichiarata incostituzionale perda efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione implica necessariamente una eliminazione ex tunc di qualsiasi effetto prodotto dalla norma dall’ordinamento giuridico, senza effettuare alcuna distinzione in riferimento ai casi decisi con sentenza passata in giudicato; in secondo luogo, l’articolo 30 commi 3 e 4, della legge 87 del 1953 che statuisce a sua volta la caducazione dell’efficacia della norma dichiarata incostituzionale dal giorno della pubblicazione della decisione e, soprattutto, afferma che quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale sia stata pronunciata sentenza di condanna, ne cessino l’esecuzione e gli effetti penali.

Questo orientamento confuta la opinione di chi riteneva applicabile nel caso di specie l’articolo 673 Codice Procedura Penale, affermando che la soluzione della questione non passa attraverso la disposizione in esame: essa, infatti, disciplinando la revoca della sentenza di condanna nei casi di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, mostra di riferirsi esclusivamente ai fenomeni di depenalizzazione o illegittimità costituzionale dell’intera fattispecie oggetto del provvedimento divenuto irrevocabile.

La disposizione sarebbe idonea a ricomprendere anche i casi di revoca parziale della sentenza passata in giudicato, possibile però solo ove ad essere caducata sia comunque una prescrizione che individui uno dei fatti-reato costituenti il giudizio, e non quella che si limiti a prevedere una circostanza aggravante incidente esclusivamente sulla determinazione della pena. Pertanto, l’articolo 673 non innova l’articolo 30 della legge 87, ma ha un ambito di applicazione diverso che non rileva nel caso che qui occupa.

Si pone l’accento, altresì, sulla particolare efficacia demolitoria della declaratoria di illegittimità costituzionale di una disposizione, che opera con effetto retroattivo colpendola sin dalla sua origine, eliminandola dall’ordinamento e non applicandola ai rapporti giuridici salvo il limite del giudicato; limite, quest’ultimo, passibile di eccezioni in ambito penale, laddove è proprio il disposto dell’articolo 30 della legge 87 che impedisce di dare esecuzione alla condanna pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale.

L’orientamento in esame, inoltre, ha accolto una nozione ampia di “norma incriminatrice” secondo la dizione legislativa: tale è, infatti, ogni disposizione che commini una pena o che determini anche una differenza di pena sulla base di determinati comportamenti o situazioni, irrilevante essendo la distinzione tra norme complete di precetto e sanzione e norme che si riferiscono ad elementi accessori del reato; al contrario, il concetto di norma penale incriminatrice coinciderebbe con quello di norma penale sostanziale, distinguendosi come tale dalle norme meramente processuali. Così inteso, l’articolo 30 si presta ad essere letto nel senso di impedire anche solo una parte dell’esecuzione della pena, allorché ciò avvenga in applicazione di una norma costituzionalmente illegittima: in tal guisa risulterebbero altresì rispettati i principi di ragionevolezza, proporzionalità e rimproverabilità della condotta evidenziati dalla Consulta del 2012 e la pena irrogata risulterebbe realmente ritagliata sul disvalore penale del fatto, percepita come giusta dal condannato ed in grado di assolvere la funzione rieducatrice esiziale ex articolo 27 comma 3 Costituzione.

In contrasto con gli argomenti appena esposti, un secondo orientamento, emerso in giurisprudenza, ha ritenuto che la declaratoria di illegittimità costituzionale della previsione che prevede la circostanza aggravante non possa interferire con l’esecuzione della pena in conseguenza di una sentenza già passata in giudicato. In tal senso, valorizza il principio della intangibilità del giudicato, fondamento ragionevole del discrimine tra situazioni uguali: in tale direzione è orientata anche la giurisprudenza di Strasburgo che, chiamata a pronunciarsi sull’ambito di applicazione del principio della intangibilità del giudicato in riferimento all’articolo 7 CEDU, ha fatto salvo sempre (salvo che in ipotesi del tutto eccezionali) il caso dell’intervenuta res iudicata definitiva. Inoltre, si argomenta,  l’articolo 2 comma 4 Codice Penale evidenzia l’irrilevanza del mutamento legislativo favorevole in ipotesi di intervenuto giudicato.

Si richiama, altresì, il testo dell’articolo 673 Codice Procedura Penale, ritenuto applicabile in tali circostanze, che consente il superamento del giudicato esclusivamente nel caso di dichiarazione di incostituzionalità di norma penale incriminatrice: tale nozione, contrariamente all’opposto orientamento, è intesa in senso restrittivo, come comprensiva esclusivamente delle norme sostanziali composte di una sanzione collegata ad un determinato comportamento ritenuto penalmente rilevante, e non di quelle che incidano esclusivamente sul trattamento sanzionatorio. Pertanto, essa non consentirebbe la scissione del singolo capo di accusa e la risoluzione del giudicato formale in relazione ad aspetti meramente circostanziali o sanzionatori.

Non consentono di argomentare in senso opposto l’articolo 136 Costituzione, che nel riferirsi alla cessazione ex tunc di efficacia della norma incriminatrice conosce il limite invalicabile della res iudicata; né l’articolo 30 commi 3 e 4 legge 87 del 1953, in quanto con la pronuncia di sentenza irrevocabile si esaurisce l’applicazione di ogni norma penale incidente sul trattamento sanzionatorio, mentre l’esecuzione della pena trova titolo non nelle norme applicate dal giudice di merito, bensì nel relativo provvedimento di irrogazione della sanzione, passato in giudicato.

In conclusione, si ritiene l’intangibilità del giudicato superabile esclusivamente dalla intervenuta abolitio criminis della norma incriminatrice applicata per pervenire alla sentenza di condanna; tanto più che per effetto dell’entrata in vigore dell’articolo 673 Codice Procedura Penale, deve ritenersi implicitamente abrogata la speculare disposizione dell’articolo 30 della legge 87, risultando la relativa disciplina assorbita all’interno della norma codicistica.

L’inasprirsi del contrasto interpretativo ha reso non più rinviabile l’intervento in funzione dirimente del Supremo Consesso di legittimità: pertanto, le Sezioni Unite del 2014, chiamate ad esprimersi sulla questione controversa, hanno aderito al primo orientamento.

Si afferma, in primo luogo, che la nozione restrittiva di “norme penali incriminatrici” non trova conferma alcuna, tranne che in una giurisprudenza tralatizia; viceversa, tali sono da intendere le norme penali sostanziali che incidono sul trattamento sanzionatorio e contrapposte alle norme meramente processuali. Né, è da condividersi, secondo i giudici della Suprema Corte, l’argomento fondato sul comma 4 dell’articolo 2 Codice Penale, in quanto in tal modo si parificherebbero due fenomeni diversi, quali quello della successione nel tempo delle leggi penali e quello della declaratoria di illegittimità costituzionale di una disposizione penale, non contemplato specificamente dalla norma in questione e connotato dalla peculiarità della efficacia retroattiva.

Pertanto, la declaratoria di illegittimità costituzionale impedisce l’applicabilità delle disposizioni analizzate anche nei casi in cui esse, in virtù delle regole poste in tema di successione di norme penali nel tempo, risulterebbero utilizzabili; già a partire dagli anni ’90 una pletora di pronunce sottolineavano la fondamentale distinzione tra abrogazione normativa e pronuncia di illegittimità costituzionale, che palesa una patologia normativa atta ad espungere la disposizione dell’ordinamento giuridico in quanto in contrasto con i suoi valori portanti. Tanto in virtù del combinato disposto dell’articolo136 Costituzione, dell’articolo1 legge costituzionale 9 febbraio 1948 n.1 e della legge 11 marzo 1953 n. 87: in particolare, quest’ultima disposizione è stata ritenuta derivante dall’articolo 25 comma 2 Costituzione, che statuisce la irretroattività delle disposizioni che correlano una sanzione ad un comportamento, anche solo disponendo una differenza di pena.

Costituisce, tuttavia, un punto fermo, in dottrina ed in giurisprudenza, l’assunto secondo il quale l’efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità costituzionale incontrerebbe l’invalicabile limite dei rapporti esauriti, in cui la res iudicata costituisca il fondamento per un trattamento differenziato di situazioni uguali. Ciononostante, il Supremo Consesso si fa portatore di un actio finium regundorum del principio in questione, il quale, inteso in senso assoluto negli ordinamenti penalistici fondati sulla primazia del potere statuale, è stato ridiscusso in primis dalla Costituzione e dal codice di procedura, che hanno individuato delle ipotesi in cui l’intangibilità del giudicato viene meno, in conseguenza della affermazione della primazia dei valori fondamentali della persona. In tal senso, si è assistita ad una progressiva identificazione di tale principio con quello del divieto del bis in idem, nell’ottica garantistica di non sottoporre per più di una volta lo stesso soggetto a processo per il medesimo fatto.

A livello di normazione primaria, tale tendenza è testimoniata dall’evoluzione normativa in tema di revisione della sentenza e in riferimento alla disciplina della continuazione, applicabile anche nelle ipotesi in cui uno dei fatti avvinti dalla medesimezza del disegno criminoso sia già stato coperto dal velo del giudicato; su questa scia, la giurisprudenza ha riconosciuto che la pena possa subire quelle modificazioni essenziali in un’ ottica retributiva e rieducatrice che siano imposte dal sistema, e che anche il giudicato sulla pena possa essere superato dall’applicazione della disciplina della continuazione tra reato già oggetto di sentenza passata in giudicato e reato ancora sub judice. Tale evoluzione si compendia nel nuovo codice di procedura penale, in particolare nella disciplina dell’articolo 673, che ammette la revoca della sentenza di condanna passata in giudicato al ricorrere di determinati presupposti.

Nello stesso senso, la giurisprudenza ha da tempo ammesso la possibilità che il giudice dell’esecuzione conceda il beneficio della sospensione condizionale della pena in caso di revoca per abolitio criminis di sentenze che avevano impedito l’accesso al beneficio, ampliando il novero dei poteri del giudice dell’esecuzione.

Ma soprattutto, decisiva è stata l’influenza verso il superamento del dogma del giudicato della corte di Strasburgo che, nell’applicazione dei principi della CEDU, ha affermato l’ineludibilità delle garanzie attinenti ai diritti fondamentali della persona , talvolta anche sacrificando l’intangibilità del giudicato: ciò in particolare allorchè sia ad esso contrapposto il fondamentale valore della libertà personale, ristretta sulla base di una norma incriminatrice ritenuta convenzionalmente illegittima per contrasto con l’articolo 7 CEDU e costituzionalmente censurabile in relazione alla funzione rieducativa ex articolo 27 Costituzione.

L’intangibilità pertanto, non potendosi estendere all’intero decisum,  è allora quella propria degli effetti irreversibili, in quanto già “consumati”, del giudicato, per il resto non sottraendosi la sentenza alla gerarchia delle fonti e alla verifica di legittimità costituzionale delle disposizioni applicate.  Ciò vuol dire che solo i rapporti che già siano esauriti in conseguenza dell’esecuzione del giudicato sono coperti da una intangibilità assoluta non essendo modificabili successivamente neanche in virtù del riconoscimento della violazione, nel caso di specie, dei supremi valori dell’ordinamento; in tutti gli altri casi, la cosa giudicata è destinata a soccombere di fronte alla riscontrata violazione dei suddetti.

Per quanto concerne lo strumento per intervenire, esclusa l’applicabilità del procedimento di revisione della sentenza (che può operare solo nei casi tassativamente elencati dall’articolo 630 Codice Procedura Penale) e della revoca ex articolo 673 Codice Procedura Penale, relativa ai casi in cui l’illecito penale venga meno per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, si deve fare ricorso all’articolo 30 della legge 87, quarto comma, che consente l’invalidazione parziale del titolo esecutivo e la rideterminazione del medesimo, senza alcuna efficacia risolutiva della decisione: in tal modo, deve essere fatta cessare l’esecuzione della parte di pena inflitta in conseguenza della norma dichiarata incostituzionale. In particolare, compete al pubblico ministero, nell’ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza, richiedere al giudice dell’esecuzione la rideterminazione della pena inflitta, evidenziando l’inapplicabilità della norma dichiarata incostituzionale. Quest’ultimo può, pertanto, ritenere che nel caso concreto siano prevalenti le circostanze attenuanti sulla riconosciuta recidiva reiterata, sempre che tale valutazione non sia stata esplicitamente esclusa nel giudizio di cognizione per ragioni di merito, anche assumendo, se necessario, atti processuali ai sensi dell’articolo 666 comma 5 Codice Procedura Penale.

Occorre anche segnalare che la materia in questione è stata recentemente interessata da un ulteriore arresto della Corte Costituzionale, che con la sentenza 32 del 2014 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies ter, commi 2, lettera a) e 3, lettera a), numero 6, del decreto legge 30 dicembre 2005, n.272, convertito con modificazioni dall’articolo 1, comma 1, legge 21 febbraio 2006, n.49, per violazione dell’articolo 77 comma 2 Costituzione: è stata ritenuta, infatti, la disomogeneità tra decreto legge e legge di conversione, essendo il primo attinente alle modalità di esecuzione della pena per i tossicodipendenti in quanto contenente norme squisitamente processuali, la seconda invece volta a riformare anche la disciplina penale sugli stupefacenti per il tramite di norme a carattere sostanziale. Secondo le indicazioni fornite dalla stessa Consulta, tale arresto comporta il ritorno alla disciplina precedente fondata sulla distinzione tra cosiddette “droghe pesanti” e “leggere” ai fini del trattamento sanzionatorio ( disciplina in seguito cristallizzata nella riforma operata con legge 16 maggio 2014 di conversione del decreto legge 20 marzo 2014 n. 36 ). Pertanto, il giudice dell’esecuzione, all’esito del giudizio di bilanciamento tra la recidiva di cui all’articolo 99 comma 4 Codice Penale, e la circostanza attenuante del fatto di lieve entità di cui al comma 5 dell’articolo 73 T.U. stupefacenti, dovrà altresì tenere conto della suddetta distinzione.

In conclusione, il principio della intangibilità del giudicato è direzionato verso una sempre maggiore flessibilizzazione, in virtù della prevalenza riconosciuta, sia dalle corti nazionali che sovranazionali, ai valori e ai principi fondamentali riguardanti la persona umana.

Pertanto, l’evoluzione giurisprudenziale in atto dimostra come al di là dei rigori normativi, sia possibile incidere, nella fase di esecuzione della pena, non solo con i radicali strumenti della revisione o della revoca della sentenza di condanna pronunciata per effetto dell’applicazione di una norma incriminatrice dichiarata incostituzionale, ma anche rideterminandone il quantum, in conseguenza della caducazione di disposizioni atte esclusivamente ad incidere sul trattamento sanzionatorio.

In tal senso depongono fonti sovranazionali quali l’articolo 7 CEDU, nell’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo, e i principi informatori del processo penale, in special modo quello che impone che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, pregiudicato nel caso in cui questi subisca una pena palesemente sproporzionata rispetto al fatto commesso che non gli consenta un consapevole e duraturo reinserimento nella società.

Ai sensi del comma 1 dell’articolo 648 Codice Procedura Penale, sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione: si tratta dei casi in cui il legittimato abbia lasciato decorrere i relativi termini, oppure abbia esaurito i mezzi di gravame.

In tali casi, si ritiene formato il cosiddetto giudicato, ovvero una statuizione intangibile sui fatti oggetto di causa, non più controvertibile salvo che in ipotesi eccezionali.

Questo principio trova il proprio addentellato normativo essenziale e generale nell’articolo 2909 Codice Civile, ai sensi del quale la sentenza passata in giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa; esso, altresì, ha da sempre rappresentato una delle assi portanti del sistema processualpenalistico italiano, che ricollega alla formazione del giudicato talune importanti conseguenze: si pensi al superamento della presunzione di non colpevolezza, sancita dall’articolo 27 comma 2 Costituzione; oppure all’esecuzione della pena, possibile esclusivamente in seguito alla intervenuta irrevocabilità della statuizione formatasi all’esito del  processo.

Il principio di intangibilità del giudicato assolve pertanto alla funzione di operare uno sbarramento processuale, individuando un momento di stabilizzazione tendenzialmente immodificabile di quanto emerso in dibattimento e cristallizzato nella sentenza: come tale, esso assolve ad una fondamentale esigenza di certezza del diritto, riconducendosi in caso di pronuncia assolutoria al principio del ne bis in idem, ai sensi del quale non è possibile sottoporre a procedimento penale lo stesso soggetto per più di una volta con riguardo al medesimo fatto, ed in caso di pronuncia di condanna alla funzione rieducativa della pena perseguita dall’articolo 27 comma 3 Costituzione garantendo al condannato una pena giusta e proporzionata al fatto commesso per come emerso nel corso del dibattimento.

Senonché, tale principio può porsi in contrasto con altri, talvolta desumibili dalle garanzie che connotano il processo penale: ciò emerge, in particolare, in virtù dell’influenza sempre più preponderante, nel sistema penale nazionale, degli ordinamenti giuridici sovranazionali, in specie quello comunitario e quello derivante dai principi affermati dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. Essi, infatti, manifestano una decisa insofferenza verso preclusioni formalistiche all’accesso alle garanzie essenziali per l’imputato, manifestando una tendenza alla generalizzazione massima dei principi affermati anche a discapito di eventuali principi opposti frutto delle tradizioni giuridiche nazionali.

A livello comunitario v’è da dire che la Corte di Giustizia è stata sovente chiamata a pronunciarsi sul tema del rapporto tra giudicato nazionale contrastante con il diritto della Unione Europea e primazia del diritto unionale: in particolare, ci si è chiesti se il principio di cooperazione sancito dall’articolo 4 par. 3 del Trattato dell’Unione Europea imponga agli organi giurisdizionali nazionali il riesame di un provvedimento passato in giudicato qualora se ne ravvisi il contrasto con il diritto comunitario. La Corte rifiuta, in risposta a tale quesito, interpretazioni fondate sulla aprioristica affermazione della primazia del diritto unionale, salvaguardando il principio dell’intangibilità del giudicato, cui viene attribuito il fine esiziale di garantire la stabilità dei rapporti giuridici e la buona amministrazione della giustizia; pertanto, si sostiene, l’obbligo del giudice nazionale di riesaminare una decisione contrastante con i principi unionali sussiste fintanto che quest’organo disponga, in virtù del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione.

Se questo vale in termini generali, la Corte di Giustizia, nella sentenza “Lucchini” del 2007, individua una eccezione nella quale anche l’intangibilità del giudicato è destinata a soccombere di fronte all’affermazione di un principio dell’Unione con esso contrastante: allorché il principio delineato dall’articolo 2909 Codice Civile impedisca il recupero di un aiuto di stato erogato in contrasto con il diritto unionale e la cui incompatibilità con i principi del mercato comune sia stata dichiarata con decisione della Commissione UE divenuta definitiva.

Un caso, quello esaminato in questo arresto, del tutto peculiare, in cui il beneficiario dell’aiuto da parte della Commissione Europea non aveva tempestivamente impugnato la decisione che glielo concedeva, lasciando decorrere il termine all’uopo previsto, e rivolgendosi poi alla giurisdizione nazionale, ritenuta dalla Corte di Giustizia non legittimata sul punto a pronunciarsi con autorità di giudicato. A questa primigenia eccezione la Corte di Giustizia ne ha aggiunta successivamente un’altra, nell’ipotesi di giudicato formatosi in assenza del rinvio pregiudiziale alla stessa Corte, pur in presenza dei presupposti del medesimo.

Influenza ancor più dirompente nel ridisegnare i confini del principio della tendenziale intangibilità del giudicato ha assunto la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, stipulata a Roma nel 1950, nell’interpretazione fornita dalla corte edu di Strasburgo.

Preliminarmente, quanto al rango che tale fonte acquista nella gerarchia normativa interna, la Corte Costituzionale, in un fondamentale arresto del 2007, ha anzitutto escluso che la base giuridica della CEDU nell’ordinamento interno possa essere rinvenuta nell’articolo 10 Costituzione, che impone un adattamento automatico dell’ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, alludendo in tal guisa al diritto internazionale consuetudinario piuttosto che a quello pattizio.

In secondo luogo, è anche escluso che tale base giuridica possa rinvenirsi nell’articolo 11 Costituzione, a cui si fa costantemente riferimento per legittimare il ruolo del diritto UE nell’ordinamento interno: infatti, si adduce che l’adesione alla Convenzione non ha comportato per l’Italia alcun tipo di limitazione di sovranità. Pertanto, secondo la Consulta la Convenzione avrebbe un rango diverso nella gerarchia delle fonti rispetto al diritto UE: conseguentemente, il potere di disapplicazione, conferito al giudice nazionale che ravvisi un contrasto tra norma interna e norma dell’Unione, non sussiste ugualmente in caso di contrasto ravvisato tra norma interna e norma CEDU.

La base giuridica della Convenzione, prosegue la Corte Costituzionale, è da rinvenire nell’articolo 117 comma 1 Costituzione, ai sensi del quale la potestà legislativa è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: ciò vuol dire che, in caso di contrasto tra normativa interna e CEDU, il giudice nazionale è legittimato a sollevare questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’articolo 117 Costituzione; ciò purché non sia possibile seguire la via della cosiddetta interpretazione convenzionalmente orientata, ovvero procedere ad una interpretazione della norma interna che non contrasti con quella convenzionale.

Tra i principi EDU che hanno sollevato maggiori questioni interpretative, è da segnalare quello contenuto nell’articolo 7, che trova corrispondenza nel principio di legalità ex articolo 25 Costituzione, ai sensi del quale nessuno può essere condannato per un fatto che non sia previsto previamente come reato dalla legge né assoggettato a pene più gravi di quelle previste al momento della commissione del fatto: trattasi dei principi della riserva di legge e del divieto di retroattività sfavorevole.

Essi pongono la questione dell’individuazione di eventuali limiti, quale può essere quello dell’intervenuto giudicato penale: questione che può essere risolta esclusivamente tramite un bilanciamento tra i principi della riserva di legge e dell’irretroattività della norma penale sopravvenuta e quello dell’irretrattabilità del giudicato, per valutare quale debba farsi prevalere.  

È quanto avvenuto nel 2007, allorché una sentenza della Corte di Strasburgo (cd. Scoppola) ha contribuito alla perimetrazione del principio di retroazione favorevole della norma sopravvenuta, riconducendolo all’articolo 7 CEDU: ciononostante, esso è stato ritenuto da tali giudici recessivo rispetto a quello dell’intangibilità del giudicato, potendo operare esclusivamente allorchè non risulti ancora pronunciata sentenza definitiva.

Nell’ordinamento interno, la normativa di riferimento è costituita dalla disposizione dell’articolo 2 comma 2 Codice Penale, che codifica il principio della retroazione favorevole della norma abrogatrice sopravvenuta, che prevale anche sull’intervenuto giudicato; In secondo luogo, sul piano processuale, dall’articolo 673 Codice Procedura Penale, il quale, nel disciplinare le competenze del giudice dell’esecuzione, dispone che in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice egli revochi la sentenza passata in giudicato e dichiari cessati i relativi effetti penali.

Invece, quando la norma sopravvenuta non abroghi sic et simpliciter la norma preesistente alla base della sentenza passata in giudicato, ma introduca una diversa disciplina più favorevole per il reo, tale disciplina è destinata a soccombere al giudicato già intervenuto con riguardo a quella fattispecie (articolo 2 comma 4 Codice Penale). Questa disposizione ha posto la necessità di disciplinare i rapporti tra intervenuto giudicato ed intervento successivo di una disposizione penale più favorevole per il reo: la soluzione al quesito passa attraverso la ricostruzione del valore del principio in essa contenuto, se, cioè, esso abbia uno specifico addentellato costituzionale, e come tale vada ritenuto prevalente rispetto a quello dell’intangibilità del giudicato, oppure se esso sia espressione di una disposizione di rango primario, come tale destinata a soccombere a fronte di principi ed esigenze contrapposti.

L’addentellato costituzionale del principio viene dalla Consulta del 2006 rinvenuto nell’articolo 3 Costituzione: infatti, si è detto, sarebbe irragionevole sottoporre ad un trattamento diverso soggetti che abbiano commesso il medesimo fatto di reato solo sulla base di un criterio temporale, con la conseguenza che coloro i quali realizzano la condotta prima della riforma legislativa sono sottoposti ad un determinato trattamento sanzionatorio, mentre coloro i quali pongano in essere la medesima successivamente ad un altro. Pertanto, far prevalere l’intangibilità del giudicato in tali casi violerebbe il principio di uguaglianza. Senonché, secondo le indicazioni della Corte, il principio in questione non va inteso in senso assoluto ed inderogabile, bensì va bilanciato con altri, eventuali ed opposti, in attuazione del criterio di ragionevolezza desumibile dal medesimo articolo 3 Costituzione.

Limiti specifici al principio di intangibilità del giudicato sono individuati dai commi 2 e 3 dell’articolo 2 Codice Penale: oltre al caso, già analizzato, della norma sopravvenuta abolitiva del reato, vi è quello della conversione della pena detentiva originariamente prevista in pena pecuniaria.

Ci si è chiesti se lo stesso effetto di cui alla disposizione in esame possa conseguire non ad un novum legislativo, bensì ad un mutamento giurisprudenziale in senso favorevole all’imputato successivo al giudicato.

La Corte Costituzionale del 2012, sul punto, ribadendo i riferimenti costituzionali e convenzionali del principio di retroazione favorevole, nega la prevalenza del medesimo sull’intervenuto giudicato. Si adduce, in particolare, come la Corte di Strasburgo non abbia mai dato adito ad una tale interpretazione, essendosi piuttosto pronunciata sull’opposta questione della retroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole al reo, negandone l’operatività in caso di intervenuto giudicato a meno che esso non risultasse uno sviluppo ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza al momento del fatto.

Si è detto in precedenza che la disciplina di riferimento in tema di giudicato è costituita dall’articolo 2 Codice Penale, che prende espressamente in esame i casi di sopravvenuta abolitio criminis e di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, disciplinandone l’interferenza sull’intervenuto giudicato; e dall’articolo 673 Codice Procedura Penale che, invece, disciplina il diverso caso di intervenuta declaratoria d’incostituzionalità della norma incriminatrice, statuendo la revoca, in tali casi, della sentenza di condanna ad opera del giudice dell’esecuzione.

Alla luce della scarna disciplina evidenziata, ci si è chiesti quali siano i rapporti tra giudicato penale di condanna e declaratoria di incostituzionalità di una disposizione che non sia incriminatrice, ma incide comunque sul trattamento sanzionatorio, ad esempio prevedendo una circostanza aggravante.

La questione si è posta, in particolare, in riferimento al reato di cui al comma 5 dell’articolo 73 d.P.R. 309 del 1990 ( T.U. stupefacenti ), aggravato dalla circostanza di cui all’articolo 69 comma 4 Codice Penale (divieto di prevalenza dell’attenuante della lieve entità del fatto sulla recidiva aggravata reiterata) per come introdotta dall’articolo 3 della legge 5 dicembre 2005 n. 251. La disposizione in questione è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza 251 del 2012: la Corte ha infatti ritenuto che in tale caso la deroga al criterio del bilanciamento tra circostanze non fosse ragionevole, comportando una rilevante sproporzione della risposta sanzionatoria rispetto al fatto di reato effettivamente commesso.

Ciò, per l’appunto, comportava un effetto opposto a quello perseguito dalla disciplina delle circostanze, ovvero la modulazione della pena al fatto per come emerso in dibattimento e al disvalore manifestato dall’imputato: pertanto, la norma è stata espunta dall’ordinamento, in quanto ritenuta violativa dell’articolo 3 Costituzione, poiché comportava una sostanziale equiparazione del trattamento sanzionatorio del recidivo reiterato autore di un fatto “non lieve” cui fossero state riconosciute le attenuanti generiche, e il medesimo soggetto autore di un fatto di “lieve entità”; in secondo luogo, è stata riconosciuta la violazione dell’articolo 27 comma 3 Costituzione, in quanto comportava una sanzione sproporzionata rispetto al fatto commesso; infine, è stata riscontrata anche la violazione del principio della finalità rieducativa della pena nei confronti del condannato, in quanto questi, vedendosi applicare una pena assolutamente sproporzionata rispetto al fatto commesso, non poteva percepirne la giustizia e, conseguentemente, predisporsi alla rieducazione ed al reinserimento nella società.

In virtù dell’espunzione di tale disposizione dall’ordinamento, ci si è domandati in giurisprudenza se, nei casi di sentenze passate in giudicato che avessero applicato la circostanza di cui all’articolo 69, il giudice dell’esecuzione fosse o meno tenuto a procedere ad una rideterminazione della pena espungendone, se del caso, il quantum derivante dal riconoscimento della recidiva aggravata reiterata; e le soluzioni emerse non sono univoche.

Secondo un primo orientamento, in tali casi non sarebbe consentita l’esecuzione della pena inflitta in virtù della circostanza aggravante dichiarata costituzionalmente illegittima. A tal fine si richiama in primo luogo l’articolo 136 Costituzione, che nel disporre che la norma dichiarata incostituzionale perda efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione implica necessariamente una eliminazione ex tunc di qualsiasi effetto prodotto dalla norma dall’ordinamento giuridico, senza effettuare alcuna distinzione in riferimento ai casi decisi con sentenza passata in giudicato; in secondo luogo, l’articolo 30 commi 3 e 4, della legge 87 del 1953 che statuisce a sua volta la caducazione dell’efficacia della norma dichiarata incostituzionale dal giorno della pubblicazione della decisione e, soprattutto, afferma che quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale sia stata pronunciata sentenza di condanna, ne cessino l’esecuzione e gli effetti penali.

Questo orientamento confuta la opinione di chi riteneva applicabile nel caso di specie l’articolo 673 Codice Procedura Penale, affermando che la soluzione della questione non passa attraverso la disposizione in esame: essa, infatti, disciplinando la revoca della sentenza di condanna nei casi di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, mostra di riferirsi esclusivamente ai fenomeni di depenalizzazione o illegittimità costituzionale dell’intera fattispecie oggetto del provvedimento divenuto irrevocabile.

La disposizione sarebbe idonea a ricomprendere anche i casi di revoca parziale della sentenza passata in giudicato, possibile però solo ove ad essere caducata sia comunque una prescrizione che individui uno dei fatti-reato costituenti il giudizio, e non quella che si limiti a prevedere una circostanza aggravante incidente esclusivamente sulla determinazione della pena. Pertanto, l’articolo 673 non innova l’articolo 30 della legge 87, ma ha un ambito di applicazione diverso che non rileva nel caso che qui occupa.

Si pone l’accento, altresì, sulla particolare efficacia demolitoria della declaratoria di illegittimità costituzionale di una disposizione, che opera con effetto retroattivo colpendola sin dalla sua origine, eliminandola dall’ordinamento e non applicandola ai rapporti giuridici salvo il limite del giudicato; limite, quest’ultimo, passibile di eccezioni in ambito penale, laddove è proprio il disposto dell’articolo 30 della legge 87 che impedisce di dare esecuzione alla condanna pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale.

L’orientamento in esame, inoltre, ha accolto una nozione ampia di “norma incriminatrice” secondo la dizione legislativa: tale è, infatti, ogni disposizione che commini una pena o che determini anche una differenza di pena sulla base di determinati comportamenti o situazioni, irrilevante essendo la distinzione tra norme complete di precetto e sanzione e norme che si riferiscono ad elementi accessori del reato; al contrario, il concetto di norma penale incriminatrice coinciderebbe con quello di norma penale sostanziale, distinguendosi come tale dalle norme meramente processuali. Così inteso, l’articolo 30 si presta ad essere letto nel senso di impedire anche solo una parte dell’esecuzione della pena, allorché ciò avvenga in applicazione di una norma costituzionalmente illegittima: in tal guisa risulterebbero altresì rispettati i principi di ragionevolezza, proporzionalità e rimproverabilità della condotta evidenziati dalla Consulta del 2012 e la pena irrogata risulterebbe realmente ritagliata sul disvalore penale del fatto, percepita come giusta dal condannato ed in grado di assolvere la funzione rieducatrice esiziale ex articolo 27 comma 3 Costituzione.

In contrasto con gli argomenti appena esposti, un secondo orientamento, emerso in giurisprudenza, ha ritenuto che la declaratoria di illegittimità costituzionale della previsione che prevede la circostanza aggravante non possa interferire con l’esecuzione della pena in conseguenza di una sentenza già passata in giudicato. In tal senso, valorizza il principio della intangibilità del giudicato, fondamento ragionevole del discrimine tra situazioni uguali: in tale direzione è orientata anche la giurisprudenza di Strasburgo che, chiamata a pronunciarsi sull’ambito di applicazione del principio della intangibilità del giudicato in riferimento all’articolo 7 CEDU, ha fatto salvo sempre (salvo che in ipotesi del tutto eccezionali) il caso dell’intervenuta res iudicata definitiva. Inoltre, si argomenta,  l’articolo 2 comma 4 Codice Penale evidenzia l’irrilevanza del mutamento legislativo favorevole in ipotesi di intervenuto giudicato.

Si richiama, altresì, il testo dell’articolo 673 Codice Procedura Penale, ritenuto applicabile in tali circostanze, che consente il superamento del giudicato esclusivamente nel caso di dichiarazione di incostituzionalità di norma penale incriminatrice: tale nozione, contrariamente all’opposto orientamento, è intesa in senso restrittivo, come comprensiva esclusivamente delle norme sostanziali composte di una sanzione collegata ad un determinato comportamento ritenuto penalmente rilevante, e non di quelle che incidano esclusivamente sul trattamento sanzionatorio. Pertanto, essa non consentirebbe la scissione del singolo capo di accusa e la risoluzione del giudicato formale in relazione ad aspetti meramente circostanziali o sanzionatori.

Non consentono di argomentare in senso opposto l’articolo 136 Costituzione, che nel riferirsi alla cessazione ex tunc di efficacia della norma incriminatrice conosce il limite invalicabile della res iudicata; né l’articolo 30 commi 3 e 4 legge 87 del 1953, in quanto con la pronuncia di sentenza irrevocabile si esaurisce l’applicazione di ogni norma penale incidente sul trattamento sanzionatorio, mentre l’esecuzione della pena trova titolo non nelle norme applicate dal giudice di merito, bensì nel relativo provvedimento di irrogazione della sanzione, passato in giudicato.

In conclusione, si ritiene l’intangibilità del giudicato superabile esclusivamente dalla intervenuta abolitio criminis della norma incriminatrice applicata per pervenire alla sentenza di condanna; tanto più che per effetto dell’entrata in vigore dell’articolo 673 Codice Procedura Penale, deve ritenersi implicitamente abrogata la speculare disposizione dell’articolo 30 della legge 87, risultando la relativa disciplina assorbita all’interno della norma codicistica.

L’inasprirsi del contrasto interpretativo ha reso non più rinviabile l’intervento in funzione dirimente del Supremo Consesso di legittimità: pertanto, le Sezioni Unite del 2014, chiamate ad esprimersi sulla questione controversa, hanno aderito al primo orientamento.

Si afferma, in primo luogo, che la nozione restrittiva di “norme penali incriminatrici” non trova conferma alcuna, tranne che in una giurisprudenza tralatizia; viceversa, tali sono da intendere le norme penali sostanziali che incidono sul trattamento sanzionatorio e contrapposte alle norme meramente processuali. Né, è da condividersi, secondo i giudici della Suprema Corte, l’argomento fondato sul comma 4 dell’articolo 2 Codice Penale, in quanto in tal modo si parificherebbero due fenomeni diversi, quali quello della successione nel tempo delle leggi penali e quello della declaratoria di illegittimità costituzionale di una disposizione penale, non contemplato specificamente dalla norma in questione e connotato dalla peculiarità della efficacia retroattiva.

Pertanto, la declaratoria di illegittimità costituzionale impedisce l’applicabilità delle disposizioni analizzate anche nei casi in cui esse, in virtù delle regole poste in tema di successione di norme penali nel tempo, risulterebbero utilizzabili; già a partire dagli anni ’90 una pletora di pronunce sottolineavano la fondamentale distinzione tra abrogazione normativa e pronuncia di illegittimità costituzionale, che palesa una patologia normativa atta ad espungere la disposizione dell’ordinamento giuridico in quanto in contrasto con i suoi valori portanti. Tanto in virtù del combinato disposto dell’articolo136 Costituzione, dell’articolo1 legge costituzionale 9 febbraio 1948 n.1 e della legge 11 marzo 1953 n. 87: in particolare, quest’ultima disposizione è stata ritenuta derivante dall’articolo 25 comma 2 Costituzione, che statuisce la irretroattività delle disposizioni che correlano una sanzione ad un comportamento, anche solo disponendo una differenza di pena.

Costituisce, tuttavia, un punto fermo, in dottrina ed in giurisprudenza, l’assunto secondo il quale l’efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità costituzionale incontrerebbe l’invalicabile limite dei rapporti esauriti, in cui la res iudicata costituisca il fondamento per un trattamento differenziato di situazioni uguali. Ciononostante, il Supremo Consesso si fa portatore di un actio finium regundorum del principio in questione, il quale, inteso in senso assoluto negli ordinamenti penalistici fondati sulla primazia del potere statuale, è stato ridiscusso in primis dalla Costituzione e dal codice di procedura, che hanno individuato delle ipotesi in cui l’intangibilità del giudicato viene meno, in conseguenza della affermazione della primazia dei valori fondamentali della persona. In tal senso, si è assistita ad una progressiva identificazione di tale principio con quello del divieto del bis in idem, nell’ottica garantistica di non sottoporre per più di una volta lo stesso soggetto a processo per il medesimo fatto.

A livello di normazione primaria, tale tendenza è testimoniata dall’evoluzione normativa in tema di revisione della sentenza e in riferimento alla disciplina della continuazione, applicabile anche nelle ipotesi in cui uno dei fatti avvinti dalla medesimezza del disegno criminoso sia già stato coperto dal velo del giudicato; su questa scia, la giurisprudenza ha riconosciuto che la pena possa subire quelle modificazioni essenziali in un’ ottica retributiva e rieducatrice che siano imposte dal sistema, e che anche il giudicato sulla pena possa essere superato dall’applicazione della disciplina della continuazione tra reato già oggetto di sentenza passata in giudicato e reato ancora sub judice. Tale evoluzione si compendia nel nuovo codice di procedura penale, in particolare nella disciplina dell’articolo 673, che ammette la revoca della sentenza di condanna passata in giudicato al ricorrere di determinati presupposti.

Nello stesso senso, la giurisprudenza ha da tempo ammesso la possibilità che il giudice dell’esecuzione conceda il beneficio della sospensione condizionale della pena in caso di revoca per abolitio criminis di sentenze che avevano impedito l’accesso al beneficio, ampliando il novero dei poteri del giudice dell’esecuzione.

Ma soprattutto, decisiva è stata l’influenza verso il superamento del dogma del giudicato della corte di Strasburgo che, nell’applicazione dei principi della CEDU, ha affermato l’ineludibilità delle garanzie attinenti ai diritti fondamentali della persona , talvolta anche sacrificando l’intangibilità del giudicato: ciò in particolare allorchè sia ad esso contrapposto il fondamentale valore della libertà personale, ristretta sulla base di una norma incriminatrice ritenuta convenzionalmente illegittima per contrasto con l’articolo 7 CEDU e costituzionalmente censurabile in relazione alla funzione rieducativa ex articolo 27 Costituzione.

L’intangibilità pertanto, non potendosi estendere all’intero decisum,  è allora quella propria degli effetti irreversibili, in quanto già “consumati”, del giudicato, per il resto non sottraendosi la sentenza alla gerarchia delle fonti e alla verifica di legittimità costituzionale delle disposizioni applicate.  Ciò vuol dire che solo i rapporti che già siano esauriti in conseguenza dell’esecuzione del giudicato sono coperti da una intangibilità assoluta non essendo modificabili successivamente neanche in virtù del riconoscimento della violazione, nel caso di specie, dei supremi valori dell’ordinamento; in tutti gli altri casi, la cosa giudicata è destinata a soccombere di fronte alla riscontrata violazione dei suddetti.

Per quanto concerne lo strumento per intervenire, esclusa l’applicabilità del procedimento di revisione della sentenza (che può operare solo nei casi tassativamente elencati dall’articolo 630 Codice Procedura Penale) e della revoca ex articolo 673 Codice Procedura Penale, relativa ai casi in cui l’illecito penale venga meno per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, si deve fare ricorso all’articolo 30 della legge 87, quarto comma, che consente l’invalidazione parziale del titolo esecutivo e la rideterminazione del medesimo, senza alcuna efficacia risolutiva della decisione: in tal modo, deve essere fatta cessare l’esecuzione della parte di pena inflitta in conseguenza della norma dichiarata incostituzionale. In particolare, compete al pubblico ministero, nell’ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza, richiedere al giudice dell’esecuzione la rideterminazione della pena inflitta, evidenziando l’inapplicabilità della norma dichiarata incostituzionale. Quest’ultimo può, pertanto, ritenere che nel caso concreto siano prevalenti le circostanze attenuanti sulla riconosciuta recidiva reiterata, sempre che tale valutazione non sia stata esplicitamente esclusa nel giudizio di cognizione per ragioni di merito, anche assumendo, se necessario, atti processuali ai sensi dell’articolo 666 comma 5 Codice Procedura Penale.

Occorre anche segnalare che la materia in questione è stata recentemente interessata da un ulteriore arresto della Corte Costituzionale, che con la sentenza 32 del 2014 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies ter, commi 2, lettera a) e 3, lettera a), numero 6, del decreto legge 30 dicembre 2005, n.272, convertito con modificazioni dall’articolo 1, comma 1, legge 21 febbraio 2006, n.49, per violazione dell’articolo 77 comma 2 Costituzione: è stata ritenuta, infatti, la disomogeneità tra decreto legge e legge di conversione, essendo il primo attinente alle modalità di esecuzione della pena per i tossicodipendenti in quanto contenente norme squisitamente processuali, la seconda invece volta a riformare anche la disciplina penale sugli stupefacenti per il tramite di norme a carattere sostanziale. Secondo le indicazioni fornite dalla stessa Consulta, tale arresto comporta il ritorno alla disciplina precedente fondata sulla distinzione tra cosiddette “droghe pesanti” e “leggere” ai fini del trattamento sanzionatorio ( disciplina in seguito cristallizzata nella riforma operata con legge 16 maggio 2014 di conversione del decreto legge 20 marzo 2014 n. 36 ). Pertanto, il giudice dell’esecuzione, all’esito del giudizio di bilanciamento tra la recidiva di cui all’articolo 99 comma 4 Codice Penale, e la circostanza attenuante del fatto di lieve entità di cui al comma 5 dell’articolo 73 T.U. stupefacenti, dovrà altresì tenere conto della suddetta distinzione.

In conclusione, il principio della intangibilità del giudicato è direzionato verso una sempre maggiore flessibilizzazione, in virtù della prevalenza riconosciuta, sia dalle corti nazionali che sovranazionali, ai valori e ai principi fondamentali riguardanti la persona umana.

Pertanto, l’evoluzione giurisprudenziale in atto dimostra come al di là dei rigori normativi, sia possibile incidere, nella fase di esecuzione della pena, non solo con i radicali strumenti della revisione o della revoca della sentenza di condanna pronunciata per effetto dell’applicazione di una norma incriminatrice dichiarata incostituzionale, ma anche rideterminandone il quantum, in conseguenza della caducazione di disposizioni atte esclusivamente ad incidere sul trattamento sanzionatorio.

In tal senso depongono fonti sovranazionali quali l’articolo 7 CEDU, nell’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo, e i principi informatori del processo penale, in special modo quello che impone che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, pregiudicato nel caso in cui questi subisca una pena palesemente sproporzionata rispetto al fatto commesso che non gli consenta un consapevole e duraturo reinserimento nella società.